Infrastrutture e reti
Nel corso dell’ultimo quarto del 21° sec., le infrastrutture e le reti – intese come l’insieme sistematico delle connessioni plurime (tanto materiali quanto immateriali) attraverso le quali si trasmette la produzione di valore (indipendentemente dai fattori che la generano e che ne beneficiano nello svolgersi della relativa filiera) – hanno assunto un ruolo strategico sia nella elaborazione dei processi decisionali di sviluppo del territorio sia nella gestione del sistema di opportunità esistente o di nuova realizzazione. Tale prospettiva, che gli indicatori di settore confermano come trend in crescita nel prossimo futuro, è il risultato più evidente dei profondi mutamenti occorsi nel mercato internazionale, che hanno alimentato e promosso la globalizzazione. Se, da un lato, tale termine evoca con immediatezza una condizione di interdipendenza tra fattori localizzativi, economici e logistici, reciprocamente connessi attraverso una dinamica di rete estesa a una scala di relazioni planetaria, dall’altro, esso implica una profonda trasformazione strutturale nella cultura degli scambi (i cui effetti sono già evidenti) destinata comunque ad avere ricadute sempre più strategiche nell’organizzazione di una nuova dimensione dello spazio esistenziale.
I fattori della produzione
La teoria economica classica identifica in capitale, forza lavoro e risorse naturali i cosiddetti fattori della produzione. È compito dell’imprenditore finalizzare a prestabiliti obiettivi di processo e di prodotto la relativa combinazione, prefigurando scenari all’interno dei quali le componenti cui si è accennato sopra risultino reciprocamente integrate.
Se la fase dell’‘industriale maturo’, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, aveva registrato una progressiva crescita nel quadro internazionale del commercio di materie prime rispetto al settore manifatturiero, in ragione di più consistenti margini di profitto garantiti, il passaggio al postindustriale ha, nei fatti, sancito un paradosso, i cui effetti sono tuttora operanti: il capitale da mezzo è diventato fine. In coincidenza con la crisi del sistema bancario americano del 1982, provocata dalla concessione di ingenti prestiti a Paesi e imprese del Terzo mondo risultati insolventi, è aumentato il numero di imprese transnazionali, ovvero società attive in Paesi differenti attraverso aziende affiliate, consociate o collegate da accordi parasociali, che hanno cominciato a esportare, lavorare e distribuire capitali. Il flusso di investimenti diretti esteri, per quanto in termini assoluti si sia indirizzato soprattutto verso i Paesi già industrializzati, ha visto distrarre una percentuale crescente di risorse a favore di quelli emergenti, nell’ottica di una programmatica massimizzazione dei profitti retraibili.
Le conseguenze del fenomeno in termini istituzionali sono epocali: l’elevata redditività complessiva delle attività finanziarie, associata a politiche di deregolamentazione e all’incremento della speculazione nella sfera monetaria, soprattutto attraverso la diffusione della cartolarizzazione dei prestiti (ovvero la traduzione di attività e passività finanziarie in strumenti negoziabili più volte nel mercato degli scambi, secondo modalità precluse alla semplice produzione di beni), ha provocato una sostanziale svalorizzazione del settore manifatturiero, per quanto alcuni suoi comparti abbiano resistito alla crisi.
Società dell’informazione, infrastrutture e reti
La globalizzazione del mercato finanziario, anche se alimentata dalla crisi del sistema creditizio cui si è accennato, è stata resa possibile dalla pervasiva diffusione delle tecnologie dell’informazione, senza le quali sarebbe stato impossibile applicare la logica del just in time al complessivo volume di transazioni internazionali effettivamente esercitate.
