INGEGNERIA GENETICA
L'i.g. può essere definita una scienza (G. Radnitzky, 1982) diretta allo studio e alle applicazioni di modificazioni controllate apportabili al patrimonio genetico − genotipo − di organismi viventi (v. anche genetica, App. IV, ii, p. 13). Le sue finalità possono quindi essere sia teoriche che pratiche: da un lato può contribuire alla comprensione dei meccanismi evolutivi che determinano la comparsa e la stabilizzazione di un certo genotipo, dall'altro può arricchire con proprietà nuove, utili ed ereditabili l'insieme delle caratteristiche − fenotipo − dell'organismo che ne risulta.
Le modificazioni necessarie a questi scopi vengono realizzate trasferendo all'interno delle cellule da modificare geni derivati da organismi diversi dal ricevente e a esso evolutivamente estranei. Il concetto di estraneità evolutiva di un gene trapiantato nei confronti della cellula ospite è alla base delle definizioni correnti di i.g. e della sua necessaria distinzione dalla genetica. Ma seppur importante (si pensi per es. ai problemi normativi), questo concetto resta opinabile: può infatti semplicemente denunciare l'impossibilità, o almeno l'improbabilità, di scoprire che un certo gene è comparso all'interno di un determinato organismo mediante processi che in natura accadono con frequenza molto bassa e non vengono poi favoriti dalla selezione, oppure che l'aggirino, come potrebbe succedere ai prodotti dell'i.g. quando fossero rilasciati nell'ambiente in dosi massicce.
Riguardo al problema dell'estraneità di geni trapiantati in ospiti evolutivamente diversi dal donatore, particolarmente interessanti sono alcune recenti scoperte: numerosi geni di lievito, del cui cromosoma III è stata completata nella primavera del 1991 l'intera sequenza nucleotidica, sono stati trovati sorprendentemente omologhi a geni umani, murini, di insetti e di batteri (A. Goffeau, 1991). Pure alto sembra il numero dei geni umani simili a geni di altri organismi tra quelli riscontrati attivi nel cervello (M.D. Adams et al., 1991). D'altra parte, soprattutto per specie non numerose e recenti (comunicazione personale di C. Barigozzi, 1991), considerazioni teoriche e calcoli semplici, anche se molto approssimati, paiono indicare che è improbabile che l'evoluzione naturale abbia sperimentato tutti i possibili geni e tutte le loro combinazioni in tutte le possibili condizioni ambientali, come ha mostrato per primo W. Arber (1990). È quindi lecito concludere che, nonostante la frequenza imprevedibilmente elevata di geni a sequenza omologa tra specie anche molto diverse, l'i.g. può contribuire alla comparsa di nuovi genotipi, e quindi di nuovi organismi; e, contrariamente all'opinione di alcuni, può così concorrere ad aumentare, e non a deprimere, la variabilità genetica.
Definire l'i.g. quindi non è questione semplice, né è (o almeno è stata) pura accademia: va però ricordato che, nonostante ciò, una specifica legislazione è stata proposta in diversi paesi e adottata in altri (per es. la Germania) per punire gli eventuali abusi e minimizzare i possibili rischi. In effetti per l'immaginario collettivo l'i.g., ancor prima del suo concreto avvio, è stata spesso sinonimo di oscure minacce all'integrità della dotazione genica dell'uomo e di temerarie infrazioni di barriere riproduttive che demarcano la biosfera: per molti purtroppo continua ad esserlo, nonostante un ultraventennale curriculum ricco di prestazioni nel complesso positive e privo di incidenti di rilievo. In realtà l'i.g. può offrire all'umanità efficaci strumenti per il controllo di uno dei pochi fenomeni naturali che parevano doverne restare indipendenti: l'evoluzione biologica. Dato il materiale su cui opera − il pool genico della biosfera − è inevitabile che il suo potenziale manipolativo e produttivo comporti rischi di incidenti. Ma molto più rilevanti sono i possibili benefici.
È noto che, sin dai tempi della comparsa delle prime molecole dotate di vita, capaci cioè di autoreplicarsi e modificarsi, l'evoluzione ha sempre operato attraverso cambiamenti genetici (mutazioni) insorti più o meno a caso entro il rigido determinismo della replicazione degli acidi nucleici, basato su meccanismi di copiatura: più tardi, accanto alle mutazioni, incominciano a contribuire alla variabilità genetica fenomeni più complessi, come la ricombinazione e la mobilità dei cosiddetti elementi genetici trasponibili (v. trasposone, in questa Appendice). Tra le strutture molecolari risultanti la selezione è andata favorendo quelle rare varianti capaci di una più rapida ed efficiente replicazione, e quindi di una maggiore diffusione. Da allora l'evoluzione ha proceduto sostanzialmente sganciata da finalizzazioni: non si può infatti ritenere finalizzata in senso evolutivo la selezione esercitata indirettamente dall'uomo attraverso modificazioni apportate all'ambiente, che devono quindi considerarsi evolutivamente casuali. Né il ruolo adattativo di alcune mutazioni, come postulato da J. Cairns (1988) nello studio di mutanti batterici, altera la generalità di queste affermazioni.
