INFLAZIONE E DEFLAZIONE.
– Come si misurano inflazione e deflazione. L’inflazione e l’aumento dei costi. La deflazione e la diminuzione dei costi
Come si misurano inflazione e deflazione. – I. e d., definibili rispettivamente come l’aumento e la diminuzione del livello generale dei prezzi in un dato periodo di tempo, sono importanti indicatori per la descrizione dello stato dell’eco nomia di un Paese e, come tali, sono continuamente monitorati dalle istituzioni economiche e monetarie di riferimen to. Intrinsecamente i. e d. non possono essere considerate né positive né negative, ma ciò dipende dal contesto nel quale si manifestano, essendo strettamente interrelate agli altri fattori determinanti le condizioni dell’economia. Storicamente in Italia è stato avvertito per molto tempo più problematico il fenomeno dell’inflazione, ma, nel corso degli ultimi anni, è emerso il pericolo della deflazione, come conseguenza della recessione avviatasi a partire dalla crisi economica del 2007-08. Per capire il senso di quanto affermato bisogna però riallacciarsi alle definizioni.
L’inflazione rappresenta un aumento prolungato dei prezzi di beni e servizi in circolazione in un determinato Paese o area territoriale in un certo periodo di tempo. Per misurarla viene utilizzato dagli uffici pubblici di statistica un indice dei prezzi al consumo, IPC (statisticamente è un indice di Laspeyres a base fissa), che misura le variazioni nel tempo dei prezzi di un insieme di beni e servizi, chiamato paniere, rappresentativo degli effettivi consumi delle famiglie in uno specifico anno.
In Italia esistono tre diversi indici dei prezzi al consumo. Il primo è l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale (NIC) e fa riferimento al Paese come a un grande insieme di consumatori in cui esistono abitudini diverse. È calcolato con riferimento all’intera popolazione presente sul territorio nazionale e a tutti i beni e servizi acquistati dalle famiglie aventi un effettivo prezzo di mercato; misura quindi l’inflazione a livello dell’intero sistema economico e rappresenta pertanto uno dei parametri di riferimento per la fissazione del tasso d’inflazione programmata, definito nell’ambito della strategia di politica monetaria dell’inflation targeting, attraverso cui la Banca centrale fissa un livello (o un intervallo di valori) del tasso di inflazione obiettivo che si impegna a conseguire attraverso l’uso degli strumenti a sua disposizione (tassi d’interesse di mercato monetario, liquidità immessa in circolazione ecc.). Il secondo è l’indice dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (FOI), il cui capofamiglia è un lavoratore dipendente (a esclusione di quelli facenti parte del settore agricolo); è basato sul medesimo paniere di beni e servizi del NIC, e viene utilizzato come base per l’adeguamento degli affitti o degli assegni di mantenimento. Il terzo, infine, è l’indice dei prezzi al consumo armonizzati (IPCA), introdotto nel 1997 allo scopo di assicurare una misura dell’inflazione comparabile e armonizzata per i Paesi membri dell’Unione Europea e utilizzato come indicatore della convergenza dei prezzi delle economie dei Paesi dell’UE. Il cosiddetto paniere di consumo medio è periodicamente aggiornato sulla base delle abitudini della popolazione.
In riferimento al NIC e al FOI, il paniere utilizzato nel 2015 contiene 1441 prodotti (contro i 1447 del 2014), aggregati in 618 posizioni rappresentative (614 nel 2014). Quello usato invece per il calcolo dell’IPCA si compone di 1457 prodotti (1463 nel 2014), aggregati in 623 posizioni rappresentative (619 nel 2014). Queste tipologie di misure consentono quindi di valutare i. e d. e i loro effetti sul sistema economico.
L’inflazione e l’aumento dei costi. – In riferimento agli effetti dell’aumento dei prezzi, è possibile osservare che esistono forme di inflazione dannose e altre che possono esse re considerate positivamente. Con riferimento alle cause, si distinguono l’inflazione da costi, quando l’incremento dei prezzi da parte delle imprese è dovuto agli aumenti dei costi di produzione (per es., salari, energia, materie prime importate), e l’inflazione da domanda, quando invece l’aumento dei prezzi è dovuto a un eccesso di domanda aggregata, dovuto a un incremento della quantità di moneta rispetto all’offerta o prodotto potenziale (output gap). I prezzi possono anche salire se migliora la qualità dei prodotti messi in circolazione. L’inflazione elevata provoca una perdita di valore della moneta e del suo potere d’acquisto. Ne saranno quindi svantaggiati i creditori a vantaggio dei debitori e i detentori di redditi fissi, il cui potere d’acquisto si riduce. L’adeguamento periodico di redditi fissi e pensioni ricalcolati, ossia indicizzati, in base all’andamento dei prezzi possono contribuire a innescare una spirale inflazionistica. L’aumento dei salari può spingere le imprese a riversare l’aggravio dei costi sul livello dei prezzi, generando nuova inflazione e imponendo un ulteriore rialzo dei redditi indicizzati. In questo modo il livello dei prezzi sfugge al controllo delle autorità economiche, e il Paese rischia di entrare in situazioni di inflazione galoppante (con tassi superiori al 5%) o addirittura di iperinflazione (superiori al 20%). Inoltre l’inflazione accresce l’incertezza degli agenti nel distinguere tra mutamenti nei prezzi relativi e andamento del livello generale dei prezzi, con conseguenze negative sulle scelte ottimali di consumo, investimento e risparmio e ridotta funzionalità della moneta come riserva di valore. In un’economia aperta, l’aumento dei prezzi, se non varia il tasso di cambio, rende più costosi in termini relativi beni e servizi prodotti nel Paese rispetto a quelli esteri, favorendo le importazioni e scoraggiando le esportazioni. La svalutazione del cambio, per riguadagnare competitività di prezzo, può risultare inefficace se l’incremento dei prezzi dei beni e servizi importati (la cosiddetta inflazione importata) si traduce in un’ulteriore crescita dei prezzi di dimensione tale da annullare il beneficio sperato. Occorre poi distinguere tra inflazione attesa e inattesa. Nel primo caso gli operatori economici non sono in generale in grado di proteggersi dalla perdita di potere d’acquisto, poiché ciò dipende dal grado di adattamento all’inflazione da parte delle istituzioni. Nel secondo caso si hanno costi maggiori, per gli effetti poco trasparenti di redistribuzione, da creditori a debitori (tra cui lo Stato).
