Abstract
La voce esamina la disciplina dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali alla luce della sua lunga evoluzione storica, dalla legge fondativa di fine Ottocento ad oggi, approfondendone le principali problematiche applicative.
L’Italia si è data la sua prima disciplina previdenziale in materia di infortuni sul lavoro, e quindi la sua prima assicurazione sociale obbligatoria, con la l. 17.3.1898, n. 80. Un primo intervento in materia – ancorché in una logica di mera garanzia d’una forma di previdenza ancora del tutto libera – era peraltro già stato compiuto un quindicennio addietro, con la l. 8.7.1883, n. 1473, istitutiva della Cassa nazionale di assicurazione per gli infortuni degli operai sul lavoro. Si trattava, tuttavia, di un intervento ancora rigidamente confinato dentro le linee di quello che è stato definito il «diagramma liberale» classico (Ewald, F., L’État providence, Paris, 1986, 64 ss.), fedele, cioè, da un lato, al dogma della libertà di assicurazione (che infatti restava puramente facoltativa ed appena incentivata sul piano fiscale), e rispettoso, dall’altro, del fondamentale principio regolativo della società liberale (la responsabilità civile per colpa).
Il passaggio dall’assicurazione facoltativa a quella obbligatoria, ad opera della legge del 1898, fu reso possibile dall’irrompere e dal definitivo affermarsi, nel dibattito politico-giuridico anche italiano, di un principio di regolazione sociale totalmente nuovo, al di là dei richiami alla tradizione: il principio del rischio professionale.
Il nuovo principio era germogliato nell’ambito delle rinnovate teorizzazioni sulla responsabilità civile «dall’irrequieto fondo dei bisogni sociali» emergenti (Carnelutti, F., Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni, in Infortuni sul lavoro. Studi, I, Roma, 1913, 20), come antidoto alla sostanziale irresponsabilità troppo spesso assicurata ai datori di lavoro dall’applicazione delle regole del diritto comune. Ma se il suo naturale terreno di nascita era quello della responsabilità civile, quello di crescita non poteva che essere la nuovissima e inesplorata terra dell’assicurazione obbligatoria. Esso abbandonò infatti assai presto quel nativo terreno per essere trasportato su quello dell’assicurazione obbligatoria, cui naturaliter accedeva (cfr. Fusinato, G., Gli infortuni sul lavoro e il Diritto civile, in Riv. it. sc. giur., 1887, III, 46 e 181 ss.). Come è stato incisivamente detto, «la categoria del rischio professionale appartiene a un pensiero di tipo assicurativo» (Ewald, F., L’État, cit., 306). Cosicché doveva risultare esito quasi inevitabile che – finalmente fuoriuscito dal discorso sulla responsabilità civile dell’imprenditore, al cui interno era stato primariamente collocato (peraltro, almeno in Italia, in una prospettiva de iure condendo), ed anzi oramai costruito come alternativa radicale a quella – il principio del rischio professionale finisse presto per tramutarsi nel fondamento, prima teorico e poi anche normativo, dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni: «due cose» – come si poteva ormai tranquillamente dire alla vigilia dell’approvazione della l. n. 80/1898 – «assolutamente inseparabili» (Ferraris, C.F., Gli infortuni sul lavoro e la legge. Relazione al Consiglio della previdenza – Sessione del 1897, Roma, 1897, 48).
La l. n. 80/1898 tradusse il principio del rischio professionale nella forma transattiva che esso implicava e nella quale venne attuato, sia pure in modi diversi, da tutte le legislazioni antinfortunistiche dell’epoca. Da un lato, l’operaio si vedeva riconosciuto il diritto ad essere ristorato anche per gli infortuni dovuti al caso fortuito, alla forza maggiore o alla sua stessa colpa, tutti irrisarcibili alla stregua del codice civile. Dall’altro lato, però, l’indennizzo veniva stabilito in una misura forfettaria, più bassa del risarcimento che sarebbe spettato in base al diritto comune. Stipulando il contratto di assicurazione, e così accollandosi integralmente il pagamento dei relativi premi, l’imprenditore si sarebbe del resto liberato da qualunque responsabilità civile nei confronti del lavoratore, salva solo l’ipotesi (all’epoca eccezionale) in cui il fatto dal quale l’infortunio fosse derivato costituisse «reato d’azione pubblica» (art. 22, co. 3, l. n. 80/1898). Ma, soprattutto, i benefici della soluzione transattiva sanzionata dalla legge speciale avrebbero dovuto applicarsi (e furono in effetti riferiti) ad una ristretta platea di lavoratori dell’industria. Essi si riferivano, infatti, soltanto agli operai addetti ad un numero ristretto di determinate attività industriali ritenute particolarmente pericolose, vuoi per la natura stessa delle lavorazioni, vuoi per l’uso di macchine «mosse da agenti inanimati o da animali» (art. 1, co. 3).
I punti cardinali del compromesso alla base della legge del 1898 furono quindi confermati dai successivi sviluppi legislativi dell’assicurazione obbligatoria. L’evoluzione della legislazione antinfortunistica si è, infatti, da allora incanalata lungo una linea di tenace continuità rispetto al modello originario. Una continuità che non si è lasciata all’apparenza turbare neppure dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, certamente espressiva di principi e valori profondamente diversi da quelli che furono assunti a fondamento della legge del 1898. Quella impostazione è infatti agevolmente rintracciabile negli stessi lineamenti di quello che a tutt’oggi costituisce la fonte normativa basilare della materia: il d.P.R. 30.6.1965, n. 1124, recante il testo unico delle disposizioni dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (d’ora in poi t.u.).
