Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Seicento l’Atlantico non è più un lago iberico. Le iniziative coloniali di Olanda, Francia e Inghilterra, dal Canada al Brasile, aprono brecce sempre più ampie nel monopolio spagnolo e portoghese e portano alla formazione di insediamenti con caratteristiche molto diverse fra loro. Colonie di popolamento abitate da contadini indipendenti e artigiani a nord, colonie di piantagione in cui la popolazione di schiavi deportati dall’Africa costituisce una componente importante, talvolta prevalente, a sud. Nel contempo la rete multilaterale di relazioni economiche che unisce le due sponde dell’Atlantico ed entrambe, a loro volta, direttamente o indirettamente, all’Asia, si fa sempre più stretta e complessa.
L’immenso spazio atlantico che unisce Europa, America e Africa, riveste per gli Stati europei del Cinquecento un’importanza economica e politica ben superiore a quella dell’Asia meridionale e sud-orientale. La coltivazione della canna da zucchero, la tratta degli schiavi e le miniere d’argento sono le basi di un’economia atlantica ancora sostanzialmente controllata dalla Spagna e dal Portogallo, che costituiscono quindi, fin dalla seconda metà del Cinquecento, l’obiettivo degli attacchi di Inglesi, Francesi e Olandesi. Nel 1621, lo scadere della tregua dei Dodici Anni fra Spagna e Province Unite e il ritorno a uno stato di aperta belligeranza aprono una nuova fase. Non a caso il 1621 è anche l’anno di fondazione della WIC, la West Indische Compagnie olandese, che avrebbe dovuto svolgere, nello spazio che va dalla costa occidentale dell’Africa fino a Manila comprendendo l’Atlantico e l’America, lo stesso ruolo di strumento di penetrazione politica ed economica che la VOC, la Vereenigde Oost Indische Compagnie, realizza con successo nell’oceano Indiano e in Asia orientale.
Gli inizi sono promettenti. Gli Olandesi occupano infatti alcuni punti della costa dell’attuale Venezuela, l’isola di Curação e attaccano anche il cuore dei possedimenti portoghesi in Brasile, conquistando Salvador de Bahia e Recife nella regione di Pernambuco, grazie anche all’ostilità delle tribù indigene verso i Portoghesi. In quest’area la posta in gioco è il controllo della coltivazione e macinazione della canna e l’esportazione dello zucchero in Europa, un traffico estremamente redditizio e in rapida espansione. Per garantirsi il necessario approvvigionamento di manodopera – e per colpire nel contempo gli interessi portoghesi – gli Olandesi si impadroniscono di alcuni delle più importanti basi del traffico di schiavi sulla costa occidentale africana: São Jorge da Mina e São Tomé nel Golfo di Guinea e Luanda sulla costa dell’attuale Angola.
Nel 1628 inoltre gli Olandesi colgono uno dei loro più spettacolari successi quando Piet Heyn si impadronisce della flotta spagnola dell’argento presso l’Avana. I Carabi e il Brasile restano gli obiettivi principali, ma la giovane repubblica delle Province Unite cerca un suo spazio anche nella porzione settentrionale del continente. Nel 1624 viene fondata Nieuw Amsterdam (Nuova Amsterdam) sull’isola di Manhattan, che diviene centro del commercio delle pellicce lungo il fiume Hudson.
Nella seconda metà del secolo tuttavia, quella che sembra essere una replica del successo travolgente ottenuto dagli Olandesi in Asia, si risolve in uno scacco. Nel 1640 il Portogallo riconquista l’indipendenza dalla Spagna con la nuova dinastia nazionale dei Braganza e, dando ormai per persa la partita in Asia, concentra attenzione e risorse sui suoi possedimenti nell’Atlantico, a cominciare dal Brasile, dove i coloni portoghesi sono relativamente numerosi. Tra il 1645 e il 1654 i Portoghesi riescono a scacciare gli Olandesi e a riprendere il controllo del Brasile e anche di Luanda sulla costa africana. La Compagnia delle Indie occidentali risente anche della pace di Westfalia del 1648 che pone termine alle ostilità con la Spagna e quindi toglie ogni pretesto alla lucrosa guerra di corsa contro le navi e gli insediamenti spagnoli in America.
Le cose non vanno meglio in America settentrionale. Molti inglesi, come Thomas Mun, autore del celebre trattato dedicato al Commercio internazionale, fonte delle ricchezza dell’Inghilterra , indicano correttamente nella potenza commerciale e navale olandese il principale ostacolo all’affermazione di quella inglese. Quest’analisi è all’origine dell’Atto di Navigazione promulgato da Cromwell nel 1651 e dei successivi atti promulgati durante la Restaurazione. Se in Asia i rapporti di forza sono per il momento nettamente a favore degli Olandesi, in America settentrionale prevalgono gli Inglesi. Nel 1664 in occasione della seconda guerra anglo-olandese, gli Inglesi occupano la vasta colonia della Nuova Olanda e soprattutto Nuova Amsterdam, ribattezzata New York.
