Influenza
L'influenza è una malattia virale acuta respiratoria, caratterizzata da febbre, cefalea, mialgia, stato di prostrazione, rinite, faringodinia e tosse. La tosse spesso è grave e protratta, mentre le altre manifestazioni sono di solito lievi con guarigione in 2-7 giorni. Il quadro clinico del raffreddore comune e infiammazioni come la bronchiolite o la polmonite virale, nonché malattie respiratorie acute non differenziate, sono spesso causati dal virus dell'influenza. Manifestazioni a carico del tratto gastrointestinale (nausea, vomito, diarrea) possono accompagnare, soprattutto nei bambini, i disturbi respiratori e sono state segnalate in oltre il 25% di essi nel corso di epidemie di influenza A e B.
I virus dell'influenza appartengono alla famiglia degli Ortomixoviridiae che contengono prevalentemente due generi: l'influenza di tipo A e quella di tipo B; esiste anche un virus di tipo C poco frequente. Sono virus a RNA di forma sferica, con un diametro di 80-120 nm circa, ricoperti da una superficie spinosa; tuttavia vengono descritte anche forme filamentose. Nei virus influenzali si sono studiate otto proteine: le spine della superficie sono glicoproteine capaci di attività emoagglutinante (antigene H) e neuraminidasica (antigene N). L'involucro è costituito da un doppio film di lipidi, ricoperto internamente dalla proteina detta matrice (antigene M) che conferisce stabilità al virione, la particella virale matura, completa. Sono presenti anche tre proteine che presiedono al processo di duplicazione del virus e, infine, due proteine strutturali (NS1 e NS2) di cui non è ancora conosciuta la funzione. All'interno dell'involucro di lipidi sono stati identificati otto segmenti di nucleocapsidi, che risultano composti da nucleoproteine e da segmenti di RNA virale. Dei tre tipi di virus dell'influenza, A, B e C, il tipo A comprende tre sottotipi (H1N1, H2N2 e H3N2) che sono stati associati con le epidemie e le pandemie e sono classificati attraverso le proprietà antigeniche delle glicoproteine di superficie, l'emoagglutinina (H) e la neuraminidasi (N); il tipo B è stato associato con epidemie sia locali sia diffuse; il tipo C, infine, a casi sporadici e a episodi epidemici minori. Le frequenti mutazioni dei geni che codificano le glicoproteine di superficie dei virus dell'influenza A e dell'influenza B fanno emergere varianti virali che vengono denominate secondo la località in cui si è proceduto all'isolamento, il numero della coltura e l'anno dell'isolamento. Esempi di ceppi prototipo con designazioni geografiche sono: AlTexas136/91 (H1N1), A/Japan/305/57 (H2N2), A/Beijing/32/92 (H3N2), e B/Panama/45/90. Una delle caratteristiche peculiari dei virus influenzali è la variazione antigenica, cioè la frequenza con cui avvengono cambi nella loro antigenicità. La variazione antigenica è frequente, quasi annuale, per il virus dell'influenza A, molto più rara per i virus B e inesistente per i virus C. L'alterazione della struttura antigenica del virus dà origine a ceppi virali contro i quali non v'è alcuna resistenza da parte della popolazione e, quindi, induce lo sviluppo di epidemie massicce.
Questo è il meccanismo che fa perpetuare le epidemie influenzali, mantenendole a livelli sempre elevati; rappresenta anche la causa che costringe all'annuale rivaccinazione con vaccini preparati con i nuovi ceppi virali. Le variazioni antigeniche si riferiscono in particolare a due glicoproteine dell'involucro virale: l'HA e l'NA; quelle dell'HA sono le più importanti perché questa proteina è maggiormente suscettibile alle variazioni e gli anticorpi anti-HA sono neutralizzanti l'infezione. Vengono chiamate drift antigenico oppure shift antigenico, a seconda che la variazione sia minore (drift) o maggiore (shift). Il drift antigenico si riferisce, come detto, a variazioni minori, spesso annuali, di un sottotipo virale definito dai suoi NA o HA. Fino a oggi nei virus influenzali isolati dall'uomo sono state identificate tre emoagglutinine (H1, H2 e H3) e due neuraminidasi (N1 e N2); per quanto concerne altre H e N, presenti in virus influenzali isolati da animali (in particolare uccelli), si sospetta possano trovarsi anche in virus umani trasmessi dagli uccelli, quale quello isolato, nel 1997, a Honk Kong (H2N5) in soggetti ammalati di influenza che erano stati esposti a pollame infetto.
