Infanzia
L'infanzia (dal latino infantia, da infans, composto di in-, negativo, e participio presente del verbo fari, "parlare", letteralmente "che non parla") è il periodo della vita che precede l'età adulta e si definisce come prima maturità fisica, psichica e sessuale. L'infanzia viene generalmente divisa in: periodo neonatale, comprendente uno stadio precoce (la prima settimana di vita) e uno tardivo (fino a 28 giorni); prima infanzia (primi 2 anni); seconda infanzia (dai 2 ai 6 anni); terza infanzia (dai 6 anni all'inizio dello sviluppo puberale); pubertà, caratterizzata dalla comparsa di caratteri sessuali (tra gli 8,5 e i 13 anni nella femmina; tra i 10 e i 15 anni nel maschio); adolescenza (dalla fine della pubertà sino al termine dell'accrescimento della statura, tra i 20 e i 24 anni a seconda del sesso). L'infanzia corrisponde a un lungo processo maturativo sia a livello fisico (v. vol. 1°, III, cap. 6: Il corpo e le età della vita, Dalla nascita all'età adulta), sia a livello psicologico. Da quest'ultimo punto di vista, si possono riconoscere alcuni caratteri costanti: innanzitutto la dipendenza dagli adulti; poi la struttura propria della mente, contrassegnata dal ruolo preminente della fantasia e da una scarsa capacità di ragionamento ipotetico-deduttivo; infine lo stile comunicativo, fortemente affettivo ed empatico, come pure il carattere etico che si muove per tappe, attraverso un processo che vede al centro la socializzazione e l'introiezione delle regole.
di Giulio Seganti
1.
Gli indici di mortalità e di morbosità infantile, che fanno diretto riferimento a note di statistica demografica e sanitaria, sono da sempre utilizzati come indicatori dello stato di salute della popolazione. In Italia, negli ultimi cinquant'anni del 20° secolo, l'anno di massima natalità è stato il 1964 (circa 1.016.000 di nuovi nati). Successivamente si è assistito a un progressivo decremento delle nascite. Secondo i dati ISTAT, nel 1996 sono nati vivi 525.640 bambini, nel 1997 540.048 e nel 1998 523.843. Il quoziente di natalità (rapporto tra numero dei nati vivi per anno ogni 1000 abitanti) è passato da 18,4‰ del 1961 a 9,2‰ del 1996. Dagli anni Sessanta in poi la fecondità delle donne italiane si caratterizza per una continua diminuzione fino a raggiungere livelli tra i più bassi del mondo. In particolare, nel 1996 il numero medio di figli per donna era pari a 1,2 e la stima per il 1998 era uguale. Il numero dei nati di sesso maschile si è sempre mantenuto superiore a quello di sesso femminile; nel 1996 tale rapporto è stato di 1,06 a 1. Il rapporto maschi/femmine si inverte nelle età successive a causa del maggior numero di morti dei maschi nei primi anni di vita e della maggiore longevità delle femmine dopo i 50-60 anni. Nel 1994 la durata media della vita in Italia era di 80,74 anni per le femmine e di 73,34 anni per i maschi. Nel gennaio 1997 la popolazione italiana con età inferiore ai 15 anni rappresentava circa il 15% del totale. La mortalità infantile viene calcolata sulla base del numero dei morti nel primo anno di vita su 1000 nati vivi. Negli ultimi quaranta anni del 20° secolo, in Italia, tale valore si è abbassato in modo costante e progressivo. Nel 1994 la mortalità infantile è stata del 6,6‰; le morti sono state 3507 di cui 2044 (58,28%) causate da eventi morbosi perinatali (rappresentati soprattutto da nati con peso molto basso), 929 (26,49%) imputabili a malformazioni congenite e 534 (15,23%) dovute a cause diverse. È opportuno sottolineare come, malgrado il notevole miglioramento complessivo, esistano differenze molto significative della mortalità infantile fra regioni del Nord (per es. Trentino: 2,3‰) e quelle del Sud (per es. Campania: 8,8‰) che sottendono differenze sociali e ritardi organizzativi. La causa principale di queste differenze è costituita dalla mancata o parziale regionalizzazione delle cure perinatali, cioè un'organizzazione su base regionale che preveda una precoce individuazione delle condizioni di rischio pre- e postnatale, in grado di fornire assistenza ostetrica e neonatologica differenziata e progressiva, a seconda dei livelli di cura necessari; infatti le differenze tra le varie regioni riguardano soprattutto la mortalità neonatale precoce (primi 6 giorni di vita) che risente di un mancato adeguamento ai progressi nella prevenzione dei fattori di rischio della gravidanza e nella cura dei nati a rischio. I valori della mortalità infantile del 1995 in confronto a quelli del 1930 sono diminuiti in tutti i paesi presi in considerazione. In Italia il quoziente della natalità e della mortalità infantile si colloca in una situazione intermedia rispetto agli altri paesi del mondo e agli ultimi posti rispetto al resto dell'Europa. Riguardo alle cause dei decessi infantili e al loro mutare nel corso del 20° secolo, risulta che nel 1881 l'elevata mortalità fosse causata da malattie infettive e respiratorie e dalla diarrea, che insieme contribuivano a circa il 44% dei decessi, mentre già nel 1951 il 46% circa delle morti nel primo anno di vita era dovuto a cause di origine perinatale e cominciavano a essere rilevanti le anomalie congenite. Nel 1986, circa l'80% della mortalità infantile si è verificata nel primo mese di vita (i 2/3 addirittura nella prima settimana); il 10% circa, invece, si è verificato dopo il primo mese di vita, ma per cause originatesi nel periodo perinatale (grandi immaturi e bambini nati con anomalie congenite). Il miglioramento delle cure ostetriche ha portato a un incremento della sopravvivenza alla nascita dei bambini nati con peso sotto i 1500 g, che attualmente rappresentano lo 0,7-1% delle nascite: ma questa piccola popolazione di neonati contribuisce a oltre il 50% delle morti nel primo anno di vita. Pertanto, la maggioranza dei decessi non dipende più da malattie contratte nel primo anno di vita, come avveniva in passato, ma da condizioni intrinseche alla nascita del bambino (26% dei decessi da anomalie congenite, 60% da condizioni di origine perinatale). Da questi dati si evince che l'obiettivo primario attuale deve essere l'affinamento delle capacità di affrontare i problemi del bambino già durante la gravidanza e nei primi giorni di vita. In conclusione, la natalità e la mortalità infantile negli ultimi decenni del 20° secolo sono mutate profondamente, sia nei valori assoluti sia nella distribuzione percentuale dei decessi, per numerosi fattori di ordine demografico e socioculturale. Alla fine del 19° secolo, nel primo anno di vita moriva un bambino su 4-5 nati, attualmente ne muore uno ogni 150. Dalla fine dell'Ottocento a oggi si è passati da un esubero demografico, sebbene accompagnato da un'elevata mortalità infantile, a un costante e irreversibile calo delle nascite, con la conseguenza della cosiddetta crescita zero. Nel 1996 il numero dei morti ha superato il numero dei nuovi nati con un saldo demografico negativo (morti 10,1 - nati 9,2 = 0,9‰). Infine, poiché il ciclo vitale ha registrato un notevole allungamento, si è modificata la composizione per età della popolazione e talvolta 3 o 4 generazioni convivono nello stesso spazio temporale.
