Abstract
I diritti di informazione e consultazione, strumento di protezione degli interessi collettivi dei lavoratori, hanno ad oggetto la tutela della conoscenza dei fatti che incidono sulle condizioni di lavoro utile al conseguente confronto; informazione e consultazione formano, così, un’endiadi inscindibile nel concreto atteggiarsi nelle relazioni industriali e per tale funzione protettiva trovano riconoscimento giuridico.
Dimensione propria dei diritti in questione è, a titolo originario, quella collettiva, e non individuale; in quella, infatti, i lavoratori sono in posizione paritaria ai datori di lavoro nel coinvolgimento informativo.
L’esercizio di questi diritti trova limiti interni (funzionalizzazione al coinvolgimento) ed esterni (segreto industriale e riservatezza dei dati).
In questo contesto il d.lgs. n. 25/2007 è disciplina generale e uniformante di procedimentalizzazione, funzionalizzata come detto, dei poteri datoriali e reca la titolarità collettiva, e non individuale, dei diritti in parola.
La locuzione informazione e consultazione dei lavoratori sta ad indicare quella attività di confronto, diretto o mediato, attraverso la quale le parti del rapporto di lavoro acquisiscono, o arricchiscono, la consapevolezza delle reciproche esigenze di svolgimento del rapporto stesso. A qualificare questa essenza può aggiungersi il dato d’esperienza per il quale l’informazione e la consultazione vengono considerate funzionalizzate alla protezione recata dalla conoscenza stessa.
Sebbene l’istituto tragga origine fondante dal valore pre-giuridico, e non per questo non-giuridico, della libertà di informazione, nel suo polisenso accoglimento, informazione e consultazione formano un’endiadi inscindibile i cui termini risultano fra loro coessenziali.
In questa endiadi il processo di consultazione, infatti, crea una sorta di tutela rinforzata della conoscenza recata e sostenuta dall’informazione, rinforzo che coinvolge entrambe le parti nella reciproca responsabilizzazione circa le scelte sui contenuti e le modalità di svolgimento del loro rapporto conseguenti al completarsi del processo che potrebbe anche definirsi di co-informazione.
Ogni riferimento all’informazione, dunque, deve essere colto come riferimento al binomio che questa forma con le attività di consultazione le quali, oltre che dal punto di vista fattuale, anche da quello giuridico, devono intendersi di necessario complemento dell’informazione latamente intesa. Mutuando concetti matematici, fra gli elementi (attività) dell’informazione e quelli della consultazione vi è una corrispondenza biunivoca che tende a ricondurli ad un'unica categoria di insiemi.
L’informazione e consultazione, così intesa, è oramai istituto il cui riconoscimento giuridico nell’ordinamento italiano è ampio, sebbene non pieno: manca la codificazione di un approdo alla partecipazione che invece diviene linea di sviluppo dei diritti di informazione e consultazione a livello comunitario (v. infra, § 9).
L’ampiezza del riconoscimento giuridico dipende dalla pluralità di significati che può assumere la libertà di informazione attraverso i procedimenti che la realizzano, nelle sue diverse angolature, come libertà di essere informati, libertà di informarsi, libertà di informare (cfr. Barile, P.-Grassi, S., Informazione (libertà di) in Nss.D.I, appendice IV, 1983, 196 ss.; significati che, poi, sul piano dei rapporti interprivati, assumono la valenza giuridica di obblighi, di oneri, di limiti, nonché quella giuridico-economica di beni.
Il diritto di informazione da una sua dimensione generale a rilevanza costituzionale può essere condotto ad una sua rilevanza specifica nell’ambito dello svolgimento del rapporto di lavoro; qui assume autonoma e, per certi versi, originaria valenza laddove lo si consideri, nell’endiadi che forma con il diritto di consultazione, momento necessario per finalizzare al confronto fra loro le parti dell’informazione. Informazione e consultazione diviene così un processo unitario ed inscindibile che consente la comprensione e, quindi, la conoscenza delle diverse, ma reciproche, esigenze delle parti stesse.
Questo processo, però, se deve essere indirizzato al raggiungimento della protezione insita nella conoscenza, deve necessariamente scontare una fase di effettivo confronto e, perché sia tale, questo non può che svolgersi fra soggetti alla pari.
Ecco che la dimensione propria dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori è, a titolo originario, quella collettiva e non individuale. Solo in questa dimensione, infatti, i lavoratori sono parte alla pari dei datori di lavoro valendo la presunzione giuridica, ma anche sostanziale, della imputabilità unitaria (comune) di interessi ai soggetti collettivi. Questa dimensione è propria a titolo originario, giusta l’alterità dell’interesse comune rispetto a quello individuale e per l’originalità del fondamento del suo riconoscimento giuridico nell’art. 39, co. 1, Cost. (Cfr. Scognamiglio, R., Autonomia collettiva ed efficacia del contratto collettivo, in Studi in onore di Francesco Santoro-Passerelli, vol. V, Napoli, 1972, 995, già in Riv. dir. civ., 1971, I, 138 ss.)
Se questa è la vera e propria dimensione dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, la loro essenza si qualifica con l’esperienza che, nel loro svolgersi, vivono attraverso la connessione con il formante costituzionale e civilistico del diritto di informazione in generale (Sacco, R., (voce) Formante, in Dig. civ., Torino, 1992, vol. VIII, 438).
Ne è diretta conferma la possibilità di individuare limiti, soprattutto interni, ma anche esterni a detti diritti.
Considerato nella sua essenza collettiva, il diritto di informazione e consultazione dei lavoratori si afferma a partire dall’esperienza della contrattazione collettiva successiva alla stagione cd. “acquisitiva”, quando, cioè, la crisi economica della metà degli anni ’70 dello scorso secolo aveva chiaramente indicato come le rivendicazioni salariali non potessero essere più il solo centro dell’azione sindacale delle organizzazioni dei lavoratori. Ne deriva la progressiva acquisizione di nuovi diritti, quelli di nuove clausole obbligatorie del contratto collettivo volte proprio a sviluppare le possibilità di controllo del modificarsi dei processi produttivi che avessero impatti sulle condizioni di lavoro dei lavoratori; nascono, così, le prime procedure collettive di verifica ed esame congiunto.