La deflazione e la diminuzione dei costi. – Simmetricamente, la deflazione rappresenta una riduzione del livello dei prezzi, associata di norma a una flessione accentuata dell’attività economica e dell’occupazione, e non va confusa con la disinflazione, che è una politica economica adottata per contenere l’inflazione (senza che ciò debba necessariamente tradursi in una diminuzione dei prezzi). La deflazione può avere origini diverse: può derivare da una riduzione dei costi di produzione, dall’adozione di metodi di produzione innovativi o da sistemi organizzativi migliori, oppure dal calo dei prezzi delle materie prime. Può verificarsi anche quando una caduta della domanda aggregata crea pressione per un calo dei prezzi e dei salari, poiché i produttori con un eccesso di capacità produttiva cercano di sollecitare la domanda con prezzi più bassi. La deflazione può apparire positiva dal punto di vista dell’acquirente che vede rafforzarsi il proprio potere d’acquisto, ma penalizza i debitori in quanto rende più oneroso il debito, incluso quello dello Stato (con il rischio di default). Il debito causa insolvenze diffuse tra le imprese, con ripercussioni negative sul capitale delle banche creditrici, secondo il meccanismo di crisi finanziaria della debt deflation proposto nel 1933 da Irving Fisher. Ciò rallenta i prestiti delle banche e, di conseguenza, l’attività economica. La domanda si riduce e vengono rinviate le scelte di consumo soprattutto per i beni superflui e durevoli; le imprese in risposta al calo della domanda rallentano ulteriormente la produzione, si riduce l’occupazione e si innesca la spirale deflazionistica. La deflazione è indicata dal declino della massa monetaria in circolazione in un sistema e dal calo della velocità di circolazione di tale massa che rappresenta la variabile con cui la Banca centrale europea per mandato fissa l’obiettivo di un tasso d’inflazione attorno al 2%.
Uno dei principali problemi durante la crisi apertasi dal 2007-08 è stato proprio quello della contrazione della moneta in circolazione nell’eurozona che si è tradotta in una drastica diminuzione dei prestiti ai privati e della loro capacità di spesa e di investimento. Con la recessione innescata dalla crisi, vari Paesi sono stati colpiti da un processo deflazionistico. Nel mese di maggio 2009 negli Stati Uniti è stata registrata una contrazione del livello generale dei prezzi di −1,3%. Nel mese di luglio 2009 la stessa Germania, interrompendo un ciclo che durava dal 1987, è entrata in deflazione e i prezzi al consumo hanno registrato un calo pari a −0,6% su base annua. Anche l’Italia dal mese di agosto 2014 ha registrato un calo dei prezzi al consumo (−0,6% su base annua), il livello più basso dal 1959. L’origine del calo dei prezzi nel nostro Paese è da individuare soprattutto nella contrazione del livello dei prezzi dei beni energetici e dei servizi (carburanti e trasporti) che si è riversato sul calo dei prezzi anche dei beni essenziali, alimentari e prodotti per la cura della casa e della persona (0,2% su base annua). Il rischio più grave della deflazione è il suo impatto sul debito pubblico: si calcola che un calo generalizzato dei prezzi dell’1% in Italia potrebbe aumentare il rapporto tra debito e PIL dell’1,3% con ripercussioni negative sugli interventi di stimolo dell’economia. La deflazione è molto più difficile dell’inflazione da gestire in termini di politiche. Per contrastare i rischi di recessione e di deflazione, gli interventi di politica monetaria devono orientarsi a stimolare la domanda aggregata attraverso riduzioni dei tassi d’interesse reali, se i tassi d’interesse nominali hanno già raggiunto livelli molto bassi. L’acquisto di titoli sul mercato e l’aumento quantitativo della moneta in circolazione consentono di ridurre il livello dei tassi d’interesse a lungo termine per stimolare gli investimenti, ma tale reazione può non essere automatica. Dall’adozione della moneta comune europea (prima nel gennaio 1999, poi definitivamente nel gennaio 2002), che ha comunque consentito di contenere le turbolenze e l’instabilità monetarie nell’eurozona come risposta alla crisi, al paventato rischio di inflazione si è sostituito il rischio di deflazione che ha richiesto interventi consistenti della Banca centrale europea.