Inflazione
(XIX, p. 214; App. II, ii, p. 33; IV, ii, p. 183; V, ii, p. 702)
Negli anni Novanta la dinamica inflazionistica ha decisamente rallentato la sua corsa dappertutto. In America Latina si è passati a tassi di i. moderata in tutti i grandi paesi, Argentina e Brasile compresi. Altrettanto è accaduto nei paesi del Sud-Est asiatico e nelle economie in transizione. In Europa, dopo il Trattato di Maastricht del 1992, le condizioni poste ai paesi per entrare nell'Unione monetaria europea (UME) hanno determinato un'accelerazione della caduta del tasso di crescita dei prezzi, la cui convergenza verso il basso tende ad assestarsi al di sotto del 2% annuo.
Gli anni Ottanta sono stati un periodo di i. moderata per i paesi industrializzati e di alta i. per i paesi latino-americani e del Sud-Est asiatico (Cagan 1992). Secondo la definizione di D. Heymann e A. Leijonhufvud (1995), quando la gente misura l'andamento dei prezzi su base annua, l'i. si può considerare moderata; quando invece la misura su base mensile, l'i. si può considerare alta; quando si scende sotto il mese siamo in presenza di iperinflazione. Applicando questo criterio alle diverse aree del mondo, si osserva che in America Latina vi sono paesi, come l'Argentina, che hanno sperimentato periodi di iperinflazione alla fine degli anni Ottanta, e paesi come il Cile che in quel decennio, invece, sono passati a tassi d'i. più contenuta, dopo avere avuto in precedenza tassi d'i. alta. In Europa nello stesso periodo abbiamo assistito a tendenze simili, specie in Italia, Spagna e Portogallo.
Si può risalire alla spiegazione di tale inversione di tendenza, netta e radicale, se si tiene conto che si è manifestata dappertutto mediamente in meno di un decennio, e se si considerano alcuni importanti cambiamenti verificatisi in questo arco di tempo e riguardanti: a) gli obiettivi e i comportamenti delle autorità di politica economica; b) gli assetti istituzionali interni e internazionali; c) la crescita dell'innovazione finanziaria accompagnata dalla diffusione vertiginosa delle nuove tecnologie dell'informazione. Tre aspetti, questi, dell'evoluzione economica e sociale che hanno interagito e continuano a interagire nella definizione dei nuovi equilibri, delle nuove regole e, più in generale, dei nuovi modi di essere dell'economia mondiale.
Inflazione, indipendenza della Banca centrale e politica economica
La politica economica è mutata profondamente negli anni Novanta nella gran parte dei paesi del mondo. Su un piano complessivo, a ispirare tali mutamenti hanno contribuito certamente molti fattori, tra cui quello, epocale, del crollo delle economie centralizzate che ha messo in discussione non soltanto la socializzazione e l'uso programmato dei mezzi di produzione, ma anche e soprattutto il ruolo dello Stato nell'economia. Se questa è stata la causa politica scatenante, su un piano più strettamente economico non si può tuttavia non evidenziare il contributo che hanno dato gli approfondimenti teorici in materia di previsione dell'i. come effetto dei comportamenti delle autorità. La teoria delle aspettative razionali e i successivi sviluppi sono all'origine della moral suasion, rivolta ai policy makers, a non barare, ovvero a rispettare gli annunci fatti sugli obiettivi di politica monetaria e fiscale e ad adeguare a questi gli strumenti.
La 'prima pietra' di questa impostazione è stata posta da R.E. Lucas (1981; v. inflazione, App. V), che ha sottolineato come l'i. possa determinare effetti reali su reddito e occupazione solamente se l'espansione monetaria che ne è all'origine è del tutto inattesa, ovvero è stata effettuata 'a sorpresa', aumentando il tasso di crescita della quantità di moneta precedentemente annunciato. Altri autori, tra cui F.E. Kydland ed E.C. Prescott (1977), R.J. Barro e D.B. Gordon (1983), A. Cuckierman (1986), hanno approfondito le conseguenze di simili comportamenti da parte delle autorità. In particolare, hanno messo in evidenza, attraverso la cosiddetta funzione di perdita, i vantaggi e gli svantaggi per l'economia dovuti alla diminuzione della reputazione delle Banche centrali (Barro, Gordon 1983) quando queste, potendo scegliere discrezionalmente i tassi di crescita dell'offerta di moneta, ne fanno un uso inflazionistico.