Da un lato queste procedimentalizzano ulteriormente i poteri datoriali e fanno acquisire informazioni, prima riservate, ai rappresentanti sindacali attraverso le quali questi ultimi accrescono le possibilità di monitoraggio e controllo dei comportamenti dell’imprenditore, ed eventualmente di difesa da quelli inattesi, anche accrescendo il potere relazionale e, in qualche modo, negoziale di detti rappresentanti; dall’altro lato, queste procedure consentono al datore di lavoro di ridurre nell’alveo del confronto e del dialogo le istanze rivendicative e, soprattutto, di valutare ex ante i rischi di una possibile conflittualità collettiva ed individuale premunendosi contromisure proprio nell’ambito dell’informazione e consultazione.
Queste finalità, più o meno dichiarate, si affiancano a quelle riguardanti le caratteristiche intrinseche dell’endiadi informazione e consultazione. Ci si riferisce primariamente alla possibilità che il processo in questione giunga a fornire la comprensione e, quindi, la conoscenza delle reciproche esigenze senza riserve non necessarie.
Così l’informazione e la consultazione ha quale suo limite interno quello della sua funzionalità al raggiungimento dei suoi fini intrinseci: l’informazione deve essere utile alla verifica ed all’esame congiunto, deve consentire di comprendere senza riserve l’oggetto della stessa, deve stimolare il confronto e la controproposta, ove questa sia possibile, rispetto al progetto descritto nell’informazione stessa. Ciò non comporta necessariamente il realizzarsi di un modello partecipativo sebbene possa indirizzare alla condivisione delle scelte eventualmente già assunte o di prossima adozione. Fuori dello spazio di questa funzionalità l’obbligo di informazione e consultazione non vige.
Costituiscono limiti, per così dire, “esterni” ai diritti di informazione e consultazione collettiva le disposizioni di legge che intervengono a tutela di posizioni soggettive costituzionalmente garantite quali l’inviolabilità della riservatezza della persona e della sua dignità e la libertà di iniziativa economica privata, cui è direttamente connesso il segreto industriale ed il concorrente segreto professionale.
Sotto il primo profilo una generalizzata tutela della riservatezza era già teorizzata in dottrina (Ferri, B., Persona e privacy, in Il riserbo e la notizia, Napoli, 1983, 33 ss.; Cataudella, A., (voce) Riservatezza (diritto alla), Enc. giur. Treccani, Roma, 1991) ed in giurisprudenza (a partire da Cass., 20.4.1963, n. 990, in Foro it., 1963, I, 877 e C. Cost., 12.4.1973, n. 38 in Foro it., 1973, I, 1708 che espressamente fa rientrare la riservatezza fra i diritti inviolabili dell’uomo) anche prima delle leggi speciali in materia (da ultimo d.lgs. 30.6.2003, n. 196), individuandone il fondamento nei precetti costituzionali di cui agli artt. 13, 14, 15 e, nel senso di conseguente atteggiamento negativo, anche nell’art. 21 Cost. (cfr. Cataudella, A., op. cit., 3).
La l. 31.12.1996, n. 675, prima, ed il d.lgs. n. 196/2003, poi, hanno introdotto un “rafforzamento” delle tutele del diritto alla “riservatezza” della persona (cfr. Trojsi, A., Il diritto del lavoratore alla protezione dei dati personali, Torino, 2012, 59 ss.) che, senza dubbio, sul lavoro, che è fra i principali momenti di espressione della sua personalità, necessita di specifica tutela. Di qui il problema del coordinamento fra la disciplina generale sulla protezione dei dati personali e le discipline specifiche, per quel che qui interessa, del lavoro e della previdenza sociale; il problema non viene risolto dalla cd. “parte speciale” del d.lgs. n. 196/2003 (la parte seconda) che, invece, impone una ricostruzione sistematica, caso per caso, secondo il criterio di specialità non potendosi considerare quella parte come assorbente altre discipline speciali, quali, ad esempio, quelle già contenute in materia nello Statuto dei lavoratori le quali anche, per il loro contenuto negativo, costituiscono limiti esterni al diritto collettivo all’informazione e consultazione dei lavoratori, circoscrivendo i relativi obblighi del datore di lavoro.
Sul punto va, comunque, chiarito che, al di là delle fattispecie tipizzate, per le quali è possibile individuare l’interesse che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela, la sola intenzione o volontà, sia pure manifestata, di chi fosse interessato ad impedire la diffusione di informazioni che lo riguardino, non costituisce un generale e precostituito obbligo di segreto per il detentore di tali informazioni (cfr. Ichino, P., Il contratto di lavoro, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, vol. III, Milano, 2003, 268 ss.).
Con quest’ultima annotazione va affrontato anche il tema dei limiti esterni rivenienti dalla tutela che l’ordinamento predispone per le informazioni riguardanti l’attività di impresa, con particolare riferimento al cd. segreto industriale cui si relaziona il cd. segreto professionale (art. 662 c.p.) al quale anche i lavoratori e, vedremo, i loro rappresentanti collettivi, sono tenuti. Si tratta, per entrambi, di obblighi di segreto che non possono essere ritenuti di portata assoluta essendo, di contro, anzi, tutelato a livello costituzionale l’interesse generale alla circolazione e diffusione delle informazioni (art. 21 Cost., nonché, più in generale, artt. 2 e 3 Cost.).
Si impone, dunque, e sempre con il solo riferimento agli individuati interessi meritevoli di tutela, un bilanciamento fra un obbligo di silenzio (del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori nelle procedure di informazione e consultazione collettiva e di questi nei confronti di terzi) laddove la sua violazione possa portare nocumento; sussiste un obbligo di rivelazione dell’informazione, laddove questa sia sorretta da una giusta causa (cfr. art. 2622 c.c. e artt. 50-54 c.p.). L’eventuale assenza dell’uno o dell’altro elemento “esimente” conduce la valutazione del caso concreto verso l’una o l’altra soluzione.
