INFLAZIONE
(XIX, p. 214; App. II, II, p. 33; IV, II, p. 183)
Nella storia economica dei diversi paesi l'i. è un fenomeno facilmente riscontrabile. Per es. si è avuta alta i. (oltre le due cifre) un po' dappertutto in Europa immediatamente dopo le due guerre mondiali, mentre si è avuta bassa i. (pochi punti percentuali) negli anni Cinquanta e Sessanta. Generata o da distorsioni strutturali − scarsità relativa di alcuni fattori − o da politiche economiche moderatamente espansive, la bassa i. non ha determinato particolari problemi. Data la sua modesta entità non ha dato origine né ad alterazioni macroscopiche nella distribuzione del reddito, né, essendo comune alla gran parte dei paesi industrializzati, a squilibri fuori misura nelle bilance dei pagamenti. La si definiva strisciante e la si considerava un ''piccolo prezzo da pagare'' per godere di un più alto tasso di sviluppo.
Ha molto contribuito a dare fondamento teorico a questa visione l'economista inglese A.W. Phillips (1958; v. App. IV, ii, p. 185), la cui teoria sulle cause dell'i. è divenuta oggetto di vari studi teorici ed empirici, nonché la base per le politiche economiche anticicliche (Bronfenbrenner-Holzman 1963; Corry, Laidler 1967; Rees 1970). D'ispirazione keynesiana, questa teoria ha certamente dato un notevole supporto alla convinzione che la politica economica dev'essere non solo attiva, ma anche discrezionale: spetta alle autorità di politica economica scegliere sia l'entità e il tipo d'intervento, che la sua cadenza temporale.
Fino alla fine degli anni Sessanta quest'impostazione è stata ampiamente condivisa e ha avuto un importante ruolo nell'orientare le politiche economiche di molti paesi industrializzati. Negli anni Settanta il quadro è cambiato: l'aumento del prezzo del petrolio è stato una causa scatenante d'i. nei paesi industrializzati (PI) e in quelli in via di sviluppo (PVS). Nei paesi industrializzati importatori di petrolio tale aumento ha agito soprattutto attraverso l'aumento del prezzo dell'energia. Fino al 1973 infatti il petrolio, venduto sul mercato internazionale a meno di 3 dollari al barile, era considerato la fonte energetica più economica; sicché in quell'anno, quando il cartello dei paesi produttori (OPEC) ha portato il prezzo del greggio a 13, e successivamente a 35 dollari il barile, i paesi importatori hanno subito aumenti dei costi di produzione generalizzati e di notevole entità, che si sono trasferiti immediatamente sui prezzi. I paesi europei hanno registrato tassi d'i. a due cifre, oltre il 10%, e soprattutto Italia e Gran Bretagna sono state investite da un ciclo recessivo particolarmente forte.
La petroinflazione, com'è stata definita, ha provocato sia deficit accentuati nelle bilance dei pagamenti dei paesi importatori, sia deficit nei loro bilanci pubblici, sia trasferimenti di ricchezza verso i paesi produttori. I deficit delle bilance dei pagamenti dei paesi industrializzati hanno determinato a loro volta l'indebolimento delle valute nazionali sul mercato dei cambi, fatta eccezione per il dollaro USA, richiesto oltre che come moneta di riserva anche come moneta con cui pagare il petrolio. Dal 1974 in poi il dollaro ha progressivamente acquistato valore nei confronti delle monete europee, e specie nei primi anni Ottanta se ne sono registrati gli effetti nei confronti dei PVS. I deficit dei bilanci pubblici a loro volta hanno amplificato l'i. interna, anche se hanno contribuito in Europa e negli USA ad attenuare la recessione.
Da allora la necessità di porre tali deficit sotto controllo è cresciuta dappertutto. In paesi come l'Italia, che hanno visto espandersi il proprio deficit di bilancio in maniera preoccupante − oltre il 10% del PIL −, la riduzione di questo deficit è divenuta l'obiettivo prioritario della politica economica.
La petroinflazione ha determinato, specularmente alla crisi dei paesi consumatori, un arricchimento improvviso e di notevole entità dei paesi produttori. Questi hanno impiegato gli eccessi delle loro bilance dei pagamenti sia per aumentare gli acquisti di beni e servizi nei paesi industrializzati, sia per aumentare negli stessi i loro investimenti finanziari. Grazie all'aumento delle loro importazioni, la caduta della domanda interna verificatasi nei paesi industrializzati è stata in parte attenuata. Tuttavia, in virtù dell'aumento del term of trade del petrolio, rispetto ai prodotti industriali, questi sono stati trasferiti in quantità crescenti per poter avere in contropartita la stessa quantità di petrolio. Si è ridotta così la disponibilità interna di tali prodotti e insieme a essa il grado di benessere dei paesi industrializzati.