Ma che l'evoluzione abbia proceduto in modi casuali è affermazione corretta se ci si limita a quanto è successo sino a circa diecimila anni fa, all'inizio del neolitico: fu allora che quelli che potremmo chiamare i primi biotecnologi della preistoria scoprirono l'agricoltura e l'allevamento, e riuscirono così ad addomesticare alcune specie di piante e di animali. Ai nostri antenati fu così possibile non solo abbandonare il nomadismo e avviare la civiltà urbana, ma anche imporre criteri selettivi all'evoluzione, senza però essere capaci d'interferire nei suoi meccanismi. Tali criteri rispondevano a una loro scelta a favore di caratteristiche delle specie addomesticate che parevano desiderabili: scelta che restava limitata all'ambito dei prodotti offerti dall'evoluzione. Questi limiti non si superavano neppure con la diffusione delle pratiche degli incroci e della selezione artificiale, applicate ad animali e piante d'importanza commerciale; e neppure con la più recente scoperta delle tecniche di mutagenesi, usate con tanto successo, per es. su microorganismi produttori di antibiotici.
Il loro superamento è diventato una reale possibilità agli inizi degli anni Settanta, allorché i biologi molecolari (J.D. Watson e altri, 1989; V. Sgaramella e A. Falaschi, 1989) scoprirono le basi scientifiche e le procedure sperimentali dell'i. genetica. Con il suo avvento si sono poste le premesse per un addomesticamento dei geni e quindi per una seconda rivoluzione biotecnologica. Essa è realizzabile attraverso un controllo non solo della selezione, ma anche dell'evoluzione, e non più indiretto, bensì diretto, in quanto mediato da interventi mirati sul substrato stesso dell'evoluzione, il materiale genico. E in più si tratta di un controllo finalizzato, o almeno finalizzabile. In questa prospettiva non deve sorprendere l'intensità dell'impatto emotivo determinato dalla diffusione dell'i.g.: almeno nell'ambito delle scienze biologiche una simile partecipazione del pubblico la si ritrova solo nell'intenso dibattito che dal 1858 seguì la pubblicazione dei risultati di C.R. Darwin e A.R. Wallace. E non è certo un caso: con quelli si annunciò l'esistenza dell'evoluzione biologica, con le scoperte descritte più avanti se ne prospetta un controllo da parte dell'uomo e una loro finalizzazione, non necessariamente benevola o meditata.
Esaminiamo qui più i significati generali dell'i.g. che gli aspetti metodologici: è infatti probabile che i primi caratterizzeranno questa nuova disciplina per qualche tempo a venire, mentre i secondi continueranno a perfezionarsi com'è proprio delle scienze sperimentali.
Cenni storici. - Il primo a parlare di un'ingegneria biologica pare sia stato E.L. Tatum, premio Nobel (1958) per la scoperta della correlazione tra geni ed enzimi; a coniare il termine i.g. è forse stato il microbiologo statunitense di origine ungherese R. Hotchkiss, che nei tardi anni Quaranta confermò la fondamentale scoperta, di O.T. Avery e collaboratori, che il DNA era la struttura molecolare responsabile dell'ereditarietà biologica. In quanto tale, il DNA poteva essere assoggettato a modificazioni in provetta e quindi trasferito in cellule anche diverse da quelle dalle quali era stato estratto. In realtà, una prima dimostrazione della possibilità del trapianto di geni estranei può essere fatta risalire a una scoperta di J. Lederberg, anch'egli premio Nobel (1958) per i suoi contributi all'avvio della genetica batterica, che all'inizio degli anni Cinquanta chiarì il fenomeno della trasduzione virale di geni: il trasferimento di geni di batteri entro cellule della stessa specie, mediato da particelle virali. Con questa scoperta si configura un momento, il trasferimento di geni a opera di DNA virali, essenziale in molti protocolli dell'attuale i. genetica.
In generale, la nascita effettiva dell'i.g. si colloca a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, allorché si realizzano tre importanti scoperte: a) la capacità di sintetizzare geni in provetta; b) la capacità di tagliare e ricombinare fra loro molecole di DNA; c) l'abilità di trapiantare molecole di DNA all'interno di cellule viventi e di permetterne replicazione (duplicazione del materiale genico) ed espressione (realizzazione del programma genico scritto nel DNA trapiantato) grazie a vettori molecolari. I punti a e b comportano reazioni in provetta e hanno originato l'espressione DNA ricombinante; il punto c esige l'impiego di cellule viventi, e viene spesso indicato come ''clonazione molecolare'' (v. clonazione, in questa Appendice).
È attraverso il loro uso che si realizza la maggior parte delle operazioni di i. genetica. Manipolazioni spesso presentate come tali (per es. la produzione di chimere capra-pecora) risultano da interventi su cellule intere (siano esse somatiche, embrionali o germinali) e dovrebbero essere invece descritte come esperimenti di ibridazione o di ingegneria cellulare (v. allofene e ibrido cellulare, in questa Appendice). In genere queste operazioni, note e praticate da tempi preistorici, come nel caso dell'incrocio tra cavalli e asini, producono progenie sterile (muli e bardotti) e non hanno quindi effetti evolutivi.
Operazioni in vitro: produzione di DNA ricombinante. - Il trapianto di un gene richiede la disponibilità in forma pura della corrispondente molecola di DNA, il suo trasferimento in una cellula ospite, la sua stabilizzazione e la sua trasmissione ai discendenti. Se s'introducono in cellule viventi frammenti di DNA qualsiasi, questi potranno essere replicati e trasmessi ai discendenti solo a due condizioni: 1) essi contengono già all'origine, o a seguito di ricombinazioni in provetta, geni funzionali per la loro replicazione e una struttura molecolare appropriata, cioè sono dei repliconi o unità capaci di replicazione autonoma; 2) possono diventar tali, dopo trapianto nella cellula ospite e inserzione in un suo replicone preesistente. Se queste condizioni non si verificano, il DNA trapiantato verrà degradato e perso. Mentre la prima condizione (associazione a un replicone) è controllabile dallo sperimentatore, la seconda (inserzione controllata) lo è meno e, specie nei cromosomi degli eucarioti superiori, avviene con bassa frequenza.
