Ingegneria delle superfici
L’ingegneria delle superfici è una disciplina relativamente giovane che si è costituita come scienza indipendente soltanto dagli anni Settanta del secolo scorso. Può essere definita come la scienza ingegneristica che progetta i metodi fisici e chimici in grado di modificare superficie e strati subsuperficiali di un corpo al fine di ottenere le caratteristiche individuate come ottimali per una determinata applicazione.
La superficie di un corpo da un punto di vista geometrico è il confine che lo limita, ma da un punto di vista chimico-fisico ne costituisce l’interfaccia con l’ambiente circostante. Essa dunque rappresenta contemporaneamente sia il modo di apparire del corpo sia il tramite attraverso cui il corpo stesso realizza le interazioni chimiche, fisiche e meccaniche con gli altri corpi solidi, liquidi e gassosi. Pertanto, la superficie ha sempre un contenuto decorativo, poiché il suo colore e il suo aspetto sono le proprietà del corpo di cui si ha immediata percezione ottica e tattile, e può anche avere contenuti funzionali, può cioè svolgere funzioni specifiche.
Rispetto alla porzione di materia collocata all’interno del corpo, la superficie ha sempre un distinto contenuto di energia interna e una differente combinazione di caratteristiche fisiche e chimiche, sia a causa dei processi di formatura e lavorazione dei materiali che compongono l’oggetto, sia a causa della continua interazione in opera con l’ambiente circostante. Per comprendere le ragioni del diverso stato energetico si pensi al fatto che gli atomi presenti all’interno del materiale sono completamente circondati da altri atomi, con i quali formano legami, di diversa natura chimica e contenuto energetico a seconda del materiale. Al contrario, gli atomi della superficie non sono completamente circondati da altri atomi e non possono pertanto completare tutti i legami che potrebbero formare se fossero localizzati all’interno del corpo.
Questa condizione dà luogo a una maggiore energia interna e, quindi, a una minore stabilità chimica degli atomi della superficie. A causa di tale stato di energia, la superficie di qualunque corpo risulta particolarmente reattiva con l’ambiente e con i corpi che lo circondano e che con esso interagiscono. Infatti, qualunque contatto della superficie di un solido con altri corpi solidi, liquidi o gassosi conduce all’adsorbimento di atomi o molecole ceduti dagli stessi e all’abbassamento della sua energia superficiale. Questo spiega la naturale propensione della superficie dei corpi solidi alla cattura dell’umidità, di gas, di particelle di lubrificante, di polvere e contaminanti in genere, che ne alterano continuamente lo stato fisico e chimico.
Inoltre, i processi di formatura e di lavorazione meccanica, che plasmano e definiscono la forma finale di un oggetto prima dell’utilizzo, si ripercuotono con maggiore intensità sulla superficie del corpo lavorato, che pertanto entra in esercizio con un contenuto di energia interna particolarmente incrementato.
In modo del tutto analogo, le interazioni meccaniche, termiche, chimiche e fisiche in esercizio agiscono più intensamente sulla superficie dei corpi, alterandone continuamente la condizione iniziale. In particolare, l’interazione può provocare un degrado per aggressione chimica e/o meccanica, generalmente definita con il termine di usura. Tale fenomeno è in grado di modificare sia l’aspetto estetico sia le prestazioni della superficie e dell’oggetto intero, limitandone la vita di esercizio per perdita di funzionalità.
Per tutta questa serie di motivi sono stati da lungo tempo sviluppati, sia a livello tecnico-scientifico sia a livello industriale, trattamenti in grado di conferire alla superficie degli oggetti, e di conseguenza agli oggetti stessi, caratteristiche decorative specifiche e funzioni particolari. Stime recenti valutano in circa il 3% del PIL il valore dell’industria del trattamento delle superfici in Italia, con circa diecimila aziende coinvolte in tale settore (Manuale di trattamenti e finiture, 2003).
Le finalità dell’ingegneria delle superfici
La ‘manipolazione’ delle tecnologie appropriate per ottenere adeguate proprietà superficiali in modo economico, costituisce il fine ultimo dell’ingegneria delle superfici (Foresight in surface engineering, 2000). Ciò significa, per es., progettare la modifica della superficie dei solidi al fine di: aumentare la durabilità dell’oggetto; poter utilizzare per il substrato materiali poco costosi, modificando solamente la porzione superficiale dell’oggetto; ottenere proprietà specifiche e diverse da quelle dell’interno del materiale. Quest’ultimo processo si definisce tecnicamente funzionalizzazione della superficie.
Da quanto è stato finora esposto, è possibile pervenire a una definizione più rigorosa dell’ingegneria delle superfici: essa consiste nella disciplina che effettua una progettazione integrata di superficie e substrato, così da fabbricare un sistema solido con variazioni graduali delle sue funzioni e da offrire un notevole miglioramento delle prestazioni garantendo al contempo l’efficienza di costi (Bell 2000).
Quest’ultima definizione richiama l’attenzione anche sul ruolo del substrato, che costituisce il supporto meccanico della superficie. Il valore aggiunto dell’ingegneria delle superfici è rappresentato dal fatto che singolarmente superficie e substrato non sarebbero in grado di funzionare in modo egualmente efficace, ma la cooperazione sinergica delle relative caratteristiche esalta il risultato al di là di una semplice unione di proprietà. Inoltre, per individuare le caratteristiche ottimali della superficie da progettare, l’ingegneria delle superfici deve necessariamente occuparsi anche dello studio dei meccanismi che alterano o portano a degradazione le superfici (usura, corrosione, fatica meccanica e termica ecc.) e quelli che le rendono meno efficienti per il raggiungimento del loro scopo progettuale (attrito, invecchiamento delle superfici decorative e così via).
Benefici e limiti
Al fine di evidenziare i benefici ottenibili con i trattamenti superficiali conviene esaminare separatamente gli effetti dei cosiddetti trattamenti decorativi e dei trattamenti funzionali.
I trattamenti decorativi si occupano primariamente di colorare o introdurre sulla superficie particolari disegni. La superficie decorativa deve mantenere il proprio aspetto nel tempo, anche se l’oggetto è sottoposto ad agenti corrosivi, a invecchiamento termico e a usura (si pensi, per es., alle carrozzerie verniciate delle autovetture, ai gioielli e alle plastiche per esterni); bisogna quindi garantirne la durata.