La leva finanziaria ha, in altri termini, strumentalizzato le diverse infrastrutture della comunicazione ai propri fini. Ciò ha generato immediate implicazioni nel ridisegnare la geografia economica. Se il tradizionale mercato degli scambi, ovvero quello basato sulla commercializzazione e lavorazione di materie prime, vedeva diffuse nel territorio le industrie più importanti, con il consolidarsi del mercato finanziario le città sono diventate i luoghi deputati alla produzione della ricchezza. Infatti, contravvenendo alle aspettative più comuni, la ‘cultura degli immateriali’, che si alimenta della sinergia tra comunicazione e finanza, necessita di una elevata concentrazione di infrastrutture e servizi che possono essere offerti unicamente dai grandi centri metropolitani: le assicurazioni, l’industria immobiliare, la consulenza, i servizi legali, la pubblicità, il design, il marketing, le pubbliche relazioni, la sicurezza, la fornitura dei diversi tipi di informazione e la gestione di servizi informatici.
Economie low e high
Per quanto la condizione contemporanea sia caratterizzata dal consolidarsi della transizione da un’economia industriale a un’economia di servizi, gli investimenti diretti esteri sono andati tanto a favore di politiche di acquisizione di società operanti nel settore dell’innovazione tecnologica e dei servizi a essa associati – nella consapevolezza che la crescita della produzione deriva sempre più dall’applicazione della conoscenza e dell’informazione alla gestione, alla produzione e alla distribuzione, così nei processi come nei prodotti – quanto a sostegno di aree a statuto speciale sempre più diffuse nei Paesi in via di sviluppo – le cosiddette export processing zones – in cui l’effetto congiunto delle politiche di defiscalizzazione degli investimenti e del modesto costo della manodopera agisce quale efficace moltiplicatore dei profitti. La differenziazione degli investimenti e la loro relativa delocalizzazione alla ricerca delle condizioni più interessanti hanno generato il fenomeno dell’azienda-rete. Con tale locuzione si identifica sia una decentralizzazione delle grandi aziende in unità semiautonome sia la formazione di reti di cooperazione che investono aziende di piccole e medie dimensioni a elevato livello di specializzazione interna e che si ricompongono secondo configurazioni a geometria variabile in rapporto alla volatilità e imprevedibilità della dinamica di mercato. Tale fenomeno genera una domanda di forza lavoro altrettanto dispersa e flessibile nella sua articolazione interna. Individualizzazione dei compiti e frammentazione dei processi lavorativi alimentano in tal modo la diversificazione dell’offerta: subappalto, outworking, job sharing, lavoro part-time, attività indipendente e offerta di consulenza. Queste dinamiche investono tanto le produzioni ad alto valore aggiunto, ovvero quelle che richiedono operatori molto specializzati con elevate competenze in termini di know-how tecnologico innovativo, quanto l’offerta di manodopera generica. Tale logica ‘duale’ caratterizza non solo la segmentazione del mercato a scala globale, ma anche una parallela segmentazione in termini locali. Infatti, i servizi alle imprese, polarizzati dai grandi centri urbani e gravitanti tutti attorno al mercato finanziario internazionale, alimentano contestualmente una domanda di forza lavoro scarsamente qualificata.
L’azienda-rete, in altri termini, necessita di reti e infrastrutture per la produzione, distribuzione e gestione sia dei flussi immateriali – la conoscenza – sia di quelli materiali, rappresentati da semicomponenti o prodotti finiti. Ne deriva un’economia dell’assemblaggio che comporta investimenti crescenti nel settore delle infrastrutture della mobilità (di beni, di risorse umane e di capitali). L’abilità manageriale della nuova classe di imprenditori consiste appunto nel selezionare i rami di azienda disponibili alle migliori condizioni di mercato, e di combinarli poi reciprocamente secondo relazioni inedite, tali però da moltiplicare gli utili derivabili.
