Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’equilibrio non è una caratteristica insita nelle economie monetarie di produzione, ma una condizione alla quale esse possono tendere grazie all’intervento consapevole e intenzionale delle istituzioni che le governano: in primis la banca centrale e il governo. Per capire come questa affermazione sia in grado di descrivere la realtà delle economie contemporanee bisogna analizzare il rapporto tra mercati e Stati nazionali in Europa e negli Stati Uniti.
Equilibrio e crescita nell’economia monetaria di produzione
Analizzando la storia economica del XX secolo ci si accorge che la maggior parte delle transazioni economiche avvengono all’interno del perimetro amministrativo dello Stato, cioè gli scambi realizzati sul mercato domestico dagli attori economici nazionali superano le esportazioni e le importazioni, ossia i movimenti di capitale in entrata e in uscita da uno Stato.
L’insieme delle merci e dei servizi prodotti e scambiati sul mercato domestico viene indicato nella letteratura economica come prodotto interno lordo, o più brevemente PIL, e rappresenta il tipico indicatore sintetico della forza economica di una nazione.
L’esigenza di mantenere l’equilibrio delle economie monetarie nasce dal venire meno, in alcune situazioni, della capacità della moneta di acquistare beni e servizi nel tempo a prezzi stabili: e, dunque, nelle medesime quantità reali.
La moneta può perdere parte del suo valore intrinseco se si manifesta una continuata e intensa crescita dei prezzi assoluti delle merci e dei servizi.
Questa crescita si chiama inflazione. Se in presenza di inflazione, non viene adeguata la dimensione bancaria e legale della moneta alla dimensione delle merci esistenti, si realizza una deflazione della domanda aggregata (ossia della spesa totale effettuata in un sistema economico): avviene cioè che la moneta esistente, essendo cresciuti i prezzi, non basta per assorbire negli scambi il valore delle merci esistenti e che quindi una parte di quelle merci non potrà essere venduta e gli operatori smetteranno di produrle.
Dalla deflazione della domanda nasce di conseguenza un ristagno della produzione che potrebbe degenerare ulteriormente in un fenomeno di recessione ossia una diminuzione dei livelli stessi della produzione. Gli impianti delle imprese esistenti, a questo punto, apparirebbero ridonanti perché non utilizzati a regime, mentre il numero degli occupati che ne gestisce il funzionamento verrebbe ridotto.
In questa situazione, le imprese non progettano nuovi investimenti, aumenta il numero dei disoccupati e cade ulteriormente la domanda di beni di consumo. Le imprese che producono beni strumentali, invece, ridurranno i propri livelli produttivi perché cade la domanda di investimenti; anche le imprese che producono beni di consumo faranno la medesima scelta e, di nuovo in una sequenza recessiva, questa contrazione determinerà una diminuizione ulteriore della domanda di investimenti.
La spirale viziosa può essere riletta anche in termini virtuosi.
L’espansione degli investimenti aumenta la domanda di beni strumentali e genera nuovi posti di lavoro. Con l’aumento dell’occupazione cresce, in prospettiva, la massa di salari e stipendi. Di conseguenza le imprese producono anche una maggiore quantità di beni di consumo e l’economia cresce.
Compito della politica economica e delle sue istituzioni è garantire la stabilità monetaria e guidare la dinamica della produzione e della domanda aggregata per ottenere uno sviluppo equilibrato e sostenibile.
Resta da capire come e perché si possa avviare una stagione di crescita generalizzata dei prezzi che, ferma restando la liquidità disponibile del sistema, potrebbe tradursi in una deflazione.
Inflazione e deflazione, a dispetto della loro apparente simmetria sotto il profilo linguistico, sono due fenomeni abbastanza diversi.
Se la parola inflazione descrive un fenomeno di crescita, e viene usata per indicare una dilatazione dei prezzi assoluti che non corrisponde a una effettiva dilatazione dei valori economici delle merci, con deflazione non si indica una caduta dei prezzi assoluti, ma una diminuzione delle quantità di merci richieste.
L’inflazione determina uno svuotamento del potere di acquisto della moneta, il medesimo che potrebbe essere determinato da una politica fiscale troppo espansiva, cioè da un volume di spesa pubblica che eccede di molto le dimensioni del gettito fiscale, o da una dilatazione della base monetaria, ossia un eccesso di banconote immesse nel sistema economico dalla banca centrale, rispetto alla capacità di produrre beni e servizi reali.
Le tre cause dell’inflazione
Ci sono tre ragioni che possono innescare una crescita dei prezzi assoluti.
La prima di queste ragioni è una possibile inflazione da costi. Tale situazione si verifica nel caso in cui il costo del lavoro, o quello dei capitali monetari, il salario nominale e il tasso di interesse aumentano più rapidamente di quanto avvenga per la produttività del lavoro o per il rendimento degli investimenti in macchinari e nuove tecnologie. Si altera nel tempo il rapporto, che dovrebbe rimanere costante, tra il valore che si può acquistare con la quantità di reddito monetario annuo di un lavoratore (il salario) e il valore delle merci e dei servizi che quel lavoratore ha contribuito a produrre con il suo lavoro. Per i lavoratori aumentano la spesa per consumi, e la possibilità di comprare titoli con il proprio risparmio ma, per le imprese, diminuisce la possibilità di vendere con successo i prodotti sul mercato. Si crea uno squilibrio cioè tra l’offerta aggregata, ossia la quantità di beni e servizi che si possono vendere sul mercato, e la domanda aggregata: i costi aumentano più rapidamente della produttività e si contrae il profitto.
Una seconda causa possibile dell’inflazione è, come già accennato, un eccesso di domanda generato da un eccesso di spesa pubblica o da un eccesso di liquidità nel sistema.