Combinazioni delle H e delle N danno luogo a differenti sottotipi antigenici per lo stesso sierotipo, che trovano uno spazio epidemico nella popolazione a seconda della memoria immunitaria che le precedenti epidemie, con diversi sottotipi, hanno lasciato. Lo shift antigenico rappresenta invece una variazione maggiore della antigenicità virale, tanto da trovarsi di fronte a virus sostanzialmente nuovi e sconosciuti alle popolazioni, che ne sono quindi colpite in maniera violenta e pandemica. Appaiono emoagglutinine e neuraminidasi mai viste prima attraverso un processo di riassortimento virale, che provoca l'inserimento di nuovi segmenti di RNA virale che esitano in nuove glicoproteine. Questo meccanismo viene frequentemente osservato in colture virali su uova o linee cellulari di diversi ceppi virali; un meccanismo analogo avviene in natura, molto presumibilmente tramite il riassortimento di ceppi virali umani con ceppi di altri ospiti animali: i maiali sono quelli maggiormente sospettati, mentre appare improbabile un riassortimento con i virus degli uccelli.
Per quanto sembrino emergere serbatoi animali, quali i suini e le anatre, per riassortimento genetico dei virus, l'uomo è il serbatoio principale delle infezioni umane. I nuovi sottotipi di un ceppo virale virulento con un nuovo antigene di superficie sono causa delle pandemie influenzali per diffusione in una popolazione essenzialmente non immune. La trasmissione avviene mediante il trasferimento fisico da un infetto a un sano di particelle di secrezioni respiratorie contenenti virus: anche solo parlando l'uomo emette delle secrezioni pari a quelle di un comune aerosol con particelle più piccole di 10 µm; starnuti e tosse possono lanciare queste particelle anche ad alcuni metri di distanza, ma è verosimile che particelle di secrezioni possano essere emesse con il solo respiro e restare in sospensione nell'aria per il tempo sufficiente a incontrare un nuovo ospite che le inspiri. Un singolo ammalato ospita grandissime quantità di virus nelle sue vie respiratorie e può infettare un gran numero di persone in un tempo molto breve.
La trasmissione aerea predomina tra le persone che vivono in spazi chiusi, ma può verificarsi un contagio anche per contatto indiretto dal momento che il virus dell'influenza può persistere per ore, particolarmente in situazioni di freddo e di bassa umidità. Il virus, una volta depositato sull'epitelio del tratto respiratorio, può penetrare nelle cellule epiteliali e iniziare il processo di replicazione: in 4-5 ore la replicazione cellulare è completa e molte copie del virus fuoriescono dalla cellula. Questa non muore alla prima replicazione, ma il rilascio di virus permane per molte ore prima che la cellula muoia; tale processo aumenta la capacità riproduttiva del virus. I nuovi virus attaccano le cellule epiteliali vicine, cosicché in poco tempo un grande numero di cellule viene infettato. Questo spiega il brevissimo tempo di incubazione della malattia: già dopo 18 ore dall'infezione possono comparire i primi sintomi. Il periodo di incubazione è in genere breve, di solito 1-3 giorni, e il paziente adulto è contagioso per 3-5 giorni dall'esordio clinico, mentre i bambini lo sono fino a una settimana. La sintomatologia dell'influenza è mutevole e spesso non è differenziabile da altre infezioni virali acute delle vie respiratorie. Tuttavia, alcune forme cliniche sono più frequenti: una forma abortiva, con un lieve raffreddore e modesto mal di testa, che spesso non interrompe le comuni attività del paziente (queste forme sono le più frequenti in soggetti che contraggono la malattia in contatto secondario con casi che ritengono di aver resistito al contagio); una forma catarrale, ove prevalgono i sintomi a carico delle prime vie aeree e degli occhi; una forma reumatoide con palesi manifestazioni dolorose degli arti e delle grandi articolazioni; una forma gastrointestinale, ove dominano dolori addominali, diarrea, anoressia, nausea e vomito; una forma tifosa, ove la febbre è costantemente elevata e accompagnata da un grave stato di astenia e abbattimento del paziente. Esistono infine forme influenzali le quali evolvono molto rapidamente in complicanze severe. Durante le grandi epidemie si verificano casi di malattia grave e decessi principalmente tra gli anziani e tra gli individui che sono debilitati da malattie cardiache croniche, polmonari, renali, metaboliche, da anemia o da immunosoppressione.