La città globale
La segmentazione dell’economia generata dal mercato finanziario ha pertanto riorganizzato le aree metropolitane in ‘reti di città’, privandole di un rapporto di dipendenza diretta dal relativo territorio di afferenza amministrativa. Contraddicendo le visioni millenaristiche di coloro che asserivano la fine precoce delle città a opera della ‘società dell’informazione’, Saskia Sassen (Global networks, linked cities, 2002) ha più volte ricordato come la strutturale mobilità di risorse umane e finanziarie dell’epoca corrente privilegi necessariamente i luoghi contraddistinti da un’elevata concentrazione di infrastrutture per la mobilità intermodale – aeroporti intercontinentali, stazioni ferroviarie internazionali, piattaforme logistiche operanti via acqua, terra e aria, interfaccia e reti di cablaggio ecc. – al fine di ottimizzare il sistema di flussi a livello planetario e il sistema di opportunità a esse connesso.
Tali reti di città manifestano programmaticamente una configurazione ‘liquida’, come ricorda Zygmunt Bauman (2007), ovvero instabile e mutevole al variare delle imprevedibili dinamiche di mercato, fino a riconoscere nella stessa rete di città l’infrastruttura per eccellenza della condizione contemporanea. All’invarianza dei principi in base ai quali prosperano i nuovi hubs urbani – elevata offerta di infrastrutture; densità, varietà e qualità dei servizi; discontinuità insediativa e compresenza di interessi globali e locali – corrisponde una molteplicità pressoché illimitata di articolazioni interne e di combinazioni esterne. L’accessibilità a tale concentrazione di opportunità e la relativa natura fondata sul concetto di intrinseca mobilità generano inevitabilmente una discriminante sociale, i cui effetti possono essere temperati tramite politiche mirate di redistribuzione capaci di mettere in relazione i diversi livelli implicati. La distinzione introdotta da Manuel Castells (Borja, Castells 1997) tra ‘galleria’ e ‘platea’ esprime efficacemente il dualismo esistente tra i membri dell’élite – che, pur risiedendo all’interno di uno specifico sistema urbano, in ragione dell’offerta infrastrutturale ivi garantita ‘abitano’ la dimensione internazionale della rete di città, proiettando i propri interessi e le proprie aspettative in un ‘altrove’ dai confini tanto labili quanto incerti – e coloro che vivono in una condizione di isolamento in rapporto alle dinamiche della comunicazione globale, e identificano nella dimensione locale il territorio ‘resistente’ rispetto al quale definire la propria identità. I primi interpretano la città come luogo da cui partire, fondando la costruzione del proprio ‘sé’ in base a ‘relazioni di distanza’ e alimentando lo ‘spazio dei flussi’; i secondi, la interpretano invece come contesto in cui stare, stabilendo una condizione di appartenenza in rapporto a ‘relazioni di prossimità’ registrabili nello ‘spazio dei luoghi’.
Il fenomeno descritto si riverbera all’interno delle singole città, moltiplicando attraverso un simmetrico gioco di specchi le dinamiche tra globale e locale, mobilità e stanzialità. Le cosiddette edge cities, collocate ai margini delle metropoli americane, riproducono a una differente scala di complessità la dialettica tra residenza e lavoro, sulla base del rapporto di vicinanza/distanza rispetto agli ingressi della rete autostradale.
La rete di città come infrastruttura europea
Per ragioni storiche che risalgono alla frammentazione del sistema insediativo, a seguito del crollo dell’Impero romano d’Occidente, il continente europeo (e l’Italia in particolare) costituisce un caso ante litteram di rete di città. Diventa pertanto interessante analizzare gli effetti indotti dai fenomeni citati. Assumendo lo stesso intervallo temporale che ha visto sorgere e consolidarsi il mercato finanziario, ovvero restringendo l’analisi agli ultimi tre decenni, si può notare che i fenomeni di trasformazione urbana hanno investito la città europea attraverso il coinvolgimento di soggetti attuatori differenti, portatori di specifiche strategie e interessi, in grado di alimentare dinamiche socioeconomiche chiaramente riconoscibili.