In paesi come il Venezuela, il Messico e la Nigeria l'aumento delle importazioni è stato determinato anche da piani di sviluppo industriale e sociale (edilizia popolare, viabilità e trasporti, sanità e istruzione specie nei due paesi latinoamericani) spesso finanziati dal credito bancario internazionale, all'epoca molto prodigo nei confronti di paesi considerati delle vere e proprie ''casseforti'' del petrolio mondiale. Quando però, agli inizi degli anni Ottanta, il prezzo del petrolio ha cominciato a diminuire, e insieme a esso la capacità dei paesi produttori di rimborsare i crediti bancari ottenuti, il debito esterno di tali paesi ha cominciato a crescere, alimentato dai nuovi prestiti indispensabili per pagare quelli giunti a scadenza. Gli alti tassi d'interesse hanno poi amplificato la dimensione di questo indebitamento, facendolo divenire nel decennio trascorso il problema centrale della stabilità finanziaria internazionale.
Agli inizi degli anni Ottanta, in coincidenza con la caduta del prezzo del petrolio, la politica monetaria degli Stati Uniti ha cambiato indirizzo: da accomodante che era negli anni Settanta è divenuta restrittiva. La decelerazione nella crescita dell'offerta di dollari in presenza di una domanda sostenuta ha comportato un aumento dei tassi d'interesse reali. Infatti, per effetto della riduzione dei costi determinata dal minor prezzo dell'energia, si è avuto un rallentamento dell'i. nei paesi industrializzati; sicché a fronte di tassi nominali piuttosto rigidi verso il basso si è avuto un consistente aumento dei tassi reali.
Il tasso reale d'interesse ir infatti è dato dalla differenza tra il tasso nominale in e il tasso d'i. π, vale a dire che:
ir=in−π
se π diminuisce, a parità di in aumenta ir.
Ciò è quanto si è verificato specie tra il 1982 e il 1986 nella gran parte dei paesi industrializzati europei e negli USA. Essendo il dollaro la moneta più richiesta negli scambi internazionali, i crediti in questa valuta sono divenuti progressivamente più cari; e ciò ha comportato, specie per i PVS, un aggravio dei loro conti con l'estero e in particolare delle loro bilance dei capitali.
Come si è detto, soprattutto alcuni paesi latino-americani − come l'Argentina, il Brasile, il Messico e il Venezuela − hanno visto il loro debito esterno crescere molto al di sopra del valore delle loro esportazioni. Il che ha significato per essi l'emergere di difficoltà crescenti non solo per trovare nuovi finanziamenti ma anche per pagare quelli precedenti. In queste condizioni il pagamento del debito, comportando il trasferimento di quantità crescenti di valuta internazionale, ha drasticamente ridotto la loro capacità di acquisto all'estero di tecnologia e capitale umano, indispensabili per il loro sviluppo.
I minori investimenti, e la conseguente disoccupazione, sono divenuti i caratteri dominanti di queste economie durante tutto il decennio, in presenza di politiche monetarie incontrollate che hanno fatto crescere l'i. a tassi in alcuni casi di oltre il 1000%; ne è un esempio quanto è accaduto nel 1989 in Argentina (Bagella, Lo Cascio 1990).
Agli inizi degli anni Novanta, il quadro economico internazionale è così caratterizzato da un lato dal gruppo dei paesi industrializzati, tutti a bassa i. (in media intorno al 4%), dall'altro dal gruppo dei paesi latino-americani, tutti ad alta i., con tassi mensili ancora molto elevati (il Brasile registra tuttora tassi medi mensili del 15%). Tra questi estremi si collocano i paesi ex comunisti, dove l'i. è in crescita preoccupante e rischia di raggiungere livelli sudamericani, e il gruppo dei paesi africani e asiatici che continuano ad avere i. − secondo i dati ufficiali − intorno al 20%. Fanno eccezione i nuovi paesi industrializzati o NIC (New Industrial Countries) tutti a bassa inflazione.
Da quanto detto, se gli anni Sessanta sono stati quelli dell'i. espansiva, e gli anni Settanta quelli dell'i. recessiva, gli anni Ottanta sono stati gli anni della disinflazione espansiva. Soprattutto nei paesi industrializzati, ma non soltanto in questi, alla caduta del tasso d'i. si è accompagnata infatti una ripresa della crescita produttiva. Il cambiamento che si è avuto è stato a ''180 gradi'', e ha influito pesantemente sulle stesse politiche economiche.