Per quanto concerne i trattamenti funzionali, la maggior parte di essi viene effettuata per aumentare la resistenza a corrosione e/o a usura e a fatica. I costi legati a questi due meccanismi di degrado sono correntemente stimati in media pari a circa il 4% del PIL dei Paesi industrializzati (in precedenza si raggiungeva anche il 10%) e quindi rappresentano un aspetto critico per lo sviluppo di tali Paesi: per es., fra le cause della perdita di funzionalità dei componenti automobilistici, il 70% è legato al degrado delle superfici. D’altra parte i trattamenti funzionali possono anche occuparsi di conferire alla superficie una particolare funzione ottica, termofisica, elettrica, magnetica, adesiva o antiadesiva, di passivazione, di biocompatibilità, di ridotto coefficiente di attrito e così via. Due esempi significativi di questa tipologia di trattamenti sono quelli antiriflesso delle lenti degli occhiali e il miglioramento della resa energetica dei componenti in movimento per riduzione dell’attrito: le perdite di energia nel motore delle autovetture imputabili al solo attrito corrispondono al 15% circa del totale dell’energia erogata (Rabinowicz 19952), con evidenti ricadute sull’efficienza del motore stesso e sul consumo di carburante.
Ulteriori vantaggi ottenibili dall’ingegneria delle superfici sono legati agli aspetti ambientali, all’alleggerimento dei componenti ingegneristici e alla possibilità di generare strati e strutture cosiddette intelligenti. In quest’ultimo caso gli strati deposti sulla superficie possono avere funzione di sensori, di autoadattamento alle condizioni esterne o di autocicatrizzazione.
I principali problemi dell’odierna ingegneria delle superfici sono: la limitata affidabilità industriale di diverse tecnologie, i costi di alcuni processi, la difficoltà di caratterizzare con tecniche semplici ed economiche una parte dei rivestimenti progettati, la circoscritta conoscenza scientifica e tecnica. Sotto quest’ultimo punto di vista, alcuni processi con particolari complicazioni tecnologiche e le relazioni fra i parametri di processo e le proprietà derivate sono ancora poco conosciuti o sono comunque di difficile controllo a causa dell’elevato numero di parametri operativi coinvolti. Manca poi una consolidata capacità modellistica e di simulazione dei processi e dei comportamenti degli strati superficiali. A queste due condizioni contribuisce infine il fatto che la caratterizzazione degli effetti delle modificazioni superficiali sui materiali è generalmente complessa e realizzata con attrezzature sofisticate e assai costose, diffuse principalmente nell’ambiente della ricerca scientifica. Inoltre, molti dei processi più interessanti impiegano le tecnologie del vuoto che, per loro natura, limitano le dimensioni utilizzabili, allungano i tempi del procedimento e sono difficilmente implementabili in un processo continuo e quindi maggiormente produttivo.
I trattamenti di modificazione superficiale
Gli strumenti operativi dell’ingegneria delle superfici sono i trattamenti superficiali, con i quali si possono modificare le superfici mediante l’applicazione di forze, energia termica e altre grandezze fisiche e reazioni chimiche. Le tecnologie di modificazione superficiale includono metodi tradizionali, continuamente aggiornati, e metodi nuovi che generano superfici con caratteristiche più innovative e specializzate: processi termochimici (per es., cementazione e nitrurazione); processi meccanici (per es., pallinatura); processi termici (per es., tempra a induzione); elettrodeposizione; verniciatura; smaltatura; termospruzzatura; physical vapour deposition (PVD); chemical vapour deposition (CVD); processi che impiegano la tecnologia laser; e infine processi ibridi, che utilizzano più tecnologie contemporaneamente.
Per chiarire meglio le differenze fra i vari processi è necessario introdurre il concetto di superficie tridimensionale. Infatti nell’accezione geometrica comune siamo abituati a pensare alla superficie come al contorno bidimensionale che limita i corpi. In realtà, sia le superfici non modificate sia quelle modificate presentano caratteristiche differenti fra superficie e substrato che si estendono in profondità come minimo per alcuni micrometri. In questo senso, parlando di superficie conviene considerare oltre alle due dimensioni del confine del corpo anche lo spessore o profondità per cui le proprietà del materiale sono diverse da quelle del resto del volume del corpo (o cuore). Due proprietà caratteristiche degli strati superficiali illustrano il concetto: la composizione chimica e le proprietà meccaniche. Queste, come le altre caratteristiche della superficie, variano in modo progressivo dalla superficie verso il cuore del materiale, generando uno strato tridimensionale, detto strato superficiale, che viene eventualmente distinto anche in uno strato subsuperficiale.
Occorre inoltre effettuare una distinzione fra i processi che modificano la composizione chimica, la struttura degli strati superficiali e/o il suo stato di sollecitazione meccanica e quelli che invece aggiungono sulla superficie del componente strati di materiale, normalmente diverso da quello che ne costituisce il resto. In quest’ultimo caso il materiale originale prende il nome di substrato e lo strato di materiale aggiunto prende il nome di rivestimento.
All’interno della famiglia dei rivestimenti, i principali tratti distintivi sono il materiale depositato, il suo spessore, la massima durezza raggiunta, l’applicazione e la tipologia di struttura. I rivestimenti si possono infatti classificare in base ai seguenti elementi: materiali depositati (metallici, ceramici, polimerici o compositi); spessori di rivestimento (film sottili, nell’ordine delle decine di micrometri, e film spessi, fino a qualche millimetro); durezza (rivestimenti morbidi, duri, superduri); applicazione (per resistenza a usura, resistenza a corrosione, resistenza a fatica, barriera termica, decorazione ecc.); struttura (a costituente singolo, multicomponente, monostrato, multistrato, a gradiente).
Le caratteristiche e i materiali sopraelencati possono essere ottenuti applicando diverse tecnologie di rivestimento, la cui trattazione dettagliata va oltre gli scopi di questo saggio. Tuttavia, di seguito si riportano alcuni cenni sulle tecnologie di modificazione superficiale più diffuse e sui principali sviluppi che esse hanno avuto nei primi anni del nuovo secolo.