In linea di principio, la discrezionalità sarebbe preferibile a regole di comportamento rigide, se si accompagnasse a livelli molto elevati di reputazione acquisiti dalla Banca centrale nel corso del tempo. La reputazione, infatti, determina la credibilità degli annunci, sui quali gli operatori fondano le loro aspettative inflazionistiche e quindi le loro scelte. Se tale credibilità viene incrinata perché un obiettivo di crescita monetaria annunciato non viene rispettato, la perdita di reputazione che ne seguirà produrrà da quel momento in poi un incremento dell'i. attesa. Da questo punto di vista le autorità potrebbero massimizzare la loro reputazione annunciando e perseguendo un tasso d'i. pari a zero. L'ideale sarebbe fissare istituzionalmente tale obiettivo, anche perché regole flessibili di controllo dell'i. presentano nel tempo elementi di incoerenza (Kydland, Prescott 1977) quando gli operatori, guidati da aspettative razionali, tendono ad adattare i loro comportamenti ai cambiamenti delle condizioni del sistema economico e delle politiche economiche attese, per es. a seguito di cambiamenti di governo (Arcelli 1986, 1996⁵).
In assenza di regole fisse, il cardine della politica monetaria anti-inflazionistica resta la reputazione della Banca centrale il cui fondamento istituzionale è rappresentato dalla sua indipendenza dalle autorità di governo. Quando una Banca centrale è autonoma, essa è maggiormente in grado di salvaguardare la stabilità monetaria, ovvero di resistere alle sollecitazioni di monetizzare i deficit pubblici. In questo senso la sua autonomia può essere considerata un bene pubblico da cui possono discendere benefici netti per la collettività (Bagella, Becchetti 1996). È stato evidenziato in più studi (Tabellini 1986; Monti, Bruni 1992; Fazio 1993; Bagella, Becchetti 1996) che l'indipendenza della Banca centrale ha una duplice natura, politica ed economica.
Si ha indipendenza politica quando i vertici della Banca centrale non sono nominati dalle autorità politiche; si ha indipendenza economica quando le decisioni di politica monetaria non sono istituzionalmente collegate alle decisioni di politica di bilancio. Non vi è dubbio che tra le autorità monetarie e le autorità fiscali debba esservi condivisione degli obiettivi finali di crescita del reddito e dell'occupazione, ma per evitare che fini politico-elettorali di breve termine possano prevalere sui fini istituzionali di mantenimento del valore della moneta, è preferibile, per il benessere della collettività, che l'indipendenza politica ed economica della Banca centrale sia prevista e tutelata da specifiche norme. I mercati finanziari, trattando attività espresse nelle varie monete, tendono infatti a valutare queste ultime con premi minori per il rischio d'i. se le Banche centrali che le emettono risultano non essere vincolate al potere politico. I tassi d'interesse risulteranno così relativamente più bassi e favoriranno gli investimenti produttivi e, quindi, il tasso di crescita dell'economia.
Per quanto vi siano asimmetrie informative tra autorità e operatori sulle procedure e sui meccanismi attraverso i quali si realizza la politica monetaria (nel senso che gli operatori non le conoscono al 100%), nel caso in cui la Banca centrale, basandosi su questo presupposto, provocasse più i. (Cuckierman, Meltzer 1986), essa perderebbe credibilità e di conseguenza l'economia ricadrebbe nelle difficoltà determinate dalla perdita di reputazione. La credibilità va perciò rafforzata (Canzoneri 1985) e va tenuto conto che, per quanto l'informazione non sia omogenea e completa, i comportamenti delle autorità e della Banca centrale che producono aumenti inattesi dell'i. saranno prima o poi puniti dalle reazioni dei mercati finanziari, che renderanno esigui, se non nulli, gli eventuali vantaggi reali manifestatisi nel frattempo (Goodhart 1995).