Un trapianto di gene può avere successo evolutivo solo se il DNA che lo porta può replicarsi in sintonia con il DNA della cellula che lo riceve: cioè se ne diventa un replicone. La sua espressione, cioè la decodificazione in prodotti genici primari e secondari (RNA, proteine) dipenderà dalla sua dotazione di segnali, sotto forma di sequenze di basi, necessari per la trascrizione e la traduzione.
Di qui lo schema più semplice delle operazioni in vitro dell'i.g.: attaccare il gene da trapiantare a elementi genetici facilmente isolabili da cellule e dotati delle sequenze necessarie per replicarlo e per farlo funzionare. Tra questi elementi i più utili sono plasmidi e virus: i primi possiedono genomi capaci di replicazione ed espressione citoplasmatiche (donde il nome); i secondi, grazie a un involucro protettivo che avvolge il genoma, sopravvivono fuori delle cellule ma, come i plasmidi, ne dipendono per replicazione ed espressione. Plasmidi e virus offrono di frequente i vantaggi di avere genomi piccoli (poche migliaia di coppie di basi) e d'essere presenti in ogni cellula in numero elevato (anche qualche centinaio): ecco perché sono alla base di vettori sempre più sofisticati per l'i. genetica. Strutture ibride ottenute ricombinando in vitro molecole di plasmidi e di virus sono state sviluppate per prestazioni speciali, combinando i vantaggi dei due tipi originali di vettori: tra questi i cosiddetti cosmidi, in grado di trasportare frammenti di DNA estraneo lunghi anche qualche decina di migliaia di basi. Alle centinaia di migliaia e anche ai milioni di basi si arriva con i cromosomi artificiali (v. oltre).
Grazie alla relativa semplicità delle operazioni necessarie per manipolare in vitro vettori e geni, e quindi per trapiantare in vivo i prodotti risultanti, a partire dagli anni Settanta l'i.g. incontra una rapida e vasta diffusione, a dispetto, o forse anche in virtù, dei moniti levati dalla stessa comunità dei biologi molecolari, e delle preoccupazioni per i suoi presunti pericoli prospettate da molti operatori e divulgatori (P. Berg e altri, 1975; H.F. Judson, 1979; S. Krimsky, 1982).
Le numerose scoperte di quegli anni hanno avuto un forte impatto tanto sulle scelte dei programmi di ricerca quanto sull'opinione pubblica e sono riuscite a stimolare cospicui finanziamenti pubblici e privati. Ne è risultata una vivace accelerazione degli studi di base e della ricerca applicata nel settore biomolecolare: nell'ambito dei primi si è riscontrato il decollo di una biologia molecolare delle cellule degli organismi superiori, sino ad allora quasi inesistente, e nel contempo una radicale innovazione di molti approcci sperimentali. Basti pensare alla laboriosità di linee di ricerca tendenti all'isolamento fisico di singoli geni, che era possibile, e con grosse difficoltà, quasi solo da genomi semplici (Sgaramella e altri, 1968). È significativo il fatto che con l'i.g. queste linee di ricerca, tanto esaltate verso la fine degli anni Sessanta, vengono a perdere parte della loro rilevanza: a disposizione del ricercatore sono infatti messe quantità sostanzialmente illimitate di qualunque sequenza di DNA, presente in qualunque genoma, o anche del tutto teorica. Va però ricordato un recente e rinnovato interesse per i ''geni'' come specifiche entità diverse dal grosso del DNA genomico, composto di sequenze ripetitive, che per ora sono considerate di scarsa utilità, se non di scarto, ma che rappresentano comunque una frazione considerevole di genomi come quello umano.
Più in generale, l'i.g. permette lo sviluppo di una nuova forma di genetica, che il biologo molecolare svizzero C. Weissmann chiamò ''inversa'' in quanto procede in senso opposto a quello elaborato oltre 125 anni fa da G. Mendel: mentre infatti la genetica classica, detta appunto mendeliana, arriva alla caratterizzazione del genotipo partendo dall'analisi del fenotipo, la genetica inversa muove dallo studio del gene a quello del carattere codificato, dal genotipo al fenotipo. Esempi di genetica inversa sono i vari progetti ''Genomi'' (R. Dulbecco, 1981), primo fra tutti il ''Genoma Umano'', che mirano a sequenziare l'intero genoma di una certa specie per dedurne tutta quanta la biologia; anche la mutagenesi sito-specifica, attraverso cambiamenti controllati di sequenze geniche, può permettere utili approfondimenti delle relazioni tra struttura e funzioni di geni e prodotti genici.
Nella fase iniziale la disponibilità di singoli geni è stata essenziale per il successo del loro trapianto: ma, per quanto ingegnose, le tecniche d'isolamento davano prodotti eterogenei e scarsi, inadeguati allo scopo. Molto più importante è risultata la sintesi di geni: e in effetti occorre ricordare che sono stati i geni sintetici a rendere possibile le prime vere conquiste dell'i.g., se la s'intende come affrancamento della scienza dalla casualità evolutiva e dalla necessità replicativa.