Le principali tappe dell’evoluzione legislativa in campo antinfortunistico possono allora essere descritte come incrementi successivi, vuoi dei confini soggettivi, vuoi dell’ambito oggettivo, vuoi, infine, dei contenuti della tutela. La prima riforma importante – dopo la sistemazione operata dal testo unico del 1904 – fu realizzata dal d.lgt. 23.8.1917, n. 1450, che estese l’assicurazione contro gli infortuni al mondo del lavoro agricolo, introducendo inoltre significative novità anche sul versante delle tecniche di tutela (basti qui ricordare l’introduzione del principio dell’automaticità delle prestazioni in favore dei lavoratori, che divenivano assicurati di pieno diritto in virtù del solo svolgimento dell’attività lavorativa).
Il fascismo ereditò le acquisizioni della legislazione previdenziale dell’epoca liberale, inquadrandole in quella più generale opera di pubblicizzazione delle strutture e delle forme dell’intervento sociale, a sua volta funzionale alla costruzione dello «Stato totalitario» (cfr. il classico Aquarone, A., L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, e, ora, Di Nucci, L., Lo Stato-partito del fascismo, Bologna, 2009). La forte impronta pubblicistica in tal modo impressa al sistema previdenziale avrebbe plasmato in profondità l’assetto organizzativo dello Stato sociale italiano, conferendo allo stesso connotati che il Costituente e il legislatore repubblicani si sarebbero limitati a riconvertire ai nuovi valori del costituzionalismo democratico.
Per il resto, il legislatore fascista-corporativo procedette ad un’opera di allargamento e di rafforzamento della tutela antinfortunistica secondo linee di più sicura continuità con la legislazione d’epoca liberale. Al R.d. 13.5.1929, n. 929 – e al relativo regolamento d’esecuzione approvato con R.d. 5.10.1934, n. 1565 – si deve, ma a far tempo solo dal luglio del 1934, l’allargamento dell’oggetto dell’assicurazione al ristretto numerus clausus di malattie professionali previste, per il solo settore industriale, dall’apposita tabella. Per il settore agricolo occorrerà attendere la l. 21.3.1958, n. 313, resa esecutiva con il d.P.R. 28.4.1959, n. 471, anch’essa ovviamente improntata alla tutela delle sole tecnopatie tassativamente elencate nella relativa tabella. Al legislatore degli anni ’30 (R.d.l. 23.3.1933, n. 264, convertito nella l. 29.6.1933, n. 860; R.d. 17.9.1935, n. 1765, recante il nuovo testo unico) è poi dovuta un’opera di revisione organica del sistema, sul cui impianto avrebbe più tardi agito – senza alterarne le direttrici – il t.u. del 1965. Il principio del rischio professionale è saldamente mantenuto a fondamento della disciplina, in quanto «ritenuto compatibile con la logica della solidarietà corporativa, secondo la quale la realizzazione della tutela previdenziale doveva restare affidata alle categorie interessate dei datori e dei prestatori di lavoro e, quindi, continuare ad esaurirsi nella logica propria del rapporto di lavoro subordinato» (Persiani, M., Tendenze dell’evoluzione della tutela per gli infortuni e le malattie professionali: il superamento del principio del rischio professionale, in Riv. giur. lav., 1974, III, 177 ss., qui 178). Gli interventi legislativi degli anni ’30 impressero comunque una forte impronta pubblicistica anche alla tutela antinfortunistica, in una prospettiva che «assumeva la gestione pubblica della previdenza esplicitamente e ufficialmente come uno dei principali strumenti di collaborazione tra capitale e lavoro» (Fargion, V., Stato e previdenza in Italia: linee evolutive dell’intervento pubblico in prospettiva comparata, in Freddi, G., Scienza dell’amministrazione e politiche pubbliche, Roma, 1989, 219).
Dopo d’allora, la prima riforma legislativa organica dell’assicurazione obbligatoria – se si eccettuano taluni, seppur significativi, interventi parziali – è stata quella realizzata dal t.u. del 1965, il quale non si è spinto oltre la razionalizzazione e il perfezionamento del materiale normativo esistente ed ormai consolidato (benché, nel frattempo, e da più di tre lustri, fosse entrata in vigore la Costituzione repubblicana). Nella direzione dell’attuazione dei principi costituzionali – siccome mediati e specificati da una densa elaborazione giurisprudenziale – si è invece esplicitamente mosso l’incisivo intervento riformatore posto in essere con il d.lgs. 23.2.2000, n. 38 (emanato ai sensi dell’art. 55, co. 1, l. 17.5.1999, n. 144), con il quale è stato integralmente ridisegnato il sistema d’indennizzo dell’Inail.
Oggi è acquisito, nella elaborazione dottrinale come in quella giurisprudenziale, che il fondamento dell’assicurazione obbligatoria non possa più essere individuato in quel principio del rischio professionale, come rischio proprio dell’impresa, «sul quale già venne assisa la responsabilità dell’imprenditore per gli infortuni professionali degli operai dipendenti – una responsabilità oggettiva contrattuale arbitrariamente avvicinata ai casi eccezionali di responsabilità oggettiva extracontrattuale ammessi dal codice» (Santoro-Passarelli, F., Rischio e bisogno nella previdenza sociale, in Riv. it. prev. soc., 1948, 177 ss., qui 192). Nella nuova trama dei valori costituzionali quel principio ha senz’altro perduto ogni sua residua ragion d’essere; l’originaria funzione giustificativa dell’intervento pubblico in materia, come pure la stessa logica transattiva sottesa a quel principio, appaiono, infatti, irrimediabilmente estranee alla trama dei valori solidaristici espressi dalla Costituzione (artt. 2, 3, co. 2, 32 e 38) e nei quali ormai si radica, in via esclusiva, il riconoscimento del diritto sociale fondamentale del lavoratore alla tutela previdenziale (anche) per gli infortuni e le malattie d’origine professionale. L’infortunio sul lavoro e la tecnopatia vengono infatti assunti dall’art. 38 Cost. – non diversamente da quanto avviene per l’invalidità, la vecchiaia o la disoccupazione – come evento generatore di un bisogno socialmente rilevante, la cui rimozione è compito dello Stato garantire mediante organi o istituti dallo stesso predisposti o integrati (cfr. in tal senso, nella giurisprudenza più recente, Cass., sez. lav., 20.12.2011, n. 27679, che su queste basi ha affermato il principio della indisponibilità del diritto alla rendita erogata dall’Inail).
