infinito
L’infinito è un modo non finito del verbo (➔ coniugazione verbale; ➔ modi del verbo), che nella tradizione grammaticale è considerato forma di base del verbo stesso ed è, di conseguenza, usato come forma di citazione (➔ definizione lessicale) nei vocabolari (differentemente da quello che accade nel latino, ove come forma di citazione si usa la prima persona singolare dell’indicativo).
Pertanto, i verbi italiani si classificano in tre classi in base alle desinenze infinitive: -are, -ere e -ire. Nel parlato è possibile operare una ulteriore distinzione, vale a dire quella tra due tipi di infiniti in -ere: quelli che hanno l’accento sulla desinenza (temére) e quelli in cui l’accento cade sulla sillaba precedente (crédere). Si aggiunge poi il tipo in -rre (porre, dal lat. ponĕre; dedurre dal lat. deducĕre) che deriva dall’infinito latino in -ĕre per via della caduta, in epoca postclassica, della sillaba non accentata.
L’infinito italiano conserva solo in parte la morfologia e la distribuzione dell’infinito latino. Tra le forme infinitive latine, l’infinito presente attivo (per es., amare) ha una continuazione diretta nell’italiano moderno. L’infinito passato passivo subisce un cambiamento del riferimento temporale (amatum esse «essere stato amato»), mentre l’infinito perfettivo (amavisse) scompare e l’infinito presente passivo (amari) è sostituito, in italiano, dalla forma perifrastica (essere amato) oppure, a seconda dei contesti, da quella pronominale (amarsi). L’infinito futuro latino, formato dal verbo esse e il participio futuro, sopravvive solo in poche forme lessicalizzate: si tratta di neologismi entrati nella lingua scritta italiana già dal I secolo (duraturo, perituro, venturo). Le prime attestazioni provengono da volgarizzamenti, vale a dire il genere più tendente all’uso latineggiante. Solo in un secondo tempo tali forme arrivano a interessare la lingua letteraria:
(1) incontanente il iusto punimento si seguitò per la sentenzia del creatore Iddio, e iudice del peccato, duratura sempre quanto gli uomini abiteranno la terra (Bono Giamboni, Delle Storie contra i Pagani di Paolo Orosio libri VII, I, 3, p. 28)
(2) si pentaranno et confessaranno in questo presente anno et in ciascuno anno venturo (Volgarizzamento di una Bolla di Bonifacio VIII, p. 132)
(3) Da questa parte onde ’l fiore è maturo
di tutte le sue foglie, sono assisi
quei che credettero in Cristo venturo
(Dante, Par. XXXII, pp. 22-24)
(4) … e il suo primo cognome lasciando, a sé e a’ discendenti di lui, de’ quali copiosamente gli concesse Lucina, il propio nome impuose della sua donna, non perituro in loro giammai (Boccaccio, Comedia delle ninfe fiorentine XVIII, p. 725)
Altri termini quali nascituro e morituro sono introdotti in epoca umanistica.
L’infinito può adempiere a tutte le funzioni sintattiche in una frase. Può comparire come complemento oggetto (5), soggetto (6) e predicato (7). Può essere complemento di verbi ausiliari, modali e fraseologici (8). Entra a far parte di talune costruzioni perifrastiche, quali far fare qualcosa a qualcuno (9) (➔ causativa, costruzione; ➔ perifrastiche, strutture). Anche se, normalmente, dipende da una espressione finita, conosce anche un uso autonomo, presentandosi cioè come frase compiuta (10):
(5) E se lo sanno, fingono di dimenticarsene (Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, p. 47)
(6) Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche su Sedàra (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 92)
(7) Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile (Silvio Pellico, Le mie prigioni LVII)
(8) Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà (Alessandro Manzoni, I promessi sposi XVII, p. 358)
(9) Chi aveva fatto sparire il cadavere dalla cucina? (Umberto Eco, Il nome della rosa, p. 278)
(10) E il povero Geppetto a corrergli dietro (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, p. 32)
Per gli usi fin qui accennati, ➔ infinitive, frasi, ➔ completive, frasi, ➔ soggettive, frasi, ➔ oggettive, frasi. Verranno trattati in questa voce gli usi in cui l’infinito è complemento di sintagmi non verbali. In particolare, l’infinito può essere retto da un aggettivo (11), un nome (12) e una preposizione (13):
(11) … il quale infine, stufo di aspettare sotto la palma, rientrò nel cantiere (Elsa Morante, La storia, p. 34)
(12) la sua continua pretesa di ingerirsi nella mia vita era indiscreta, ingiustificata (Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 395)
(13) e si sedette lontano dalla ragazza, senza osar di guardarla (Grazia Deledda, Il vecchio della montagna, p. 138)
Si ha, infine, il caso in cui l’infinito viene introdotto da un articolo (➔ sostantivato, infinito; ➔ nominalizzazioni):
(14) … ancora tutti pieni dalla sorpresa del ritrovarci e del riconoscerci (Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 461)
Anche se, in questo contesto, l’infinito è definito solitamente sostantivato, esso conserva caratteristiche sia verbali che nominali.