Processi termochimici
I processi termochimici, sviluppati essenzialmente per modificare la superficie di componenti in acciaio, datano dai primi secoli dell’Età del ferro; esempi si ritrovano in oggetti fabbricati da esperti artigiani anche 1200 anni prima di Cristo. L’arte della metallurgia divenne scienza della metallurgia durante il 19° sec.; a partire dalla pubblicazione (1855) delle leggi di Fick sui processi di diffusione, si poté cominciare a pensare a una sistemazione modellistica per i processi termochimici, ma soltanto dagli anni Venti del 20° sec. il miglioramento delle tecniche di analisi e l’introduzione della diffrazione dei raggi X consentirono di trovare evidenze sperimentali e affinare le teorie. Grazie alle leggi di Fick è possibile dimostrare che lo spessore di uno strato superficiale carburato è funzione sia della differenza di concentrazione di carbonio (C) fra la superficie e il substrato, sia della radice quadrata del tempo del processo, e che l’aumento di temperatura gioca un ruolo fondamentale per limitarne la durata.
Cementazione carburante. La cementazione carburante (detta semplicemente cementazione) è ancora oggi il processo fondamentale d’indurimento superficiale dei componenti di acciaio. Accanto alla decomposizione dell’ossido di carbonio (contenuto nell’atmosfera endotermica del generatore) in diossido di carbonio e carbonio, occorre aggiungere in modo calibrato idrocarburi vari che, generando a loro volta monossido di carbonio per reazione con diossido o acqua allo stato gassoso, aumentano ulteriormente la concentrazione del carbonio stesso fornito alla superficie per i successivi processi di adsorbimento e di diffusione. La velocità piuttosto bassa caratteristica dei processi di diffusione superficiale del carbonio, anche alle tipiche temperature di processo (circa 920 °C), rende necessario il ricorso a un innalzamento del gradiente di concentrazione per limitarne la durata. L’uso di acciai legati a basso tenore di carbonio (≤0,2%) e di processi speciali in due stadi (il primo ad alto potenziale di carbonio, 1,4%, il secondo a un potenziale più basso, 0,8%) possono ovviare parzialmente all’inconveniente e rendere più semplici i necessari processi di tempra successivi alla cementazione. Anche l’introduzione di ammoniaca nell’atmosfera carburante porta a una diminuzione delle durate del processo per la sua influenza benefica sul coefficiente di diffusione del carbonio (carbonitrurazione).
Negli ultimi decenni si è riusciti a elevare la velocità globale ricorrendo a processi in basso vuoto e in plasma, entrambi con atmosfere di idrocarburi prive di ossido di carbonio, senza dover aumentare la temperatura di processo, operazione che ha effetti negativi sulla qualità dei pezzi prodotti e sulla durata degli impianti. In tutti e due i casi si evita la reazione di decomposizione del monossido di carbonio sopra descritta, riuscendo ad aumentare la concentrazione di carbonio in superficie: in vuoto si ha direttamente la decomposizione degli idrocarburi in carbonio e idrogeno; in plasma si provoca, sotto l’azione di un campo elettrico, un flusso diretto di atomi di carbonio verso la superficie dei pezzi. I benefici della minore durata sono tuttavia attenuati dal maggiore costo impiantistico e di processo.
Alla fine dei processi di cementazione e di tempra, usualmente effettuata in olio, è indispensabile procedere a un rinvenimento di distensione a 200 °C circa, per elevare la tenacità dello strato superficiale. Un migliore controllo delle distorsioni si ha con l’uso di tempre in gas sotto pressioni elevate, per aumentarne la drasticità. Bisogna in ogni caso procedere a una rettifica dopo il processo, per eliminare gli aumenti di dimensioni apportate dall’inserimento di atomi di carbonio e specialmente dalla tempra. Gli impianti possono essere di tipo continuo (attraverso i quali i lotti procedono con continuità, entrando e uscendo da aperture differenti) o discontinuo (richiedono di eseguire il processo in una camera chiusa, e di attendere la fine del processo per poter riaprire la camera, scaricare e caricare il lotto successivo di pezzi da trattare).
Aumento della resistenza a fatica. L’inserimento di atomi di carbonio nel reticolo cristallino dell’austenite dello strato modificato e ancor più la trasformazione di fase austenite/martensite dovuta alla tempra, con un gradiente di dilatazioni dovute alla variazione di contenuto di carbonio degli strati subsuperficiali, introduce in tali strati un regime di tensioni residue di compressione parallele alla superficie, tanto più elevate quanto più spesso è lo strato di diffusione. A seguito della formazione di tali tensioni residue, si ha uno spostamento verso l’interno dei pezzi dei picchi di tensione positiva responsabili della nucleazione delle cricche di fatica. Questo spostamento lontano dalle zone esterne, dove sono frequenti i marchi di lavorazione, responsabili di una più facile nucleazione delle stesse cricche, produce un aumento del limite di fatica (fino al 25% nel caso di trazione-compressione e valori più alti nel caso di flessione o torsione) rispetto a componenti non trattati.
Nel caso di strati superficiali modificati sottili e componenti cilindrici sottoposti ad azioni di flessione rotante può essere utile la formula seguente, derivata dalla legge di Lessells (1954)
σd,t =[D/(D−2d)]hσd,nt
dove σd,t e σd,nt rappresentano i limiti di fatica, rispettivamente per pezzi trattati e non trattati, D è il diametro del componente e d è lo spessore dello strato di diffusione; h è una costante introdotta per tenere conto del miglioramento intrinseco dovuto allo spostamento dalla superficie dei picchi di tensione e che può essere posta uguale a 1,25, in accordo con quanto detto in precedenza.
Cementazione nitrurante. La cementazione nitrurante (detta semplicemente nitrurazione) consiste nell’inserimento di atomi di azoto (N) nel reticolo cristallino della ferrite. Questo è il processo, fra tutti quelli di indurimento superficiale, che può condurre all’aumento maggiore di durezza in strati spessi: se si utilizzano acciai legati all’alluminio (Al), si possono raggiungere valori di durezza Vickers anche di 1100 HV, mentre con acciai legati al cromo (Cr) l’aumento di durezza si ferma a circa 800 HV.
La particolarità principale dei processi di nitrurazione è quella di formare in superficie un doppio strato superficiale: in quello più esterno, spesso da 10 a 20 μm, si ha la presenza del composto interstiziale γ′-Fe4N e della soluzione solida ε (C e N in un reticolo cristallino di atomi di Fe di tipo esagonale); in quello subsuperficiale, spesso alcuni decimi di millimetro, si ha diffusione di atomi di azoto verso l’interno, accompagnata da una contro-diffusione di atomi di carbonio presente nell’acciaio verso l’interfaccia fra i due strati superficiali. L’azoto reagisce con alcuni degli elementi leganti formando precipitati che conferiscono l’innalzamento di durezza.