Ancor prima del decollo dell'i.g., convincenti dimostrazioni della versatilità e dell'efficacia di questo tipo di sintesi chimica di geni (detta totale in quanto parte dalle quattro unità fondamentali, A, T, G e C, e ne permette l'unione in qualsiasi sequenza di DNA mediante legami identici a quelli naturali) si ebbero con la sintesi di tutte le triplette con cui negli anni Sessanta H.G. Khorana, il pioniere di questa tecnica, decifrò il codice genetico, e venne per questo insignito del premio Nobel (1968). Diversamente dalla biosintesi del DNA delle cellule, la sintesi è chimica, non enzimatica, ed è indipendente da stampi di DNA preesistenti. Vale la pena ricordare che per la sintesi totale del primo gene, uno dei geni del transfer RNA dell'alanina di lievito, lungo 77 coppie di basi, fu necessario il lavoro di oltre una dozzina di ricercatori per più di tre anni e la sua descrizione fu accettata per la pubblicazione senza alcuna revisione: inoltre, evento non meno insolito nella storia della scienza, i quindici lavori relativi a questa sintesi firmati da Khorana e dal suo gruppo occuparono da soli un volume e mezzo del prestigioso Journal of Molecular Biology (vol. 72 [1972], n. 2 e 3). Oggi un simile exploit verrebbe pubblicato in una breve nota: apparecchi relativamente semplici permettono la sintesi chimica di frammenti di DNA lunghi oltre 100 unità in poche ore e con rese di milligrammi. Questi vengono poi saldati fra loro con enzimi, detti ligasi: ne risultano tratti di doppie eliche lunghi anche migliaia di coppie di basi.
In realtà la sintesi di sequenze di frammenti di DNA, più che per costruire geni da trapiantare, è oggi utilizzata per la produzione di tratti di DNA lunghi poche decine di basi, usabili come sonde capaci di riconoscere in modo preciso, anche in presenza di vasti eccessi di altre, specifiche sequenze del DNA a esse complementari, d'appaiarvisi e di permetterne l'identificazione ed eventualmente l'amplificazione sino a milioni di volte. Si tratta della cosiddetta reazione a catena della DNA polimerasi o PCR (H.A. Ehrlich e altri, 1991).
Oltre che per isolamento da genomi o per sintesi totale, singoli geni possono venir prodotti per copiatura mediante retro-trascrizione in vitro di sequenze di RNA messaggero. La retro-trascrizione di RNA in molecole di DNA, chiamate per questo DNA copia o cDNA, è una trascrizione inversa a quella fisiologicamente prevalente (che va da DNA a RNA), catalizzata da un enzima detto trascrittasi inversa, isolato originariamente da particelle retrovirali. Ne risultano molecole di cDNA corrispondenti agli RNA messaggeri presenti in una certa popolazione di cellule o in un certo tessuto. Dal momento che negli organismi multicellulari differenziati i vari tessuti sono caratterizzati dall'attività di geni diversi, e quindi da RNA messaggeri diversi, i cDNA rappresentano quei geni che sono attivi nei diversi tessuti e nei diversi stadi di sviluppo, e attraverso i quali si realizzano la differenziazione e la crescita dell'organismo. La disponibilità di singoli geni, sintetici o cDNA o naturali, è importante ai fini della loro saldatura in provetta ai vettori molecolari, e quindi di un loro impiego prevalentemente sintetico: per fini analitici si rivela sempre più utile la PCR, la cui versatilità prospetta il superamento di almeno alcune procedure dell'i.g. tradizionale.
Ma per ora il modo migliore per isolare un intero gene o una qualsiasi sequenza da un genoma resta la frammentazione del DNA e la separazione dei vari frammenti: poiché dal punto di vista chimicofisico questi sono molto simili fra di loro, la loro separazione fisica è tutt'altro che semplice. In pratica viene ottenuta mediante la clonazione molecolare, che consiste nel legare i frammenti a molecole di vettore e nel trapiantarne i prodotti in cellule ospiti. Di solito si usano a questo scopo cellule microbiche, quali il batterio Escherichia coli o il lievito Saccharomyces cerevisiae, data la relativa semplicità del loro impiego; ma praticamente ogni cellula può essere usata come ospite.
La frammentazione del DNA di un genoma in molecole di dimensioni appropriate (da qualche centinaio di basi a centinaia di migliaia di basi) può essere ottenuta o con mezzi fisici (sonicazione, estrusione attraverso sottili aghi, agitazione) o con enzimi degradativi (nucleasi). Tra questi si sono rivelati di particolare utilità gli enzimi detti di restrizione, prodotti da vari batteri; la loro scoperta valse a W. Arber, D. Nathans e H. Smith il premio Nobel (1978). Gli enzimi detti endonucleasi di restrizione sono in grado di tagliare le doppie eliche di DNA in corrispondenza di specifiche sequenze lunghe per lo più 4÷6 coppie di basi e spesso dotate di simmetria binaria (sequenze di questo tipo sono chiamate anche palindromi). Sono note oggi diverse centinaia di endonucleasi di restrizione, e un loro intelligente impiego permette di tagliare il DNA a piacimento. Peculiare è la struttura delle estremità prodotte sui DNA che ne permette la saldatura ad altre estremità di DNA prodotte da enzimi di restrizione compatibili: le DNA ligasi sono gli enzimi responsabili di queste reazioni che originano strutture miste grazie a una reazione formalmente simile alla traslocazione cromosomica e alla ricombinazione genica naturale (V. Sgaramella, 1972). Di qui il nome DNA ricombinante dato ai prodotti. È importante che in queste reazioni ogni singolo frammento genomico risulti unito a una molecola di vettore: in caso contrario rischia d'essere perso nel corso della clonazione molecolare e la collezione, o banca, può risultare incompleta.