Se dunque quel principio, che servì originariamente a giustificare l’istituzione dell’obbligo assicurativo contro gli infortuni sul lavoro, deve ritenersi ormai estraneo al nucleo di valori solidaristici che presiede alla garanzia previdenziale pubblica, ciò ovviamente non comporta che sia preclusa qualunque rilevanza alla diversa nozione del rischio professionale, inteso, stavolta, nel suo significato di mera possibilità che si verifichi un evento dannoso (e in tal senso generatore d’uno stato di bisogno) in occasione o a causa del lavoro prestato. Intesa anzi in questa diversa accezione di rischio da lavoro, la nozione di rischio professionale – come rischio proprio del lavoratore – è all’evidenza addirittura consustanziale alla tutela previdenziale differenziata contro gli infortuni sul lavoro, siccome oggetto di specifica previsione da parte dell’art. 38, co. 2, Cost. Ed infatti, com’è stato chiarito, «la nozione di rischio professionale designa quegli eventi al verificarsi dei quali la legge dispone che si realizzi la specifica tutela previdenziale di cui trattasi», onde in buona sostanza «descrive – se non ne è addirittura sinonimo – le stesse nozioni di infortunio sul lavoro e di malattia professionale, così come sono definite dalla stessa legge ai fini dell’erogazione della tutela» (Persiani, M., La tutela del rischio professionale nel quadro della previdenza sociale, in Riv. infort., 1986, I, 311 ss., qui 316-317).
Sotto tale profilo, la professionalità del rischio sopportato dal lavoratore, per il fatto stesso di svolgere l’attività lavorativa, qualifica l’evento generatore dello stato di bisogno oggetto della garanzia previdenziale ed in tal senso autorizza (ovvero, secondo altra prospettazione, addirittura impone) una corrispondente differenziazione della protezione sociale. Ed invero, non solo rientrerebbe nella sfera della discrezionalità del legislatore ordinario provvedere ad apprestare una specifica e più intensa tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro, ma dall’apposita menzione che ne fa l’art. 38 Cost. «ben si può dedurre che una specifica tutela contro i rischi professionali sia coperta dalla garanzia costituzionale, nel senso che una legge che facesse venire meno il rilievo previdenziale della professionalità dell’evento sarebbe molto probabilmente illegittima costituzionalmente» (così ancora Persiani, M., La tutela del rischio, cit., 317). Come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 17 del 19.1.1995, «in base ai principi generali dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l’evento assicurato, e cioè l’inabilità temporanea o permanente del lavoratore, in tanto può essere ricondotto alla sfera del rischio assunto dall’ente assicuratore, in quanto sussista un rapporto di derivazione eziologica fra esso ed un fatto generatore che si qualifichi come infortunio o malattia professionale». Ciò che rileva è, pertanto, unicamente la eziologia professionale dell’evento, ovvero, per l’infortunio, l’operare di una causa violenta semplicemente correlata ad una occasione di lavoro (art. 2 del t.u.) e, per la malattia professionale, un rapporto di vera e propria (lenta) derivazione causale (art. 3), ancorché, come si dirà tra un momento, ormai completamente disancorata da quel requisito di stretta tipicità che caratterizzava, sino alla sentenza n. 179 del 18.2.1988 della Corte costituzionale, il sistema tabellare chiuso.
In tale prospettiva, la Corte ha potuto precisare che nel precetto di cui all’art. 38 Cost. può dirsi «insito l’elemento del rischio solo nel senso che la specifica tutela costituzionale dei lavoratori non si estende a qualsiasi situazione di bisogno, ma è limitata agli stati di bisogno oggettivamente provocati da determinati eventi. In questo senso la nozione di rischio esprime un giudizio di possibilità di lesione fondato su indici tipici, indipendentemente da criteri di verosimiglianza statistica rapportati alle situazioni concrete dei singoli lavoratori» (C. cost., 2.3.1991, n. 100). Ne consegue che oggetto della tutela previdenziale contro gli infortuni non è «la pericolosità dell’attività considerata, concretamente misurabile secondo un certo grado di probabilità statistica, bensì l’attività per sé stessa», in quanto connotata da indici tipici, essendo il sistema assicurativo-sociale basato «non sul rischio concreto derivante dalle singole lavorazioni, ma sulle attività protette, con conseguente distacco dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro dal concetto statistico assicurativo di rischio al quale era originariamente legata (distacco che può considerarsi compiuto con la sentenza di questa Corte n. 179 del 1988)».
Il momento di più netto distacco dai limiti logici del principio del rischio professionale (e, al contempo, di corretto svolgimento della relativa nozione) si è infatti consumato con la già evocata, fondamentale sentenza n. 179/1988, con la quale è stato finalmente eliminato il sistema tabellare chiuso di tutela delle malattie professionali (nel quale la protezione era in via esclusiva incentrata sulle fattispecie tassativamente elencate nella lista) ed è stato introdotto quello misto (che ammette all’indennizzo anche le malattie di cui sia comunque provata la causa di lavoro). Oggi le nozioni di infortunio sul lavoro e di malattia professionale, tuttora dettate dagli artt. 2 e 3 del t.u., debbono essere riconsiderate alla luce delle innovazioni del d.lgs. n. 38 del 2000. Oltre a codificare un’ampia nozione di infortunio in itinere (art. 12) e a sancire anche sul piano legislativo il principio della natura aperta ed evolutiva delle tabelle delle malattie professionali (art. 10), il d.lgs. 23.2.2000, n. 38 incide infatti su tali nozioni in via indiretta, per il tramite della radicale riforma del sistema indennitario dell’Inail, al cui centro colloca la lesione della integrità psicofisica del lavoratore, a prescindere dai suoi riflessi reddituali.