L’Atlantico sfugge quindi alla presa di Amsterdam, che deve in questo caso adeguarsi a una coabitazione competitiva con le declinanti ma tuttora attive potenze iberiche Spagna e Portogallo, e quelle dinamiche ed emergenti di Inghilterra e Francia. Nel 1674 la WIC, sommersa dai debiti, viene liquidata e sostituita da un’altra compagnia, che si dedica esclusivamente al proficuo commercio di zucchero e schiavi, rinunciando a ogni ambizione egemonica.
Durante la seconda metà del Cinquecento la Francia, dilaniata dalle guerre di religione, ha momentaneamente rinunciato a giocare una parte attiva oltre Atlantico, limitandosi a condurre una guerriglia marittima contro la Spagna, affidata soprattutto a corsari ugonotti che salpano da Dieppe o La Rochelle.
La monarchia riprende l’iniziativa laddove l’aveva lasciata nel secolo precedente, cioè all’inizio del Seicento, in Canada. Samuel de Champlain riceve infatti da Enrico IV l’incarico di colonizzare la terre attraversate dal San Lorenzo che nel secolo precedente erano state esplorate da Jacques Cartier. Nel 1608 de Champlain fonda Québec, che diventa la capitale di quella che viene ribattezzata Nouvelle France (Nuova Francia). Gli esordi della colonia sono stentati a causa delle condizioni ambientali difficili e della presenza di tribù indiane spesso ostili. Tuttavia nei decenni successivi la presenza francese riesce a radicarsi, soprattutto grazie alla capacità di stabilire relazioni commerciali e diplomatiche con alcune tribù indiane come gli Uroni e gli Algonchini. Gli indiani sono infatti i partner indispensabili nel commercio delle pellicce – unica vera risorsa di queste terre settentrionali – e utili alleati nei contrasti con altre tribù e con i coloni inglesi.
Per incoraggiare lo sviluppo demografico della colonia, nel 1627 Richelieu fonda la Compagnia dei Cento Associati. I risultati non sono in verità entusiasmanti, anche perché i Francesi trasferiscono nella colonia il sistema di privilegi signorili esistente in Francia e ne proibiscono l’accesso ai non cattolici, misure che scoraggiano il trasferimento di coloni in una terra che già si presentava poco attraente. Alla fine del Seicento la popolazione della Nuova Francia raggiunge a stento i 10 mila abitanti, meno di un decimo di quella delle colonie britanniche sorte più a sud, lungo la costa americana. Comunque i Francesi, grazie soprattutto ai viaggi di René Robert de La Salle, danno un contributo importantissimo all’esplorazione e alla conoscenza dell’interno del continente americano, seguendo la valle del Mississippi fino alla sua foce nel Golfo del Messico.
Anche per i Francesi tuttavia, era l’America tropicale a esercitare le maggiori attrattive, sia per colpire gli interessi della Spagna, sia in vista di una possibile colonizzazione fondata sulle piantagioni.
Ancora una volta l’iniziativa parte da Richelieu, vero fondatore della politica coloniale e navale francese. Nel 1635, non a caso l’anno dell’intervento diretto della Francia nella guerra dei Trent’anni, il cardinale-ministro fonda la Compagnie des Iles de l’Amérique che procede immediatamente all’occupazione della Martinica e di Guadalupe nelle Piccole Antille. Dopo i primi tentativi di coltivare cotone e tabacco, le due isole trovano la loro vocazione nella canna da zucchero. Di conseguenza, per rifornirsi dell’indispensabile manodopera, i Francesi, seguendo uno schema consolidato, stabiliscono una testa di ponte sulla costa africana, presso la foce del fiume Senegal, anche se nel Seicento la loro quota nella tratta degli schiavi rimane modesta.
Negli stessi anni, pirati e bucanieri soprattutto francesi, ma anche inglesi e olandesi, si stabiliscono nella piccola isola di Tortuga, a nord di Hispañola, e ne fanno una base per incursioni ai danni del naviglio e degli insediamenti spagnoli ma anche per la penetrazione nella parte occidentale della grande isola vicina, di cui i Francesi assumono de facto il controllo. Haiti, come viene ribattezzata la parte occidentale di Hispañola diventa così la più vasta, popolosa e prospera, almeno per la piccola minoranza di piantatori bianchi, tra le colonie americane della Francia.