Il processo di nitrurazione è noto almeno dal 17° sec., ma soltanto negli ultimi tempi si è riusciti a dare una sistemazione modellistica, ancora oggi poco nota. L’apporto di atomi di azoto è assicurato da composti nitrurati, ammoniaca (NH3) nel caso dei processi gassosi, cianati e cianuri alcalini allo stato fuso nel caso dei processi in fase liquida. Durante i processi gassosi l’ammontare relativo delle fasi γ′ ed ε è controllato dal flusso in superficie di atomi di N e quindi dal potenziale di N dell’atmosfera nitrurante; γ′ è abbastanza duro (∼600 HV), ma non provoca una riduzione del coefficiente di attrito, che è invece sostanzialmente ridotto dalla fase ε a causa della sua forma cristallina esagonale. Quest’ultima fase ha una durezza che varia in misura molto grande con il contenuto di C: da 220 HV se assente fino a quasi 800 HV in prossimità del 3% in peso di C. Il contenuto di N non ha invece influenza sulla durezza delle soluzioni solide ε. L’aumento di tenore di C comporta anche un aumento della tenacità di ε. Sono usualmente nitrurati gli acciai legati al Cr o al Cr e Al, contenenti circa lo 0,4% di carbonio, preventivamente bonificati (rinvenimento a 600 °C) in modo da assicurare la massima tenacità del substrato. Si utilizza ammoniaca parzialmente dissociata per limitare la formazione di spessi strati superficiali. Quindi, dopo nitrurazione gassosa con sostanze soltanto nitruranti (svolta a 500÷530 °C), lo strato immediatamente superficiale assicura un basso coefficiente di attrito e lo strato subsuperficiale di diffusione provoca l’aumento complessivo di durezza. Quest’ultimo è particolarmente importante nel caso di elevate pressioni hertziane di contatto fra corpi affacciati.
La velocità di diffusione dell’azoto verso l’interno dei pezzi è sempre molto bassa, poiché il gradiente di concentrazione dell’elemento nello strato di diffusione è estremamente piccolo: la ferrite a contatto con lo strato superficiale contiene infatti lo 0,1% di N, quella lontana ne è priva. La durata dei processi è dunque molto elevata: essa può raggiungere 72 ore a 500 °C per assicurare una penetrazione di 0,3 mm in un acciaio legato. Maggiore è la quantità di elementi leganti stabilizzanti di nitruri (Al, Cr, Mo, V, Mn) nell’acciaio di partenza, minore è la penetrazione dell’azoto, che viene fermato sotto forma di precipitati nello strato di diffusione. L’aggiunta, nell’atmosfera gassosa di processo, di sostanze capaci di cedere carbonio (per es., CO) provoca un miglioramento delle caratteristiche meccaniche dello strato superficiale; in questo caso si parla di nitrocarburazione e si possono anche progettare strati superficiali più spessi, con un coefficiente di attrito particolarmente basso e una durezza elevata. La temperatura viene alzata fino a 575 °C ottenendo anche una limitazione della durata del processo (2-4 h).
I processi in fase liquida con cianati e cianuri alcalini sono sempre processi di nitrocarburazione, eseguiti a 575 °C circa per tempi di 2-3 h. Attualmente si usano bagni quasi senza cianuri (≤0,8%) per problemi ecologici. Con concentrazioni di cianuri più alte (fino al 3-4%) si aumenta la cessione di atomi di C e la possibilità di ottenimento di strati costituiti solamente dalla fase ε, ma si hanno problemi di smaltimento dei sali esausti; in questo caso, gli strati superficiali sono più compatti e più adatti a un’usura a secco. Invece, in assenza di cianuri, si hanno fasi ε meno cariche di carbonio e strati più teneri, anche per la presenza di diffusa porosità nei primi micrometri; i pori affioranti in superficie possono rappresentare dei microserbatoi in cui si adsorbe lubrificante che viene rilasciato in opera alimentando i meati fra superfici affacciate. Le applicazioni sono quindi per un’usura lubrificata. Si facilita pure il rodaggio delle superfici affacciate in movimento. Anche nel caso della nitrurazione e della nitrocarburazione si stanno imponendo processi, meno inquinanti, in plasma con atmosfere formate da N2, H2 e CH4, la cui utilizzazione può essere limitata dal costo dell’energia elettrica. Sono specificatamente adatti al trattamento di particolari sinterizzati e permettono un ottimale controllo della costituzione dello strato più esterno. Infine, è possibile applicare la legge di Lessells modificata anche ai processi di diffusione dell’azoto. Gli aumenti dei limiti di fatica sono, come nei casi precedenti, importanti.
A causa della mancanza di processi di tempra per trasformazioni di fase susseguenti a tutti questi trattamenti di nitrurazione, le distorsioni sono molto limitate e nei processi al plasma addirittura nulle. Il trattamento finale di lavorazione meccanica può essere soltanto una lappatura con pasta diamantata. La mancanza di distorsioni consente la ripetizione del trattamento più volte sullo stesso componente (specie nel caso della nitrocarburazione) dopo un periodo di esercizio che ha portato al consumo dello strato superficiale. Gli impianti sono sempre di tipo discontinuo.