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del 20° sec., il processo di sistematica dismissione di importanti comparti industriali, pertinente al passaggio da un’economia di prodotti a una di servizi di scala internazionale, ha liberato aree strategiche collocate in prossimità del tessuto urbano consolidato. Promuovendo la ‘costruzione della città nella città’ sono state sperimentate le prime forme di partenariato pubblico/privato (anticipate nell’importante esperienza delle SEM francesi, Sociétés d’Économie Mixte) che privilegiavano i centri urbani maggiori. Le imprese di costruzione tradizionali, associandosi a importanti esponenti della cultura internazionale del progetto, hanno così riqualificato la città sfruttando consistenti rendite di posizione – ovvero ‘assolute’ – e concorrendo a consolidare il ruolo delle aree economicamente e simbolicamente trainanti, senza introdurre di fatto sostanziali innovazioni nella filiera edilizia, per quanto apprezzabili possano risultarne gli esiti sul piano della qualità degli spazi ottenuti.
Nel corso degli anni Novanta l’attenzione degli amministratori e dei tecnici si è spostata progressivamente verso la dimensione del paesaggio, alla ricerca degli effetti indotti dalle politiche di ridislocazione del terziario avanzato e di affermazione dei mercati finanziari promosse durante la fase precedente. Il concomitante consolidarsi del sistema della grande distribuzione ha avviato una progressiva riconfigurazione del territorio, polarizzato dalle grandi piattaforme infrastrutturali, prevalentemente produttive, logistiche e commerciali. L’effetto indotto ha generato l’inarrestabile dilagare della ‘città diffusa’, per quanto ancora dissociata dalle forti concentrazioni specializzate, sia funzionalmente sia morfologicamente. I centri maggiori hanno cominciato a perdere importanti risorse socioeconomiche, in ragione degli incrementi di valore del mercato immobiliare, senza liberare servizi qualificanti a vantaggio dei nuovi insediati, se non in misura del tutto marginale. In tale fase i centri minori dell’hinterland, all’interno di un’accresciuta dimensione metropolitana, hanno cominciato a ripopolarsi, mentre gli interlocutori privilegiati dal processo di trasformazione erano, sostanzialmente, soggetti altamente qualificati nella realizzazione dei poli funzionali.
Con l’inizio del 21° sec. lo scenario è considerevolmente mutato. Contestualmente al consolidarsi del ruolo dei centri urbani maggiori in ragione della intrinseca capacità di inserirsi nella rete degli scambi internazionali, i fattori qualificanti l’effetto urbano hanno iniziato a svilupparsi attorno alle varie polarità a forte specializzazione funzionale, che progressivamente hanno assunto i caratteri di nuclei protourbani attraverso un’offerta integrata. Gli insediamenti minori hanno beneficiato, di riflesso, del processo di decentramento (residenziale, terziario, di servizio e di attività per il tempo libero). Si è così prefigurato un sistema policentrico ma gerarchizzato, all’interno del quale ogni polarità cerca di emergere sulla base di un evidente tratto distintivo che la renda, in una certa misura, unica. I nuovi soggetti attuatori rispondono a economie di scala essenzialmente riconducibili alla dimensione dell’industria immobiliare, a fronte della complessità gestionale dei fenomeni indotti e della crescente strategicità delle leve finanziarie a essa connaturate. La richiesta di infrastrutture va nella direzione di un consolidamento della rete di città. Vengono così meno le rendite di posizione tradizionali, mentre si moltiplicano le ‘centralità’ connesse alla diversificazione e diffusione sul territorio delle opportunità garantite dal sistema intermodale e dalla qualità dei servizi offerti.
Le dinamiche che stanno attraversando gli spazi della contemporaneità prefigurano, in tal modo, nuovi orizzonti all’interno dei quali ripensare criticamente la questione della ‘grande dimensione’ e della ‘città territorio’ che, a partire dagli anni Sessanta, si era configurata come obiettivo politico e di neoavanguardia perseguito dalla cultura architettonico-urbanistica. Il tema, ritornato centrale nel dibattito contemporaneo, assume comunque significati del tutto estranei ai condizionamenti originari.