2.
In Italia è oggi assicurata a ogni nuovo nato la possibilità di fruire dei controlli necessari alla tutela del suo stato di salute, grazie alla guida del pediatra di famiglia. Questi controlli, effettuati sulla popolazione infantile, sono alla base della prevenzione. Il compito principale del medico consiste, infatti, nel riconoscere precocemente le condizioni di patologia che possono essere alleviate oppure curate in modo completo. A questo tendono gli screening mirati e i cosiddetti bilanci di salute. Per screening mirato s'intende un controllo o un esame che viene effettuato su tutta la popolazione pediatrica, mentre il bilancio di salute finalizzato all'individuazione di malattie o disturbi sensoriali consiste in una o più visite con cadenze temporali, allo scopo di tenere sotto controllo lo sviluppo del bambino. In Italia, subito dopo la nascita viene eseguito per legge lo screening di alcune malattie metaboliche (ipotiroidismo e fenilchetonuria); nei luoghi di nascita vengono effettuati bilanci di salute con più visite pediatriche che rilevano le principali malformazioni congenite, anche con valutazioni neurologico-comportamentali. Nella prima visita dopo la nascita è possibile individuare i problemi derivanti dal parto, i difetti di formazione manifesti della cute, del viso, del cranio, della colonna, le anomalie dei genitali esterni, degli arti, i vizi cardiaci; viene inoltre effettuato lo screening clinico della lussazione congenita dell'anca, mediante la cosiddetta manovra di Ortolani, che consente di apprezzare uno scatto delle anche se queste vengono abdotte. I bilanci di salute devono essere ripetuti nel primo anno di vita e negli anni seguenti per valutare l'accrescimento, seguire l'evoluzione neurologica, stabilire un appropriato piano di educazione alimentare e sanitaria. I controlli consigliati sono semestrali nel secondo anno di vita e annuali in seguito. Particolare importanza hanno le visite prescolari tra il 4° e il 6° anno di vita. In questa età possono infatti emergere difetti neurologici minori, disturbi del linguaggio e del comportamento, problemi minori di vista e dell'udito. Devono essere quindi previsti, oltre all'esame fisico completo, lo screening per l'udito con audiometria tonale a 20 decibel per tre frequenze (a 10 mesi); lo screening per la vista con misurazione dell'acuità visiva (4, 6, 9, 11 anni), con cover test per rivelare la presenza di uno strabismo (10 e 18 mesi, 4 e 6 anni); l'esame dentario effettuato dal medico specialista per mettere in evidenza carie e malocclusione (4 e 6 anni); l'esame dello sviluppo e dell'adattamento sociale eseguito da uno psicologo alla presenza dei genitori; l'esame emocromocitometrico e delle urine (per lo screening delle infezioni delle vie urinarie); il test con tubercolina (attualmente sostituita da un estratto purificato: PPD, Protein purified derivative), che mostra il viraggio tubercolinico, cioè il passaggio da uno stato di non sensibilizzazione alla sensibilizzazione, e la cui positività non indica presenza di malattia in atto ma avvenuta infezione (questo test va ripetuto anche durante gli anni della scuola, in prima e quarta elementare e in terza media); la misurazione della pressione arteriosa; il controllo dei paramorfismi della colonna vertebrale e della presenza di scoliosi (dai 6 ai 15 anni). Uno dei cardini della profilassi delle malattie infettive dell'infanzia è costituito dalle vaccinazioni (v.vaccino).
3.