Le complicanze più frequenti dell'influenza sono polmonari: la polmonite primaria virale da influenza e la polmonite batterica secondaria. Vi sono anche sindromi meno definite, quali tracheobronchiti, polmoniti virali localizzate e una combinazione di polmonite virale e batterica. Già dall'epidemia di 'febbre spagnola', che colpì il mondo occidentale nel 1918, apparve chiaro che esisteva una complicanza polmonare diretta e rapida dell'influenza: la maggioranza delle morti era attribuibile alla polmonite virale, anche se ciò fu dimostrato soltanto in seguito all'epidemia di 'asiatica' del 1957. Tuttavia, mentre nell'epidemia del 1918 molte morti polmonari avvennero in giovani adulti, nelle successive epidemie questa complicanza è stata abitualmente osservata in soggetti con altre malattie croniche e debilitanti sottostanti. Si tratta di una tipica polmonite virale, senza consolidamento polmonare, insensibile alla terapia antibiotica e con una letalità molto elevata.
La polmonite batterica da influenza, invece, è indistinguibile da analoghe polmoniti batteriche e trova frequentemente agenti eziologici analoghi: Streptococcus pneumoniae, Staphilococcus aureus, Hemophilus influenzae. Frequente negli anziani e nelle persone con malattie croniche debilitanti, essa si presenta con aree di consolidamento polmonare radiopache ed è sensibile alla terapia antibiotica. Fra le complicanze non polmonari, le miositi sono state raramente associate a infezioni influenzali, più spesso sono state osservate miocarditi e pericarditi postinfluenzali. L'unica sindrome del sistema nervoso centrale associata all'influenza è la sindrome di Reye, che costituisce una rara complicazione in bambini i quali hanno ingerito salicilati e colpisce più spesso bambini con influenza da virus B rispetto a quelli con influenza da virus A. Si tratta di una grave malattia con alta letalità, caratterizzata da un'encefalopatia unita a una grave epatopatia acuta. L'associazione con l'influenza è forte, ma ancor più forte è l'associazione con l'uso di aspirina, molto frequente in pazienti febbrili quali quelli influenzati.
Anche altre malattie virali sono state associate alla sindrome di Reye: in molti casi l'elemento comune era costituito dal precedente uso di aspirina. L'influenza di solito viene riconosciuta per le caratteristiche epidemiologiche; casi sporadici possono essere identificati soltanto attraverso procedure di laboratorio. Nei bambini essa può essere indistinguibile da altre malattie causate da virus respiratori. Durante la prima fase febbrile della patologia, la conferma di laboratorio viene effettuata tentando l'isolamento di virus influenzali dalle secrezioni nasofaringee o dai gargarizzati in colture cellulari o in uova embrionate, oppure attraverso l'identificazione diretta degli antigeni virali nelle cellule nasolaringee con test di immunofluorescenza, o ELISA (Enzyme-linked immunosorbent assay).
L'infezione può essere successivamente confermata con la dimostrazione di una risposta sierologica specifica in sieri prelevati tra la fase acuta e la fase convalescente. Recentemente, applicazioni della tecnica PCR (Polimerase chain reaction) hanno permesso la diagnosi eziologica rapida di influenza su campioni di muco delle prime vie respiratorie.