Un obbligo di segreto può dirsi generalmente imposto, indirettamente, a chi abbia conoscenza di dati personali altrui, dall’art. 23 d.lgs. n. 196/2003 laddove prescrive la necessità del consenso dell’interessato per ogni trattamento di detti dati (incluse, quindi, le operazioni di comunicazione o diffusione), sempre che non valga l’esclusione del consenso per dati comuni o per alcuni dati sensibili (v. rispettivamente artt. 24 e 26, co. 3 e 4); l’ampia formulazione della norma include senz’altro anche i dati personali dei lavoratori.
Sempre in via generale deve rilevarsi l’esclusione dalla necessità di consenso per i dati trattati in adempimento di obblighi di legge o di regolamento, ovvero, e per i soli datori di lavoro privati, anche in osservanza di obblighi di contratto di cui l’interessato sia parte (cfr. art. 24, co. 1, lett. a e b, per la pubblica amministrazione, art. 19, co. 3); anche in questo caso l’ampiezza della formulazione include senz’altro il contratto di lavoro.
Ferma restando la possibilità di comunicazione e diffusione di dati personali o sensibili senza il consenso del lavoratore interessato laddove la modalità aggregata di trattamento non consenta di ricondurre ad esso il dato, si discute se, per il solo datore di lavoro privato, il riferimento all’esecuzione del contratto, quale esimente il consenso del lavoratore, possa includere anche il contratto collettivo, previa verifica dell’applicabilità dello stesso al rapporto di lavoro individuale. Argomentando dalle regole del diritto comune dei contratti che presiedono l’individuazione dell’efficacia soggettiva della cd. parte normativa del contratto collettivo rispetto alle parti del contratto individuale di lavoro, come noto fondate sulla verifica della volontà di dette ultime parti, la soluzione all’interrogativo posto è affermativa (cfr. in tal senso anche Ichino, P., Il contratto di lavoro, cit., 272 ss.).
Una certa, non condivisibile, giurisprudenza di merito, invece, ritiene lecito il rifiuto del datore di lavoro di comunicare all’organizzazione sindacale richiedente dati individuali relativi al personale interessato dalla ricerca di soluzioni mediante il confronto collettivo in corso (così ad es. P. Roma, 25.10.1997, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 759, con nt. critica di Pera, G., La legge Rodotà e le informazioni dovute al sindacato; v. anche Cassino, T., 12.7.2001, in Orient. giur lav., 2001, 475) anche se un certo ripensamento di questo orientamento si registra più di recente (cfr. Cass. civ., sez. lav., 16.3.2007, n. 6225, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 197).
Una disciplina parzialmente diversa è data per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: il d.lgs. n. 196/2003 all’art., 19, co. 3, non contempla fra le fonti esimenti il consenso quella dell’esecuzione di contratti in cui l’interessato è parte a differenza di quanto previsto per l’impiego privato, come s’è visto. Una differenza di difficile giustificazione ove si accolga l’universalità delle ragioni che, nel tempo, hanno via via dato luogo a norme di potenziamento dei processi di informazione e consultazione, nella loro dimensione collettiva, quali canali di attenuazione delle differenze di fatto fra le parti del rapporto di lavoro relative alla capacità di analisi, di verifica e di conseguente individuazione di soluzioni, nel confronto fra loro.
Il tema dell’implementazione dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, pur informato alla necessità di dare risposta all’esigenza di accrescimento della consapevolezza in un’ottica partecipativa di corresponsabilizzazione nelle scelte, passa ancora attraverso il tentativo di unificare la dicotomia connaturata al problema della diffusione della conoscenza, cioè quella fra tutela del segreto, da una parte, e acquisizione ed utilizzo delle informazioni, dall’altra.
Come noto, una protezione del segreto, anche di quello industriale, ha quali derivate concettuali, e a volte anche reali, quella assolutista della ricerca di un accrescimento d’efficacia, o meglio di incisività, dell’azione di gestione (cfr. Bobbio, N., Il futuro della democrazia, Torino, 1984, 76 ss.), nonché quella patologica dell’avvertire come opaca, o “invisibile”, la gestione stessa (cfr. Rodotà, S., La categoria “governo”, in Laboratorio politico, 1981, n. 1, 69 ss.).
Il tentativo unificante in parola risulta ancor più defaticante laddove si consideri come lo stesso muova a partire da una esigenza di segreto pretesa come giuridicamente rilevante in via generale.
In una prospettiva costituzionale, però, può ribaltarsi la visuale ed individuarsi il segreto come momento funzionale a produrre un risultato e non come esigenza generalizzata, anche considerando il già rilevato favore dell’ordinamento alla diffusione dell’informazione in generale (cfr. anche Pitruzzella, G., (voce) Segreto, I profili costituzionali, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1992, in part. 2 e 3). Generalmente il risultato cui è funzionalizzato l’obbligo di segreto è di protezione di un interesse contemplato a livello costituzionale come meritevole di tale copertura, tanto che il giudizio di legittimità della norma che impone il segreto può dirsi verificato positivamente solo in presenza di un rapporto di strumentalità tra questa e l’interesse costituzionalmente protetto; ciò potrebbe comunque non essere sufficiente esponendo la libertà di informazione al rischio di suo sostanziale annullamento (Loiodice, A., Costituzione e segreti, Napoli, 1981, 97); risulterebbe così più proprio, e meno vago di un riferimento al principio di ragionevolezza, l’impiego del parametro di giudizio che muove dai doveri inderogabili di cui all’art. 2 Cost. (cfr. C. Cost., 24.5.1977, n. 86, in Giur. Cost., 1977, I, 696; Loiodice, A., Informazione (diritto alla), in Enc. Dir., Milano, 1971, vol. XXI, 472 ss.); ciò almeno con riferimento al giudizio di legittimità dei limiti alla libertà di informazione, restando comunque un parametro di sufficiente duttilità quello del principio di ragionevolezza per le limitazioni al diritto di accesso alle fonti dell’informazione (cfr. Pitruzzella, G., (voce) Segreto, cit. p. 4).