Come rammentato, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali risente tuttora dell’impostazione selettiva che risale alle origini ottocentesche, allorché l’obbligo assicurativo fu posto interamente a carico dei datori di lavoro limitatamente, però, a quelle attività che presentavano un maggiore rischio infortunistico. Nella prospettiva originaria, quella impostazione rispondeva direttamente alla teoria del rischio professionale, secondo la quale l’imposizione del premio assicurativo sarebbe stata giustificabile soltanto in presenza di un’attività particolarmente pericolosa. Ne era così derivata una rigorosa selezione dei soggetti protetti e una conseguente esclusione di tutte quelle attività che, per la loro ridotta pericolosità, non giustificassero una traslazione del rischio infortunistico sull’imprenditore.
Quell’impostazione non è stata modificata nei successivi sviluppi legislativi ed è anzi stata sostanzialmente confermata dalla disciplina vigente. Tuttavia, l’originaria selettività di tali criteri applicativi è stata, nel tempo, progressivamente erosa tanto dall’evoluzione legislativa quanto – e soprattutto – da quella giurisprudenziale. Alla luce di tale evoluzione, si può oggi affermare che le ipotesi di scopertura assicurativa risultano ormai del tutto residuali, tanto più alla luce dell’estensione soggettiva operata dal d.lgs. n. 38/2000 (cfr. Piccininno, S., I soggetti protetti nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nell’industria, in Tratt. prev. soc. Bussi-Persiani, IV, La tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, Padova, 1981, 173 ss., e, dopo la riforma del 2000, Persiani, M., L’ambito soggettivo di applicazione della tutela per gli infortuni e le malattie professionali, in Riv. infort., 2000, I, 1 ss.). È peraltro indubbio che, in tali ipotesi, quei limiti continuino ad essere causa di disparità di trattamento che sono tanto più ingiustificate quanto più risultano per l’appunto residuali le fattispecie escluse dal campo applicativo soggettivo del t.u.
Il campo di applicazione soggettivo dell’assicurazione obbligatoria nel settore industriale risulta individuato alla stregua dei presupposti di cui agli artt. 1, 4 e 9 t.u., che definiscono, rispettivamente, le attività protette, le persone assicurate e i datori di lavoro assicuranti. L’art. 1, co. 1, t.u. dispone anzitutto che l’assicurazione è obbligatoria per coloro che sono addetti «a macchine mosse non direttamente dalla persona che ne usa, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi e impianti elettrici o termici». La previsione individua il principale criterio applicativo della tutela assicurativa, che si identifica nella «macchina» intesa come autonomo fattore di rischio. Secondo una definizione comunemente accettata, per macchina deve qui intendersi qualsiasi meccanismo che, indipendentemente dalla sua complessità, utilizzi un’energia diversa da quella della persona che ne fa uso onde ottenere un maggior rendimento con il minimo sforzo, restando così esclusi soltanto i semplici utensili.
Una così ampia nozione ha evidentemente permesso di ampliare la sfera applicativa della tutela assicurativa in linea con l’evoluzione del processo industriale. Ed ancor più significativa, in questa direzione, è stata l’elaborazione della nozione di macchina con riguardo agli apparecchi elettrici, avendo la giurisprudenza chiarito che la ricorrenza dell’obbligo assicurativo ai sensi dell’art. 1 t.u. è fondata su di una presunzione iuris et de iure, che come tale prescinde dall’accertamento dell’effettiva pericolosità della macchina; conseguendone che, anche là dove, per il loro contenuto tecnologico o per il funzionamento a bassa tensione, le stesse non diano luogo ad alcun rischio concreto, l’obbligo assicurativo deve ritenersi comunque sussistente, rilevando l’entità del rischio ai soli fini della determinazione del premio. In questo senso si è espressa anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 221 del 16.10.1986, la quale, uniformandosi all’orientamento già consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto utopistico il «rischio zero» rispetto alle macchine elettriche, rilevando che «nessuna norma, per quanto accuratamente studiata, può garantire in modo assoluto l’immunità delle persone e delle cose dai pericoli dell’energia elettrica». L’ampia diffusione negli ambienti di lavoro di macchine elettriche, elettroniche e termiche di vario genere (dai computer ai centralini telefonici, dai registratori di cassa alle fotocopiatrici, e così via) – ha in tal modo costituito un duttile strumento per l’estensione pressoché globale dell’obbligo assicurativo nei confronti dell’Inail.
L’identificazione nella macchina del rischio infortunistico deriva dalle stesse ragioni per cui fu imposto l’obbligo assicurativo, la cui funzione era quella di alleviare le conseguenze derivanti dagli infortuni provocati dall’uso delle macchine industriali e non adeguatamente tutelate dalle comuni regole della responsabilità civile. È così del tutto naturale che l’art. 1, co. 1, t.u. preveda detto obbligo non solo per le persone addette alle macchine, ma anche per quelle «comunque occupate in opifici, laboratori o in ambienti organizzati per lavori, opere o servizi, i quali comportino l’impiego di tali macchine, apparecchi o impianti». Nella prima ipotesi, le ragioni della ricorrenza dell’obbligo assicurativo risiedono nella diretta esposizione del lavoratore al rischio inerente al funzionamento della macchina, dell’apparecchio o dell’impianto (cd. criterio della «macchina isolata»). Nella seconda ipotesi entra invece in gioco un più ampio criterio di «rischio ambientale», ovvero di rischio che incombe sui lavoratori che – pur non essendo addetti al funzionamento delle macchine – sono nondimeno tenuti, nello svolgimento della prestazione, a frequentare gli stessi ambienti in cui sono presenti quelle medesime fonti di rischio. Anche in tal caso non rileva la qualifica del lavoratore né la dimensione dell’ambiente di lavoro, non rilevando neppure che la sua frequentazione sia continuativa, essendo sufficiente l’eventualità che, nell’esercizio delle sue mansioni, il lavoratore possa entrare in contatto con i macchinari, gli apparecchi o gli impianti fonti del rischio assicurato. In definitiva – come affermato dalla giurisprudenza – la norma «tutela il lavoro in sé e per sé considerato, e non soltanto quello che viene eseguito presso le macchine», posto che «in questo caso la pericolosità è data dallo spazio delimitato, dal complesso dei lavoratori in esso operanti e dalla presenza delle macchine» (Cass., S.U., 14.4.1994 n. 3476).