Elettrodeposizione
I metodi di deposizione elettrochimica o galvanica sono processi molto consolidati che permettono di applicare rivestimenti costituiti da metalli e dalle loro leghe. I principali benefici ottenibili sono, secondo i casi, il miglioramento della resistenza a corrosione, la decorazione delle superfici e l’aumento della resistenza all’usura. L’elettrodeposizione mediante elettrolisi consiste nella deposizione di elementi metallici sopra un componente che agisce da elettrodo immerso in un elettrolita, attraverso cui si fa passare corrente elettrica. Il processo e la tecnologia sono piuttosto semplici e presentano alcuni vantaggi distintivi: il processo si svolge a bassa temperatura (inferiore a 100 °C) e quindi i pezzi trattati non subiscono distorsioni; i rivestimenti sono densi e presentano ottima aderenza con il substrato; il processo è molto flessibile e permette, con semplici variazioni dei parametri di deposizione, un’ampia modulazione delle proprietà dei rivestimenti; lo spessore dei rivestimenti è proporzionale alla quantità di corrente utilizzata e al tempo di processo e non ci sono limiti tecnici allo spessore dei depositi; la deposizione può avvenire su particolari forme complesse, su pareti nascoste, su fori ciechi (entro certi limiti) ecc.; mediante l’applicazione di semplici maschere meccaniche oppure di speciali vernici è possibile confinare la deposizione soltanto alle aree desiderate; si possono rivestire particolari di grandi dimensioni; il processo è continuo, facilmente automatizzabile ed economico in confronto ad altri processi di rivestimento. I substrati che si possono rivestire sono piuttosto vari con l’unico requisito che siano conduttivi o si possano rendere conduttivi. Con questo accorgimento è possibile rivestire anche diversi materiali plastici. I metalli che si depositano più frequentemente con le tecniche galvaniche sono il cromo, il nichel, lo zinco, il rame e lo stagno; se in soluzione vi sono ioni di vari elementi si possono anche depositare leghe metalliche. Nel settore della gioielleria si effettuano frequentemente deposizioni di rodio, oro, argento e talvolta platino. Fino a qualche anno fa, i materiali costitutivi del rivestimento dovevano essere di natura esclusivamente metallica. Recentemente è stato però possibile depositare strati compositi, costituiti non soltanto da materiali metallici, ma anche da particelle o fibre ceramiche o polimeriche che risultano incluse nel deposito metallico durante la crescita del rivestimento (Manuale di trattamenti e finiture, 2003, p. 276). In questo settore, piuttosto interessanti sono i depositi di nichel con particelle di teflon, in grado di abbassare il coefficiente di attrito ed esaltare le proprietà di antiaderenza, oppure i depositi di nichel rinforzati con particelle o fibre ceramiche, come l’allumina (ossido di alluminio) e il carburo di silicio.
Le principali limitazioni cui sono soggette le tecnologie di elettrodeposizione sono quelle relative alle problematiche ambientali e alla salute umana. Occorre subito chiarire che i depositi galvanici in sé stessi non hanno alcuna controindicazione di tale tipo, ma che molti dei bagni utilizzati per la deposizione sono fortemente inquinanti e devono essere trattati e smaltiti con estrema cautela. I bagni più pericolosi sono quelli contenenti ioni con cromo esavalente (sostanza classificata come cancerogena), impiegati per la deposizione di cromo sia decorativo sia funzionale (a spessore). Tuttavia esistono anche altri bagni di deposizione che richiedono particolari attenzioni nella manutenzione e nello smaltimento. Gli sviluppi più recenti di queste tecnologie si sono infatti concentrati proprio sulla riduzione dell’impatto ambientale dei processi di elettrodeposizione. Per es., si sono diffusi sempre più i bagni con ioni di cromo trivalente che, pur avendo minore efficienza rispetto a quelli tradizionali, non presentano pericoli per la salute dell’uomo.
Un altro sviluppo industriale di crescente interesse concerne una tecnologia collegata a quella dell’elettrodeposizione: la deposizione di metalli in soluzione acquosa senza l’apporto di corrente elettrica. Tale processo è spesso definito autocatalitico ed è particolarmente utilizzato per depositare leghe di nichel (si parla dunque di nichel chimico). In questo processo, il particolare da rivestire agisce da substrato catalizzatore per la riduzione degli ioni di nichel a partire da sali di nichel e la conseguente formazione del deposito di nichel, eventualmente comprendente cariche ceramiche o polimeriche. I bagni per questo tipo di tecnologia hanno un limitato impatto ambientale.
I riporti galvanici di cromo e di nichel (materiali maggiormente elettrodeposti) sopportano temperature fino a circa 600 °C e presentano durezze nel caso del nichel di circa 500 HV, confrontabili con quella di molti acciai bonificati, e nel caso del cromo di circa 900 HV. I depositi di cromo mostrano eccellente resistenza alla corrosione e lucentezza delle superfici. I depositi di zinco hanno ottima resistenza alla corrosione.
Le principali applicazioni dei riporti galvanici sono su conduttori elettrici e pozzi di calore, utensili, valvole, componentistica del motore, steli di ammortizzatori, parti calde dei motori, applicazioni marine e idrauliche, carrelli di atterraggio di aerei, finiture sanitarie (rubinetti, manopole ecc.) e finiture per infissi interni ed esterni (cerniere, maniglie e così via).
Termospruzzatura
Con tale termine si indica un gruppo di processi di rivestimento, in cui il materiale che si desidera depositare, generalmente in forma di particelle di polvere (con dimensioni comprese tra 1 e 500 μm di diametro), viene portato allo stato fuso o semifuso, immesso in un flusso di gas e proiettato verso il substrato da rivestire, a cui le particelle aderiscono per impatto. Le particelle, ancora fuse o semifuse, e quindi facilmente plasmabili, si schiacciano e si espandono sulla superficie del substrato, come una goccia che impatta su un piano, e solidificano in forma di lamelle. La deposizione successiva di strati di lamelle, come tanti piccoli mattoni sovrapposti, genera il rivestimento. L’aggancio fra rivestimento e substrato è di natura prevalentemente meccanica; per tale ragione, per migliorare l’adesione, il substrato stesso deve essere rugoso. Ne deriva uno dei principali limiti della termospruzzatura, in quanto l’applicazione del rivestimento non modifica il grado di rugosità originale del substrato e pertanto si ottengono particolari con limitata finitura superficiale, che spesso devono essere ulteriormente rettificati. Per questa ragione la termospruzzatura difficilmente risulta adatta a superfici decorative.
I rivestimenti ottenuti per termospruzzatura sono di tipo spesso (da 200 μm ad alcuni millimetri). Un aspetto molto interessante di questi processi consiste nel fatto che, sebbene le particelle raggiungano temperature molto elevate, il substrato non si scalda in maniera significativa (100÷200 °C) e non perde le caratteristiche precedentemente acquisite (per es. ottenute mediante i trattamenti termici nel caso dei metalli).