Riprendendo le osservazioni fin qui svolte, con specifico riguardo ai diritti di informazione dei lavoratori, è qui che si disarticola gran parte dell’antagonismo fra primo e secondo comma dell’art. 41 Cost.: la disciplina che sostiene i diritti di informazione e consultazione può essere letta come volta ad estirpare da un radicamento esclusivista, da una sorta di natura proprietaria o patrimoniale, le conoscenze acquisite dall’azienda nell’esercizio della sua attività d’impresa; l’informazione, dunque, viene fornita dall’azienda funzionalmente alla protezione che la conoscenza della stessa reca ai lavoratori, così realizzando, per il suo, quell’utilità sociale di cui al secondo comma.
L’informazione, per tale via, non è più di esclusiva utilità del datore di lavoro; questa resta comunque in azienda rientrando, il suo oggetto, in quello dei doveri di fedeltà del lavoratore di cui all’art. 2105 c.c. e nell’impiego da parte di questi della dovuta specifica diligenza di cui all’art. 2104 c.c.
Completa la disarticolazione dell’(apparente) antagonismo citato la previsione, vedremo di portata generalizzata, per la quale i rappresentanti sindacali dei lavoratori sono chiamati al mantenimento del segreto d’impresa circa le informazioni qualificate come “riservate” dal datore di lavoro, nell’interesse dell’impresa stessa, nel corso delle procedure di informazione e consultazione (art. 5, d.lgs. 6.2.2007, n. 25). La previsione di legge in parola è peculiare laddove si consideri che quei rappresentanti sono tenuti al segreto in parola anche nei confronti degli stessi lavoratori; ma ciò lungi dall’essere incoerente con il disegno protettivo giacché simboleggia, anzi, il rafforzamento del ruolo fiduciario dell’interlocuzione collettiva, rispetto a quella individuale, volto a superare il disequilibrio insito nell’implicazione della persona nello svolgimento del contratto di lavoro individuale.
In attuazione della disciplina comunitaria in materia (Direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e consultazione dei lavoratori) è stato emanato il d.lgs. n. 25/2007 che interviene a valle di una ormai collaudata esperienza nazionale di procedure speciali di informazione e consultazione collettive.
Il d.lgs. n. 25/2007 si pone, per i suoi contenuti, come disciplina generale comune a tutte le vicende della vita organizzativa del datore di lavoro che abbiano ricadute (collettive) sulle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti; dunque non solo quelle proprie della cd. crisi d’impresa (economica o anche solo occupazionale che sia) ma in generale, come vuole la Direttiva citata, tutte quelle in cui la loro conoscenza può assolvere ad una funzione preventiva e protettiva.
In questa sede di ricostruzione sistematica non potranno essere esaminate nel dettaglio tutte le disposizioni della legge in parola (si rinvia per un approfondimento a L’impresa di fronte all’informazione e consultazione dei lavoratori, Napoli, M., a cura di, in Nuove leggi civ., 2008, vol. II, 843 ss. ed ivi ulteriori ampi riferimenti) come non lo potranno essere le correlate discipline speciali di informazione e consultazione collettive che segnano le specifiche vicende dell’organizzazione del lavoro nell’impresa; vale qui, invece, evidenziare il filo conduttore della norma che è quello di dotare di caratteri uniformanti, più che minimi, l’attività di informazione: questa non è fine a se stessa ma deve essere utile al confronto ed alla ricerca di un accordo sulle decisioni del datore di lavoro. Questo emerge nel testo di legge già dai primi articoli dove l’informazione è definita non solo “finalizzata alla conoscenza” ma anche “all’esame” in un’endiadi con la “consultazione” (v. art. 2, co. 1, lett. e ed f, nonché art. 4, co. 4), dove l’oggetto di questa endiadi non è solo l’andamento recente ma anche quello prospettico dell’impresa con speciale riguardo, in chiave preventiva, a quelle situazioni che possono modificare le condizioni di lavoro (v. art. 4, co. 3) e la sua rappresentazione deve essere motivata in maniera da poter favorire un’eventuale intesa fra le parti (art. 4, co.5, lett. d) ed e). Informazione e consultazione, non tanto di controllo ma partecipativa con potenzialità, potremmo dire, anticicliche.
Alla contrattazione collettiva, infine, è affidato il ruolo di intervento sussidiario di implementazione delle specificità di categoria o aziendali nel rispetto di una sorta di clausola di non regresso a garanzia della contrattazione stessa laddove questa già riconoscesse “altri diritti” di informazione (art. 8, co. 3).
Questi, nell’ottica di un “quadro generale”, sono i caratteri legali essenziali di ogni fattispecie di informazione e consultazione collettiva dei lavoratori che pure sia disciplinata da altra norma di legge o di contratto collettivo. In altri termini, la norma si pone in funzione costitutiva degli obblighi generali di informazione e consultazione dei lavoratori laddove questi non siano già codificati (licenziamenti collettivi, trasferimenti di azienda, informazione e consultazione transnazionali attraverso i CAE) ma la circostanza dell’impatto sulle condizioni dei lavoratori di imprese con più di 50 dipendenti lo richiede, costituendo, così, un sistema uniforme di informazione e consultazione che travalica il solo ambito della crisi d’azienda ed anzi, rispetto a questo, si solleva costituendo una pietra miliare nella storia delle relazioni sindacali partecipative.
La questione della titolarità del diritto di informazione e consultazione è centrale rispetto alla effettività delle tutele predisposte dall’ordinamento per la promozione del dialogo partecipativo che, come detto più volte sopra, si fonda sulla conoscenza quale presupposto della consapevolezza delle scelte compiute.
Si è detto sopra, altresì, che la dimensione propria dello svolgersi dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori è, in senso logico e, quindi, addirittura pre-giuridico, una dimensione collettiva, non avendo ragione un confronto individuale sui temi oggetto di quei diritti per come la legge ha voluto uniformemente disporre quel confronto; ciò considerando sia come quei diritti si inseriscono in un quadro che vive della funzione negoziale dell’azione sindacale, sia come gli stessi fungono da supporto a quell’azione attraverso l’implementazione attuativa dell’idea della partecipazione che si affilia a quella matrice prevenzionale dell’azione sindacale stessa storicamente rimasta, purtroppo, largamente sottomessa, quantitativamente e qualitativamente, alla più immediata e sensazionale matrice conflittuale cui si riconduce l’azione di autotutela collettiva.