Si include nella categoria dell’aggettivo anche quello deverbale, e cioè le forme del ➔ participio passato usate come aggettivo. L’aggettivo regge (➔ reggenza) una frase infinitiva introdotta dalla preposizione a:
(15) Il giovanotto taceva, intento a tener ferma sul capo la berretta che non voleva starci (Deledda, Il vecchio della montagna, p. 112)
(16) Alfio scelse la palma, onde nell’attimo successivo già ne occupava la cima, deciso a stabilirsi per sempre là, come una scimmia, piuttosto che consegnarsi al vecchio (Morante, La storia, p. 34)
(17) … ma ero pur pronto ad accettare l’idea di non rivederla mai più (Eco, Il nome della rosa, p. 281)
(18) Eravamo gente lenta a scaldarci, ma d’un tratto qualcosa cominciò a bruciare (Maria Corti, L’ora di tutti, p. 25)
oppure dalla preposizione di:
(19) Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra (Collodi, Le avventure di Pinocchio, p. 120)
(20) Il secondo giorno, certo ormai di non venirne a capo, si decise a far testamento (Italo Calvino, Fiabe italiane I, p. 31)
(21) Il duca Alfonso sarà assai soddisfatto di aver vinto senza combattere (Corti, L’ora di tutti, p. 53)
La preposizione a tende ad essere usata nei casi in cui l’aggettivo descriva un atteggiamento rispetto al quale l’azione dell’infinito è proiettata nel futuro. Con di, al contrario, si può avere l’infinito passato come in (19) e (21). Con alcuni aggettivi, si ha alternanza tra le due preposizioni senza che cambi il significato dell’espressione:
(22) Ma piú di tutti al mondo amava Iduzza e Noruzza, per le quali era capace perfino di comporre madrigali (Morante, La storia, p. 24)
(23) diede uno spintone a Menin buttandolo a mare, perché tanto a tuffarsi non era capace (Calvino, I racconti, p. 32)
Con altri aggettivi la scelta della preposizione segnala una differenza di interpretazione. Ciò vale, per es., per l’aggettivo sorpreso: in sorpreso di fare (24), l’infinito denota la causa della sorpresa, mentre sorpreso a fare (25) significa «sorpreso nell’atto di compiere un’azione»:
(24) quando entrai in cucina, rimasi sorpreso di vedere sul tavolo cuscini, manti (Corti, L’ora di tutti, p. 43)
(25) Essa avvampò, peggio d’una scolara sorpresa a copiare il tema (Morante, La storia, p. 55)
Una categoria a sé stante è costituita da un limitato numero di aggettivi, tra i quali bello, difficile, facile, piacevole, pericoloso, possibile, strano e, nella lingua antica, forte («difficile») e lieve («facile»). Questi aggettivi hanno due possibili costruzioni:
(a) una impersonale (➔ impersonali, verbi), in cui l’aggettivo regge un infinito con un complemento nominale (è facile leggere questo libro);
(b) una in cui questo complemento nominale semantico diventa soggetto grammaticale della predicazione aggettivale (questo libro è facile da leggere). La preposizione può essere da (da leggere) o a (a leggere); l’infinito può comparire nella forma attiva (leggere) o passiva (leggersi):
(26) Il disegno era piú facile da concepirsi che da eseguirsi (Manzoni, I promessi sposi, p. 16)
(27) l’unica teoria sulla quale era fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto, pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita (Manzoni, Fermo e Lucia I, 1, p. 15)
(28) Il mal di mare non è guari né piacevole a vedersi né facile a sopportare (Ippolito Nievo, Le Confessioni d’un Italiano 23, 10, p. 1052)
(29) Ne’ suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana XI, p. 263)
La lingua letteraria conosce un’ulteriore costruzione, in cui la proposizione infinita compare nella forma passiva perifrastica:
(30) Era là, vestita di quella sua segreta anima tenera, così facile a essere uccisa, a esser distrutta, immolata senza sangue (Gabriele D’Annunzio, Il fuoco II, p. 126)
Nella lingua antica (come nella maggior parte degli usi attuali), la costruzione più comune è quella in cui l’infinito compare nella forma attiva retta da a:
(31) e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni [= «poiché l’ultima parte è facile da capire, non mi preoccupo di fare più distinzioni»] (Dante, Vita nuova XIX, 45)
In questo contesto, l’infinito romanzo si è sostituito al supino latino: facile dictu «(una cosa) facile da dir(si)». La lingua odierna scegliendo tra la forma attiva (dire) e la forma passiva (dirsi) dell’infinito (anche se preferisce la prima, specie nei registri informali), senza un evidente cambiamento di significato, può riflettere la natura mediale del supino latino.