Infatti, se allora il concetto di policentrismo urbano si era caricato inequivocabilmente di una forte e appassionata tensione ideologica, nel tentativo di farsi interprete di una visione utopica della città, proposta come democratico ed egalitario prodotto di massa – e perseguita attraverso una strategia progettuale in grado di estenderne l’implicita ricchezza di opportunità relazionali all’intero territorio, riverberandone l’azione secondo un processo teoricamente illimitato –, oggi lo stesso modello è propagandato da una finalità prettamente ‘economica’. Questa affermazione trova un’indiretta conferma nella progressiva delegittimazione che ha investito, per lo meno negli ultimi vent’anni, gli strumenti tradizionali della prassi urbanistica, a seguito della quale il ‘piano’ e il suo estensore sono stati rispettivamente surrogati dal ‘marketing urbano e territoriale’ e dalla figura del city manager.
Le responsabilità che competono alla gestione dei processi di trasformazione territoriale non sembrano così più interpretabili nei termini di una strategia di redistribuzione della ricchezza generata dall’uso privato delle reti pubbliche, secondo principi di equità sociale e condivisione politica, capaci di compensare a posteriori i conflitti di classe e di correggere le distorsioni ravvisate nei modi della produzione industriale. Al contrario, l’orientamento corrente nella condizione postmoderna sembra incentivare una preventiva collaborazione reciproca affinché il territorio, nella sua interezza e complessità di rapporti, venga riconosciuto come risorsa in grado di suscitare e attirare l’attenzione degli investitori, in altre parole, come una sorta, esso stesso, di infrastruttura ‘aperta’ capace di agire come moltiplicatore di quelle opportunità ‘al singolare’ che sono in grado di generare, almeno come appare nelle dichiarazioni di principio, ricadute virtuose in termini collettivi. Per tutte queste ragioni il meccanismo della competizione interindividuale, esteso alla sfera pubblica e finalizzato alla massimizzazione delle possibilità, si è di fatto sostituito a quello della condivisione politica delle scelte.
In questo nuovo quadro epocale la nozione di ‘città infinita’, privata ormai dell’originaria carica utopica ed eversiva, si traduce in accattivante slogan attraverso il quale il mercato, con la compiacente disponibilità delle amministrazioni locali, promuove la disseminazione sul territorio delle opportunità economiche quale ineludibile prerequisito di fattibilità delle strategie politiche, sociali e culturali contemporanee. Modifica al contempo il significato stesso dell’architettura, nel momento in cui essa viene assorbita dal circuito mediatico come sofisticato strumento di comunicazione che concorre a generare ritualità d’uso massificate. L’architettura cessa pertanto di essere semplice ‘sovrastruttura’, ovverosia modo singolare di espressione della ‘base reale’, coerente con le condizioni sociali e tecnico-materiali della produzione – così come preconizzato dalla cultura del Movimento moderno – per farsi essa stessa ‘struttura’, ossia componente essenziale del sistema economico che concorre ad alimentare, nel rispetto di retoriche solo in apparenza paradossali che la cultura postindustriale condivide con quella premoderna.
La città europea implica tale complesso scenario di riferimenti, serbandone memoria attraverso il suo stesso processo di adattamento a mutate condizioni d’uso nel mercato globale e dando una compiuta risposta alle aspettative della contemporaneità. Il sistema della mobilità intermodale aspira a proiettarla in una potenziale rete transnazionale di relazioni che destabilizza programmaticamente l’identificazione della città con i suoi confini amministrativi. Si pensi all’ingente programma di investimenti che, realizzando il distretto urbano dell’Öresund, ha portato a unire Svezia e Danimarca attraverso l’omonimo ponte mediante il quale, dal 2000, vengono collegate Copenaghen e Malmö, programma capace di destabilizzare le rispettive sovranità nazionali sulla base delle imprevedibili dinamiche indotte dai processi dell’economia reale; o al Channel tunnel rail link che, passando sotto la Manica, dal 2007 collega Parigi a Londra in 2 ore e 20 minuti tramite il sistema dell’alta velocità.