L'infezione induce uno stato immunitario verso il virus specifico, mentre la durata e l'ampiezza dell'immunità dipendono dal grado di slittamento antigenico e dal numero di precedenti infezioni. A partire dalla 2ª settimana dall'infezione, i malati sviluppano anticorpi neutralizzanti, i quali inibiscono l'emoagglutinazione, fissano il complemento e sono positivi al test di immunofluorescenza ELISA. Normalmente si raggiunge l'acme di produzione anticorpale alla 4ª settimana nei soggetti per la prima volta infetti, mentre nelle reinfezioni lo sviluppo anticorpale risulta più veloce. Vengono prodotti anticorpi verso gli antigeni sia H sia N che persistono per molti mesi o anni. Numerose prove sperimentali hanno dimostrato che livelli sierici di anticorpi sono correlati con la protezione da una nuova infezione da virus influenzali. Questa protezione appare più forte nei bambini rispetto agli anziani ed è sottotipo-specifica; tuttavia una qualche protezione viene conferita anche verso sottotipi diversi da quelli che hanno provocato la risposta anticorpale, sebbene questa protezione non riesca solitamente a impedire la nuova infezione, ma si limiti ad attenuare la sintomatologia clinica. Il grado di protezione conferito da un sottotipo virale verso un nuovo sottotipo dipende dalla quantità e qualità del drift antigenico che è avvenuto.
Analogamente lo shift antigenico presenta virus insensibili a precedenti infezioni virali. Immunoglobuline secretorie del tipo IgA sono presenti sulle mucose respiratorie già pochi giorni dopo l'infezione; sono neutralizzanti e proteggono dall'infezione stessa, sebbene la loro durata sia inferiore a quella degli anticorpi sierici. La combinazione di anticorpi sierici e anticorpi secretori offre la protezione dall'infezione: la loro produzione simultanea non ha finora permesso di differenziare il ruolo di ciascuno di essi. I vaccini sono in grado di indurre una risposta sierologica specifica nei confronti dei virus inclusi nella loro produzione; inducono altresì risposte immunitarie verso i ceppi imparentati con i quali l'individuo ha avuto precedenti contatti.
Come è avvenuto per molte altre malattie infettive, grandi epidemie verosimilmente attribuibili all'influenza sono state segnalate nel lontano passato, ma l'epidemia di Parigi, del 1412, è stata la prima descritta in modo approfondito e compatibile con la diagnosi. Numerose altre sono state periodicamente descritte, spesso con sintomatologie prevalenti diverse tra loro a testimonianza del polimorfismo sintomatologico della malattia. Sempre elevato è il numero di morti che inevitabilmente accompagna le descrizioni delle epidemie, fino a raggiungere la cifra di oltre 20 milioni di morti attribuita all'epidemia di 'febbre spagnola' del 1918. Durante gli ultimi 100 anni, si sono avute grandi epidemie nel 1889, 1918 (appunto), 1957, 1968, 1971 e 1977.
L'influenza si può diffondere in forma pandemica, epidemica, con focolai localizzati e con casi sporadici. Nelle zone a clima temperato le epidemie tendono a verificarsi durante l'inverno, nelle regioni tropicali, invece, nella stagione delle piogge, anche se epidemie o casi sporadici possono verificarsi in ogni mese. I bambini, più suscettibili all'infezione, si ammalano per primi; l'epidemia si diffonde poi tra gli adulti, provocando consistente assenteismo dai luoghi di lavoro e dalle scuole. In genere, segue un aumento significativo dei ricoveri ospedalieri di anziani con polmoniti o altre complicanze respiratorie dell'influenza. I dati relativi al tasso di mortalità per cause polmonari costituiscono un fedele indicatore di epidemie influenzali, ma divengono disponibili soltanto molti mesi dopo l'epidemia.