I casi in cui l’infinito è retto da un nome si suddividono in due categorie principali, per ragioni grammaticali e semantiche. In particolare, la frase infinitiva o funge da complemento semantico del sostantivo o si rapporta al nome in modo avverbiale. Nel primo caso, il nome reggente tende a essere astratto, nel secondo, invece, concreto (Skytte 1983).
Il nome astratto regge una frase infinitiva per lo più introdotta da di, talvolta anche da a:
(32) … ma l’idea di non picchiare a quella porta e di andarsene senza veder Paska non gli passava neppure nella mente (Deledda, Il vecchio della montagna, p. 109)
(33) E si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo a uscire (Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Prefazione, p. 11)
(34) Ti ho dimostrato che siamo in condizioni di poterci sposare (Pratolini, Cronache di poveri amanti, p. 45)
In questo contesto, l’infinito romanzo si sostituisce al gerundio del latino classico: ars amandi («l’arte di amare»). Fanno parte di questa categoria anche i nomi astratti deverbali (➔ deverbali, nomi), quali intenzione, desiderio e timore:
(35) Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo (Primo Levi, La tregua, p. 9)
(36) Ma sospirò e ancora non si mosse, vinto da una indistinta tristezza, da un doloroso desiderio di non più tornare all’ovile (Deledda, Il vecchio della montagna, p. 98)
(37) Viviamo in tempi in cui i sapienti di cose divine non hanno timore a proclamare che il papa sia un eretico (Eco, Il nome della rosa, p. 300)
Risulta chiaro come, in questi casi, l’infinito si rapporti al nome reggente come il complemento diretto al verbo corrispondente: il desiderio di non tornare («desiderano non tornare»).
Il nome concreto, invece, regge una frase infinitiva introdotta da per o da. L’infinito tende ad avere interpretazione finale o strumentale; specifica quindi il fine o l’uso:
(38) Compriamo tutto il carico, ma danari per pagare non ne abbiamo (Calvino, Fiabe italiane I, p. 13)
(39) E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione? (Eco, Il nome della rosa, p. 289)
(40) ... un lupo sperso e digiuno che cerca in un covo estraneo qualche materia da sfamarsi (Morante, La storia, p. 65)
Tra l’infinito e il nome reggente vige un rapporto avverbiale: l’infinito è parafrasabile con una frase relativa: danari per pagare «danari con cui si paga».
L’infinito retto da preposizione ha normalmente funzione avverbiale (➔ sintassi; ➔ subordinate, frasi). Tra le preposizioni che reggono l’infinito ci sono le temporali dopo, prima e l’esclusiva senza:
(41) Dopo essersi fatta aspettare più di una settimana, arrivò finalmente la risposta della signorina (Federico De Roberto, I Vicerè, p. 595)
(42) … e indugiò, fra dubbi e malesseri, parecchie settimane, prima di riconoscere questo scandalo supremo impensato (Morante, La storia, p. 85)
(43) Studia tanto, – disse, senza decidersi ad aprire (Dacia Maraini, L’età del malessere, p. 9)
Le preposizioni con ed in reggono l’infinito sostantivato nell’italiano moderno (44-47), mentre nelle fasi antiche della lingua era comune anche l’infinito non sostantivato (48-49):
(44) Micòl esordiva con lo scusarsi: era partita all’improvviso (Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 478)
(45) Però, col progredire della guerra, questi suoi beati convegni dovevano ridursi a un ricordo (Morante, La storia, p. 60)
(46) … si acuiva nel traversare i saloni addormentati, nello scansare alla luce traballante i tavoli con le carte da gioco (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 62)
(47) … avevano una rabbia fanatica nel picchiarsi (Calvino, I racconti, p. 31)
(48) … li quali, massime ne’ tempi avversi, li possono tòrre con facilità grande lo stato, o con farli contro, o con non lo obbedire (Niccolò Machiavelli, Il Principe IX, p. 50)
(49) … ed alzava in ciò dire la prepotente sua mano (Vittorio Alfieri, Vita II, iv, p. 35)
La preposizione a introduce comunemente l’infinito dopo un’espressione predicativa reggente. Quando l’infinito è retto dalla sola preposizione, l’interpretazione può essere finale (50), condizionale (51), concessiva (52), temporale (53):