In entrambe le ipotesi il secondo comma dell’art. 1 t.u. precisa del resto che l’obbligo assicurativo sussiste anche laddove le macchine, gli apparecchi o gli impianti siano utilizzati «in via transitoria», «non servano direttamente ad operazioni attinenti all’esercizio dell’industria che forma oggetto di detti opifici o ambienti» o «siano adoperati dal personale comunque addetto alla vendita, per prova, presentazione pratica o esperimento». E sempre nell’ottica di un’estensione della tutela si pone il quinto comma, per il quale l’obbligo assicurativo ricorre anche nei confronti delle persone che «sono comunque occupate dal datore di lavoro in lavori complementari o sussidiari, anche quando lavorino in locali diversi e separati da quelli in cui si svolge la lavorazione principale».
Il co. 3 dell’art. 1 t.u. prevede, infine, un lungo elenco di ulteriori lavorazioni per le quali l’obbligo assicurativo sussiste indipendentemente dalla ricorrenza delle condizioni sopra illustrate. Dopo aver precisato che si considerano addetti allo svolgimento delle attività elencate dal n. 1 al n. 28 anche le persone «comunque occupate dal datore di lavoro anche in lavori complementari o sussidiari» (co. 6), l’art. 1 stabilisce, al co. 7, che l’obbligo assicurativo non sussiste «soltanto nel caso di attività lavorativa diretta unicamente a scopo domestico», fatta eccezione per i lavoratori appositamente assunti per «la conduzione di automezzi ad uso familiare o privato», per i quali l’applicazione della tutela assicurativa deriva direttamente dal criterio dell’adibizione alla macchina di cui al co. 1. Il vuoto di tutela conseguente all’esclusione dei lavoratori domestici è stato tuttavia colmato dal successivo d.P.R. 31.12.1971, n. 1403.
Deve essere precisato che le attività sopra esaminate si considerano non già di natura industriale, ma agricola (divenendo così tutelabili ai sensi del titolo II del t.u.), «quando siano svolte dall’imprenditore agricolo per conto e nell’interesse di aziende agricole o forestali, anche se i lavori siano eseguiti con l’impiego di macchine mosse da agente inanimato, ovvero non direttamente dalla persona che ne usa» (art. 1, ultimo co., t.u.). Ai fini della qualificazione dell’attività come agricola non rileva quindi la sua natura intrinseca, ma importa piuttosto che la stessa sia esercitata da un imprenditore agricolo (così come definito dall’art. 2135 c.c., al quale rinviano gli stessi artt. 206 e 207 t.u.), rilevando altresì la sua connessione oggettiva con altra principale attività agricola.
In formale continuità con l’impostazione già accolta dalla legge istitutiva, le coordinate applicative della tutela assicurativa discendono tuttora dalla combinazione di diversi criteri selettivi che, oltre alle attività sopra esaminate, richiedono la necessaria sussistenza di ulteriori presupposti, relativi stavolta alla natura giuridica del rapporto di lavoro. Di talché, ai fini della ricorrenza dell’obbligo assicurativo, non è sufficiente che il lavoratore sia adibito a una delle attività protette, essendo altresì necessario che, oltre al requisito oggettivo di cui all’art. 1 t.u., sussistano i requisiti soggettivi previsti dall’art. 4. Tale ultima disposizione definisce, infatti, le categorie di soggetti che, in quanto impegnate nelle attività di cui all’art. 1 t.u., sono comprese nell’applicazione della tutela assicurativa.
Tra le diverse categorie individuate dalla norma, la più importante, per la sua portata applicativa e per il suo rilievo storico-sistematico, è senza dubbio quella definita dal n. 1 del co. 1, che si riferisce a «coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione». La norma replica parzialmente l’originaria definizione di operaio contenuta nella legge del 1898, che aveva introdotto a sua volta una prima embrionale nozione di subordinazione, ma, al contempo, si distacca dalla formulazione dell’art. 2094 c.c., assumendo in questo modo un autonomo rilievo sistematico, la sua funzione essendo limitata all’individuazione dei soggetti (maggiormente) esposti al rischio infortunistico.
In tale ottica, il criterio più selettivo – che infatti più di altri è stato sottoposto ad un’intensa rielaborazione da parte di dottrina e giurisprudenza – è senz’altro costituito dal riferimento alla manualità della prestazione che, in combinazione con l’art. 1 t.u., rievoca l’originaria figura dell’operaio addetto alla macchina. La giurisprudenza ha peraltro precocemente ridimensionato la valenza selettiva di tale requisito soggettivo. Un contributo decisivo nel senso della sostanziale neutralizzazione del requisito della manualità è stato offerto dalla Corte costituzionale, che già con la sentenza n. 152 del 17.12.1969 (più tardi ribadita dalla pronunzia n. 114 del 9.6.1977), aveva avuto modo di affermare che l’obbligo assicurativo sussiste per tutti i lavoratori esposti al rischio provocato dalle macchine «a prescindere dalla qualifica, anche impiegatizia», e dall’espletamento di attività manuali. Ed invero, una volta riferito alla prestazione, il requisito della manualità cessa di rappresentare un requisito di natura soggettiva per assumere una valenza puramente oggettiva. In questo senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, ai fini della ricorrenza dell’obbligo assicurativo, non rileva la qualifica posseduta dal lavoratore, che potrà essere indifferentemente impiegatizia o dirigenziale, ma «il fatto oggettivo dell’esposizione a rischio» (così ancora Cass., S.U., 14.4.1994, n. 3476).