Ciò premesso, qui, ora, deve concludersi per la natura e, quindi, per la titolarità collettiva, più che individuale, dei diritti di informazione e consultazione.
Al di là della logicità, innanzi premessa, di questa conclusione, si ritiene che lo stesso dato normativo positivo possa consentire di concludere in tal senso; ci si riferisce anzitutto all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 25/2007 dove, a mo’ di enunciato programmatico e finalistico, ci si preoccupa di indirizzare il rinvio al contratto collettivo per la disciplina delle modalità dell’informazione e consultazione «in modo tale da garantire l’efficacia dell’iniziativa»: giustamente il legislatore guarda ai fatti (“efficacia”) su cui si fonda l’irrinunciabile effettività dell’azione sindacale e lo fa attraverso uno strumento, il contratto collettivo, che di certo non si può considerare, a costituzione invariata, foriero di soluzioni obbligatorie generali ma soltanto dipendenti dalla sua efficacia soggettiva particolare. Inoltre, proprio considerando l’efficacia di diritto comune dei contratti collettivi, lo stesso decreto dispone un quadro generale di obbligatorietà dell’informazione e consultazione per quei casi in cui un contratto collettivo sia inapplicabile: all’art. 4, co. 3 e 5 si definisce, infatti, un sistema di contenuti e modalità dell’informazione che vede come parti il datore di lavoro e i «rappresentanti dei lavoratori» che, all’art. 2, vengono definiti in ragione della normativa vigente, legale e pattizia, sulla rappresentanza sindacale; l’unico caso in cui la norma in parola utilizza il termine lavoratore al singolare è allo stesso art. 2 nell’ambito delle definizioni ai fini della norma stessa, ma poi il singolare non viene più impiegato in alcuna delle altre disposizioni, ulteriore indice, a nostro avviso, di una predominante e funzionale rilevanza data alla dimensione collettiva del diritto in questione.
Il tema della soggettività del diritto di informazione e consultazione ha risvolti diretti sul regime delle responsabilità. In particolare, la verifica dell’esatto adempimento degli obblighi dovrebbe dipendere dalla individuata natura del diritto che li comporta. Ma, nel caso di specie, è la stessa norma di legge che individua il regime soggettivo dell’adempimento degli obblighi in parola, pertanto può risultare corretto anche il processo qualificatorio che proceda analizzando detto regime e ne ricavi la titolarità del diritto.
Dall’esame del regime dell’adempimento agli obblighi di informazione e consultazione risulta, dunque, che queste attività vadano condotte in favore dei citati rappresentanti dei lavoratori, e non già dei singoli lavoratori, che la norma definisce (art. 2, lett. d) affiancandoli, in senso palesemente identitario, ai canali di rappresentanza collettiva individuati dagli accordi interconfederali e dalla contrattazione collettiva lasciando intendere di riferirsi, quindi, ai canali di rappresentanza sindacale dei lavoratori previsti dalla legge, cioè dall’art. 19 l. 20.5.1970, n. 300, dovendo considerarsi definitivamente acquisita al patrimonio interpretativo del diritto del lavoro l’esclusione di ogni riferimento alla disciplina sul mandato, anche collettivo, di cui al Codice Civile per spiegare il fenomeno della rappresentanza dei lavoratori dipendenti (di tal tipo di lavoratori si tratta, infatti, stando alla definizione di lavoratore di cui all’art. 2, lett. c). Il riferimento generale alle “rappresentanze dei lavoratori secondo la normativa vigente” che in più parti fa il d.lgs. n. 25/2007 può, al più, essere considerato come generalmente inclusivo di tutte le forme di rappresentanza sindacale, sia quella diretta ad iniziativa dei lavoratori di matrice legale che include oltre alle R.S.A. di cui all’art. 19 l. n. 300/1970, anche le rappresentanze funzionali quali quelle per la sicurezza (d.lgs. 9.4.2008, n. 81) che quelle transnazionali o CAE (d.lgs. 2.4.2002, n. 74), che quella indiretta alle organizzazioni sindacali ovvero agli organismi di rappresentanza unitaria da queste promossi, ma non già dei singoli lavoratori che, come tali, non sono mai citati dalla norma, né come destinatari dell’informazione, né come parti di altro rapporto obbligatorio ivi contemplato.
Può concludersi, dunque, oltre che per una portata, anche per una titolarità collettiva dei diritti di informazione e consultazione in capo alle rappresentanze dei lavoratori che collettivamente li esercitano per un interesse comune dei lavoratori (in senso simile, sostiene il ricorrere di un interesse collettivo dei lavoratori ai diritti di informazione e consultazione Zoli, C., I diritti di informazione e di c.d. consultazione, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 169 e 174). Sul punto, comunque la dottrina assume diverse posizioni apparendo ad altri più immediata la soluzione per una titolarità individuale ad esercizio collettivo (v. Corti, M., Informazione e consultazione in Italia tra continuità formale e sviluppi sistematici, in L’impresa di fronte all’informazione e consultazione dei lavoratori, cit., 885 ss. ed ivi altri riferimenti).
Si aggiunga, però, che se la titolarità del diritto fosse da considerare individuale, anziché collettiva in capo alle rappresentanze dei lavoratori e da queste esercitabile, la norma in questione (d.lgs. n. 25/2007) presenterebbe un potenziale difetto di funzionamento rispetto al tema dell’esatto adempimento degli obblighi connessi a quel diritto: se l’obbligo di informazione e consultazione è assolto, ai sensi di legge, se svolto nei confronti delle rappresentanze sindacali costituite (RSA o RSU), ovvero altre rappresentanze dei lavoratori convenzionalmente individuate), l’informazione e consultazione può dirsi svolta anche nei confronti di coloro che rifiutassero la partecipazione collettiva al sindacato nel cui ambito quelle rappresentanze sono mantenute? La risposta sta proprio nella portata della titolarità del diritto: se questa fosse individuale, il dissenziente avrebbe titolo a far valere la propria diversa posizione individuale; solo considerando collettiva quella titolarità, invece, il piano individuale può essere non considerato, come ci sembra fare la norma in questione.