Evoluzione degli assetti istituzionali interni e internazionali negli anni Novanta
L'influenza esercitata da questi fattori sulle politiche monetarie e fiscali dei paesi industrializzati e di quelli non industrializzati è stata accompagnata, negli anni Novanta, da importanti cambiamenti istituzionali interni e internazionali. Dal punto di vista interno, è stato rafforzato il grado d'indipendenza delle Banche centrali, soprattutto di quelle operanti in paesi a più elevato debito pubblico come l'Italia (Bagella, Becchetti 1996). Dal punto di vista internazionale, sono stati aboliti i limiti ai movimenti di capitali in Europa, in America Latina (Bagella 1996) e nell'Asia sud-orientale (Corsetti, Pesenti, Roubini 1998).
In breve tempo si è passati da un regime largamente protetto a un regime di libera circolazione, accompagnato da vincoli rigidi alla creazione di base monetaria e da programmi di privatizzazione delle imprese pubbliche molto estesi. L'effetto complessivo è stato l'acquisizione di un'influenza crescente dei mercati finanziari internazionali sulle politiche economiche nazionali (Masera 1994). Si è infatti potuto osservare come la relazione tra le decisioni di politica economica e le variazioni del tasso di cambio (apprezzamenti o deprezzamenti) sia divenuta sempre più stretta e immediata, implicando in via di fatto un giudizio positivo o negativo sulle politiche stesse. Queste infatti tendono a essere all'origine dei movimenti di capitale in entrata o in uscita dai diversi paesi, quando le misure che adottano risultano gradite o non gradite ai mercati, ovvero sono considerate da questi rafforzative o lesive della stabilità monetaria. Mentre in passato tali movimenti, pur se osservati, non apparivano di dimensione tale da preoccupare le autorità, che potevano controllarli con l'applicazione di misure restrittive efficaci, ora che la liberalizzazione si è tradotta in deregolamentazione e apertura per tanti paesi e riguarda tutte le attività finanziarie e non soltanto alcune categorie di esse, i movimenti hanno assunto dimensioni talmente elevate da risultare difficilmente controllabili dalle sole autorità nazionali. Sembra così di assistere a un ribaltamento di ruolo nel rapporto tra autorità e mercati. Come insegnano le ultime crisi finanziarie che hanno coinvolto il Messico e l'America Latina nel 1995 e i paesi dell'Asia orientale nel 1997 e 1998, sono i mercati ad avere l'ultima parola sugli equilibri delle bilance dei capitali e dei pagamenti, e quindi sugli equilibri interni ed esterni dei singoli paesi, e, per effetto dei contagi, di intere aree del mondo.
È questo l'effetto della globalizzazione dei mercati, ovvero della novità strutturale che sta caratterizzando l'economia planetaria nel passaggio di millennio. Il dato che la contraddistingue è la velocità crescente con cui si vanno modificando i rapporti interni e internazionali tra operatori e tra questi e i policy makers, grazie al progresso della tecnologia dell'informazione e all'innovazione degli strumenti finanziari. Quest'ultima è continua e non riguarda solamente i cosiddetti prodotti derivati (Allen, Gale 1994). Essa viene alimentata da un lato dall'aumento esponenziale del fabbisogno di copertura di ogni tipo di rischio nascente e intrinseco al nuovo ambiente finanziario liberalizzato e, dall'altro, dalla necessità di offrire alla domanda nuovi strumenti di risparmio con rapporti differenziati tra rendimento e rischio, quali: azioni di risparmio, obbligazioni con warrant, debiti cartolarizzati, swaps valutari, pronti contro termine, opzioni su titoli azionari, obbligazionari o sugli indici di borsa, futures, derivati sul credito ecc. (Santomero, Babbel 1997). Vista nel complesso l'innovazione finanziaria appare così come la risposta naturale alla globalizzazione dei mercati, perché, aumentando le opportunità di investimento, è all'origine della crescita dell'elasticità di sostituzione fra le attività detenute nei portafogli e quindi delle maggiori opportunità di diversificazione dei rischi oggi esistenti (Miller 1991).