Tali politiche, ispirate negli anni Sessanta dalle teorie keynesiane, e da quella di Phillips in particolare, negli anni Ottanta sono state orientate verso linee più ortodosse di compatibilità finanziaria, nella convinzione generale che l'i. non fosse più un costo da pagare per avere un maggiore sviluppo, ma soltanto un costo, e per giunta crescente.
Questa visione del ruolo dell'i. è stata sostenuta dalla scuola di Chicago, e da M. Friedman innanzitutto. Autore di studi ''controcorrente'' negli anni Cinquanta, culminati con la riabilitazione della teoria quantitativa (Friedman 1956), Friedman si è distinto per la critica serrata fatta alla teoria di Phillips e alle politiche della domanda che essa suggeriva per mantenere basso il tasso di disoccupazione.
L'elemento di novità dell'impostazione monetarista (così viene definita la scuola di Chicago) è rappresentato dalla considerazione del ruolo delle aspettative (v. in questa App.) sull'equilibrio del sistema, ruolo invece trascurato da Phillips e dai keynesiani. Mentre secondo questi ultimi il sostegno dato all'economia tramite politiche di spesa pubblica o monetarie espansive non ha conseguenze ''dinamiche'' sul piano dei comportamenti degli operatori, secondo Friedman tali conseguenze non solo vanno considerate, ma è da esse che dipende l'aggiustamento del sistema (Friedman 1968; Phelps 1967 e 1970).
Infatti operatori e imprese predispongono i propri piani in base alla struttura attesa dei prezzi. Se i prezzi nel periodo corrente aumentano, tale aumento si ripercuoterà sui prezzi del periodo successivo. Contratti e accordi terranno conto dell'aumento intervenuto, e quindi all'inizio di ogni periodo il livello dei prezzi risulterà più elevato del livello del periodo precedente. Se gli operatori sono esenti da illusione monetaria, saranno spinti a rivedere le loro scelte, e se avevano ottenuto per es. un aumento salariale si accorgeranno che l'aumento dei prezzi all'inizio del nuovo periodo lo ha sostanzialmente − da un punto di vista reale − annullato. Chi era stato disponibile a lavorare perché sollecitato dal più elevato salario sarà indotto a ritornare sulle sue decisioni.
Più precisamente il punto viene espresso così: in ogni sistema economico vi è un tasso di disoccupazione, che si può definire tasso naturale, che dipende da alcune imperfezioni del mercato del lavoro. Questo mercato nella realtà è caratterizzato dal lato dell'offerta sia dalla mancanza della ''perfetta mobilità'' − vale a dire che anche se vi è un posto di lavoro disponibile questo può rimanere vacante se chi lo può occupare non è disponibile a spostarsi laddove richiesto −, sia dalla mancanza della ''perfetta informazione'' − vale a dire che possono esservi posti vacanti e disoccupati contemporaneamente per via di una difettosa comunicazione fra lavoratori e imprese. In ogni momento e per ogni economia il tasso naturale di disoccupazione è quello che, essendo l'espressione delle suddette imperfezioni, rappresenta una caratteristica strutturale del sistema, in corrispondenza della quale la pressione inflazionistica è nulla. In altri termini, è quel tasso in corrispondenza del quale il salario reale non si modifica, perché salari nominali e prezzi non sono spinti a cambiare per effetto di un eccesso di domanda (posti vacanti) o per effetto di un eccesso di offerta (disoccupati naturali), quando detti ''eccessi'' si equilibrano perfettamente, vale a dire sono uguali e di segno contrario.
Diversa è la situazione quando, con politiche economiche espansive, si cerca di portare il tasso di disoccupazione al di sotto del suo livello naturale: l'eccesso di domanda che ne deriva nel mercato del lavoro agisce nel senso di far aumentare i salari nominali. Questi aumenti si traducono in aumenti dei costi di produzione e finiscono per scaricarsi sui prezzi (shifting verso l'alto della curva di offerta a parità di curva di domanda nel mercato dei beni). In un momento successivo, l'aggiustamento di salari e prezzi verso l'alto finisce così per far venire meno gli incentivi all'aumento dell'occupazione innescato dalla manovra espansiva della politica economica. Questa, se intende tenere il tasso di disoccupazione sotto il suo livello naturale, dovrà far crescere la spesa pubblica o il credito bancario in misura più elevata del periodo precedente. Secondo questa visione, l'economia sarà quindi oggetto di spinte inflazionistiche crescenti e di aumenti del livello dell'occupazione che avranno breve durata.