Oltre a quanto già evidenziato, circa l’individuazione dei soggetti destinatari dello svolgimento degli obblighi in parola, si ritiene possa essere indice di correttezza della soluzione per la titolarità collettiva anche la previsione dell’art. 5 d.lgs. n. 25/2007 in tema di informazioni riservate: la norma prevede il divieto per i rappresentanti dei lavoratori di diffusione, agli stessi lavoratori, delle informazioni ricevute dal datore di lavoro che siano state da questo classificate come riservate. Ove il titolare del diritto di informazione e consultazione fosse il singolo lavoratore, l’ostacolo interposto dalla norma ora richiamata resterebbe non giustificabile anche alla luce di una applicazione bilanciata del cd. segreto d’impresa, applicabilità, peraltro, esclusa per avervi il datore di lavoro stesso rinunciato facendo oggetto di informazione elementi che altrimenti avrebbe potuto proteggere col segreto.
Ricordando ancora una volta che la finalità del d.lgs. n. 25/2007 è quella di creare un quadro generale (uniforme) di disciplina per i diritti di informazione e consultazione, in attuazione dell’identica finalità della dir. 2002/14/CE da cui trae causa, quanto ora osservato in merito alla titolarità del diritto in questione può valere quale indirizzo interpretativo di legittimità per tutte le norme di legge che a vario titolo ed in varie circostanze contemplano obblighi e diritti di informazione collettiva dei lavoratori, salva diversa esplicita disposizione di dette norme.
In ordine ai soggetti verso i quali condurre l’adempimento degli obblighi di informazione e consultazione può superarsi, per questo istituto, il limite riveniente dalla mancanza di una “legge sindacale” sull’individuazione dei soggetti collettivi di soggetti sindacali che, ad esempio, costituisce ancora un impedimento al pieno riconoscimento della titolarità sindacale del diritto di sciopero (cfr. Magnani, M., Diritto sindacale, Torino, 2013, 181); infatti il quadro generale introdotto dal d.lgs. n. 25/2007 individua espressamente nei rappresentanti dei lavoratori, come sopra richiamati, i destinatari dell’informazione.
Sul punto della titolarità del diritto di informazione e consultazione la Corte di Giustizia dell’Unione europea si era già espressa, sia pure indirettamente, sentenziando come le legislazioni nazionali debbano sempre assicurare che i lavoratori possano esercitare i diritti in parola attraverso le loro rappresentanze (C. giust. CE, 8.6.1994, C-383/92 e C-382/92, in Raccolta, 1994, 2494); ciò non munisce certo i contratti collettivi, cui il d.lgs. n. 25/2007 rinvia per la procedimentalizzazione di questi diritti, di efficacia generale (cfr. Ciocca, G., sub La partecipazione del sindacato in generale, in Trattato dir. lav. Persiani-Carinci, vol. III, Padova, 2011, 847-848 ed ivi ulteriori riferimenti); il rinvio non è, quindi, di tipo necessario, attesa anche la già richiamata disciplina legale dell’informazione e consultazione che, oltre a disegnare un quadro uniformante, opera anche in assenza di contrato collettivo applicabile. Certo è che laddove il contratto collettivo applicato disciplini l’informazione e consultazione sindacale, le sue previsioni divengono obbligatorie ed inderogabili per le parti del rapporto individuale cui è applicato il contratto per forza del rinvio ricevuto dalla legge e perché quelle disposizioni, attenendo all’interesse collettivo, sono sottratte alla disponibilità individuale.
Sia la dir. 2002/14/CE che la sua legge nazionale di attuazione, il d.lgs. n. 25/2007 (art. 1, co. 2, per entrambe le norme), raccomandano l’efficacia dell’iniziativa, vale a dire l’effettività dell’informazione e consultazione che, come detto, passa dalle modalità individuate dai contratti collettivi. In effetti, il decreto (come già la direttiva) non si occupa dell’efficacia soggettiva degli accordi collettivi e questa è scelta opportuna del legislatore proprio in considerazione della portata collettiva dei diritti in questione che solo indirettamente coinvolgono i lavoratori individualmente considerati i quali, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali promotrici delle loro rappresentanze, possono comunque considerarsi partecipanti alla formazione di queste ultime, e da queste partecipati, nell’ambito della prerogativa di titolarità della contrattazione, o anche solo negoziazione, collettiva aziendale e ciò soprattutto dopo l’inclusione, ad opera della Corte Costituzionale (C. Cost., 3.7.2013, n. 231), anche di quelle rappresentanze non firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda ma che, comunque, hanno partecipato alla negoziazione degli stessi (cfr. Di Stasi, A., Le rappresentanze dei lavoratori in azienda, in Trattato dir. lav., Carinci-Persiani, cit. Vol. II, 259 ss. ed ivi ampi riferimenti di dottrina).
Il regime di responsabilità per violazione degli obblighi in questione è di tipo contrattuale, trattandosi di regime connesso ad un rapporto obbligatorio che, sebbene oggi generalmente disciplinato dalla legge, trova comunque occasione di svolgimento nell’ambito dei rapporti interprivati collettivi di lavoro rivenienti dai negozi giuridici generati dall’agire negoziale dei soggetti collettivi.
Il relativo inadempimento si verifica per mancata osservanza degli oneri informativi ed eventualmente di esame congiunto o confronto che siano previsti dai contratti collettivi cui le norme fanno rinvio o, in mancanza, dalla legge stessa che in materia ha inteso seguire l’identico approccio procedimentalizzante dei poteri imprenditoriali già tradizionalmente proprio della contrattazione collettiva stessa. Come si è visto, la mancata osservanza può attenere ai contenuti, mancanti o inidonei rispetto al generale precetto di utilità dell’informazione alla consapevolezza dei fatti; può attenere, altresì, all’errore nell’individuazione omissiva dei soggetti destinatari della procedura. Il primo profilo può ben essere sanato attraverso gli stessi accordi collettivi (ivi inclusi i cd. verbali di incontro che abbiano contenuto negoziale) eventualmente conseguenti al termine dell’intrapreso procedimento di informazione e consultazione. Il secondo profilo omissivo, invece, risulta insanabile da soggetti diversi da quelli titolati dalla legge o dalla contrattazione collettiva di rinvio.