Per la salute del corpo, specie se in fase di accrescimento, l'alimentazione riveste un'importanza primaria, anche se accanto a essa vanno considerati i fattori ereditari, le condizioni ambientali e socioeconomiche. Per gli adulti, nel corso del 20° secolo, le esigenze alimentari sono fortemente mutate in relazione alla sensibile diminuzione dell'attività fisica causata dallo sviluppo industriale e dalla meccanicizzazione; questo problema, tuttavia, non riguarda l'alimentazione del bambino, che ha mantenuto pressoché invariate le sue esigenze alimentari. Poiché quello infantile è un organismo in crescita, occorre privilegiare la funzione plastica degli alimenti, cioè quella che consente di 'fabbricare' nuovi tessuti. Devono essere pertanto assunti cibi utili a tale scopo, sia come quantità sia come qualità. Naturalmente, in considerazione dell'energia che il piccolo consuma tanto per mantenere le sue funzioni vitali (metabolismo basale) quanto per sopperire all'attività fisica, in alcune età particolarmente vivace, non vanno sottovalutate la funzione energetica (capacità di fornire energia per produrre calorie e lavoro) e quella regolatrice delle reazioni metaboliche (funzione deputata per lo più ai minerali e alle vitamine). Nell'impostare una dieta è quindi necessario rispettare il quoziente energetico, cioè il rapporto tra calorie introdotte e peso corporeo. Nei primi 2 anni di vita il bambino passa da un'alimentazione esclusivamente liquida a una molto simile a quella di un adulto: tutto ciò naturalmente è correlato con il suo sviluppo fisico. Infatti, il neonato, lungo in media 50 cm e con un peso variabile dai 3 ai 4 kg, non è un individuo completamente maturo e può ingerire solamente liquidi, poiché inizialmente non è in grado di masticare; inoltre, non essendo completo il suo sistema enzimatico, ha possibilità digestive e metaboliche limitate; infine, alla nascita anche il suo sistema immunitario non è completamente efficiente e la sua risposta immunitaria sarà valida solamente verso il 3° mese. La sua razione calorica dovrà essere tale da consentire di raddoppiare il peso a 6 mesi e triplicarlo in un anno. Il lattante sintetizza 1 g di tessuti nuovi ogni ora e 2 g di cervello al giorno. Per un organismo impegnato a costruire sé stesso giorno per giorno in queste proporzioni, l'alimento migliore è rappresentato dal latte materno, che contiene tutti gli elementi necessari a una crescita così rapida e che, tramite la produzione di anticorpi preformati, assicura la difesa dalle infezioni. Il latte materno possiede anche la capacità di adattarsi alle esigenze del bambino: infatti la sua composizione cambia dal colostro prodotto nei primi giorni di vita al latte materno del 30° giorno; se il bimbo è nato prematuro, il latte avrà una composizione ancora diversa, adatta all'immaturità del piccolo. Il latte materno contiene in media poche proteine (meno della metà del latte vaccino), molto lattosio (ca. il 30% in più rispetto al latte vaccino) e grassi in discreta quantità, ma molto digeribili e ricchi di acidi grassi essenziali; contiene inoltre quantità sufficienti di calcio (il cui assorbimento è stimolato dal lattosio), sodio, potassio, ferro e tutte le vitamine sia liposolubili sia idrosolubili. Le feci di un bimbo allattato al seno sono cremose, in quanto i carboidrati contenuti nel latte assicurano l'instaurarsi di una flora intestinale protettiva rispetto a eventuali infezioni intestinali, e tale da consentire un transito facile e veloce dei prodotti della digestione. In base a queste considerazioni si può affermare che il latte materno è un alimento completo e perfetto per la crescita, economico, dotato di proprietà antinfettive (contiene fattori immunologici e sostanze antibatteriche molto attive), in grado di ridurre l'incidenza di allergie alimentari e la frequenza dell'obesità; l'allattamento al seno favorisce inoltre l'instaurarsi di quel meraviglioso rapporto affettivo tra madre e figlio che rappresenta la base fondamentale di uno sviluppo psicologico armonioso (v. allattamento). In caso di mancanza di latte materno, l'industria alimentare viene in soccorso con i latti artificiali che, attraverso una serie di modifiche del latte vaccino, mirano a raggiungere una composizione simile a quella del latte materno. Le direttive europee prevedono che ne possano essere messi in commercio due tipi: uno per i primi mesi di vita; un altro, detto anche 'di proseguimento', per il periodo dello svezzamento. Tuttavia, poiché nel latte materno sono state identificate centinaia di molecole di cui non si conosce l'esatta funzione, malgrado i progressi scientifici e tecnologici, esso non è esattamente riproducibile. In particolare per quanto riguarda le proteine, il latte umano ne contiene, come accennato, una percentuale relativamente bassa, ma con una peculiare composizione di aminoacidi corrispondente alle esigenze nutrizionali del neonato; invece nel latte artificiale, che è un latte vaccino modificato, alcuni aminoacidi sono in difetto e altri in eccesso e pertanto, per evitare il pericolo di carenze, viene raccomandato un livello percentuale di proteine più alto (da 2,25 a 3 g/kg al giorno). Anche per gli altri componenti, le direttive europee sono categoriche nello stabilirne i limiti minimi e massimi, in modo da garantire e salvaguardare la salute del bambino. Il neonato allattato artificialmente avrà comunque un buon accrescimento, se la madre sarà attenta a riprodurre lo stesso contatto fisico affettivo che si sarebbe realizzato con l'allattamento al seno. Verso i 5 mesi di vita l'alimentazione del bambino può cominciare a essere più varia in quanto le capacità digestive sono più ampie; allora si aggiungeranno al latte le farine (miscele di cereali e amidi) e gli omogeneizzati (di verdura, di carne e frutta). Verso i 6 mesi, quando il piccolo dispone ormai di tutti gli enzimi digestivi, la gamma degli alimenti può essere quasi completa, essendo l'unico limite rappresentato dall'incapacità di masticare. In seguito viene raccomandato di far bere al bambino un buon quantitativo di latte al giorno (da mezzo a un litro), di evitare gli eccessi, in particolare di carne (per non affaticare i reni) e di sale (è stato dimostrato che l'eccesso di sale predispone all'ipertensione). Dai 6 mesi all'anno di vita sarà previsto il passaggio dall'alimentazione semiliquida a quella solida, che richiede una particolare attenzione per ciò che riguarda la freschezza e l'igiene degli alimenti. Tale passaggio sarà graduale e diverso da soggetto a soggetto, proposto e non imposto. Infatti è importante cercare di seguire le tendenze del piccolo per quanto riguarda sia la scelta degli alimenti, sia il momento in cui introdurli nella sua dieta. Passare dal biberon al cucchiaio è anche un problema psicologico che prevede il distacco dall'intimità con la mamma ed è necessario percepire quando il bimbo è pronto a tale passo. Dopo i 2 anni il bambino mangia di tutto e quasi sempre da solo. Continua a crescere, ma più lentamente, ogni bambino con il suo ritmo e la sua evoluzione alimentare. Esistono infatti differenze sia nell'alimentazione (il metabolismo può essere più o meno vivace), sia nella velocità di crescita; e queste sono dovute a fattori familiari ed ereditari. È essenziale che la madre non consideri una frustrazione personale il comportamento del bambino che non abbia voglia di mangiare e rifiuti il cibo, ma che piuttosto si crei, al momento del pasto, un clima sereno e comprensivo, non frettoloso e tantomeno opprimente. La quantità di cibo assunta da un bambino di 2 anni corrisponde a circa la metà di quella di un adulto, a 10 anni la quantità è la stessa. È importante porre attenzione alla qualità della composizione della dieta, seguendo alcune regole generali, peraltro valide anche per gli adulti: evitare gli eccessi di carne, preferendo il pesce e le carni cosiddette povere, quali coniglio, pollo ecc.; scoraggiare il consumo di grassi, in particolare quelli animali, e preferire comunque quelli vegetali, contenenti acidi grassi polinsaturi che prevengono le malattie cardiovascolari, e quelli crudi in quanto più digeribili, allo scopo di prevenire l'obesità; favorire il consumo di verdure, sia crude sia cotte, e della frutta, per assicurare l'assunzione di un buon quantitativo di vitamine, sali minerali e fibre, importanti per la prevenzione di varie patologie; salare poco gli alimenti onde evitare che si assuma l'abitudine di ingerire cibi troppo salati e prevenire, come già accennato, l'ipertensione; evitare un consumo eccessivo di zuccheri per prevenire la carie e l'obesità.