In simboli questa conclusione può essere così espressa: il tasso di variazione del livello generale dei prezzi al tempo t Ṗt è dato da:
dove Ṗte=Ṗt−1 rappresenta il tasso di variazione del livello medio generale dei prezzi atteso al tempo t, α è un parametro che esprime la reattività di Ṗ al variare della differenza fra tasso naturale e tasso effettivo di disoccupazione, U*.2 è il tasso naturale di disoccupazione, U è il tasso di disoccupazione effettivo. Quando quest'ultimo corrisponde al tasso naturale, la variazione dei prezzi nel periodo corrente è data solo dalla variazione dei prezzi intervenuta nel periodo precedente. Se tale variazione era uguale a zero, l'i. sarà nulla. Viceversa, se nel periodo t-1 il tasso di disoccupazione effettivo è stato spinto al di sotto del tasso naturale, l'aumento dei prezzi sarà immediato.
Ciò alimenterà nel periodo t revisioni dei prezzi verso l'alto e quindi la necessità di ulteriori espansioni della domanda aggregata per mantenere l'occupazione al livello desiderato. Si determinerà pertanto, come effetto ulteriore, un nuovo ciclo d'inflazione. Si può sintetizzare il contenuto di questa teoria sottolineando come, in base ai suoi presupposti, il tasso di disoccupazione si può mantenere al di sotto del suo livello naturale solo a condizione di accettare un'accelerazione dell'inflazione.
La teoria suesposta evidenzia, quindi, il ruolo delle aspettative nella dinamica dell'i. e al tempo stesso evidenzia un metodo per determinarle, definito ''adattivo'', perché sottolinea come i prezzi si adattino a crescere in ogni periodo in ragione del livello raggiunto nel periodo precedente. Quest'impostazione ha subito recentemente ulteriori sviluppi e precisazioni, specie da parte dei teorici delle cosiddette ''aspettative razionali'' (v. anche aspettative, in questa Appendice).
La nuova impostazione, nota anche come ''nuova teoria neoclassica'', parte dal presupposto che le aspettative sui prezzi sono funzione sia del ''trascinamento'' dell'aumento dei prezzi determinatosi nel periodo precedente, sia degli effetti attesi su di essi in base alle politiche economiche annunciate nel periodo corrente. Ciascun operatore razionale infatti ha una sua visione del funzionamento del sistema economico e sa perciò anticipare gli effetti che potranno aversi per l'adozione di politiche economiche espansive. Non ha cioè necessità di attendere che l'aumento dei prezzi si manifesti concretamente, dal momento che comunque una politica monetaria espansiva, anche se realizzata attraverso forme diverse ma convergenti verso l'aumento della quantità di moneta, avrà come effetto di far lievitare in proporzione i prezzi, se l'economia si trova in condizioni di pieno impiego. Di modo che, poiché questa presunzione di conoscenza vale per tutti gli operatori, questa teoria, sviluppata da Sargent, da Lucas e da altri (Sargent 1972 e 1973; Lucas 1973 e 1981; Fisher 1980), ha portato a confutare sia gli effetti reali − minore disoccupazione − di breve periodo accolti dalla teoria delle aspettative adattive, sia il ruolo stabilizzante della politica economica. Venendo infatti i suoi effetti perfettamente anticipati quando i provvedimenti relativi sono correttamente annunciati, alla politica economica non resterebbe altra funzione se non astenersi da qualsivoglia intervento.
Quest'impostazione ha trovato ampia accoglienza fra gli economisti, tanto che in questi ultimi anni si è sviluppata una corrente di studi tendente a proporre modelli di determinazione endogena delle aspettative dei prezzi. In generale, dato
Pt*=E (Pt/It−1)
il livello dei prezzi attesi al tempo t, Pt*, è determinato dall'aspettativa dei prezzi E (Pt) dipendente dalle condizioni di domanda e offerta globale e dalle informazioni sulla politica economica già disponibili nel periodo t-1, It−1.
Nel caso in cui l'economia si trovi in condizioni di piena occupazione, il livello dei prezzi attesi si può esprimere (Lucas 1981), nel seguente modo:
in cui Yo rappresenta il livello del reddito di pieno impiego, a e b sono dei parametri, ed E (Zt) rappresenta l'aspettativa sulle misure di politica economica. Se per es. Zt rappresenta una variazione della quantità di moneta al tempo t, il livello dei prezzi attesi al tempo t crescerebbe in proporzione.
La teoria delle aspettative ''adattive'' prima e la teoria delle aspettative ''razionali'' dopo hanno, quindi, fortemente ridimensionato il ruolo della politica economica. Infatti, gli effetti reali sull'economia si fanno risalire o alla scarsa informazione degli operatori sulle iniziative di politica economica, oppure ad annunci non corretti della stessa, o in ultima analisi a una loro visione viziata da illusione monetaria.