Il carattere discontinuo dell’armatura infrastrutturale di riferimento, espressione di un’irrinunciabile modernità, crea le condizioni per una produzione di valore concentrata in corrispondenza dei nodi di scambio intermodale. È il caso di Lille che, a partire dal 1993, ha sfruttato la sua posizione baricentrica nella rete infrastrutturale dell’alta velocità che collega Pari-gi, Londra, Bruxelles, Amsterdam e Francoforte, per attrarre capitali e servizi di eccellenza, soprattutto nel settore della convegnistica; oppure della stazione di London-Stratford, centro nevralgico della riqualificazione della Lower Lea valley, destinata a ospitare le Olimpiadi del 2012.
La conseguente densità insediativa indotta, congiunta alla diversificazione del programma funzionale, garantisce un migliore sfruttamento del capitale finanziario all’interno di un mercato perennemente instabile; consente un effettivo risparmio di suolo, in opposizione al fenomeno della città diffusa, a favore delle generazioni future; crea condizioni di multiculturalità e offre minor vulnerabilità dell’investimento alle fluttuazioni del mercato del lavoro. In tale prospettiva risultano emblematici il programma di trasformazione delle città dei Paesi Bassi in rapporto al sistema dell’alta velocità (il cui compimento è previsto per il 2020) e il progetto TEN (Trans-European Networks, 1994, aggiornato nel 2004) relativo ai corridoi transeuropei, destinato a ridisegnare la geografia del vecchio continente.
L’ipotizzata realizzabilità per parti compiutamente strutturate contrasta il fenomeno della città diffusa, identificato quale aspetto patologico della contemporaneità poiché deprime la mobilità delle risorse, umane ed economiche, e contribuisce a rallentare il mutamento urbano, come dimostrano i processi di accorpamento immobiliare promossi dalle già citate SEM francesi e dalle italiane STU (Società di Trasformazione Urbana). La concentrazione, resa possibile dalla moltiplicazione degli investimenti infrastrutturali, attraverso un rapporto di reciproca fertilizzazione, di cui è anticipatrice la rinascita di Tokyo avvenuta attraverso la realizzazione di un moderno sistema ferroviario metropolitano – a partire dal secondo dopoguerra –, stimola le capacità gestionali dell’industria immobiliare, creando al contempo i presupposti per una politica a favore dell’affitto attraverso la valorizzazione dell’architettura come bene durevole.
La crisi dei sistemi centrali in Europa
Per effetto dei fenomeni sopra descritti, si assiste a uno sconcertante paradosso tecnico-geografico. Mentre l’Europa, conseguita l’unità monetaria, persegue con difficoltà anche quella politico-amministrativa, mostrando evidenti difficoltà nella reductio ad unum dell’identità storica delle sue nazioni al fine di poter efficacemente contrastare tanto l’inarrestabile crescita economica dei Paesi emergenti, in particolare Cina e India, quanto l’aspirazione a una egemonia commerciale degli Stati Uniti attraverso il NAFTA (North American Free Trade Agreement), le trasformazioni del territorio prodotte dall’economia reale, il cui corso non pare rallentato dall’understatement del politically correct, sembrano governate da interessi locali in continuo e reciproco conflitto.
L’amministrazione pubblica, facendosi interprete della cultura neoliberale, promuove politiche mirate ad attrarre sul proprio territorio risorse private, umane e finanziarie, attraverso il cui apporto rilanciare l’economia locale, moltiplicandone le opportunità d’investimento. Si profila l’immagine di un’Europa che, contravvenendo alle aspettative di un’unità politico-amministrativa complementare a quella economica, si propone come denso mosaico di città in reciproca competizione, sulla base di strategie di marketing urbano e territoriale manifestamente aggressive sia negli slogan adottati sia nelle ricadute.