Esistono altre tecniche per produrre molecole ricombinanti che prescindono da enzimi di restrizione e ligasi: esse fanno uso di sequenze coesive omopolinucleotidiche (composte per es. da una serie di G e di C, o di A e T) aggiunte da speciali DNA polimerasi (dette trasferasi terminali) alle estremità rispettivamente di inserti e vettori. La loro descrizione esula dallo scopo di questa trattazione, ma vanno ricordate in quanto, potendo evitare l'impiego degli strumenti tradizionali dell'i.g. (nucleasi di restrizione, ligasi, ecc.), potrebbero sottrarsi a regolamentazioni, come alcune di quelle proposte, basate sui processi più che, come parrebbe più logico, sui prodotti. La miscela di molecole ricombinanti viene quindi mescolata con cellule ospiti, che le incorporano, le replicano e le trasmettono infine alle cellule discendenti.
Di recente sono stati sviluppati sistemi che permettono di inserire frammenti di DNA in elementi genetici contenenti sequenze essenziali nella funzione dei cromosomi, quali telomeri, centromero, e origini della replicazione del DNA. Ne risultano veri e propri cromosomi artificiali. Ai fini dell'i.g. possono essere di grande utilità in quanto arrivano a contenere frammenti di DNA lunghi anche milioni di coppie di basi, e quindi di dimensioni pari ai più lunghi geni umani noti, quale quello per la distrofia muscolare (M. Burmeister e altri, 1988). Per ora cromosomi artificiali sono stati sviluppati solo in lievito: probabilmente ciò è anche dovuto al fatto che in questo eucariote inferiore i centromeri possiedono una struttura particolarmente semplice.
Operazioni in vivo: la clonazione molecolare. - A seguito di svariati trattamenti enzimatici, chimici, fisici e biologici, che attraverso meccanismi diversi portano a una permeabilizzazione degli involucri cellulari, le molecole di DNA vengono adsorbite da organismi ospiti, che ne possono così risultare trasformati geneticamente. Di solito il processo di trasferimento genico è piuttosto semplice e mima fenomeni che avvengono, seppur di rado, anche in natura, ove possono rappresentare strumenti con cui una cellula può recuperare dall'ambiente geni utili per la sopravvivenza. È stato dimostrato che il trapianto genico può avvenire anche per iniezione diretta di DNA nel tessuto bersaglio (per es. il muscolo): ma in questi casi la resa è molto bassa. Infatti, a causa di fenomeni degradativi extra- e intra-cellulari, il trasferimento di geni non è un processo efficiente. Delle cellule trattate, di solito poche vengono trasformate, e sono necessari milioni di molecole di DNA per trasformare una cellula; inoltre quando si trapiantano molecole di DNA non dotate di replicazione autonoma, la loro inserzione nei repliconi di organismi superiori è incontrollata, mentre in sistemi microbici o comunque inferiori ha spesso luogo in siti del genoma residente che presentano omologia di sequenza. Se invece il DNA estraneo fa parte di un replicone autonomo, dopo il suo trapianto può stabilizzarsi come elemento genetico indipendente rispetto ai cromosomi della cellula.
Di norma il vettore viene costruito in modo da conferire alla cellula ospite un carattere selezionabile, anche se ricombinato all'inserto, per es. una resistenza a un antibiotico: ne deriva che in presenza dell'antibiotico potranno crescere solo le cellule trasformate. Per successive scissioni binarie ciascuna di queste originerà una popolazione di cellule tutte contenenti la stessa molecola ricombinante costituita dal vettore e da uno specifico inserto: a questa popolazione si dà il nome di clone cellulare, mentre l'inserto amplificato viene chiamato clone molecolare. Le cellule di un clone resteranno distinte da quelle degli altri cloni se le singole cellule inizialmente trasformate sono state seminate e fatte crescere su terreno solido a base di agar, contenuto in piastre di Petri. Sulla superficie dell'agar, dopo qualche giorno compariranno colonie, popolazioni clonali discendenti da una cellula, nella quale si è trapiantata e stabilizzata una molecola ricombinante. Quanto più alto è il numero dei cloni e quanto più lunghi saranno gli inserti, tanto maggiore sarà la probabilità di trovare in una loro collezione qualsiasi sequenza del genoma in esame, a meno che la sua presenza non danneggi la cellula ospite. Da collezioni di questo tipo, chiamate anche banche, o genoteche, è possibile recuperare il clone con il gene che si cerca attraverso il riconoscimento o della sua sequenza o, se questa è espressa, di un suo specifico prodotto: a seconda dei casi, questo è identificabile come RNA, o enzima, o ormone, o proteina, o antigene.
Applicazioni e risultati. - Le manipolazioni genetiche possono servire per aumentare le quantità di specifici frammenti di DNA a scopi sia analitici che sintetici. Nel primo caso si studiano gli inserti per scoprire come sono organizzati geni, sequenze intergeniche e interi cromosomi, per elaborarne una mappa fisica ed eventualmente per determinarne la sequenza di basi. Nel secondo si cerca di far funzionare in modo economicamente più vantaggioso un certo gene, una sua variante o un certo complesso di geni, dopo averne trapiantato le sequenze di DNA corrispondenti in cellule ospiti appropriatamente scelte. I due diversi scopi comportano strategie, vettori e sistemi ospiti particolari. Per i primi in generale si ricorre a disegni sperimentali in grado di massimizzare le dimensioni e la stabilità dei frammenti clonati: è chiaro che per fini analitici è molto importante che le genoteche siano rappresentative e fedeli.