La percentuale di popolazione colpita durante un'epidemia varia dal 10 al 20% nelle grandi collettività fino a oltre il 50% nelle popolazioni chiuse, come nei collegi o nelle case di riposo. L'epidemia di norma si esaurisce in alcune settimane e la maggioranza degli infetti soffre sintomi clinici. Non è stata ancora chiarita la ragione per la quale l'epidemia cessa ben prima che tutta la popolazione suscettibile sia colpita e non si isolano altri ceppi virali per tutto il resto dell'anno. Epidemie di influenza si verificano in Italia annualmente, ma soltanto in alcuni casi assumono una forma pandemica molto grave. Si è a lungo ritenuto che singole epidemie influenzali fossero causate da singoli ceppi virali: la sorveglianza virologica recentemente intensificata ha tuttavia dimostrato la frequente coesistenza di diversi ceppi virali dello stesso sierotipo, ma anche la coesistenza di influenza A e influenza B.
Le infezioni da virus influenzale di differenti sottotipi antigenici si verificano anche nei suini, nei cavalli, nei visoni, nelle foche e in molte specie di animali domestici, così come nell'aviofauna selvatica in molte parti del mondo. La trasmissione tra le specie e il riassortimento del virus dell'influenza A sono stati notati tra i suini, le anatre e i tacchini. I virus dell'influenza umana, responsabili delle pandemie del 1957 e del 1968, contenevano geni strettamente imparentati a quelli dei virus dell'influenza avicola. Pandemie influenzali avvengono quando vi sia l'emergenza di nuovi ceppi virali verso i quali non esiste immunità di popolazione: il diffondersi quasi simultaneo dell'epidemia in molti paesi del mondo, spesso seguendo un percorso geografico visibile dall'Est all'Ovest, rende manifesta la pandemia.
Le pandemie del 1957, del 1968 e del 1977 sono tutte iniziate in Cina e sono passate per l'Unione Sovietica e l'Europa prima di sbarcare sul continente americano. L'intervallo tra le pandemie è stato oggetto di numerosi studi, al fine di effettuare previsioni per ridurre i gravi costi sociali delle pandemie stesse. I sistemi predittivi messi a punto, tuttavia, non hanno finora centrato l'obiettivo: i cambi antigenici maggiori non sono prevedibili e non sempre ceppi virali nuovi provocano pandemie; vi sono stati eclatanti esempi di falsi allarmi, quali l'attesa pandemia di influenza 'suina' del 1976, che vide tutta la popolazione degli Stati Uniti vaccinata per un rischio che non si manifestò, e il ceppo di virus notevolmente mutato A/USSR/77/H1N1 che, nonostante le paure, non causò alcuna pandemia. L'influenza è giustamente definita un grande killer: verosimilmente è l'infezione epidemica che provoca in assoluto più morti nel mondo sviluppato. Il numero eccedente di morti per polmonite e associate all'influenza rispetto a quanto atteso in un dato anno (eccesso di mortalità) varia da epidemia a epidemia, a seconda del tipo virale prevalente. L'Istituto superiore di sanità ha effettuato un'analisi della mortalità associabile all'influenza in Italia per gli anni 1970-93: la mortalità per influenza, polmoniti e bronchiti è stata analizzata con un modello matematico che ne ha interpretato il trend.
Da quest'analisi è stato possibile evidenziare un eccesso di mortalità nei periodi di epidemie influenzali; ogni epidemia maggiore causa un eccesso di mortalità di parecchie migliaia di morti, quasi tutti concentrati nella fascia d'età sopra i 65 anni; nei 23 anni esaminati è possibile stimare un eccesso di mortalità vicino alle 100.000 unità. Analogamente negli Stati Uniti, durante ciascuna delle sette stagioni influenzali che si sono verificate tra il 1977 e il 1988, sono state riportate oltre 10.000 morti in eccesso e più di 40.000 morti in eccesso nel 1977 e nel 1988. L'80-90% dei decessi aveva riguardato adulti di oltre 65 anni. Invece, nell'epidemia del 1918 il più alto tasso di letalità si ebbe, come già notato, tra i giovani adulti. Gli effetti dell'influenza sul lavoro e sulla vita sociale, nonché i costi sanitari, sono talmente ingenti da aver sollecitato numerosi studi. A livello internazionale, l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) raccomanda l'uso di un set di indicatori per stimare l'impatto della malattia: assenteismo scolastico; assenteismo sul lavoro; ricoveri ospedalieri per complicanze polmonari; numero di visite mediche di base per sindromi influenzali. Usando questi indicatori si riesce a stimare la percentuale di popolazione colpita durante un'epidemia.