Tale dinamica è stata favorita dalla diffusione di programmi sempre più sofisticati di utilizzo dell'informazione e dalla rete di comunicazione che, grazie a essi, si è consolidata fra tutti i mercati locali del mondo, piccoli e grandi. Sia l'informazione di base, come le news di politica o di mercato, sia la sua elaborazione vengono diffuse con una rapidità e uniformità fino a ieri impensabili, influenzando i valori e determinando il successo di quelle attività che più sono riuscite a immunizzarsi nei confronti degli effetti negativi derivanti dagli eventi considerati. In tempo reale la notizia che, per es., l'i. in un paese è aumentata più di quanto dichiarato dalle autorità, mette in moto meccanismi di sostituzione di tutte le attività espresse nella valuta che ha perso valore (Szegö 1995). Così in tutto il mondo finanziario gli ordini di vendita si succedono come effetto della fuga dalla valuta inquinata, e il suo tasso di cambio e d'interesse, muovendosi in senso inverso, ne fissa l'entità. Liberi, collegati e sempre più informati i singoli mercati finanziari costituiscono così il mercato finanziario internazionale che sempre più va consolidando il suo ruolo di supervisore della stabilità dei valori.
Le politiche di crescita senza inflazione
I mercati pongono alle autorità il vincolo di non praticabilità dell'i. come metodo e obiettivo di politica economica, e in questo senso le autorità hanno perso un grado di libertà nella scelta delle politiche. Queste sono infatti spinte sempre più a perseguire obiettivi di crescita senza i., monitorati dai mercati e progressivamente incorporati nelle attese dei cittadini-risparmiatori di tutto il mondo. La nascita dell'UME e della Banca centrale europea (BCE) segna un ulteriore e fondamentale passo in questa direzione (Bini Smaghi 1998; Papadia, Santini 1998). Inoltre, l'estinzione delle undici monete nazionali, quanti sono i paesi aderenti, farà venire meno le svalutazioni competitive al loro interno con beneficio per la stabilità dei prezzi e lo sviluppo. È prevedibile che euro, dollaro e yen saranno le tre monete che in campo valutario si faranno concorrenza a livello globale sulla base delle attese di variazione dei loro valori relativi, connesse alle decisioni delle autorità di governo della moneta e dei mercati.
Nel nuovo scenario, assottigliandosi i margini d'intervento anticiclico delle politiche macroeconomiche, si amplieranno i margini d'intervento settoriali o territoriali realizzati nell'ambito delle compatibilità di bilancio. In questa prospettiva le politiche keynesiane tradizionali fondate sul deficit spending perderanno sempre più ruolo, mentre ne acquisiranno sempre di più le politiche d'ispirazione neokeynesiana (Stiglitz, Weiss 1981), fondate sulla diffusione e sulla crescita dell'informazione nel settore del credito, della finanza, del lavoro e dell'impresa. Il fatto che negli USA l'aumento del reddito reale e dell'occupazione si accompagni alla stabilità dei prezzi non fa che confermare questa tendenza, spingendo nella stessa direzione anche i paesi europei e delle altre aree del mondo.
I grafici riportati (figg. 1 e 2) mettono in evidenza la caduta generalizzata dei tassi di crescita dei prezzi e la loro convergenza verso livelli al di sotto del 3% in Europa e negli USA, e al di sotto del 10% nelle altre aree del mondo. Mentre in Europa tale caduta si è accompagnata a un ristagno della crescita e dell'occupazione, negli USA è accaduto l'esatto contrario. Da sette anni continua la fase ascendente del ciclo e il tasso di disoccupazione è sceso a livelli minimi (Nickell, Layard 1998).
Gli studi econometrici
Le ragioni di tale impatto differenziato e la ricerca di misure quantitative capaci di chiarirne le modalità sono all'origine di un'ampia letteratura econometrica sulla relazione tra i. e produzione o tra i. e disoccupazione, espressa originariamente dalla 'curva di Phillips'(v. monetarismo, App. V). La varietà degli approcci, dei metodi, delle condizioni dei singoli paesi è molto ampia e può essere riassunta sostanzialmente in due posizioni: la posizione neokeynesiana, portata a sostenere la tesi dell'elasticità della curva maggiore di zero, e la posizione neo-neoclassica, tendente a sostenere la tesi dell'elasticità nulla.