Finalità produttive possono essere realizzate utilizzando sistemi ospiti specializzati nella produzione e secrezione della sostanza cercata. Per ora i risultati migliori sono stati ottenuti con sistemi di microorganismi o di colture cellulari. A fini produttivi sono di grande importanza i cosiddetti vettori d'espressione e/o esportazione, costruiti in modo da giustapporre il gene interessante a segnali che permettano alla cellula ospite di esprimerlo ad alti livelli, e di liberarne il prodotto nel mezzo di coltura. Esistono ricche collezioni di vettori praticamente per ogni tipo di cellula, batterica, animale e vegetale. In questo modo lo stesso gene può essere indotto a funzionare in sistemi cellulari diversi, tra i quali si sceglie il migliore per economicità di resa e purezza del prodotto cercato: colture di cellule vegetali possono sintetizzare proteine umane o comunque eterologhe, che in cellule microbiche possono arrivare a rappresentare anche il 30% delle proteine totali.
Le manipolazioni di cellule vegetali sono di particolare importanza per diverse ragioni, teoriche e pratiche. Per lo più impiegano come vettore un plasmide batterico, detto Ti (induttore di tumori), presente in cellule di Agrobacterium tumefaciens, che in piante dicotiledoni causa la comparsa di un tumore, la galla del colletto: nel realizzare questa trasformazione, per altro benigna, geni del plasmide si integrano nel genoma della pianta, realizzando così una forma di i.g. naturale. Inoltre le cellule vegetali (a differenza di quelle animali) sono generalmente dotate della cosiddetta totipotenza, che permette di rigenerare un individuo a partire da una qualsiasi delle sue cellule.
In generale di queste tecnologie si avvantaggia per ora soprattutto l'industria farmaceutica, che ha potuto immettere nel mercato diverse proteine prodotte attraverso l'i.g., quali enzimi, ormoni, fattori di crescita, immunomodulatori, e altri, anche d'origine umana, prima ottenibili con difficoltà, per estrazione da tessuti di cadaveri o per sintesi chimica. Ma le potenzialità dell'i.g. non si limitano alle proteine: il continuo miglioramento delle operazioni di ricombinazione in vitro e di clonazione molecolare indica che è possibile trapiantare complessi di geni (operoni) che controllano la sintesi di sostanze non proteiche − i prodotti del cosiddetto metabolismo secondario (C.L. Hershberger e altri, 1989) −, quali antibiotici, amino-acidi, nucleotidi, vitamine, zuccheri, ecc. Parrebbero così destinate ad avverarsi le entusiastiche previsioni di alcuni pionieri del DNA ricombinante, che, ai suoi albori, andavano affermando che tutto quello che può fare la chimica organica lo può fare, e meglio, l'i. genetica.
Crescente interesse ricevono quei protocolli sperimentali che prevedono la clonazione di geni entro organismi multicellulari. Si tratta di ricerche che più di ogni altra conferiscono all'i.g. le sue potenzialità evolutive: alcuni usano il termine ''transgenetica'' in quanto ne risultano organismi con geni estranei, detti anche transgenici.
Gli organismi multicellulari constano di cellule somatiche (negli animali, le cellule del sangue, fegato, muscoli, ecc.), che costituiscono il soma o corpo, e di cellule germinali (ovuli e spermatozoi), che fondendosi originano la progenie. Se il trapianto genico interessa cellule somatiche, l'effetto potrà manifestarsi nei corrispondenti tessuti, ma sarà limitato all'organismo trattato. In operazioni di trapianto genico però si possono usare anche cellule germinali: si prestano bene ovuli appena fecondati, mentre per gli spermatozoi sono stati presentati risultati interessanti, dei quali si attende però la conferma; è possibile usare anche cellule embrionali. Dopo manipolazione in vitro le cellule vengono trasferite nell'utero di una madre surrogata, resa pseudo-gravida per trattamento ormonale, e permettono così la nascita di un organismo transgenico. Il gene estraneo sarà presente in tutte le sue cellule in quanto queste derivano dalle successive divisioni delle cellule trattate e dalla loro differenziazione: quindi il gene estraneo trapiantato sarà presente anche nelle cellule germinali dell'organismo transgenico. Di conseguenza tale gene, insieme con tutti i geni originali della cellula modificata, sarà trasferibile di generazione in generazione e potrà così originare un nuovo carattere mendeliano. Se poi il transgene è stato dotato di controlli tessuto- o stadio-specifici, la sua espressione può essere limitata a determinati tessuti o stadi di sviluppo dell'organismo manipolato.
Esponenti di spicco degli organismi transgenici sono: il maxi-topo, ottenuto per trapianto in ovuli fecondati di geni, omologhi o eterologhi, dell'ormone della crescita; l'onco-topo, dotato di oncogèni umani e trasformato così in un utile organismo modello per lo studio delle neoplasie; la capra che, a seguito dell'introduzione nell'ovulo fecondato di strutture ricombinanti in cui il gene estraneo è stato unito a elementi di controllo specifici del tessuto mammario, secerne nel latte proteine umane come fattori di coagulazione o trombolitici; piante di tabacco, che luccicano grazie all'introduzione di geni delle luciferasi di insetti; pomodori, in cui geni che contribuiscono all'irrancidimento degradando zuccheri complessi sono inattivati da sequenze di RNA complementari a trascritti attivi (perciò detti anti-senso); piante di patate, dotate di geni batterici che codificano per proteine con funzioni anti-parassitarie; e altri (E.-L. Winnacker, 1987; S.B. Primrose, 1991).