Poiché il 10-20% di tutta la popolazione residente viene colpita da una sindrome influenzale nel corso di un'epidemia (nel nostro paese da 5 a 10 milioni di persone si ammalano in un brevissimo periodo), è facile desumere la straordinaria rilevanza del suo impatto sociale ed economico: infatti, se l'eccesso di mortalità causato dall'influenza di per sé non porta necessariamente a un aumento dei costi sanitari, bisogna ricordare che per ogni decesso vi sono decine di ospedalizzati e migliaia di ammalati che gravano pesantemente sulla spesa sanitaria.
L'amantadina, la rimantadina o la ribavirina assunte entro le 48 ore dall'esordio dell'influenza e proseguite per 3-5 giorni riducono la sintomatologia e il titolo virale nelle secrezioni respiratorie. Questi farmaci possiedono alcuni effetti collaterali che ne limitano l'applicazione ai casi di influenza ad alto rischio di gravi complicazioni. Durante il trattamento con uno di questi farmaci possono emergere virus resistenti a essi, che possono essere trasmessi ad altri soggetti. I pazienti vanno tenuti in osservazione per lo sviluppo di eventuali complicazioni batteriche e soltanto in tale caso vanno somministrati gli antibiotici. La terapia sintomatica dell'influenza è quella delle sindromi febbrili: riposo a letto e adeguata assunzione di liquidi sono molto utili nella fase acuta; la rinite catarrale può beneficiare di fenilefrina; la febbre può essere ridotta con salicilati o altri antipiretici. L'ambiente umidificato della stanza del malato migliora i sintomi respiratori e riduce la tosse.
Per la possibile associazione con la sindrome di Reye, nei bambini vanno evitati i salicilati. Il trattamento antibiotico precoce non modifica il rischio di complicanze, mentre si impone di fronte a sospetto di polmonite batterica. Già dagli anni Quaranta del 20° secolo il vaccino è apparso come il principale strumento preventivo dell'infezione, in quanto altri metodi sono sostanzialmente inefficaci nel controllare la trasmissione aerea. La paventata scarsa efficacia dei vaccini antinfluenzali è stata sostenuta dalla difficoltà di condurre studi di efficacia verso l'infezione influenzale confermata in laboratorio, ma ricerche più recenti hanno dimostrato che l'immunizzazione con vaccini può fornire, nei giovani adulti sani, dal 70 all'80% di protezione contro l'infezione quando il vaccino è simile antigenicamente ai ceppi circolanti del virus; la vaccinazione può essere meno efficace nella prevenzione della malattia, ma è in grado di attenuarne di molto la gravità, riducendo l'incidenza delle complicazioni fino al 50-60%: è inoltre dimostrato che la mortalità influenzale può essere ridotta dell'80% dalla vaccinazione di massa.
Questi dati hanno indotto molti paesi a raccomandare la vaccinazione di massa degli anziani e degli individui affetti da malattie croniche; studi più recenti hanno anche dimostrato che la vaccinazione della popolazione sana ha grandi vantaggi in termini sia di morbosità sia di guadagno del costo sociale della malattia. La vaccinazione quindi deve essere presa in considerazione per quanti sono impiegati in servizi essenziali alla collettività ed è raccomandata per il personale militare. Tuttavia, qualsiasi individuo può trarre beneficio dalla vaccinazione. Una dose singola è sufficiente per quanti hanno avuto un'esposizione precedente ai virus dell'influenza A e B (vale a dire in persone con più di 9 anni); due dosi del vaccino, prese a distanza di un mese una dall'altra, sono invece necessarie nelle persone più giovani senza una precedente vaccinazione. Il vaccino va somministrato ogni anno prima dell'inizio previsto dell'epidemia di influenza nella collettività (novembre-marzo in Italia). Le raccomandazioni annuali circa i componenti del vaccino si basano sui ceppi virali che circolano al momento della preparazione, come viene determinato dai programmi di sorveglianza internazionale.