4.
La diffusione e la frequenza delle malattie rappresentano un indice delle condizioni sanitarie di una popolazione. In generale, le malattie che colpiscono l'infanzia sono le infezioni respiratorie, che costituiscono l'80% della patologia infettiva di questa età. Le infezioni delle alte e medie vie respiratorie (riniti, tonsilliti, adenoiditi, otiti, bronchiti) rappresentano il 70% di tutta la patologia pediatrica. Nei primi 6 anni di vita è normale che un bambino abbia circa otto o più episodi infettivi delle prime vie aeree, anche accompagnati da febbre. La frequenza media degli episodi infettivi diminuisce dai tre episodi all'anno in media del 1° anno di vita a un episodio all'anno fino all'età scolare. La maggior parte di queste infezioni è di natura virale e non richiede la somministrazione di antibiotici. Un'altra patologia, che sta assumendo un'importanza sempre maggiore, è quella allergica, in particolare respiratoria: i fenomeni allergici hanno un'incidenza del 5% nella popolazione infantile sotto i 4 anni e aumentano fino al 20-30% in età scolare. Dopo il 1° anno di vita e fino all'adolescenza la frequenza dei decessi presenta valori molto bassi, che attualmente registrano valori inferiori all'1‰. Le principali cause di morte sono rappresentate dai tumori e dagli incidenti.
di Adriana Guareschi Cazzullo
1.
Lo sviluppo psicologico è stato precocemente differenziato in tappe, indicate più in termini descrittivi di comportamenti piuttosto che dei processi mentali che li caratterizzano. Le tappe evolutive sono state definite dalla psicologia genetica (Piaget 1936) come stadi (sensomotorio, preoperatorio, concreto, formale) di abilità percettivo-motorie e intellettive raggiunte dal bambino alle varie età. Analogamente la psicoanalisi ha individuato, in relazione alle motivazioni pulsionali, altre tappe (Freud 1965), come fasi orale, anale, edipica, di latenza ecc., che si susseguono in modo altrettanto lineare a partire dalla nascita e sono state per anni modelli di riferimento nel lavoro clinico con i bambini affetti da disturbi neuropsichici. Venivano cioè postulati modelli così lineari e stabili di sviluppo da introdurre il concetto che la patologia consistesse nella fissazione e nell'arresto dello sviluppo all'uno o all'altro stadio, o addirittura nella regressione a una fase precedente. Si giungeva anche a identificare stati precoci dello sviluppo con stati psicopatologici, come per es. l'autismo o la simbiosi. Nell'ultimo decennio del 20° secolo l'evoluzione delle scienze biologiche e psicologiche dell'infanzia ha potuto proporre schemi dinamici di maturazione molto più aderenti alle diverse realtà in cui il bambino cresce. Si tratta di modelli evolutivi che vanno oltre il progetto di maturazione, in quanto incorporano il notevole effetto dell'ambiente sul potenziale umano. Secondo questa visione, i risultati evolutivi non sono un prodotto unicamente delle caratteristiche iniziali del bambino o del contesto in cui vive, né della loro semplice combinazione. Gli esiti rappresentano il risultato, nel tempo dell'azione reciproca, tra il bambino e il contesto, in cui lo stato dell'uno influenza il successivo stato dell'altro, in un processo dinamico continuo (modello interattivo). La ricerca longitudinale ha messo in crisi i modelli di sviluppo stabili dimostrando che, anche nel bambino normale, non vi è stabilità o ineluttabile continuità di alcune competenze di tipo cognitivo e comunicativo, misurate prima della comparsa del linguaggio, e competenze correlabili con le prime quando sono misurate dopo la comparsa del linguaggio stesso (Kagan 1984). Anche in ambito patologico è stato possibile constatare che la maggioranza dei bambini considerati a rischio evolutivo per circostanze biologiche, come, per es., sofferenze e complicanze alla nascita, e che si ritenevano destinati ad avere sequele comportamentali negative nel corso della vita, non presentava poi consistenti problemi intellettivi oppure sociali negli anni successivi. Nel predire l'esito, quindi, il soffermarsi esclusivamente sulle caratteristiche del soggetto può indurre in errore, così come nel lavoro clinico per formulare la prognosi è indispensabile aggiungere all'osservazione del bambino, l'analisi e la valutazione delle esperienze a sua disposizione. In effetti, laddove le variabili familiari e culturali hanno favorito lo sviluppo, i soggetti anche con gravi complicazioni perinatali non erano distinguibili dai bambini normali (Sameroff-Chandler 1975). In questo modello interattivo, derivato dagli psicologi dello sviluppo, l'elemento innovativo riguarda la partecipazione attiva del bambino all'interazione con l'adulto; viene posta cioè particolare enfasi sull'effetto che il soggetto ha sull'ambiente. Pertanto l'apprendimento della realtà e la costruzione cognitiva del bambino sono strettamente legati all'esercizio della sua capacità di stimolare l'attenzione della madre e di orientarsi in termini di ascolto, di direzione dello sguardo, di sorrisi e di movimenti verso di lei. La ricerca è stata particolarmente stimolante e produttiva di dati sullo sviluppo delle capacità neuropsicologiche del bambino nell'ambito delle esperienze di interazione con la madre o con chi si prende cura di lui. Essa ha portato a formulare un modello di sviluppo che presume un'unità dei processi evolutivi, sia biologici sia comportamentali, unità che è caratterizzata da una relazione dinamica tra l'individuo e il suo contesto. La teoria dell'attaccamento di J. Bowlby (1969-80) ha fornito a queste ricerche una cornice sufficientemente elastica, in quanto passibile essa stessa di ulteriori sviluppi; all'interno di essa si sono andate strutturando, su base sperimentale, linee di sviluppo cognitivo e affettivo-sociale. Il quadro teorico formulato da Bowlby fa riferimento agli studi etologici e indica lo stabilirsi di un legame, una relazione di attaccamento tra una figura preferita, o meglio discriminata, e il bambino come derivato di una ricerca di vicinanza che offre una base sicura e provoca una protesta nel momento della separazione. All'inizio vi è un corredo genetico individuale con caratteristiche specie-specifiche che stabiliscono il legame, ma nel corso dello sviluppo il sistema di attaccamento diventa sempre più organizzato in parallelo con lo sviluppo del sistema nervoso, fino a comprendere aspetti affettivi e cognitivi osservabili anche nel comportamento di esplorazione, complementare a quello di attaccamento. Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli sia di sé stesso sia degli altri (modelli operativi interni o modelli rappresentazionali), basati sugli schemi ripetuti delle esperienze interattive non solo di azioni, ma anche di sensazioni e di affetti legati agli eventi quotidiani. Per quanto questi modelli non esauriscano la comprensione dell'organizzazione interna del sistema di attaccamento e le leggi che regolano il suo cambiamento in relazione alla crescita, essi hanno il pregio di aver richiamato l'attenzione dei ricercatori e dei clinici sulle basi neurofisiologiche dello sviluppo psicologico e dei suoi disturbi. I modelli operativi interni, infatti, includono processi di attenzione e percezione, processi di selezione degli affetti e strutture di memoria che rappresentano una versione personale dell'esperienza vissuta. Particolarmente in sintonia con le caratteristiche dinamiche di questi modelli sono le sostanziali modificazioni intervenute in questi ultimi anni nelle concezioni del funzionamento cerebrale. Da un funzionamento più vicino a un livello riflessologico, in cui sono le caratteristiche dello stimolo a influenzare la modalità di recepirlo e quindi la risposta, si è passati a una concezione in cui è l'evento psicologico di per sé che influenza la modalità di recepire l'informazione. Tra le teorie più recenti quella del darwinismo neurale di G.M. Edelman (1989) sembra la più adatta a facilitare la comprensione del funzionamento mentale nel corso dello sviluppo. Essa è fondata sul concetto evolutivo di una rete di cellule nervose (rete neuronale), in cui alcune connessioni vengono rinforzate, altre indebolite o perdute, in relazione all'interattività con gli stimoli esterni, dopo la nascita. Quello che noi chiamiamo apprendimento sembra essere in realtà una forma di selezione di gruppi di cellule cerebrali connesse fra loro a formare schede o mappe che 'dialogano' per creare categorie di cose o di avvenimenti. Esse possono così mantenere un grado ottimale di continuità dell'esperienza: quello che Edelman chiama appunto il 'presente ricordato'. Una vasta serie di ricerche (Diamond 1990), inoltre, ha potuto documentare che le funzioni corticali superiori, vale a dire le capacità più evolute proprie del soggetto adulto, sono già osservabili al loro emergere nelle fasi più precoci dello sviluppo e possono spiegare le brillanti abilità funzionali del neonato sottolineate dalla ricerca più recente.
2.
Le osservazioni seriali del comportamento del neonato e del bambino nei primi mesi di vita evidenziano capacità molto precoci di elaborare in senso cognitivo le varie esperienze percettive, cioè le informazioni che provengono dai diversi canali sensoriali (uditivo, visivo, tattile ecc.). Il neonato di 2 o 3 settimane è capace di imitare espressioni facciali mostrategli dall'adulto, come la protrusione della lingua, oppure di riconoscere un succhiotto bitorzoluto rispetto a quello liscio con cui ha familiarizzato succhiandolo in precedenza; dimostra quindi di possedere già complesse capacità di discriminazione percettiva. Egli è in grado di coordinare e di integrare le differenti modalità percettive trasferendo, per es., le informazioni visive in quelle motorie, nel primo esempio, e le tattili in quelle visive, nel secondo. Questo comporta anche un'iniziale capacità di rappresentarsi il proprio corpo e differenziarlo da quello che gli sta di fronte, di cui imita le espressioni del volto. Rispetto al soggetto adulto nell'infanzia è più comune che stimolazioni di una modalità sensoriale evochino vivide sensazioni o immagini appartenenti a un'altra. Questo aspetto delle caratteristiche percettive del bambino ha portato alla discussione, tuttora aperta, sulle percezioni amodali presenti nelle età più precoci, che secondo alcuni ricercatori aiutano il bambino a integrare le esperienze di sé e dell'altro diverso da sé. Esse hanno a che fare con dimensioni o aspetti dell'esperienza non specifici per modalità, ma riguardano l'intensità, l'estensione, la durata ecc. e sono particolarmente ricche di tonalità affettive e, come tali, molto significative per le esperienze successive. Per le straordinarie capacità di registrare gli eventi percettivi nella memoria, il bambino non ha bisogno di esperienze ripetute per cominciare a formare alcuni elementi di sé e dell'altro, ma è predisposto a costruirne una forma integrata di riconoscimento. Altrettanto precocemente i bambini acquistano una rudimentale capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri - ciò che D. Premack e P. Woodruff (1978) chiamano la 'teoria della mente' - e iniziano a capire che una mente può avere un'interfaccia comune con un'altra rappresentata da segnali convenzionali o comunque comprensibili. La rappresentazione della realtà è quindi fondata sulla triangolazione tra sé e l'altro e l'attitudine dell'altro verso l'oggetto. Questa relazione è alla base della possibilità del bambino di sviluppare rapidamente la conoscenza delle persone come dotate di intenzionalità, di aspettative e di emozioni rispetto agli oggetti del mondo esterno. In questa triangolazione ciascun ricercatore ha approfondito alcuni aspetti dello sviluppo psicologico: l'organizzarsi del nucleo affettivo, l'emergere della consapevolezza di sé, oppure le premesse della comunicazione verbale negli scambi di sguardi, di sorrisi nell'interazione tra il neonato e la madre. Essi si integrano e si intrecciano nell'approfondire i diversi versanti e contribuiscono comunque a dimostrare che le strutture intrapsichiche nel processo di sviluppo sono il frutto di un duplice processo cognitivo e affettivo di internalizzazione delle esperienze interattive precoci. Si è così scoperto che nel bambino esiste un sapere che precede ciò che egli è in grado di conoscere e controllare e che una psicologia dell'attenzione precede quella del desiderio e quella delle forme più integrate di pensiero. Il desiderio di essere con l'altro è senza dubbio il prototipo organizzato di conoscenza circa il mondo. La comparsa del desiderio trasforma il sapere primario del bambino, orientandone l'intenzionalità, le motivazioni, e conferendo profondità e coesività alle capacità cognitive. Oggi sappiamo che i bambini non sono diversi l'uno dall'altro per l'uso quantitativo che fanno delle abilità cognitive, ma che si possono differenziare secondo l'adeguatezza del loro stato mentale alla conoscenza. Vi sono infatti specifiche differenze nei modi con cui il fanciullo può estrarre e attribuire significati ai suoi contesti. Determinate informazioni potrebbero avere senso per il bambino solo in un determinato contesto affettivo ed esperienziale e non in un altro. Potrebbero essere privilegiati di volta in volta modi specifici di elaborare le informazioni e di organizzarne la risposta. Sia la formazione dei simboli sia la loro distorsione richiedono un linguaggio che unisca il sistema interpersonale degli scambi comunicativi con quello che attribuisce significato alle proprie e alle altrui emozioni e rende consapevoli dell'intenzionalità e della direzionalità affettiva dei pensieri.