Ma accanto a questi successi ci sono anche diversi problemi: uno dei più grossi riguarda per es. la già ricordata difficoltà, almeno nei mammiferi, di controllare in modo preciso il meccanismo d'inserzione del transgene nel genoma ospite. Ne risulta che il numero di copie di gene inserite può essere variabile e la sua localizzazione è sostanzialmente casuale. Tutto ciò provoca una serie di inconvenienti riconducibili agli effetti mutagenici derivanti da inserzioni in siti genomici funzionali, o a condizioni anomale dovute a un'eccessiva sintesi del prodotto. Tra questi effetti, particolarmente seria ai fini della propagazione dell'organismo transgenico è la sua ridotta fertilità, che si aggiunge a una lunga serie di disfunzioni organiche. Occorre qui ricordare anche il problema dei brevetti relativi agli organismi transgenici: in molti paesi le numerose richieste avanzate a questo fine stanno suscitando opposizioni tanto accese quanto, a giudizio di alcuni, ingiustificate, specie se limitate, tra gli organismi viventi, ai prodotti dell'i. genetica. Analoghi trattamenti dovrebbero applicarsi a organismi ottenuti con procedure tradizionali, che sono invece brevettabili. Non si può infatti ignorare che gli studi necessari per un loro perfezionamento sono lunghi e costosi, e che difficilmente verrebbero intrapresi in mancanza di incentivi economici e di adeguati strumenti di protezione della proprietà intellettuale.
Mentre si studiano tecniche che permettano di migliorare la mira nelle tradizionali operazioni di trapianto genico, alternative interessanti paiono offerte dalla messa a punto di cromosomi artificiali o elementi genici accessori, in teoria meno nocivi all'assetto genico dell'organismo transgenico. È anche alla luce di queste osservazioni che va inquadrata la cosiddetta terapia genica, che rappresenta il tentativo di applicazione all'uomo dei ritrovati più sofisticati dell'i. genetica. In effetti questo tipo di terapia potrebbe curare malattie non solo a base genetica, ma anche di altro tipo, purché affrontabili con prodotti genici; diventa quindi legittimo parlare di terapia genica ogni volta che si fa uso di materiale genico, non necessariamente perché s'interviene su geni difettosi. In questa prospettiva la terapia genica offre possibilità di sviluppo di grande interesse, in quanto sussidio alternativo o complementare ai trattamenti farmacologici, chirurgici o radiologici oggi attivabili contro un carico patologico ancora eccessivo, specie in vaste aree geografiche meno sviluppate. Ma per le difficoltà sopra ricordate circa il controllo del meccanismo dei trapianti genici, questa terapia per ora ha valore soltanto sperimentale e comunque deve essere limitata alle cellule somatiche, con esclusione delle cellule germinali. Verrebbe così meno una delle più allettanti promesse dell'i.g., che originariamente, ma forse avventatamente, prospettava l'eradicazione delle malattie genetiche per sostituzione del gene responsabile anche nelle cellule somatiche. I primi esperimenti di terapia genica somatica riguardano sia rare malattie genetiche (come la SCID o sindrome di immuno-deficienza grave e combinata), sia tumori, come i melanomi. La lista delle malattie oggi curabili con la terapia genica ne elenca già una dozzina ed è certo destinata ad allungarsi (I.M. Verma, 1990; L. De Carli, comunicaz. pers. 1991).
Rischi e controlli. - In quanto potenziamento e accelerazione dell'evoluzione biologica l'i.g. non è esente da rischi, così come non lo è la stessa evoluzione ''naturale'', che solo una candida ingenuità può far ritenere benevola e saggia (J. Rifkin, 1980). Basti infatti pensare che essa è responsabile dell'esistenza di patogeni, che hanno afflitto l'umanità nel passato, o, più recentemente, del virus dell'AIDS (HIV, Human Immunodeficiency Virus). Anche se alla loro diffusione contribuisce l'uomo con comportamenti impropri, è l'evoluzione biologica ''naturale'' a produrli: l'HIV è comparso prima del 1960 (anno al quale risale forse il primo caso di quella che sarebbe poi diventata l'AIDS), e quindi un decennio prima dell'avvento dell'i.g., probabilmente a seguito della ricombinazione ''naturale'' tra virus umani e di scimmia (R. Gallo, 1991).
Diventano sempre più numerose le applicazioni che comportano usi ambientali non ''contenibili'' di organismi manipolati, che devono quindi essere in grado di sopravvivere al di fuori di laboratori o di impianti industriali: oltre che ai settori agricolo, ecologico, minerario, si pensi alla terapia genica e all'uso di vaccini ''ingegnerizzati''. Per impieghi contenuti, anche attraverso manipolazioni genetiche vengono apportati nel sistema vettore-ospite indebolimenti che, in caso di fuga nell'ambiente, lo rendono incapace di sopravvivenza. Nelle introduzioni nell'ambiente esterno queste misure possono essere antitetiche allo scopo del progetto, che deve spesso prevedere una ragionevole permanenza dell'organismo manipolato nel sito di introduzione, se non una sua colonizzazione. Occorre quindi procedere con cautela, in quanto un danno causato da organismi viventi non sempre è facile da individuare ed è ancora più difficile da eliminare, visto che questo comporta il ritiro dal commercio di un batterio, di un insetto, di un animale o di una pianta, dopo che sono stati rilasciati nell'ambiente: va ancora però ricordato che simili problemi sono almeno in linea di principio indipendenti dall'origine ricombinante o naturale dell'organismo rilasciato. L'i.g. ci potrà anche fornire un controllo molto efficiente del software (genomi) e anche forse dell'hardware (cellule e organismi) evolutivi, ma difficilmente ci metterà in grado di controllarne l'interazione con la componente ambientale dell'evoluzione, specie nel caso di rilasci massicci: queste considerazioni dovrebbero essere incorporate in qualunque forma di regolamentazione delle applicazioni dell'i.g. con possibili impatti ambientali.