La tesi neokeynesiana è stata ribadita da L. Ball, N.G. Mankiw, D. Romer (1988) che, utilizzando dati relativi all'i. e al PIL di 43 paesi, hanno rilevato come in quelli a bassa i. la curva tenda a essere più elastica, sicché le fluttuazioni della domanda aggregata si riflettono sulle variazioni della produzione di breve periodo in percentuali significative, mentre nei paesi con alta i. dette fluttuazioni sembrano riflettersi più rapidamente sui prezzi, dando luogo a una curva più rigida. Una reazione simile è stata osservata anche nei paesi che presentano l'i. media in aumento, nei quali ancora una volta i prezzi sono risultati reagire più rapidamente rispetto alle quantità. La tesi neo-neoclassica è stata invece introdotta da Lucas (1973), che attribuisce l'elasticità osservata tra i. e occupazione a un'errata interpretazione del movimento dei prezzi da parte degli operatori, ovvero alla difficoltà che essi incontrano a distinguere le variazioni dei prezzi assoluti rispetto alle variazioni dei prezzi relativi. Quanto più le variazioni dei prezzi assoluti vengono scambiate per variazioni dei prezzi relativi, tanto più elastica risulterà detta relazione (Alberro 1981); viceversa, nel caso contrario.
Studi più recenti hanno affrontato lo stesso tema da altri punti di vista. Gli inconvenienti determinati dall'i. nei mercati finanziari nazionali, provocando ritardi e distorsioni nell'accumulazione del capitale produttivo, generano effetti reali (Uribe 1995) tutte le volte che in presenza di programmi di stabilizzazione dei tassi di cambio (come, per es., il Piano di convertibilità argentino del 1991) il processo di convergenza dell'i. dei beni non tradeable rispetto all'i. dei beni tradeable è lento. Più controversa in base all'evidenza empirica risulta invece la tesi neokeynesiana, secondo la quale i moltiplicatori della domanda aggregata alimentata da incrementi della spesa pubblica o dell'offerta di moneta sono più elevati in presenza di prezzi rigidi e lo sono meno in presenza di inflazione. Sulla base di stime econometriche relative a 35 paesi (Koelln, Rush, Waldo 1996), questa ipotesi non sembra confermata, se si distinguono gli effetti sul PIL reale derivanti da variazioni della spesa pubblica, oppure derivanti dalle variazioni dell'offerta di moneta per paesi a più alta i. o per paesi a più bassa inflazione. In generale, nei paesi a più alta i., variazioni dell'offerta di moneta non producono effetti reali significativi, mentre nei paesi a più bassa i. tali effetti sembrano manifestarsi a seguito di incrementi della spesa pubblica. Stime altrettanto recenti (Dotsey, Ireland 1996) si propongono di misurare il costo dell'i. in termini di perdita di produzione. Tale costo, per l'economia americana, viene stimato in una banda compresa tra lo 0,41% e l'1% della produzione annua in presenza di un tasso d'i. pari al 4%, giustificandosi tale differenza in ragione dell'aggregato dell'offerta di moneta utilizzato. Ciò che in conclusione queste e altre stime econometriche sembrano suggerire è che la desiderabilità della stabilità dei prezzi non si fonda soltanto sul legittimo desiderio dei risparmiatori di non vedere erosa la propria ricchezza finanziaria, ma anche sul loro desiderio che la produzione e il reddito non ne vengano influenzati negativamente. Da questo ultimo punto di vista non vanno perciò sottovalutate le difficoltà che le Banche centrali incontrano nel controllare l'i., sia per gli effetti di persistenza dell'i. che si manifesta come conseguenza dell'aumento dei prezzi passati (effetti d'inerzia), sia perché la disinflazione è anche ostacolata dalle rigidità nominali dei prezzi (Ball 1991), sia infine perché gli annunci che esse fanno in materia di crescita degli aggregati monetari non sempre vengono considerati credibili (Sargent 1983).
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