Oggi l'ipotesi di aspettative razionali è divenuta centrale nell'analisi macroeconomica, benché i risultati di superneutralità della moneta che essa consente di raggiungere nell'ambito di modelli alla Lucas siano strettamente collegati al tipo di modello che si suppone conosciuto e accettato dagli agenti esperti dell'economia. Ipotesi di modelli differenti, o di conoscenze limitate, o di apprendimento attraverso il comportamento altrui hanno consentito di giungere a conclusioni differenti (Bagella 1983; Friedman-Phelps 1983; De Canio 1979).
Se quindi nell'immediato secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta era abbastanza accettato il ruolo positivo esercitato dall'i. non solo nelle economie industrializzate, ma anche in quelle dei PVS − in America latina si sottolineava il suo ruolo attivo nel promuovere processi di crescita (teoria strutturalistica) −, e la politica economica aveva un ruolo stabilizzante nei confronti del sistema, da allora in poi l'i. ha assunto un ruolo molto più discusso sia sul piano dell'esperienza, sia su quello delle conclusioni teoriche.
Esempi di valutazioni controverse si hanno in alcuni studi volti a evidenziare il rapporto tra i., intensità del capitale e crescita; il ruolo dell'i. come imposta; l'impatto dell'i. sul bilancio dello stato. I rapporti tra i. e accumulazione del capitale sono stati studiati seguendo impostazioni differenti. Di recente è stato evidenziato come l'i., riducendo il valore degli accantonamenti, di fatto riduca la possibilità di accrescere l'intensità del capitale. Si è pure evidenziata l'influenza dell'i. sui tassi d'interesse reali (Feldstein, Summers 1978), ma su questo punto vi è minore convergenza: a una correlazione negativa tra tassi reali e i., rilevata da Summers (1983) per gli USA nei primi anni Ottanta, si accompagnano studi che sottolineano viceversa la costanza del tasso d'interesse reale, sempre per gli USA, nel periodo 1951-73 (Fama 1975).
Il contrasto sta nel fatto che, secondo Fama, per il periodo da lui considerato, l'i. si è totalmente trasferita sui tassi nominali, lasciando inalterati i tassi reali. Summers viceversa sostiene che, in base ai dati da lui osservati per i primi anni Ottanta, tale trasposizione non si è verificata. I tassi reali sono aumentati e di conseguenza non si può sostenere che gli interventi di politica economica che li hanno determinati siano stati totalmente anticipati, come vorrebbe la tesi delle aspettative razionali.
Orientati a cogliere le conseguenze dell'i. appaiono alcuni importanti contributi tendenti a evidenziare come essa venga adottata da alcuni paesi quale meccanismo per finanziare il bilancio pubblico. Infatti, nei paesi con sistema fiscale scarsamente sviluppato, l'i. consente allo stato di pagare meno i suoi debiti in termini reali, e quindi di acquisire, in questo modo, reddito come se si trattasse di versamenti d'imposta. Questo sistema, che specie nei paesi ad alta i. è il risultato della non autonomia della Banca Centrale, appare come una sorta di diritto di ''signoraggio'' dello stato, imposto per coprire le spese non finanziabili con il gettito corrente o straordinario attraverso la creazione di nuova moneta. È stato tuttavia evidenziato (Tanzi 1977) come questo sistema possa dare risultati inferiori alle attese in termini di reddito netto a favore del bilancio pubblico, e come esso sia spesso la conseguenza di una politica economica in cui la creazione di moneta è una "fonte residuale della finanza pubblica" piuttosto che una scelta effettuata per far quadrare il bilancio dello stato (Fisher 1988).
Attraverso un rovesciamento d'impostazione, si è giunti a specificare quali siano le condizioni perché non vi sia la necessità di ricorrere all'i. come imposta. Questo filone di studi ha condotto alla definizione del concetto di quantità di moneta ottimale. Proposto da Phelps (Phelps-Winter 1973), tale approccio ha portato a ulteriori contributi tendenti a mostrare come lo stato si possa finanziare in modo ottimale attraverso tasse, emissione di titoli e moneta (Helpman-Sadka 1979).
Più recentemente, seguendo un'impostazione più empirica, è stato misurato l'impatto che l'i. non anticipata determina nella ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Secondo questa stima esso ammonterebbe per gli USA a una percentuale dell'1% della suddetta ricchezza (Fisher, Modigliani 1978; Fisher 1981).
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