Oltre al requisito della manualità della prestazione, l’art. 4, n. 1, t.u. richiede che la prestazione lavorativa sia svolta «alle dipendenze e sotto la direzione altrui», utilizzando la medesima formula dell’art. 2094 c.c., che nella «etero-direzione» della prestazione identifica il connotato tipico della subordinazione (giuridica). Il requisito della subordinazione, richiesto dal n. 1 dell’art. 4 t.u., non ha comunque impedito al legislatore di estendere la tutela infortunistica anche ad alcune categorie di lavoratori autonomi, quali gli artigiani e i soci di cooperative di cui ai nn. 3 e 7 della stessa disposizione o i collaboratori coordinati e continuativi, di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 38/2000, nonché ad alcune tipologie di soggetti per i quali non è neppure configurabile un rapporto di lavoro (v. i nn. 5, 8 e 9 dello stesso art. 4). Va semmai osservato che, mentre il lavoro subordinato è interamente ricompreso, per effetto del n. 1 dell’art. 4 t.u., nella sfera applicativa della tutela assicurativa, per il lavoro autonomo il legislatore ha preferito invece indicare specificamente le categorie di lavoratori tutelati, per cui l’assicurazione obbligatoria è riferibile, in quest’ambito, soltanto alle fattispecie espressamente tipizzate.
Si è ricordato sopra come la nascita dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro si leghi ad un sorta di cesura storica con il «diritto primo» della responsabilità civile: la tutela previdenziale nacque, infatti, con la l.n. 80/1898, sotto il segno di una «fuga dal codice» (Castronovo, C., Alle origini della fuga dal codice. L’assicurazione contro gli infortuni tra diritto privato generale e diritti secondi, in Jus, 1985, 20 ss.), ovvero di una divaricazione – formalmente sancita dall’introduzione della regola dell’esonero del datore di lavoro assicurante – dai principi del diritto comune. Lo stesso principio del rischio professionale – che servì a fondare sul piano politico-normativo l’obbligo assicurativo – ebbe essenzialmente la funzione di «traghettare» (Cinelli, M., Il danno non patrimoniale alla persona del lavoratore: un excursus su responsabilità e tutele, in AIDLASS, Il danno alla persona del lavoratore, Atti del convegno nazionale di Napoli, 31 marzo - 1° aprile 2006, Milano, 2007, 115 ss., qui 129) la riparazione del danno da infortunio sul lavoro dal sistema della responsabilità civile a quello dell’assicurazione sociale, senza tuttavia – e per ciò stesso – innervarsi, con tutta la sua potenziale carica innovativa, nel corpo del codice civile.
Ai presenti fini, può essere sufficiente ricordare che, per un lungo tratto della storia dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, quella originaria scelta ha effettivamente consentito di tenere al riparo il diritto secondo dagli sviluppi del diritto privato generale, concorrendo, con ciò, anche a garantire la complessiva tenuta di quell’assetto transattivo di interessi, che riuscì a transitare, con pochi cambiamenti, dalla legge fondativa del 1898 al t.u. del 1965. Se però, nella prima fase della sua lunga evoluzione storica, il diritto dell’assicurazione sociale ha costruito la sua autonomia e il fondamento della sua differenziazione funzionale su tale originario atto di distacco dal tronco del diritto privato generale, in tempi più recenti si è assistito ad un contro-movimento, che – pur preservando, ed anzi rafforzando, la funzione solidaristica costituzionalmente propria della tutela previdenziale contro gli infortuni sul lavoro – ha tuttavia favorito importanti momenti di reinnesto di talune tra le più significative acquisizioni giurisprudenziali prodotte, in tema di risarcimento del danno alla persona, in quello straordinario crogiuolo che siamo soliti compendiare nella formula della «costituzionalizzazione» delle regole di responsabilità civile. La tendenza ad un ritorno e ad una riespansione delle regole comuni della responsabilità civile nello spazio governato dal diritto secondo dell’assicurazione obbligatoria ha cominciato a manifestarsi – sotto l’egida dei valori costituzionali (prima) di eguaglianza e (poi anche) di solidarietà – già alla fine degli anni sessanta dello scorso secolo, almeno a partire dalla importante sentenza n. 22 del 9.3.1967 della Corte costituzionale. La vicenda, molto più vicina nel tempo, che ha portato all’immissione dell’indennizzo del danno biologico dentro la sfera della copertura previdenziale con la riforma del 2000, rappresenta, peraltro, in termini generali, il momento senza dubbio più rilevante di tale linea di tendenza. Il d.lgs. n. 38/2000 ha, infatti, completamente ridisegnato il sistema prestazionale dell’Inail, centrandolo sull’indennizzo del danno biologico del lavoratore e calibrando sulla riduzione o la perdita della capacità lavorativa (specifica) del soggetto una apposita quota di rendita, aggiuntiva a quella che, per le menomazioni superiori al 16 per cento, è diretta a socializzare la lesione dell’integrità psicofisica in sé considerata (art. 13).