Sul piano dell’effettività, richiamato in via generale, come detto, sia dalla direttiva europea che dalla norma nazionale, le conseguenze della violazione degli obblighi in questione vanno esaminate in ordine alla validità ed efficacia sia degli atti posti in essere dai soggetti collettivi, sia degli atti di gestione assunti dal datore di lavoro ad esito dell’esperimento dei procedimenti così viziati.
Per evidenti ragioni di economia del discorso generale e sistematico che si sta conducendo, non può qui ripercorrersi l’ampia casistica che coinvolge le diverse fattispecie di gestione aziendale oggetto dell’informazione e consultazione. Può però dirsi, in generale, che laddove clausole di contratto collettivo che procedimentalizzano lo svolgersi delle relazioni fra le parti collettive impongano che scelte gestionali dell’impresa debbano obbligatoriamente essere oggetto del processo di informazione e consultazione, (la casistica più frequente nella contrattazione collettiva è quella riferita ai processi di aggregazione fra aziende ed alle ristrutturazioni con riduzione di personale), la violazione dell’obbligo in parola non inficia la validità degli atti gestionali comunque adottati (trasferimenti d’azienda o di suo ramo, cessioni di partite finanziarie attive o passive, acquisti o vendite di beni oggetto della ristrutturazione, sospensioni di orario, ecc.) (cfr., fra le altre Cass., S.U., 11.5.2000, n. 302 che, peraltro, motiva l’esclusione dell’invalidità rilevando la portata collettiva e non individuale del diritto lamentato) ma al più può condurre a pronunce di rimozione degli effetti di tali atti laddove gli stessi incidano sostanzialmente sulle condizioni di lavoro dei lavoratori addetti alle strutture interessate e dunque integrino la fattispecie della condotta antisindacale cd. plurioffensiva, non potendosi comunque considerare quell’ordine di rimozione contenuto ex se nell’accertamento di antisindacalità della condotta (cfr., fra le altre, Trib. Roma, 14.1.2010, in Not. giur. lav., 2010, 529).
Il tema della tutela della tutela dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori va affrontato a partire dalla considerazione degli stessi nella loro essenziale matrice collettiva di cui sopra si è data illustrazione.
Considerando come destinatari delle norme di legge e di contratto collettivo relativi agli obblighi derivanti dallo svolgersi di tali diritti siano i lavoratori considerati nella loro dimensione aggregata e comune, cioè, appunto, collettiva, tanto più quando la procedimentalizzazione di quegli obblighi coinvolge organismi sindacali o rappresentanze aziendali, si ritiene che legittimati all’azione per la tutela dei diritti in questione siano organismi delle articolazioni di rappresentanza collettiva.
Sotto il profilo della cd. giustiziabilità dei diritti in questione, cioè la possibilità di ottenere pronunce che ordinino l’esatto adempimento dei relativi obblighi, l’azione di cui si tratta è quella di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 l. n. 300/1970.
La dimensione essenzialmente collettiva dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, infatti, conduce necessariamente a considerare la loro violazione riconducibile alla condotta reprimibile ex art. 28 cit.; in tal senso la giurisprudenza è ormai consolidata (cfr. a partire dalla nota Pret. Roma, 22.3.1986, in Lavoro 80,1986, 374 fino alle più recenti Cass., 10.10.2016, n. 20319; Cass., 2.12.2015, n. 24542). La nota (ed opportuna) mancanza nel nostro ordinamento di una specifica tipizzazione della antisindacalità della condotta datoriale non potrebbe far concludere per l’esclusività del rimedio giudiziario ex art. 28 st. lav. sebbene valutazioni sostanziali lo rendano tale sotto il profilo della effettività del rimedio rispetto ad altri; in estrema ipotesi, sempre sotto il profilo dell’effettività, sarebbe esperibile anche il generale rimedio sommario d’urgenza ex art. 700 c.p.c. sebbene, in tal caso, sarà onere di chi agisce in giudizio dimostrare che il cd. periculum in mora non sia sufficientemente protetto dall’azione ex art. 28 cit., anch’essa in effetti sommaria almeno nella sua prima fase ex co. 1, ovvero dall’ordinaria e generale azione per l’accertamento e la condanna ad obblighi di fare anche questa esperibile stante la non esclusività di altri rimedi, ma con i limiti di effettività di cui sopra e dinanzi al Tribunale in funzione di giudice ordinario, non trattandosi di controversie individuali di lavoro riconducibili ex art. 409 c.p.c. al rito del lavoro.
Per inciso, deve aggiungersi che il rimedio ex art. 28 l. n. 300/1970 per la sua nota portata ripristinatoria (interruzione della condotta e rimozione dei suoi effetti) appare rispondente ai requisiti di idoneità dei rimedi avverso l’inosservanza degli obblighi di informazione e consultazione richiesti dall’art. 8 della dir. 2002/14/CE istitutiva del quadro generale di tali diritti e della quale il d.lgs. n. 25/2007 rappresenta l’attuazione nazionale italiana.
La particolare struttura dell’azione giudiziaria disposta dall’art. 28 st. lav. supera ogni valutazione in ordine ai soggetti effettivamente abilitati a promuovere l’azione dovendosi far riferimento a quelli tipicamente previsti dalla norma ora richiamata.
Sotto altro profilo resta, poi, la generale azione di risarcimento del danno, sempre davanti al giudice ordinario, attesa la natura collettiva dei diritti in questione, che non prevede attori tipizzati, ma che richiede l’allegazione della tipologia e dell’entità del danno eventualmente occorso al soggetto che agisce, non potendosi considerare in re ipsa neanche voci di danno quali quelli all’immagine o alla reputazione della rappresentanza sindacale ovvero dell’organizzazione nel cui ambito è costituita.