(50) Esso sorrideva, poi non più. Alzò un braccio contro il mio petto ad allontanarmi [= «per allontanarmi»] e il garofano fu strappato dall’occhiello (Elio Vittorini, Il garofano rosso, p. 6)
(51) Con l’impronta del suo corpo, come una fossa al centro del letto, e, a guardare bene [= «se si guardava bene»], l’impronta più leggera di una schiena femminile e qualche pelo riccio (Maraini, L’età del malessere, p. 27)
(52) Anche a poter usare la bicicletta [= «anche se si poteva usare la bicicletta»] – avvertì –, tre o quattro minuti, soltanto per arrivare al ‘palazzo’, bisognava sempre metterceli (Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 413)
(53) Un fondo marino è bello la prima volta, quando lo si scopre: ma il più bello, come in ogni cosa, viene dopo, a impararlo tutto [= «quando lo si impara»] (Calvino, I racconti, p. 6)
Inoltre, l’infinito retto da a, svolge la funzione di relativa (➔ relative, frasi) in una frase scissa (➔ scisse, frasi):
(54) dovrei essere io a portarle il latte (Pratolini, Cronache di poveri amanti, p. 44)
(55) Ai piedi dello sperone sentí scoccare le dieci, e queste erano certamente i campanili di Canelli a batterle (Beppe Fenoglio, Una questione privata, p. 100)
L’infinito introdotto dalla preposizione da, oltre ai contesti definiti nel § 3, compare nella costruzione consecutiva (➔ consecutive, frasi):
(56) Erano passaggi, invero, così rapidi, da sfuggire a tutti i presenti (Morante, La storia, p. 31)
In (56), l’infinito determina un predicato aggettivale (rapidi) modificato da un quantificatore (così). Il quantificatore (ad es., abbastanza, così, tale, talmente) resta facilmente implicito:
(57) E gli occhi […] nel cui fondo c’è una luce ora vivida da non sopportarne il bagliore, ora spenta da immaginarla estinta per sempre (Pratolini, Cronache di poveri amanti, p. 26)
In (57), è facile supplire il quantificatore: così vivida da … talmente spenta da … La frase infinitiva può dipendere non solo da un aggettivo ma anche da un predicato participiale o da un nome:
(58) Ti ho sempre detto di aspettare che Adele sia cresciuta abbastanza da prendere il mio posto (Pratolini, Cronache di poveri amanti, p. 46)
(59) Ecco che allo sguardo di Zeffirino si facevano incontro paesaggi da lasciarcisi smarrire (Calvino, I racconti, p. 10)
L’infinito retto da per assume soprattutto interpretazione finale o causale:
(60) Partiva con gli stessi panni di casa per arrivar più presto al capezzale della madre morta! (De Roberto, I Vicerè, p. 232)
(61) egli s’informò della disgrazia e si scusò per non esser venuto più presto (De Roberto, I Vicerè, p. 268)
Inoltre, per può introdurre l’infinito topicalizzato (➔ focalizzazioni) che anticipa il predicato della frase seguente:
(62) Per prenderla, l’ho presa (Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 403)
Tuttavia, si noti come tale infinito topicalizzato possa anche stare senza preposizione introduttiva: viaggia spesso (Skytte 1983: 429-430).
Si ammette, inoltre, anche il caso dell’interpretazione concessiva, non più adoperata, ma frequente nella lingua rinascimentale e di epoche successive:
(63) Costoro soli [i principati ecclesiastici] hanno stati, e non li defendano; sudditi, e non li governano: e li stati, per essere indifesi, non sono loro tolti [= «gli stati, pur essendo indifesi, non vengono occupati»]; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano [= «i sudditi, benché non siano governati, non se ne curano»], né pensano né possono alienarsi da loro (Machiavelli, Il Principe XI, p. 54)
Appartiene a questa categoria la costruzione concessiva nell’italiano contemporaneo (➔ concessione, espressione della; ➔ concessive, frasi), che però fa implicitamente riferimento a una gradazione sia della proposizione infinita, sia della predicazione principale: per essere così giovani, sono maturi «considerando la loro età (relativamente) bassa, sono (insolitamente) maturi».