Anche in Italia, ogni anno in primavera il Ministero della Sanità emana istruzioni sulla preferibile composizione dei vaccini che devono essere approntati per l'autunno, basandosi sui dati della sorveglianza nazionale e internazionale. I vaccini oggi disponibili sono preparazioni antigeniche purificate molto sicure e possono essere somministrate a chiunque: le controindicazioni si limitano all'ipersensibilità alle proteine dell'uovo o ad altri componenti del vaccino, mentre speciali precauzioni sono necessarie per pazienti sottoposti a farmaci citotossici. I gravi e spesso sconvolgenti effetti delle epidemie di influenza sulle attività di una collettività possono essere ridotti in parte da una efficace pianificazione ed educazione sanitaria e soprattutto, a livello locale, dall'organizzazione di programmi vaccinali per i pazienti a rischio e per quanti prestano loro assistenza. È obbligatoria la notifica all'autorità sanitaria locale dei casi confermati dal laboratorio, che in Italia deve essere effettuata secondo precise modalità, se è disponibile l'isolamento del virus. L'isolamento del paziente per ridurre il contagio è inutile nella stragrande maggioranza dei casi, perché la diagnosi avviene quando si è già verificata una consistente diffusione di virus e perché è molto complesso e oppressivo per il paziente il totale isolamento respiratorio. Nelle epidemie in comunità, tuttavia, a causa dell'aumentato carico sui servizi sanitari, sarebbe preferibile isolare i pazienti (soprattutto i neonati e i bambini piccoli) sospettati di essere affetti da influenza, ponendoli in una stessa stanza, durante i primi 5-7 giorni di malattia. Non è dimostrato che la chiusura di singole scuole sia un'efficace misura di controllo; in genere si tratta di un provvedimento tardivo e preso solo a causa dell'alto assenteismo sia degli studenti sia del personale. I responsabili sanitari degli ospedali devono prevedere l'aumentata domanda di assistenza medica durante i periodi epidemici; possono inoltre verificarsi assenze di personale sanitario prodotte dall'epidemia influenzale. Al fine di evitare queste conseguenze, il personale sanitario deve essere sottoposto ogni anno all'immunizzazione.
Mantenere disponibili adeguati quantitativi di amantidina e di rimantidina per il trattamento dei pazienti ad alto rischio e del personale è essenziale nel caso dell'emergenza di un nuovo ceppo pandemico per il quale non sia disponibile, al momento della prima ondata epidemica, un vaccino adatto.
L'influenza è sotto speciale sorveglianza dell'OMS che raccomanda le seguenti misure: 1) notificare le epidemie che si verificano in un paese all'OMS; 2) identificare il virus causale e inviare dei ceppi prototipi a uno dei Centri di riferimento e ricerca sull'influenza dell'OMS (ubicati nelle città di Atlanta, Londra e Melbourne); possono inoltre essere inviati a uno qualsiasi dei Centri nazionali sull'influenza, riconosciuti dall'OMS, campioni di gargarizzati faringei, di aspirati nasofaringei e campioni di sangue; 3) condurre da parte dei Centri di ricerca sanitaria nazionali studi epidemiologici, procedendo a una pronta identificazione dei virus; 4) assicurarsi che siano disponibili sufficienti quantità di vaccino in commercio, oppure mettere in produzione rapidamente, da parte di strutture statali, quantità sufficienti di vaccino; 5) provvedere alla realizzazione di programmi per la somministrazione del vaccino alle persone ad alto rischio e al personale essenziale per il mantenimento delle principali attività.
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