3.
Secondo la prospettiva dei modelli dinamici ricordati nel precedente paragrafo, l'indagine della costruzione del pensiero e dei suoi sviluppi negli stati patologici può anche non tener conto delle classiche tappe miliari della psicologia genetica o degli stadi del modello psicanalitico, ma deve includere come elementi fondamentali l'osservazione del linguaggio e dei suoi aspetti morfologici, semantici e pragmatici, le forme dei processi mentali inconsci e i vari livelli della corrispondenza tra cognizione e affettività. I dati neurobiologici depongono per un ruolo fondamentale degli stress esterni nelle età più precoci attraverso una forte sensibilità dei funzionamenti psichici iniziali. Già nello stato precognitivo è stato possibile individuare condizioni di depressione, oppure di altre patologie, come risposte del bambino di pochi mesi ai disturbi emotivi della madre. Il fanciullo affronta una condizione di scarso contatto affettivo mediante un'alterazione cognitiva, nella quale assumono rilevanza la non integrazione tra memoria della propria storia e processo cognitivo, nonché la mancanza di un legame tra l'umore, il tono edonico delle memorie e il linguaggio. La potenzialità evolutiva del desiderio e delle sue rappresentazioni viene considerata un valido indice di valutazione del grado di modulazione interattiva e dei livelli individuali di autoregolazione propri di quel bambino. Essa è fondamentale nell'approccio clinico a quelle nuove categorie diagnostiche specifiche dei primi anni di vita definite come disturbi della regolazione e dell'attaccamento (Diagnostic classification 0-3 1994). Il concetto di sopra- o sotto-modulazione e di inibizione cognitiva nelle malattie del sistema nervoso centrale viene associato a quello di vulnerabilità alle esperienze negative e a quello di impermeabilità difensiva al significato affettivo. La malattia depressiva in età precoce si traduce in un difetto di conoscenza degli stati mentali propri e della madre, con i significati affettivi a questo connessi. Oltre a un'alterazione del sistema del desiderio e della percezione sarebbero limitate e alterate quelle relazioni che comportano gradi complessi di riconoscimento dell'esperienza e della relazionalità con sé stesso e con gli altri. Tutti i disturbi dello spettro autistico, assimilati in passato a stati fisiologici dello sviluppo (autismo fisiologico), vengono ora definiti come patologie delle competenze cognitive e della comunicazione. In questi processi patologici, che incidono più profondamente e più estesamente su diverse aree funzionali, vengono chiamate in causa altre funzioni basilari che abbiamo visto già precocemente attive nel modello della psicologia evolutiva. Si tratta della 'memoria implicita' (sensomotoria o procedurale) e della 'memoria esplicita' (simbolica o narrativa) con i rispettivi tipi di apprendimento e tempi di comparsa. Una precoce dissociazione tra memoria procedurale e memoria narrativa è rintracciabile all'interno dell'attaccamento stesso come una delle premesse a un continuum di gradienti diversi di patologia che possono essere alla base di disturbi del linguaggio o dell'apprendimento. La patologia dell'apprendimento, seguendo il modello di sviluppo della psicologia evolutiva, va analizzata secondo i due sistemi di interpretazione cognitiva, uno caratteristico dell'elaborazione preverbale e l'altro di quella generalizzante permessa dal linguaggio. Anche le operazioni che vengono definite preminentemente cognitive o di information processing vanno considerate nell'ambito della complessità delle relazioni del bambino con l'oggetto. A questo tipo di integrazione deve essere riferita l'osservazione clinica dei disturbi specifici dell'apprendimento e del linguaggio, in modo da renderla più vicina alle reali esperienze del soggetto. L'errore del linguaggio parlato o scritto può essere riconducibile a una difficoltà del bambino a integrare gli apprendimenti espliciti con altri acquisiti più naturalmente e a interpretarli secondo un registro contemporaneamente affettivo e linguistico. Il riferimento ai nuovi modelli di sviluppo proposti dalla psicologia evolutiva consente una lettura della patologia dello sviluppo più attenta agli stati funzionali, anche neurofisiologici, che caratterizzano non soltanto il sistema di attaccamento, ma anche quello di esplorazione. Essa consente interpretazioni più aderenti alla realtà del bambino e, quindi, più utilizzabili anche ai fini terapeutici. Infatti essa è rispettosa delle caratteristiche temperamentali del bambino e come tale più pronta a valorizzare le sue capacità e il potenziale di libertà verso l'autonomia, che sono spesso duramente messi alla prova nella sfida alle difficoltà che ogni crescita comporta.
di Franco Cambi
1.