Il soggetto implicito della frase infinitiva retta da preposizione rinvia al tema del discorso (➔ tematica, struttura), normalmente individuato nel soggetto della frase principale. Tuttavia, in diversi casi tale soggetto non coincide con il soggetto grammaticale della principale. Ciò si verifica, per es., quando l’infinito dipende da una frase passiva e rimanda al complemento d’agente):
(64) C’era ancora il bastimento attraverso al porto, affondato durante la guerra dai tedeschi per ostruirlo (Calvino, I racconti, p. 28)
ma anche nei casi in cui il soggetto si identifica con un protagonista del discorso esterno alla frase (65), oppure si interpreta in senso generico (66):
(65) Le rimanenti abluzioni per rinfrescarsi le mani la faccia la nuca furono piú rapide (Ignazio Silone, Il segreto di Luca, p. 18)
(66) questo terrazzino in mezzo aveva un buco, per vedere la gente che passava in strada (Calvino, Fiabe italiane I, p. 29)
Infine, la proposizione infinitiva può avere il soggetto esplicitamente espresso, costruzione più comune nella lingua antica e letteraria:
(67) Perché chi vince, non vuole amici sospetti e che non lo aiutino nelle avversità; chi perde, non ti riceve, per non avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna sua (Machiavelli, Il Principe XXI, p. 111)
(68) … perché io tengo viva la sua verità, e ancora per esser io non pur Pietro ma un miracoloso mostro de gli uomini (Pietro Aretino, Lettere 18, p. 141)
Tale soggetto esplicito si trova di regola dopo l’infinito e ha solo funzione di soggetto (a differenza di quel che accade in altre lingue romanze; ➔ lingue romanze e italiano). Si hanno, infine, locuzioni fisse formate da un’espressione avverbiale + preposizione, tra cui fino a, invece di, pur di:
(69) Via via che il viaggio procedeva verso il sud, l’umore triste, in lui, prevalse su ogni altro istinto, fino a renderlo cieco ai paesaggi (Morante, La storia, p. 18)
(70) invece di aver paura, mi sentii preso dall’esaltazione (Corti, L’ora di tutti, p. 49)
(71) I soldati pur di salvarsi dalle strade erano entrati nelle case sforzando il barricamento e si erano nascosti sotto i letti e nelle madie (Fenoglio, Una questione privata, p. 84)
Tra questi avverbiali, alcuni reggono in alternativa il complementatore seguito da infinito. L’alternanza tra la forma preposizionale e quella completiva non corrisponde di norma a una differenza di interpretazione (Skytte 1983: 443-452):
(72) Oltre che abbandonare il Mezzogiorno a se stesso, il decreto produce effetti sul PIL pari a un decimo di punto (Senato della Repubblica, Archivio dei comunicati, 2009, n. 132: www.senato.it/lavori/21415/152713/164526/164255/sintesiseduta.htm)
(73) Oltre ad abbandonare il Mezzogiorno a se stesso – hanno affermato gli intervenuti –, il decreto legge n. 185, produce effetti sul PIL pari ad un decimo di punto percentuale (Rassegna.it 02/02/2009: www.rassegna.it/articoli/2009/02/02/42208/le-imprese-agricole-criticano-il-testo-unico).
L’infinito autonomo, non dipendente cioè da un verbo finito ma usato in forma assoluta, può svolgere diverse funzioni. In particolare, può esprimere:
(a) un’esclamazione (➔ frasi nucleari):
(74) E dire che Elisa è così brutta (Maraini, L’età del malessere, p. 18)
(b) un’imperativo, specie negativo, meno spesso in senso positivo:
(75) Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo (Collodi, Le avventure di Pinocchio, p. 48)
(76) Copiare tre volte sul quaderno di bella le seguenti parole del Duce: Levate in alto, o legionari (Morante, La storia, p. 44)
(c) un’interrogativa:
(77) Ma come raggiungere il campanello dell’ingresso? (Silone, Il segreto di Luca, p. 19)
Inoltre, l’infinito autonomo può esprimere un evento in una successione narrativa. In tal caso, è introdotto dalla preposizione a o ecco:
(78) E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre (Collodi, Le avventure di Pinocchio, p. 80)
(79) Ma ecco, invece, a questo punto, la nostra macchina rallentare più del necessario, e il padre di Giannina mettere fuori il braccio dal finestrino (Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, p. 340)
La frase infinitiva introdotta da a modifica un nome, come a correre che segue gli assassini in (78), mentre quella introdotta da ecco può anche stare senza soggetto esplicito: ecco nevicare tutta la notte.
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