Sennonché, a ben vedere, quest’ultima vicenda non costituisce ancora il momento culminante di tale linea di tendenza, visto che neppure essa, almeno per come si è formalmente tradotta attraverso la giustapposizione delle nuove regole sull’indennizzo previdenziale alla vecchia disciplina di cui all’art. 10 del t.u., ha messo apparentemente in discussione – in quanto tale – la regola dell’esonero. Nella misura in cui è stato immesso dal legislatore dentro la sfera della tutela previdenziale pubblica, il danno biologico è stato, anzi, automaticamente assoggettato alla previsione dell’art. 10 del t.u. (e, dunque, alla consecutiva limitazione, «a monte», della regola dell’esonero e, «a valle», di quella relativa al danno differenziale). Non sorprende, pertanto, che in tempi più recenti si sia assistito, pur non senza incertezze interpretative, ad una più o meno consapevole e attiva opera di rivisitazione critica dello stesso fondamento della specialità dell’assetto delineato dal combinato disposto degli artt. 10 e 11 del t.u., nel più vasto scenario della rilettura costituzionalmente orientata delle categorie generali del danno alla persona. È, infatti, in primo luogo sul fronte della regola dell’esonero – dei suoi presupposti e delle sue «condizioni d’uso» – che finiscono inevitabilmente per scaricarsi le tensioni derivanti dai rapporti con i nuovi fondamenti della risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona, nei termini nel frattempo radicalmente rinnovati nell’ambito del diritto privato generale.
Non è tuttavia questa la sede per affrontare con il necessario approfondimento tali complesse questioni. Dando conto dei più recenti approdi della giurisprudenza, è qui possibile solo fare il punto sui principali problemi applicativi relativi alla regola dell’esonero e al risarcimento del danno differenziale.
Ora, quanto ai presupposti di operatività della regola dell’esonero, la giurisprudenza di legittimità ha in tempi recenti affermato un orientamento interpretativo che in buona sostanza finisce per svuotare la già residua valenza esimente del primo comma dell’art. 10 del t.u. In una recente pronuncia la Cassazione ha infatti chiarito che, stante il carattere contrattuale della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., «il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c., sull’inadempimento delle obbligazioni; da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di esso con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa non imputabile, e cioè deve avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno» (Cass., 14.4.2008, n. 9817).
Oggi questo indirizzo può considerarsi in via di consolidamento nella giurisprudenza della Suprema Corte, che anche di recente ha ribadito che, «nell’ambito dell’azione proposta dal lavoratore infortunato ex art. 2087 c.c., è sufficiente che costui dimostri il danno e la sua riconducibilità al titolo negoziale e si limiti ad allegare l’inadempimento datoriale, spettando all’imprenditore l’onere di dimostrare il proprio adempimento o che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile» (Cass., 19.9.2012, n. 15715). Onde può ragionevolmente concludersi che l’art. 10 del t.u. presuppone, sì, a tutt’oggi, un’ipotesi di responsabilità contrattuale qualificata o rafforzata dall’additivo specializzante della ricorrenza, in astratto, di un fatto-reato perseguibile d’ufficio, ma esige, al contempo, che l’accertamento di tale presupposto avvenga con integrale applicazione del combinato disposto degli artt. 1218 e 2087 c.c., il quale opera anche sul versante dei meccanismi presuntivi della colpa del datore/debitore e della correlativa inversione dell’onere della prova. Tale innovativa operazione interpretativa della Cassazione ha senza dubbio aggravato la crisi di effettività della regola dell’esonero, in quanto ha in buona sostanza eliminato le residue differenze tra aree incluse ed escluse dal perimetro applicativo della regola in ordine ai presupposti del risarcimento del danno da infortunio. È evidente, infatti, che il presupposto della ricorrenza del fatto di reato perseguibile d’ufficio, che ancora formalmente condiziona la riespansione della responsabilità civile dal datore nell’area in cui si applica la regola dell’esonero, finisce – con tale giurisprudenza – per identificarsi pressoché integralmente con l’ordinario accertamento della colpa che deriva presuntivamente, in sede civile, dall’inadempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.
L’altra giuntura critica nei rapporti tra diritto primo della responsabilità civile e sistema indennitario riguarda la questione – riaccesa dalla recente evoluzione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale – della sussistenza o meno di un danno differenziale risarcibile in capo al lavoratore vittima di infortunio. Entro l’ambito di applicazione dell’art. 10, infatti, perché possa farsi luogo a risarcimento, è necessario che il giudice riconosca che questo ascenda a somma maggiore dell’indennità che è liquidata dall’Inail all’infortunato o ai suoi aventi diritto (co. 6); solo qualora ricorra tale evenienza, il risarcimento sarà dovuto per la parte che eccede le indennità liquidate dall’Istituto assicuratore (co. 7).
L’entrata in vigore del d.lgs. n. 38/2000, con la radicale revisione del sistema di indennizzo dell’Inail ex art. 13, ha completamente modificato questa mobile geografia, ridisegnando i confini tra danno complementare e danno differenziale, a vantaggio di tale seconda categoria. Con la riforma di cui al d.lgs. n. 38/2000 il danno biologico permanente, in quanto coperto dall’assicurazione sociale, diviene, infatti, risarcibile, nei limiti dell’art. 10 del t.u., come danno differenziale. Nell’area del danno non patrimoniale solo il danno morale e (nei limiti in cui se ne ammetta la risarcibilità) il danno esistenziale rimangono ascritti alla sfera del danno complementare (o differenziale qualitativo), senza incappare nelle strozzature dell’art. 10 e con assoggettamento alla comune disciplina della responsabilità civile.