L'infanzia è stata, per un lungo periodo di tempo (e continua, in parte, ancora a esserlo), una condizione marginale nel contesto sociale, in quanto priva di alcuna certezza di arrivare al raggiungimento dell'età adulta (per l'altissima mortalità, protrattasi nel mondo occidentale fino al pieno 18° secolo e anche oltre), incapace di affermare sé stessa e i suoi diritti (se non mediante il riconoscimento degli adulti), gestita direttamente dagli adulti. Tale condizione ha reso l'infanzia, per millenni, storicamente quasi invisibile e, quindi, difficilmente leggibile nei vari contesti storici, se non attraverso debolissime tracce che testimoniano di una realtà in sé dell'infanzia o ce la fanno percepire all'interno dei discorsi degli adulti o delle loro pratiche. La marginalità legittimava, di fatto e di diritto, la sopraffazione dell'infanzia; la sua storia, infatti, è costituita di violenze e abusi, di pratiche di disciplina e controllo, che dal corpo procedono verso lo spirito, la mente, la volontà, l'immaginario. Una forma centrale di questa violenza - accanto alle percosse, all'abuso sessuale, alla segregazione ecc. - si è manifestata da sempre nell'ambito del lavoro, nella costrizione fisica e psicologica di un lavoro organizzato a misura degli adulti, in cui i bambini vengono inseriti direttamente e con precise finalità produttive. Ciò avveniva già nelle società agropastorali, come pure in quelle contrassegnate dal lavoro artigianale e organizzate intorno alla bottega, ma ha conosciuto la sua forma più esplicita, brutale e sistematica con l'avvento della rivoluzione industriale, quando masse di bambini sono state introdotte nel sistema di fabbrica e sottoposte a pratiche lavorative estenuanti, le quali impedivano loro di vivere ogni forma della vita infantile che sarebbe stata loro propria. Il bambino è stato così ridotto a pura forza-lavoro, a produttore di merci, a merce esso stesso. Più volte la violenza (assunta nelle sue varie forme) è stata indicata come la matrice più profonda e costante di tutta la storia dell'infanzia fino a oggi. In parallelo a questa condizione sociale si è però elaborato tutto un sistema ideologico rivolto a interpretare, a idealizzare, a valorizzare l'infanzia, riconoscendo nel bambino quel puer aeternus che simboleggia il continuo rinascere della vita, la possibilità del rinnovamento interiore, un modello anche di rigenerazione dell'uomo, attraverso i suoi connotati di originarietà, innocenza, genuinità. Questa diversa percezione del fanciullo risale all'antichità e ai suoi miti, passando poi al cristianesimo, con tutti i richiami evangelici all'esemplarità dell'infanzia e con l'idealizzazione come paradigma formativo dell'infanzia di Cristo (obbediente, paziente, saggio). Essa giunge fino alla grande rivoluzione moderna della 'scoperta dell'infanzia' (Ariès 1960), scoperta, questa, insieme sociale e ideale, che produrrà nel corso del Settecento e poi nell'Ottocento un vero e proprio 'culto della fanciullezza' (Boas 1966) e il mito dell'infanzia, di importanza centrale tanto nella cultura quanto - anche se più lentamente - nella vita sociale, fino al riconoscimento attuale dei diritti del bambino e alla maturazione, pur lenta e incompleta, di una cultura dell'infanzia. In tale complessa oscillazione tra violenza e mito si inscrive la storia dell'infanzia, spesso nascosta nelle pieghe della grande storia, quasi invisibile in essa, e che tuttavia ci parla dei sistemi di valori che in essa agivano e di come in questi ultimi esistesse una radicale dicotomia o contraddizione, soprattutto tra realtà sociale e idealizzazione culturale, ancora oggi presente. La storia dell'infanzia è stata, al tempo stesso, lineare e complessa e, nelle sue contraddizioni, può essere assunta a segnale di uno dei problemi irrisolti della nostra civiltà: la necessità di inibire la violenza, a partire proprio da quella esercitata sui bambini, e di decantare, nel contempo, le potenzialità antropologiche nuove e diverse proprie del bambino stesso, il quale può e deve divenire ‒ come diceva M. Montessori ‒ 'il padre dell'uomo'.
2.
Un punto di snodo nella storia dell'infanzia va collocato nel passaggio dal mondo tradizionale a quello moderno. Lì viene ad attuarsi un doppio processo, ambiguo, ma in fondo progressista. Da un lato, l'infanzia continua a essere vessata e usata, anche attraverso pratiche sofisticate, quali la 'privatizzazione' familiare (o internamento nella casa o dentro altri spazi controllati: la scuola, l'oratorio ecc.) e il controllo capillare del corpo, del linguaggio, degli spostamenti, dei contatti esterni ecc.; da un altro lato, si avvia però anche un processo sia sociale sia culturale che tende a riconoscerla, studiarla, valorizzarla. Tutto questo viene promosso dalle classi alte e crea un costume di vita infantile protetto, anche viziato, ma che pur guarda a investire il bambino di una serie di cure, sempre più attente, sempre più rivolte, anche, a soddisfarne i bisogni. Prima di quella svolta l'infanzia vive in una condizione più libera, ma anche più povera, più marginale, più carica di privazioni e sofferenza. Il bambino, nelle società preborghesi, è sì a contatto con tutta la società nel suo complesso, è presente ovunque (dall'osteria ai lavori campestri o artigianali, al letto del morente, come è testimoniato, per es., nelle tele di Bruegel il Vecchio), ma è anche un bambino sottoposto a mortalità, a malattie, a sevizie ecc.: poco protetto, poco valorizzato, e forse anche poco amato. In quel mondo il fanciullo è doppiamente marginale: non ha voce benché sia dappertutto; vale poco (socialmente, culturalmente) e pertanto è lasciato, molto spesso, a sé stesso e a un processo di crescita e formazione duro e adultizzante. Manca in quella società una sensibilità verso l'infanzia, che Ph. Ariès chiamerà il 'sentimento dell'infanzia', ovvero una volontà di cure ispirate a un'affettività nuova che trova nella famiglia il suo luogo di origine e di potenziamento, ma che si prolunga poi anche nell'istituzione scolastica. Nel mondo moderno la situazione muta e si attivano pratiche sociali di riconoscimento e valorizzazione dell'infanzia, pratiche discorsive rivolte a integrarla e definirla, processi di mitizzazione che, a partire dal Settecento, saranno sempre più articolati e complessi, spostandosi dal piano letterario e pedagogico anche a quello della conoscenza scientifica, con gli apporti di psicologia, sociologia e antropologia.
3.