Il calore necessario a portare la polvere allo stato fuso o semifuso è somministrato tramite diverse tecnologie, qui elencate in ordine di crescente complessità: fiamma ossiacetilenica, arco elettrico, combustione di miscele di gas o liquidi combustibili e torce al plasma. I parametri che caratterizzano i diversi processi sono essenzialmente due: la massima temperatura raggiungibile e la velocità di proiezione delle polveri. La prima determina i tipi di materiali che si possono depositare, in base alla loro temperatura di fusione: con i processi più avanzati e complessi la temperatura è talmente alta che è possibile fondere qualunque materiale metallico, ceramico o composito (miscela di materiali di natura diversa, per es. metallici e ceramici). La velocità di proiezione determina invece l’energia cinetica con cui le particelle impattano sulla superficie del substrato. In base a tale velocità si determina quanto efficacemente il primo strato di particelle si aggancia al substrato e quanto i successivi strati si compattano sopra i precedenti. Pertanto, la velocità di proiezione influenza sia il livello di adesione che si può instaurare fra rivestimento e substrato, sia la densità del rivestimento stesso e quindi le proprietà meccaniche e di resistenza alla corrosione del componente con rivestimento. In quest’ultimo caso il rivestimento deve essere particolarmente denso, in quanto svolge un’azione di barriera contro la penetrazione di specie chimicamente aggressive verso il substrato. Occorre però sottolineare che, in alcune applicazioni, può essere desiderabile avere strati deposti porosi. Infatti i pori nella struttura, che intrappolano gas al loro interno, rallentano la trasmissione del calore e smorzano le vibrazioni (con effetto, rispettivamente, di barriera termica e di attenuazione del rumore), mentre i pori affioranti in superficie facilitano la lubrificazione.
La termospruzzatura è un processo che presenta numerosi vantaggi. Il maggiore risiede nell’ampia varietà di depositi che si possono ottenere: qualsiasi materiale che fonda senza decomporsi può essere applicato con questa tecnica. Il secondo vantaggio consiste nella possibilità di ricoprire un substrato senza riscaldarlo in misura significativa. Il terzo vantaggio è legato alla possibilità di rimuovere e rivestire nuovamente un riporto usurato o danneggiato senza variare proprietà o dimensioni del pezzo. Come per altre tecnologie, è possibile depositare rivestimenti monostrato o multistrato che migliorano l’adesione fra rivestimento esterno e substrato e, grazie alla sinergia dei materiali costitutivi i diversi strati, producono miglioramenti molto spiccati delle proprietà meccaniche. Al contrario, gli svantaggi sono legati all’impossibilità di ricoprire zone come, per es., cavità profonde o zone sottosquadro, nelle quali il flusso dei materiali proiettati dalla torcia o dalla pistola non riesce ad accedere, e al fatto che i rivestimenti ottenuti presentano ottime caratteristiche meccaniche in direzione perpendicolare alla superficie, ma limitate in direzione parallela a essa. Questo significa che un componente con superfici sottoposte a sollecitazione di taglio (per es., i denti degli ingranaggi) risulta poco adatto per il rivestimento con termospruzzatura. Le due principali e più recenti tecnologie di termospruzzatura sono l’high velocity oxygen fuel (HVOF) e la spruzzatura al plasma.
La tecnologia HVOF sfrutta la combustione in camera chiusa di miscele di ossigeno e combustibili liquidi o gassosi, per generare calore. La camera di combustione presenta poi un ugello, che permette l’evacuazione dei gas di combustione e per il tramite di una geometria apposita ne determina l’accelerazione fino a velocità superiori a quelle del suono. Le polveri da spruzzare possono essere iniettate direttamente nella zona di combustione oppure nella zona di scarico dei gas: nel primo caso si ha un più efficace scambio di calore, mentre nel secondo si ha una minore contaminazione delle polveri stesse. Infatti, polveri di leghe metalliche o di carburi a contatto con gas reattivi chimicamente e/o atmosfere ossidanti possono subire contaminazione o, più frequentemente, ossidazione. Gli ossidi o le sostanze contaminanti formatisi in fase di fusione e proiezione delle polveri si intrappolano all’interno del rivestimento, alterandone l’omogeneità chimica e fisica. La massima temperatura raggiungibile è alta, ma non a sufficienza da fondere qualunque materiale: in particolare, con la tecnologia HVOF non si riescono a spruzzare efficacemente taluni ossidi. D’altra parte la velocità del flusso di particelle proiettate è tra le più alte raggiungibili con tecnologie di termospruzzatura: i rivestimenti ottenuti risultano particolarmente densi e resistenti a usura e a corrosione.
La tecnica di spruzzatura al plasma sfrutta una torcia al plasma per somministrare calore e impartire velocità di proiezione alle particelle. Il plasma utilizzato genera una quantità di calore molto elevata: nelle regioni centrali della torcia le temperature possono raggiungere anche 30.000 K, per poi decadere abbastanza rapidamente negli strati più esterni fino a 2000÷3000 K. A queste temperature qualunque materiale esistente fonde, pertanto si possono spruzzare materiali di qualunque tipo e anche miscele di materiali diversi. La velocità di proiezione è più bassa rispetto a quanto accade nell’HVOF e quindi la porosità media dei riporti è maggiore. La tecnologia al plasma è molto costosa rispetto a quella HVOF, ma si giustifica per l’alto valore aggiunto che è in grado di fornire in alcune applicazioni (per es., nel settore aeronautico e della produzione di energia). La tecnologia di termospruzzatura si presta facilmente all’automazione e all’inserimento in cicli di produzione continui.
Gli obiettivi generali dell’utilizzo di rivestimenti termospruzzati sono, comunque, la protezione contro l’usura (per abrasione, strisciamento ed erosione), la protezione contro la corrosione (ossidazione a caldo e corrosione atmosferica), l’isolamento termico (barriere termiche), l’isolamento da radiazioni e l’isolamento o la conduzione elettrica. Alcuni esempi applicativi sono: barriere termiche, corone dei pistoni, testa cilindro, alberi a camme, rivestimenti antiossidanti, grossi rulli di formatura della carta, coltelli e altri utensili per il taglio di carta e tessuti, valvole, raccordi, utensili di trivellazione ed escavatori.
Deposizione da fase vapore
I processi di deposizione da fase vapore di film sottili si dividono principalmente nelle categorie PVD e CVD: la prima consiste nella deposizione di un film sottile (1÷10 μm) su una superficie mediante evaporazione, trasporto e successiva condensazione a seguito o meno di reazione con l’atmosfera di processo del materiale costitutivo del riporto; la seconda comprende vari tipi di tecniche per la produzione di rivestimenti sottili o spessi, tramite decomposizione chimica di reagenti gassosi nelle vicinanze oppure sulla superficie stessa del substrato da rivestire, che svolge il ruolo di catalizzatore della reazione.