Su questa già complessa situazione si è da ultimo innestata la notissima giurisprudenza delle Sezioni unite del 2008 sul danno non patrimoniale (con le sentenze «gemelle» 26972/26975), dando luogo a un dibattitto interpretativo non ancora assestatosi. Secondo una prima lettura delle sentenze delle Sezioni unite, le componenti soggettive e dinamico-relazionali del danno alla salute cagionato dall’infortunio sul lavoro, non potendo più essere ricostruite come autonoma componente del danno complementare, andranno valutate in sede di personalizzazione del danno biologico, e dunque come danno non patrimoniale differenziale a sensi dell’art. 10 del t.u. Considerando anche le ricadute sul versante dell’azione di regresso dell’Inail, tale ricostruzione verrebbe definitivamente a suffragare l’orientamento interpretativo in base al quale il computo del danno differenziale va effettuato avuto riguardo all’ammontare complessivo (e non alle singole poste o voci) del risarcimento civile e dell’indennizzo previdenziale, seguendo in buona sostanza il dettato letterale dell’art. 10, co. 6 e 7, del t.u. In tale logica, pertanto, «il giudice – una volta liquidato il danno non patrimoniale civilisticamente risarcibile e conseguente alla lesione del bene salute – non può fare altro che raffrontare tale importo, senza ulteriori e non più consentiti distinguo, con il quantum erogato dall’ente a titolo di danno biologico, accogliendo la domanda di surroga per l’intero relativo ammontare (nei limiti dell’importo risarcitorio liquidato) e riconoscendo in capo al danneggiato il diritto al risarcimento dell’importo differenziale» (Trib. Milano, 9.6.2009, n. 7515).
Appare tuttavia preferibile un diverso orientamento interpretativo, pure seguito da un parte della dottrina e della giurisprudenza di merito successiva alle Sezioni Unite. La premessa concettuale di questa seconda linea di lettura sta in ciò: che, nel delineare, in termini ampi e tendenzialmente onnicomprensivi, la nozione «descrittiva» di danno biologico, le Sezioni unite abbiano in realtà inteso salvaguardare, ancorché implicitamente, lo speciale assetto dei rapporti tra indennizzo previdenziale e risarcimento civilistico prefigurato dal d.lgs. n. 38/2000 e dall’art. 10 del t.u. Ne è riprova la circostanza che le Sezioni Unite prendono in considerazione unicamente le norme contenute negli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005, recante il codice delle assicurazioni private, senza mai citare la previsione di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000; e ciò, nella consapevolezza della specificità funzionale del sistema indennitario dell’Inail, il quale, collocandosi nella logica dell’art. 38, co. 2, Cost., per definizione non assolve una funzione risarcitoria. In effetti, è solo nel codice delle assicurazioni private che – seppure come base definitoria della specifica tabellazione – si delinea una nozione ampia di danno biologico, comprensiva della incidenza negativa della lesione dell’integrità psicofisica della persona, accertabile in sede medico-legale, sulle attività quotidiane, oltre che sugli aspetti dinamico-relazionali del soggetto leso. La definizione che viceversa ne dà l’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000, ai fini dell’indennizzo previdenziale, è decisamente più ristretta, visto che vi si individua una nozione di salute limitata agli aspetti psico-fisici della vita del soggetto.
È allora in considerazione di tale differenza definitoria – che ha carattere propriamente normativo, e non semplicemente descrittivo, in quanto riflette la diversa funzione dei due sottosistemi di tutela – che questa seconda linea interpretativa prospetta l’autonoma rilevanza, come danno complementare (e dunque al di fuori dei pur residui vincoli posti dall’art. 10 del t.u.), di tutti i pregiudizi di carattere morale, esistenziale e in senso stretto dinamico-relazionale subiti dal lavoratore vittima di infortunio, danni cui va ora aggiunto – dopo l’importante svolta interpretativa realizzata dalla terza sezione civile della Suprema Corte con la sentenza del 23.1.2014, n. 1361 – anche il danno cd. tanatologico, ovvero il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile rilevante come tale anche sul piano risarcitorio. E parimenti rimangono ascritti al campo del danno complementare, come in precedenza, tutti quei pregiudizi, specie di natura non patrimoniale, che il sistema previdenziale non provvede a indennizzare in quanto non ascendono a quella soglia di rilevanza sociale, superata la quale soltanto il legislatore, con l’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000, ha ritenuto di dover prevedere l’intervento solidaristico pubblico. Cosicché l’esonero del datore di lavoro (o quel che ne resta) e l’azione di regresso dell’INAIL continuano a rimanere, come in precedenza, del tutto inoperanti per i danni, di natura complementare, non coperti dall’assicurazione sociale, quale configurata, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, dal d.P.R. n. 1124/1965 e dal d.lgs. n. 38/2000.
Artt. 32 e 38 Cost.; d.P.R. 30.6.1965, n. 1124; d.lgs. 23.2.2000, n. 38.
Oltre ai riferimenti forniti nel testo, v. tra le voci enciclopediche, più di recente, Alibrandi, G., Infortuni sul lavoro. I) Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1989, ad vocem; Giubboni, S., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, in Dig. comm., Aggiornamento, vol. I, Torino, 2000, 377; De Matteis, A., Infortuni sul lavoro e malattie professionali (assicurazione contro gli), in Dig. comm., Aggiornamento, vol. II, Torino, 2003, 491. Per la manualistica cfr. principalmente Alibrandi, G., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, XI ed. aggiornata a cura di F. Facello e P. Rossi, Milano, 2002; De Matteis, A.-Giubboni, S., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2005; De Matteis, A., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2011; Giubboni, S.-Ludovico, G.- Rossi, A., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 2014. Per l’approfondimento delle principali problematiche applicative dell’assicurazione obbligatoria cfr., infine, Curzio, P., a cura di, Il danno biologico nel decreto legislativo 38/2000, Bari, 2002; Federici, A., Il danno biologico nel sistema previdenziale, Milano, 2009; Corsalini, G., Gli infortuni in itinere. Estensione della tutela previdenziale e risarcimento del danno, Milano, 2009; Giubboni, S.-Rossi, A., Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno, Milano, 2012; Ludovico, G., Tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità civile del datore di lavoro, Milano, 2012.