Diversa dal risarcimento del danno è la previsione di cui all’art. 7, co. 1, del d.lgs. n. 25/2007 che prevede una sanzione amministrativa (da un minimo di 3.000 ad un massimo di 18.000 Euro) per ogni violazione dei diritti di informazione e consultazione integrata dal datore di lavoro. Competente ad elevare la sanzione (ed a ricevere le segnalazioni ai fini sanzionatori delle presunte violazioni) è la Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio.
Sia per l’esperibilità del rimedio ex art. 28 st. lav.., che per la denuncia ai fini delle sanzioni ora richiamate, la questione dirimente è l’individuazione di ciò che debba intendersi per violazione dei diritti in argomento.
Anche per questo aspetto è nota l’assenza di una tipizzazione legale della violazione; deve per ciò farsi ricorso alla generale finalità delle norme che assicurano l’informazione e la consultazione dei lavoratori cioè quella dell’utilità dell’informazione a consentire la consapevolezza dei lavoratori nella loro libera scelta di sostenere o contrastare il programma aziendale che incida sulle condizioni di lavoro. Attesa l’esigenza di rendere oggettivamente valutabile quell’utilità possono ammettersi eventuali tipizzazioni dei contenuti dell’informazione ad opera della contrattazione collettiva; l’utilità si traduce, quindi, in completezza dell’informazione; tali tipizzazioni, però, non potranno essere considerate tassative ed esclusive giacché il rispetto della finalità di utilità in questione necessita, per la sua effettività, di una verifica nel caso concreto che avviene necessariamente ex post ma che non può essere svolta in relazione a fatti o atti posti in essere dal datore di lavoro successivamente alla procedura collettiva e non determinabili al momento dello svolgersi della procedura stessa. Resta, dunque, sul punto, una certa discrezionalità del giudicante che, se da un lato esprime una corrispondente incertezza del risultato della norma, dall’altro consente la sua continua adattabilità.
A mo’ di conclusione di quanto fin qui illustrato, appare opportuno riservarsi un breve ragionamento sulla connessione possibile, e comunque da ricercare, fra il tema dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori e quello della partecipazione dei lavoratori stessi alla vita dell’impresa. Non può certo qui affrontarsi, con pretesa di completezza, un’analisi delle ragioni della genesi di una così timida, sia pur programmatica, previsione costituzionale qual è quella dell’art. 46 Cost.; un’analisi comparata, anche solo in ambito europeo e con riferimento alle sole principali economie dell’Europa (si consenta il rinvio a Testa, F., Employees' participation, involvement and collective bargaining; comparative thoughts in search for a common european denominator, in European Journal of Social Law, 2013, n. 4, 312 ss.) potrebbe offrire spunti che contribuiscono a dare una certa sistematicità alla ricerca di un indirizzo comune su auspicabili evoluzioni normative della partecipazione nella sua ampia accezione di coinvolgimento ed influenza nelle scelte dell’impresa che, per superare l’ostacolo della diversità di tradizioni di rappresentanza collettiva nei vari Paesi membri che si frappone ad una armonizzazione normativa sul tema, ponga nuovamente al centro l’intima connessione fra la partecipazione e la contrattazione collettiva; l’occasione merita il riferimento ad una considerazione fondante che, in verità, aprirebbe un conseguente ragionamento sul quale, però, l’economia dello scritto pone un freno: se è vero, come ritengo sia, che la partecipazione vada intesa come uno dei molti possibili strumenti di tutela delle condizioni della persona che lavora, finalità cui lo stesso diritto del lavoro in generale è tutto ordinato, è perché quella tutela, più che mai ora, deve trovare spazi anche in chiave di prevenzione passando dalla conoscenza (rectius comprensione) dei problemi e delle conseguenti esigenze che è l’unica via che, ieri, come oggi, consente di distinguere per tutelare effettivamente.
La partecipazione come momento di effettiva conoscenza e consapevolezza è, in questo senso, uno strumento potenzialmente efficace ma che univocamente inteso, assecondando rigidità inconciliabili con le tradizioni di rappresentanza dei diversi ordinamenti, rischia di essere concretamente non effettivo.
In ciò sta la necessità di individuare soluzioni che concilino, sì, la tutela con lo sviluppo ma convincendosi che, comunque, il primo termine del confronto, la tutela, ha portata valoriale che già di per sé, nella sua essenza, include anche la cura del secondo il quale non può ridursi a mero sviluppo economico.
A livello comunitario, ad esempio – dopo il tramonto, non può sapersi se definitivo o meno, del progetto della Societas Europaea, che si caratterizzava per il suo fondarsi sul modello della rappresentanza diretta in sede di partecipazione, che è un modello che risente molto delle diverse tradizioni dell’azione rappresentativa collettiva dei diversi Paesi membri – si registra un rinnovato indirizzo volto al potenziamento degli strumenti partecipativi della negoziazione collettiva che è, invece, prassi comune a tutti gli Stati membri e che, sebbene conosca maggiore o minore rilievo rispetto alla composizione delle discipline di tutela del lavoro in ragione delle diverse previsioni nazionali, risulta comunque idonea ad incidere sia che venga declinata secondo modelli di rappresentanza diretta, sia che la sua declinazione si svolga secondo la rappresentanza sindacale indiretta.
Ci sembra che questo indirizzo possa essere accolto come spunto di ulteriore sviluppo dell’esperienza del coinvolgimento dei lavoratori all’impresa, in particolare sotto il profilo della negoziazione collettiva delle scelte imprenditoriali che presuppone l’acquisizione della consapevolezza delle esigenze in gioco, proprio attraverso i procedimenti negoziali di informazione e consultazione.
Artt. 2, 3, 21, 39, 41, 46 Cost.; direttiva 2002/14/CE; artt. 50-54, 662 c.p.; art. 2104, 2105, 2622 c.c.; d.lgs. 2.4.2002, n. 74; d.lgs. 30.6.2003, n. 196; d.lgs. 6.2.2007, n. 25; d.lgs. 9.4.2008, n. 81.
Bibliografia essenziale
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