Già nel 18° secolo, J.-J. Rousseau e J.-M.-G. Itard avviano la costituzione di una psicologia dell'infanzia, che dalla seconda metà dell'Ottocento in poi avrà una crescita intensa. Con W. Preyer, B. Pérez, C. Ricci (che studia il disegno infantile), poi, nel Novecento, con O. Decroly, É. Claparède, e infine con J. Piaget, la psiche infantile verrà delineata nella sua specificità e nel suo sviluppo, soprattutto cognitivo, e se ne segneranno le tappe evolutive e i caratteri prima animistico-egocentrici, poi operativi e infine logico-formali. Parallelamente, S. Freud e la psicoanalisi, soprattutto sul versante inaugurato da M. Klein, ma anche con A. Freud fino ad arrivare a J. Lacan, daranno una lettura complessa (e 'drammatica') del mondo emotivo del bambino, scandito dal triangolo edipico, da una forte identità sessuale, dall'attaccamento alla figura materna, dall'aggressività, delineando al contempo le tappe evolutive di questo fronte emotivo-pulsionale della personalità infantile e rinnovando così radicalmente l'immagine dell'infanzia, sottratta a ogni interpretazione che vede il bambino come un soggetto asessuato e innocente. Nel corso del Novecento anche la sociologia e l'antropologia hanno reso più ricca e completa la nostra immagine scientifica dell'infanzia, sottolineando, da un lato, i caratteri tipici della socializzazione infantile, scandita anch'essa da una tappa di anomia prima, da una di eteronomia poi, infine da una di autonomia, come pure le 'dinamiche di gruppo' tipiche anche del mondo infantile, legate alle figure del leader e dell'outsider e a una comunicazione ora orizzontale ed empatica ora sottoposta a regole, come ben rivela l'attività del gioco infantile nei suoi processi di organizzazione e di esecuzione. Tale attività, tuttavia, non esclude nel bambino un impegno di lavoro, sia come bisogno di manipolazione sia come impegno morale, contrassegnato dall'esecuzione delle consegne. Dall'altro lato, l'antropologia ha delineato un pluralismo di infanzie, in relazione alle diverse società e alle diverse culture, che assumono atteggiamenti, nei confronti del bambino, ora più permissivi ora più autoritari, ma che, comunque, elaborano sempre all'interno dei propri codici culturali un''immagine d'infanzia' convergente rispetto ai propri valori e ai propri modelli sociali. Anche la biologia e la medicina hanno via via acquisito una conoscenza del corpo infantile (e anche della psiche) sempre più articolata e complessa, evidenziandone bisogni, strutture, tappe evolutive, ma anche momenti di crisi (le malattie infantili), esigenze primarie (attività, gioco, affetto), parametri di cura e di allevamento, sia rivolti ai soggetti normali, sia a quelli anormali (portatori di handicap, per i quali si è venuta delineando tutta un'area della medicina, della psicologia e della pedagogia). Il 20° secolo, il 'secolo del fanciullo' (Key 1900), ha elaborato un forte 'mito' dell'infanzia, ma ha dato vita anche a una conoscenza di essa che ha esercitato una notevole influenza sulle pratiche sociali.
4.
Nel mondo contemporaneo, che è animato sia dal mito dell'infanzia sia da una conoscenza ormai articolata e complessa del bambino, dei suoi bisogni e della sua specificità psichica e sociale, nonché della sua storia, come pure ancora percorso da atteggiamenti diffusi di violenza sull'infanzia, che vanno dalle percosse allo sfruttamento, alla mercificazione (per es. pubblicitaria), alla pedofilia, in un mondo in via di globalizzazione sotto ogni aspetto, ma anche attraversato da profonde dicotomie e contraddizioni, tra Nord e Sud, tra società del benessere e Terzo mondo, tra paesi economicamente forti e tecnologicamente avanzati e paesi di grande povertà, arretrati e dipendenti, anche l'infanzia viene ad assumere un volto e un ruolo profondamente contraddittori. Da un lato, cresce la coscienza dei suoi diritti, la produzione di Carte dei diritti del bambino, di una legislazione in suo favore, che sta diffondendo un radicale mutamento di mentalità un po' in tutto il mondo, grazie anche all'intervento delle organizzazioni internazionali (come l'UNICEF) che denunciano le situazioni di degrado e di abbandono e si attivano per porvi rimedio. Si va infatti generalizzando una mentalità che vuole affermare, nel diritto ma anche nelle pratiche sociali, il rispetto del bambino e della vita infantile, la sua inviolabilità. Da un altro lato, si assiste a una serie di forme di sfruttamento dell'infanzia che si fanno più complesse, sofisticate e sfuggenti, come avviene, per es., nella pubblicità che non soltanto utilizza l'immagine del bambino, ma la struttura anche secondo le esigenze del mercato offuscando il fanciullo reale che è il vero protagonista della vita infantile; nell'erotizzazione - sempre attivata dalla pubblicità - del corpo infantile; nelle alienazioni a cui l'infanzia è sottoposta nella vita urbana, all'interno di città indifferenti ai bisogni dei bambini; nella coercizione della televisione come 'prima maestra'. Accanto a queste nuove forme di sfruttamento restano attive anche le antiche, in primo luogo quelle lavorative. Esiste poi un terzo elemento in questa situazione contraddittoria dell'infanzia contemporanea: quello legato alla sua 'scomparsa'. L'infanzia, infatti, così come si è venuta definendo nella modernità, come età separata e autonoma contrassegnata da bisogno di cure e tutela della sua innocenza, investita da un sentimento che la valorizza e la sorveglia, ma per salvaguardarla e rendere possibile un suo armonico sviluppo, sembra volgere al tramonto, poiché il bambino sta tornando a essere, sotto molti aspetti, quel piccolo adulto che è stato nelle società tradizionali premoderne: tale tende a delinearlo la pubblicità e con essa il mercato (si pensi, per es., all'abbigliamento attuale del bambino, così adultizzato); tale tendono a renderlo i programmi della televisione - di cui il bambino è un forte consumatore - che gli pongono di fronte esperienze di ogni genere senza censura alcuna, almeno di fatto; tale lo rende l'uso del computer e delle reti Internet che si offrono in tutte le loro dimensioni alla 'libera navigazione' anche del bambino. L'infanzia sta regredendo, per questi motivi, a pura connotazione anagrafica. La condizione attuale dell'infanzia è, quindi, irretita in questa contraddizione veramente epocale, che fa apparire la nostra contemporaneità come un punto nuovo di snodo della sua storia, come l'avvio di una realtà che possiamo definire postmoderna e che, al di là delle opposte tensioni o orientamenti da cui è animata, resta in buona misura indecifrabile e, forse, anche sub iudice: in parte condizionata proprio dalle scelte future di politiche sociali e culturali della comunità internazionale.
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