Caratteristiche comuni a entrambe le tipologie di rivestimenti sono l’estrema varietà dei depositi ottenibili, la crescita atomistica (il film si forma dalla condensazione di una ‘pioggia di atomi’) e il conseguente loro alto grado di perfezione (ottica, meccanica ecc.). Si tratta di rivestimenti con applicazioni decorative, per resistenza all’usura e alla corrosione, per biocompatibilità e con proprietà in genere eccezionalmente superiori a quelle di altri rivestimenti. I limiti ancora attualmente irrisolti sono: la complessità dei processi di deposizione e le difficoltà di ottimizzazione e controllo dei parametri; la difficoltà di fabbricare impianti industriali di grandi dimensioni e con elevata produttività; la difficoltà di ottenere un’ottima adesione su tutti i substrati e una costanza di qualità elevata dei rivestimenti.
Processi PVD. In essi, il materiale da depositare, generalmente presente nella camera in forma di materiale massivo con forme e dimensioni opportune per ogni tipo di processo, è evaporato in condizioni di vuoto con pressioni di circa 10−8÷10−10 bar e temperature di processo relativamente basse, in genere inferiori a 550 °C. Il vuoto e la temperatura operativa sono i parametri di deposizione comuni a tutti i processi PVD. Il meccanismo di evaporazione, come descritto nel seguito, può essere vario e contraddistingue le diverse tecniche che fanno parte di questa famiglia di rivestimenti. Gli atomi evaporati sono, nella maggior parte dei processi, immessi in un plasma che li ionizza e li rende movimentabili per semplice applicazione di campi elettrici. In particolare, il gas ionizzato è trasportato dall’evaporatore fino alla superficie del substrato da rivestire. Qui gli atomi evaporati e ionizzati condensano per semplice contatto con la superficie del substrato e costruiscono così, atomo per atomo, il rivestimento. Inserendo diversi evaporatori nella camera e modulandone l’intensità di evaporazione si possono depositare contemporaneamente vari materiali. Inoltre nella camera è possibile inserire gas reattivi (per es., O2, N2 e C2H2) che, reagendo chimicamente con il materiale in fase di condensazione, formano depositi costituiti da composti (deposizione reattiva). Accendendo e spegnendo i diversi evaporatori in modo successivo o alternato è anche possibile generare strati con composizione e caratteristiche particolari, costituendo una struttura multistrato. Infine, modulando nel tempo l’intensità di evaporazione di uno o più evaporatori, è possibile generare anche strutture a gradiente di composizione.
La gamma di possibilità di gestione dei parametri di processo rende le tecniche di deposizione PVD estremamente flessibili, ma complica notevolmente i meccanismi di formazione dei rivestimenti nonché il controllo di processo e la riproducibilità delle proprietà dei depositi ottenuti. I rivestimenti prodotti con tecniche PVD sono annoverabili fra quelli sottili, con elevato grado di purezza ed elevata finitura superficiale. Tali tecniche permettono di rivestire quasi tutte le leghe metalliche in modo diretto o a seguito di pretrattamenti atti a occludere le porosità e limitare il degassamento sottovuoto. A seguito di opportuni pretrattamenti e utilizzando impianti specifici è anche possibile depositare rivestimenti PVD su materiali non elettricamente conduttori, quali vetri, ceramiche e, compatibilmente con le temperature di processo, anche alcune materie plastiche (per es., ABS, acrilonitrile butadiene stirene).
Nell’ambito delle tecnologie PVD, in base al meccanismo di evaporazione adottato, si possono distinguere tre famiglie di processi: processi a evaporazione; processi per ablazione, meglio noti come sputtering; processi per impiantazione ionica (ion implantation). All’interno della prima famiglia si individuano processi che producono evaporazione del materiale da depositare tramite riscaldamento termico o un fascio elettronico o un fascio laser oppure un arco elettrico. Tutti questi processi operano, con rese diverse, generando elevate intensità di evaporazione e alte velocità di deposizione. In particolare, con i processi a fascio elettronico si possono anche ottenere rivestimenti spessi qualche centinaia di micrometri (per es., barriere termiche per palette di turbine). Tuttavia gli strati ottenuti con i processi a evaporazione risultano meno precisi di quelli ottenuti con le altre due famiglie e presentano un maggior numero di possibili difetti.
I processi di deposizione per ablazione sfruttano invece un bombardamento con ioni di argon sulla superficie dell’evaporatore. Tale bombardamento produce lo scalzamento dalla superficie dell’evaporatore di atomi del materiale (processo di sputtering) che si desidera depositare. Gli atomi sono ionizzati e accelerati per differenza di potenziale verso il substrato su cui rivestire. Anche questa tipologia di processi ha numerose variabili per migliorare l’efficienza di deposizione, ma la caratteristica essenziale, comune a tutte le varianti di processo, è l’ottenimento di strati molto precisi e regolari a scapito però della velocità di deposizione, assai più limitata rispetto ai processi per evaporazione. Questi processi sono particolarmente adatti per applicazioni elettroniche, ottiche e decorative.
I processi per impiantazione ionica sono molto simili ai precedenti; in questi, però, nello stadio iniziale del processo, gli atomi costitutivi del rivestimento sono accelerati verso il substrato con energie talmente elevate da produrne la penetrazione all’interno degli strati superficiali del substrato. In questo modo si produce mescolamento degli atomi del rivestimento e di quelli del substrato favorendo l’adesione fra i due (e in alcuni casi anche il procedere di reazioni chimiche). Il bombardamento spesso continua anche durante la deposizione vera e propria con lo scopo di effettuare una continua rimozione dei contaminanti e un effetto di microimpatti, che rafforzano per deformazione plastica il rivestimento stesso.