Il primo è la conseguenza di una cattiva politica fiscale mentre il secondo è l’effetto di una politica monetaria troppo espansiva da parte della banca centrale. In entrambi i casi errori di politica monetaria determinano una pressione eccessiva della domanda rispetto a un’offerta anelastica. L’inflazione da costi potrebbe essere evitata con una ragionevole politica di redditi concordata tra associazioni sindacali e organizzazioni delle imprese.
C’è una terza causa possibile, infine, nello scatenarsi dell’inflazione: l’esistenza di un diverso grado di competizione sui vari mercati di cui si compone il sistema economico.
Se in alcuni mercati non esistono condizioni di competizione, le imprese percepiranno profitti di monopolio perché potranno praticare prezzi più alti del valore dei beni e dei servizi offerti sul mercato.
A sua volta questi prezzi troppo alti diventano i costi per altre imprese, che diventano meno competitive e riducono la propria presenza sui mercati. Se si considera un’economia aperta al commercio internazionale nella quale il mercato domestico sia poco competitivo, allora appare evidente che i costi sopportati dalle imprese che esportano sul mercato internazionale ne possono compromettere le vendite e generare una situazione di deflazione e di depressione per assenza di domanda. Viceversa, se il mercato internazionale delle risorse energetiche e delle materie prime è dominato da imprese monopolistiche, l’incremento dei prezzi praticato da quelle imprese impedisce alle imprese domestiche di poter competere sui mercati internazionali determinando una stagione di deflazione e di depressione: la caduta delle esportazioni riduce la dimensione della domanda aggregata rispetto a quella dell’offerta aggregata potenziale.
Mercati reali e mercati finanziari
Per concludere possiamo immaginare un’economia monetaria di produzione come un sistema di mercati comunicanti tra loro e concatenati. Esistono mercati reali (il mercato dei beni e dei servizi, il mercato del lavoro e quello delle materie prime o dei servizi di pubblica utilità) e mercati finanziari.
Nei mercati reali si scambia moneta con merci e servizi; nei mercati finanziari si scambia moneta con titoli emessi dagli intermediari finanziari e, a volte, dai singoli attori economici (basti pensare alle cambiali rilasciate dal cliente al venditore se non dispone dei contanti necessari). Nell’ambito di un sistema economico nazionale la domanda e l’offerta di beni, insieme con gli scambi tra chi cede moneta per avere titoli e chi cede titoli per avere moneta, determinano le dimensioni del tasso di sconto praticato dalla banca centrale, i prezzi dei singoli beni e servizi, i salari e le dimensioni del prodotto interno lordo.
I mercati finanziari, invece, determinano l’andamento dei titoli, il valore da essi assunto durante la loro esistenza, la dimensione dei tassi di rendimento per ogni titolo e le dimensioni della ricchezza. Alcune variabili generano salti e discontinuità tra i vari possibili equilibri determinati da questi due insiemi di mercati diversi. Una di queste è costituita dalle conoscenze tecnologiche capaci di modificare non solo la produttività degli investimenti ma anche dei macchinari che offrono nuove merci e servizi.
Anche l’atteggiamento generale nei confronti del futuro condiziona le scelte dei singoli investitori che sono chiamati a scegliere tra consumo presente e consumo futuro, ossia risparmio. Infatti quando il futuro e il destino degli investimenti appaiono troppo incerti nella loro configurazione, il risparmio rimane in forma monetaria e non alimenta la crescita del mercato finanziario; quando invece si genera uno squilibrio radicale tra la dimensione della liquidità e quella delle merci, si mette in moto l’inflazione che induce una successiva deflazione della domanda. Anche una caduta del valore dei titoli negoziati sui mercati finanziari, può determinare lo svuotamento del valore dei patrimoni delle famiglie e comprimere la loro spesa per consumi; al contrario una lievitazione del valore dei patrimoni, ad esempio un incremento dei prezzi degli immobili residenziali, può generare un “effetto ricchezza” nella percezione delle famiglie che le induce a indebitarsi per incrementare la spesa per consumi privati. La letteratura economica definisce questa catena di eventi come effetto Pigou, dal nome di Arthur Cecil Pigou (1877-1959), brillante allievo di Marshall, nella Cambridge di primo Novecento, insieme a Keynes.
Una depressione nel corso delle azioni, o nei prezzi degli immobili, apre una stagione di deflazione della domanda che può generare una recessione, come avvenne nella grande crisi economica degli anni Trenta. Lo stesso sarebbe potuto avvenire nel passaggio tra il XX e il XXI secolo, se il Governo e la Federal Reserve non avessero fronteggiato la crisi dei mercati finanziari americani con politiche fiscali e monetarie di segno espansivo innalzando il livello della spesa pubblica e quella del deficit del settore pubblico, e tenendo contemporaneamente molto bassi i tassi di interesse.
L’integrazione economica tra i vari mercati del mondo e il parallelo aumento del numero degli Stati nazionali hanno ridisegnato la relazione tra Stati e mercati, mentre le politiche economiche ristrette ai territori nazionali sono state sostituite da agenzie e accordi internazionali tra gruppi di Paesi.
Nel mondo contemporaneo esistono due grandi aree “regionali”:
• l’area dell’euro, che è il risultato di un accordo intenzionale tra gli Stati per dare vita a una nuova moneta e ad alcune istituzioni comuni;
• l’area del dollaro, che si identifica con l’insieme dei mercati in cui il dollaro americano viene adottato da banche e imprese come valuta di riferimento.
La prima area rappresenta un grande esperimento per creare istituzioni condivise; la seconda è una grande area di libero scambio, creatasi grazie al collegamento tra mercati diversi e lontani, anche grazie agli sviluppi della tecnologia delle comunicazioni.