inflazione
Strumenti di misura, costi e benefici dell’inflazione
Gli indici (di Laspeyres, a base fissa) dei prezzi al consumo comunemente utilizzati dagli istituti di statistica (ISTAT, in Italia; Eurostat per l’IPCA (➔), nell’Unione Europea) per misurare mensilmente l’inflazione al consumo, tendono a sovrastimare l’inflazione effettiva. I pesi costanti per le categorie che compongono il paniere di consumo medio non tengono conto della sostituzione che i consumatori fanno a favore dei beni il cui prezzo relativo aumenta rispetto ad altri beni simili. Inoltre, è difficile per gli statistici distinguere tra inflazione generale e aumenti di prezzi giustificati da miglioramenti della qualità. La percezione dell’inflazione di determinate categorie di consumatori (pensionati, soggetti ad alto o basso reddito ecc.), dati i loro panieri di spesa, può differire da quella generale, che si basa sul paniere di spesa del consumatore medio. Al fine di meglio cogliere situazioni di disagio economico-sociale, si costruiscono dunque anche indici dell’inflazione al consumo per tipo di consumatore.
In alcuni Paesi, l’IPC viene depurato dall’effetto una tantum di provvedimenti di politica economica (come le variazioni delle aliquote dell’IVA) e dell’andamento dei prezzi, con ampie fluttuazioni temporanee, di alcune categorie di beni (prodotti agricoli, petrolio, altre materie prime importate). L’obiettivo è una misura dell’inflazione meno erratica (da qui il termine core inflation, ovvero inflazione di fondo), quindi più utile per guidare le azioni delle banche centrali, che hanno per compito (mandato) di mantenere la stabilità monetaria (➔). Le banche centrali decidono sui tassi d’interesse con riferimento a stime dell’inflazione attesa a distanza di almeno un anno. È questo il ritardo minimo che gli studi indicano per gli effetti sull’inflazione della politica monetaria.
Una strategia di politica monetaria adottata da molti Stati a partire dal 1990 è l’inflation targeting, che specifica il mandato sulla stabilità monetaria sotto forma di un livello (o di un intervallo di valori) del tasso di inflazione obiettivo che la banca centrale si impegna a ottenere e di cui si rende direttamente responsabile di fronte alle autorità politiche e all’opinione pubblica. Alla banca centrale, quasi sempre istituzionalmente indipendente dal governo, sono attribuiti larghi margini di libertà nell’uso degli strumenti a sua disposizione, a partire dai tassi d’interesse di mercato monetario.
Con riferimento alle cause dell’inflazione, si distinguono l’inflazione da costi, quando l’aumento dei prezzi da parte delle imprese è dovuto agli aumenti dei costi di produzione (per es. salari, energia, materie prime importate) e l’inflazione da domanda, quando l’aumento dei prezzi è dovuto a un eccesso di domanda aggregata, spesso reso possibile da una crescita della moneta, rispetto all’offerta o prodotto potenziale (discrepanza nota anche come output gap).
Un’inflazione più alta si associa a una maggiore variabilità, il che accresce l’incertezza degli agenti nel distinguere tra mutamenti nei prezzi relativi e andamento del livello generale dei prezzi, con conseguenze negative sulle scelte ottimali di consumo, investimento e risparmio, spreco di risorse, ridotta funzionalità della moneta come riserva di valore se il potere d’acquisto diminuisce nel tempo. In un’economia aperta, l’aumento dei prezzi, se non varia il tasso di cambio, rende più costosi in termini relativi beni e servizi prodotti nel Paese rispetto a quelli esteri, favorendo le importazioni e scoraggiando le esportazioni. La svalutazione del cambio, per riguadagnare competitività di prezzo, può non essere efficace se l’incremento dei prezzi dei beni e servizi importati (cosiddetta inflazione importata) si traduce in un’ulteriore crescita dei prezzi, di dimensione tale da annullare il beneficio sperato. Occorre poi distinguere tra inflazione attesa e inattesa. Anche nel caso di inflazione attesa, gli operatori economici non sono in generale in grado di proteggersi dalla perdita di potere d’acquisto, poiché ciò dipende dal grado di adattamento all’inflazione delle istituzioni (sistema fiscale eventualmente indicizzato ai prezzi, contabilità a costo storico o a prezzi di rimpiazzo, con deducibilità degli oneri finanziari nominali o corretti per l’inflazione, contratti di debito a tassi nominali fissi o rivedibili, con capitale indicizzato ai prezzi o no, meccanismi di indicizzazione di salari, pensioni eccetera). I costi maggiori sono comunque relativi all’inflazione inattesa, per gli effetti poco trasparenti di redistribuzione, da creditori a debitori (tra cui lo Stato, secondo la teoria fiscale dell’inflazione). Questi costi emergono quando i tassi d’interesse contrattuali non tengono conto della variazione effettiva del potere d’acquisto (ovvero alla scadenza il tasso d’interesse reale può risultare negativo). ● L’aggiustamento dei prezzi e dei salari relativi può essere agevolato da un’inflazione positiva, purché bassa. In presenza di rigidità verso il basso dei prezzi (menu cost) e dei salari nominali, anche per considerazioni di stigma sociale legate a riduzioni del salario nel corso della vita lavorativa, mutamenti dei salari reali relativi, per incentivare riallocazioni spontanee dei lavoratori da settori produttivi in declino ad altri in espansione, possono realizzarsi a costi sociali minori mantenendo fermi i salari nominali nei settori in crisi, dunque con salari reali in riduzione data l’inflazione positiva, e aumentandoli in misura pari o superiore all’inflazione negli altri. La politica monetaria può trovarsi in difficoltà a contrastare i rischi di recessione o di deflazione. Può essere costretta a stimolare la domanda aggregata con riduzioni dei tassi d’interesse reali, se non ha margini per diminuire significativamente i tassi d’interesse nominali. Ciò può verificarsi se i tassi nominali sono già nulli o quasi. In questo caso la politica monetaria può, con acqusti di titoli sul mercato, produrre una espansione quantitativa della moneta, abbassando anche i tassi d’interesse a lungo termine e stimolando così gli investimenti. Mentre un’inflazione elevata, dunque, è certamente dannosa per un’economia, vi sono ragioni per preferire un’inflazione bassa piuttosto che nulla; la deflazione, inoltre, è comunque molto più deleteria dell’inflazione, perché innalza il peso reale del debito.