Il trasporto di materiale dall’evaporatore al substrato si realizza generalmente in plasma che attiva le superfici del substrato, ionizza e rende molto reattive le specie gassose. Le tecniche PVD ormai consolidate a livello industriale sono di tipo discontinuo, essenzialmente per la necessità di lavorare in vuoto: ciò rallenta notevolmente i tempi di lavorazione. Il processo ha, invece, un utilizzo molto efficiente delle materie prime e dell’energia. Inoltre non emette sostanze nocive né produce residui o reflui inquinanti. Attualmente i principali sviluppi tecnologici sono focalizzati sull’ottenimento di processi continui o semicontinui. Le applicazioni dei rivestimenti PVD sono sia decorative sia funzionali. I rivestimenti decorativi offrono colorazioni molto varie, accompagnate a incrementi della resistenza all’usura delle superfici. Per quanto riguarda la resistenza a corrosione, gli incrementi sono invece ancora limitati e, a oggi, risulta conveniente accoppiare tali processi ad altri trattamenti, come, per es., quelli galvanici, molto più efficaci in questo senso. I rivestimenti funzionali hanno applicazioni soprattutto per la resistenza all’usura e la resistenza all’ossidazione. Con tali rivestimenti si raggiungono infatti livelli straordinari di proprietà meccaniche, in particolare di durezza: per i nitruri e i carburi semplici e compositi si arriva intorno a 3000 HV (PalDey, Deevi 2003). Recentemente sono stati sviluppati i cosiddetti rivestimenti nanocompositi (Veprek, Veprek-Heijman, Karvankova, Prochazka 2005; Musil 2000), che mantengono eccezionali caratteristiche di durezza (3000 HV) anche a temperature molto alte, fino a 1100 °C (Raveh, Zukerman, Shneck et al. 2007). Le applicazioni dei rivestimenti PVD sono soprattutto negli utensili da taglio (in cui attualmente il numero dei particolari rivestiti supera quello dei non rivestiti), negli stampi per lavorazioni a caldo, a freddo e della plastica, nei componenti meccanici sottoposti a usura e nel settore decorativo.
Processi CVD. In tale deposizione, una miscela di gas è immessa in una camera chiusa, portata in condizioni di pressione e temperatura così alte da produrre la decomposizione delle molecole gassose, eventuali reazioni fra di esse e la condensazione dei prodotti di queste reazioni a formare strati metallici o ceramici sul particolare da ricoprire. Lo spessore dei rivestimenti può andare da poche decine di micrometri ad alcune centinaia. I componenti della reazione CVD prendono il nome di precursori e generalmente sono già immessi nella camera di deposizione allo stato gassoso; a essi si aggiungono i comuni gas di processo inerti o reattivi. La temperatura di reazione è generalmente piuttosto alta, fra 900 e 1050 °C, e il substrato è riscaldato a una temperatura uguale a quella di reazione dei precursori, così da innescare la reazione di condensazione degli strati di rivestimento sul pezzo da rivestire. Proprio questo aspetto rappresenta la principale limitazione dei processi CVD: i particolari da ricoprire devono sopportare le temperature di reazione senza deformarsi, alterare la loro struttura o formare precipitati, e senza dare origine a composti non volatili con i gas prodotti nella reazione di scambio. Pochi materiali possono essere pertanto utilizzati come substrato in questo tipo di processo e, spesso, quelli utilizzabili devono comunque essere trattati termicamente o lavorati dopo la deposizione, con costi ulteriori. Come descritto in seguito, la tecnologia si è concentrata ultimamente sul risolvere questa problematica e sull’aumentare la velocità di deposizione, che nella tecnica tradizionale è bassa con evidenti ripercussioni sulla produttività del processo. D’altra parte, le alte temperature operative, accoppiate alle reazioni chimiche necessarie per la formazione di strati deposti, producono un’elevata adesione fra rivestimento e substrato, molto superiore rispetto a quella che si ottiene con i rivestimenti PVD. Ulteriore vantaggio della tecnologia CVD rispetto a molte altre (per es., termospruzzatura e PVD) è il fatto che, essendo il mezzo di trasporto per i precursori allo stato gassoso, esso riesce a penetrare in tutte le zone del componente da rivestire e a raggiungere anche superfici non in vista (per es., fori, sottosquadri e altro). Inoltre, cambiando i precursori è possibile, in modo semplice, modificare durante la crescita del rivestimento la composizione degli strati e creare strutture a gradiente o multistrato. Un limite tecnologico difficilmente sormontabile è invece il fatto che alcune reazioni producono specie chimicamente aggressive (per es., acido cloridrico), che possono corrodere il substrato. La formazione di film duri antiusura con tecniche CVD è principalmente concentrata nel rivestimento di inserti in attrezzature, stampi e utensili da taglio e nel settore della deformazione plastica a freddo (estrusione, tranciatura, bulloneria ecc.). In tali applicazioni si usano substrati resistenti e stabili in temperatura.
Per quanto riguarda i processi che permettono di lavorare a temperature più basse e di incrementare la velocità di deposizione, le principali varianti sono: metal-organic chemical vapour deposition (MOCVD), plasma assisted chemical vapour deposition (PACVD), plasma enhanced chemical vapour deposition (PECVD). Il MOCVD usa i composti metallorganici come precursori, che permettono di adottare temperature di decomposizione e reazione tra 400 e 500 °C. I film che si ottengono con questa tecnica risultano di elevata purezza e qualità, ma i metallorganici sono precursori molto costosi; gran parte di essi, inoltre, presentano pericoli per la salute umana e sono pertanto critici da gestire. Le principali applicazioni di tale tecnica sono nel settore dell’elettronica, in cui la richiesta di film di elevata qualità può giustificare l’aggravio dei costi di questo processo. La tecnica PACVD utilizza un plasma caldo come mezzo per attivare le reazioni e quindi permette di mantenere il substrato a temperature tra 400 e 650 °C, a seconda del rivestimento da produrre. Anche la velocità di deposizione aumenta, ma la qualità del film che si ottiene è inferiore a quella ottenuta con il CVD tradizionale e i costi del macchinario crescono notevolmente. Il PECVD fa avvenire i processi di reazione in un ambiente di plasma freddo. In tal modo questa tecnica permette di lavorare anche a temperatura ambiente e di rivestire praticamente qualunque materiale. I rivestimenti ottenuti sono di natura polimerica. Tuttavia, a differenza dei polimeri classici, che sono formati essenzialmente da catene di atomi di carbonio, questi possono essere costituiti da lunghe catene di carbonio e atomi di altri elementi, quali il silicio e metalli vari, e comprendere anche ossidi e nitruri metallici; in condizioni particolari (Kvasnica, Schalko, Eisenmenger-Sittner et al. 2006) si possono formare addirittura rivestimenti tipo diamante (diamond-like carbon, DLC). Anche il substrato entra a contatto con il plasma, da esso viene attivato e reso reattivo e in grado di partecipare alle reazioni di polimerizzazione dei composti. Si ottiene così un’ottima adesione fra rivestimento e substrato. I limiti del processo PECVD sono la ridotta velocità di deposizione e il fatto che i depositi ottenuti hanno una struttura polimerica e sono in genere meno resistenti dal punto di vista dell’usura. Essi sono usati principalmente per migliorare la resistenza a corrosione e in applicazioni ottiche.
Bibliografia
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