L’obiettivo dichiarato, che si presenta come sistema di pari opportunità condiviso da amministrazioni locali e soggetti imprenditoriali, è quello di valorizzare le risorse disponibili sui territori di competenza, attirando gli investitori con la prospettiva di una moltiplicazione potenzialmente illimitata delle opportunità reddituali. Tutto ciò a fronte di un’offerta complessiva basata su politiche di competitività, efficienza infrastrutturale, ricerca avanzata nel settore delle tecnologie dell’informazione, incentivi fiscali, certezze nei modi e tempi della valorizzazione delle iniziative attraverso l’‘alleggerimento’ degli strumenti di piano.
La pervasività della logica liberista sta così tracciando una nuova geografia dei luoghi, destabilizzando attraverso l’economia reale i tradizionali confini amministrativi delle singole nazioni, che risultano sempre più sfumati a fronte delle travalicanti pressioni del mercato economico. Si moltiplicano in tal modo le città che rinunciano programmaticamente a interagire con il proprio territorio per inserirsi in una più complessa rete di relazioni economiche, condividendone gli effetti con realtà politicamente estranee.
Infrastrutture e mercato immobiliare
L’urbanistica si connota sempre più come strategia complessiva di governo di un territorio interpretabile quale ‘cinghia di trasmissione’ della produzione di valore. In tal senso, anche le politiche di tutela del patrimonio sono destinate al successo soltanto se inserite all’interno di meccanismi virtuosi di valorizzazione e messa a reddito. Analogo discorso può essere fatto per le risorse ambientali presenti sul territorio. Gli strumenti di gestione devono garantire, in tal senso, soprattutto certezza di tempi e trasparenza nelle procedure, due condizioni senza le quali l’attrattività per gli investitori risulta fortemente penalizzata.
La flessibilità d’uso del suolo è un altro presupposto richiesto per adattarsi all’alta volatilità della domanda immobiliare. Inoltre, a fronte di un’offerta contraddistinta da iniziative sempre più globali e qualificate, la dotazione infrastrutturale intermodale diventerà sempre più una discriminante imprescindibile nella valutazione del rischio d’impresa. I fondi comuni di investimento immobiliare, il cui strategico ruolo nel mercato creditizio è destinato a crescere in termini esponenziali a seguito della crisi del sistema bancario americano – sopraggiunta nel 2007 per effetto dei prestiti subprime e dei prodotti cosiddetti derivati, in una singolare quanto sconcertante riproposizione di quanto accadde nel 1982 –, modificheranno in profondità la distribuzione delle risorse, e quindi delle opportunità, all’interno del sistema internazionale.
La ricerca di redditività stabili e certe, a fronte della programmatica instabilità del mercato azionario, porta inoltre sempre più investitori a delegare la valorizzazione del patrimonio immobiliare a società di gestione del risparmio che, a fronte del servizio offerto, partecipano in maniera considerevole ai proventi relativi. La competizione sempre più aggressiva tra le società in questione promuove politiche immobiliari esclusive, con l’obiettivo di garantirsi le quote di mercato più appetibili in termini di rendita. Ovviamente, oltre alla natura delle attività connesse, la redditività risulta strettamente commisurata alla qualità del manufatto e alla relativa accessibilità in termini infrastrutturali. Ne consegue che, se il mercato dei fondi immobiliari dovesse nell’immediato futuro crescere con i tassi percentuali correnti, orienterebbe sempre più gli operatori economici e le amministrazioni locali a privilegiare le aree a maggiore attrattività, destinando le zone più marginali a una progressiva perdita di credibilità, con ricadute difficilmente preventivabili nella trasformazione del territorio. Se da una parte dovrebbero essere introdotti opportuni correttivi alle logiche di mercato, dall’altra la necessità di investimenti nel settore delle infrastrutture e dei trasporti amplificherebbe la ‘forbice’ tra aree a funzione trainante e aree a funzione marginale.