Quanto alle applicazioni sull'uomo, vanno seguiti e incoraggiati i tentativi di terapia genica somatica. Il problema che per ora limita la terapia genica è la scarsa disponibilità di vettori efficaci e sicuri: i più diffusi sono oggi i vettori basati su virus potenzialmente rischiosi per via della loro relazione con retro-virus a patogenicità conclamata, oltre che per la già ricordata mutagenicità causata dalle inserzioni casuali dei loro genomi nei cromosomi ospiti. Altri rischi sono di natura socio-culturale, e possono derivare da un'esasperazione di atteggiamenti antiscientifici sviluppati dall'opinione pubblica in reazione a spregiudicati usi di possibilità ancora in fase sperimentale, per fini di promozione personale o istituzionale o nazionale; oppure dalla preoccupante diffusione tra i ricercatori di comportamenti scientificamente immorali o fraudolenti allo scopo di affermazioni economiche o professionali (A. Kohn, 1991; Rapporto della Royal Society, 1991).
Un cenno meritano anche le analisi geniche mediate da operazioni di i.g. e tendenti a individuare eventuali predisposizioni a malattie o a condizioni prima della loro manifestazione: le polemiche sollevate al riguardo, talvolta dirette anche contro progetti come il ''Genoma Umano'', sono sostanzialmente ingiustificate, in quanto tali tecniche d'analisi, rese possibili dai progressi della genetica, non sono esclusive dell'i.g. (la PCR, Polymerase Chain Reaction, può essere per es. effettuata anche in assenza di tradizionali manipolazioni genetiche), e comunque devono essere viste e attuate come un utile strumento di diagnosi presintomatica (e, ove applicabile, anche prenatale) e quindi di prevenzione sanitaria, non di discriminazione sociale. Simili considerazioni valgono anche per le operazioni di sintesi possibili con l'i. genetica. Così le frequenti denunce dell'uso dell'i.g. come strumento di produzione di armi biologiche, o ancor peggio razziali, sono più espressione di un diffuso e latente sentimento antiscientifico, che accuse basate su prove di reali attività di ricerca.
Quanto alle applicazioni dirette a clonare animali superiori, magari estinti, o individui umani a genotipo identico a un genitore (D. Rorvick, 1978), oppure rispondente a programmi di supremazia o di asservimento sociali, si tratta di argomenti di pertinenza della fantascienza: cellule somatiche di animali superiori non paiono in grado di riavviare programmi completi di sviluppo e differenziamento. Nelle piante e, tra i vertebrati, in alcuni anfibi (urodeli) invece pare sia possibile riprodurre individui geneticamente identici a partire da cellule somatiche differenziate. Le ragioni non sono chiare, e gli esperimenti andrebbero rivisti (V. Sgaramella, 1975). È però corretto ricordare che la difficoltà a clonare animali superiori potrebbe essere aggirata con la suddivisione di embrioni, manipolati geneticamente, nelle cellule costitutive e con il trapianto di queste in madri surrogate (v. clonazione, in questa Appendice): si tratta di procedure zootecniche ancora in fase sperimentale e a impatto trascurabile, specie se confrontate con l'efficienza e la versatilità delle tecniche di manipolazione socio-economica e culturale impiegabili per gli stessi fini nei confronti dell'uomo. Inoltre, i numerosi geni coinvolti nell'espressione di caratteri comportamentali sono lontani dall'essere noti e individuati. A maggior ragione non è pensabile di manipolarli, né si deve dimenticare il ruolo dell'educazione nella loro espressione. Certo anche nel caso di complessi caratteri tipicamente umani (fisici e comportamentali) l'i.g. può fornire strumenti efficaci per più approfondite indagini sulla loro determinazione genetica: le conoscenze che ne deriveranno non potranno non arricchire l'umanità con una più profonda comprensione delle componenti genetiche della struttura, dello sviluppo, normale e patologico, del comportamento e dell'evoluzione degli organismi.
Ma per avviare qualsiasi programma di controllo e modificazione genetica di organismi viventi occorre che agli efficienti strumenti di una scienza in continuo e rapido progresso si accompagni una più matura coscienza degli operatori e della collettività: a essa deve contribuire lo sforzo di tutti e in particolare degli ingegneri genetici stessi in quanto i più informati sulle reali possibilità della loro scienza. Nel 1975 la conferenza di Asilomar in California, grazie alla responsabile consapevolezza dei ricercatori più attivi nel campo, avviò un'interessante forma di autocontrollo e insieme impose un momento di riflessione generale sugli effetti non strettamente scientifici della ricerca genetica. Ne sono derivate le linee guida successivamente promulgate dagli Istituti Nazionali della Sanità (NIH) degli USA, alle quali si sono ispirati i numerosi tentativi di normative, dirette alla riduzione dei rischi, elaborate da singoli paesi e da organizzazioni internazionali.
È probabile che tutto questo, oltre a una certa dose di fortuna, abbia contribuito a far sviluppare negli ultimi vent'anni l'i.g. ''contenuta'' nei laboratori, e più recentemente a prospettarne i primi impieghi sanitari, ambientali ed evolutivi: il continuo esercizio di una simile responsabile consapevolezza da parte degli esperti, confortato da una solerte ma non ostile attenzione da parte dell'opinione pubblica, può e deve permettere una sua positiva estensione all'uomo e alla biosfera col minimo di rischi e con crescenti benefici. L'umanità ha acquisito gli strumenti tecnici per esercitare interventi che configurano un suo possibile controllo sull'evoluzione: per un loro razionale impiego deve temperarli con prudenza e saggezza adeguate alla loro efficacia.
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