Inoltre, le garanzie di redditività degli investimenti hanno attivato un’interessante sinergia tra amministrazioni locali, progetto di finanza, developers e star system architettonico, basata su una politica condivisa di branding imprenditoriale. L’autorevolezza individuale viene così moltiplicata e riverberata attraverso il circuito massmediatico, massimizzando le opportunità dischiuse dalle azioni intraprese, in coerenza con il principio che vuole le strategie della comunicazione subordinate allo sviluppo dei mercati finanziari. Tale meccanismo, tuttavia, è destinato a penalizzare la qualità degli interventi minori che, non potendo contare su sinergie di alto livello, devono rinunciare a priori alla competizione nei mercati più elitari, introducendo pericolose sperequazioni nella gestione dei territori ad alto valore storico ambientale, ma a basso impatto economico-finanziario.
Si assiste allo stesso tempo a un fenomeno che nei presupposti pare essere tutto italiano, e che potrebbe avere nell’organizzazione della città ricadute difficilmente prevedibili. Le società a capitale pubblico decidono infatti di concentrarsi sul core business, alienando progressivamente tutte le iniziative imprenditoriali attraverso le quali, fino a questo momento, avevano sistematicamente diversificato la propria attività. A fronte di una indubbia perdita di flessibilità rispetto alla volatilità del mercato, giustificata dall’aspettativa di una maggiore competitività complessiva, viene liberata sul mercato una quantità considerevole di immobili, al di fuori di una programmazione concertata tra le diverse istituzioni, generalmente in posizioni strategiche nelle città di appartenenza. Tale offerta dev’essere messa a sistema con quella prevista dagli strumenti di pianificazione, pena la perdita di controllo sulle dinamiche economiche connesse.
La pubblica amministrazione, coltivando l’aspirazione a moltiplicare le opportunità reddituali derivabili dalle risorse private investite sul proprio territorio, si sta progressivamente trasformando in una infrastruttura al servizio del mercato, nella speranza che le ricadute possano essere proporzionatamente ridistribuite nell’ambito dell’intera comunità.
Il capitale finanziario globale è il vero agente della trasformazione locale. Operando all’interno di un mercato potenzialmente infinito, esso ricerca condizioni in grado di massimizzare i margini di profitto dell’investimento, a fronte di adeguate garanzie di stabilità politico-sociale da parte dei singoli governi. L’associazione con professionisti di accertata credibilità e visibilità nel circuito mediatico, e con contractors di comprovata affidabilità, offre ulteriori garanzie al successo delle iniziative da intraprendere. Ciò risulta tanto più necessario quanto più l’investimento comprende la promozione, progettazione, costruzione e gestione dell’operazione immobiliare.
Il concorso simultaneo dei fenomeni sopra citati, data la pluralità degli attori coinvolti e la molteplicità di interessi disciplinari investiti, conferma la perdita di credibilità di ogni ipotesi di città chiusa o metropolitana, in quanto modelli oramai superati dalla rete di città. Gli insediamenti crescono infatti per implosione, trasformando i tessuti urbani consolidati, e per contestuale intensificazione delle relazioni con altri nuclei urbani di cui temporaneamente condividono le aspettative, all’interno di una logica di persistente rinegoziazione delle cause e degli effetti. Gli assetti urbani possono essere pertanto assimilati a configurazioni instabili, ‘nebulose’ insediative costantemente perturbate dalla volatilità del mercato, che esigono flessibilità per potersi adattare alle modificate condizioni di contorno. Il progetto delle infrastrutture a sostegno di questa nuova dinamica aggregativa, assimilabile all’entropia di un tessuto micromolecolare dinamico, esige figure professionali improntate a una forte interdisciplinarietà, che sembrano paradossalmente proiettate verso un nuovo umanesimo dai confini tanto affascinanti quanto incerti.
Bibliografia
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