Dopo una fase interlocutoria – gli anni della Fronda e della minore età di Luigi XIV – l’iniziativa della monarchia riprende con Jean-Baptiste Colbert che nel 1664 istituisce una nuova Compagnia delle Indie Occidentali. Così come la compagnia gemella, con competenza sui traffici asiatici, questa compagnia è essenzialmente una strumento politico, improntato a rigidi criteri mercantilistici, che privilegiano decisamente gli scambi con la madrepatria. Questi criteri si scontrano però con gli interessi degli stessi coloni francesi desiderosi di commerciare liberamente con gli altri Stati europei e le rispettive colonie americane. Nonostante questi problemi le colonie caraibiche francesi – che dal 1697 comprendono ufficialmente anche Haiti – si sviluppano rapidamente.
L’espansione inglese in America presenta, su scala più ampia, analogie con quella francese. Anche gli Inglesi in Virginia, come i francesi in Canada, ripartono dai tentativi di colonizzazione arenatisi durante il secolo precedente e in entrambi i casi la colonizzazione segue due diverse direttrici in contesti ambientali e con esiti sociali ed economici molto diversi: da una parte gli insediamenti di popolamento dell’America settentrionale, dall’altra quelli tropicali caratterizzati da un’economia di piantagione. E ritroviamo, nel confronto con Spagna e Olanda, anche l’intreccio di motivazioni economiche e politico-militari.
Nel 1606, per rilanciare la presenza inglese nell’area della Chesapeake Bay, viene costituita la Virginia Company e l’anno seguente viene fondato l’insediamento di Jamestown. La cosiddetta “Virginia settentrionale”, a nord dell’attuale stato del New Jersey, è invece affidata alla Plymouth Company, che nel 1620 concede a un gruppo di puritani, approdato l’11 novembre a bordo della Mayflower, di creare un insediamento nella regione chiamata Massachussets, nucleo originario del New England. La colonizzazione dell’area intermedia viene invece affidata a diverse personalità che godono del favore della corte.
Agli occhi degli Inglesi, come del resto dei Francesi o degli Olandesi, l’America settentrionale non presenta un grande interesse. Cromwell definisce il New England colonizzato dai suoi confratelli puritani come un “posto freddo, povero e inutile”. Le relazioni con gli indiani sono spesso difficili, e le uniche risorse sono le pellicce, a nord, e la coltivazione del tabacco in Virginia.
Molto più promettenti sembrano essere le isole e la terra ferma tropicali. A partire dal terzo decennio del Seicento gli Inglesi si impadroniscono di gran parte delle Piccole Antille: Barbados e St. Kitts (1625), St. Vincent (1627), Barbuda (1628), Antigua (1632), Angiulla (1650) e le Isole Vergini (1672). Più a occidente vengono occupate le Cayman e soprattutto la Giamaica (1655), Providence un decennio più tardi e a nord le Bahamas nel 1670. Gli Inglesi riescono anche a stabilire degli insediamenti sulla terraferma dell’America centrale, nel Belize e nella Mosquito Coast, tra gli attuali Nicaragua e Honduras.
Nel complesso, alla fine del Seicento, per ampiezza territoriale e consistenza demografica (circa 250 mila bianchi e 150 mila neri) quello inglese è il terzo impero coloniale in America, dopo lo spagnolo e il portoghese, e certamente è il più dinamico.
Il panorama degli insediamenti inglesi sotto il profilo politico si presenta molto diverso da quello delle colonie spagnole o francesi. Queste ultime infatti sono sotto il diretto, anche se non sempre efficace, controllo della Corona, e sono dotate di un’amministrazione e di un ordinamento uniformi.
Le colonie inglesi hanno invece una fisionomia differenziata. Alcune, come la Virginia dopo la soppressione della Compagnia della Virginia nel 1624, sono sottoposte direttamente, al pari di possedimenti quali l’Irlanda, alla Corona, che esercita il suo potere attraverso un governatore. Altre sono colonie “proprietarie”, nelle quali i diritti di giurisdizione sono stati ceduti dal re a personaggi introdotti a corte, come Lord Baltimore (Maryland), o il William Penn (Pennsylvania), o addirittura appartenenti alla famiglia reale, come il duca di York, futuro Giacomo II (New York). Altre ancora, come il Massachussets, pur riconoscendo l’alta sovranità del re d’Inghilterra, sono in pratica delle repubbliche largamente autonome che hanno il proprio fondamento giuridico nelle prerogative concesse in vista della colonizzazione a una compagnia privilegiata qualeprivilegiataquale, ad esempio, la Massachussets Bay Company costituita nel 1629.
Su tutte le colonie, comprese quelle regie, il controllo della monarchia è comunque incerto, anche per l’assenza di un’adeguata struttura burocratica. Questa situazione lascia alla società coloniale margini di libertà e di autogoverno molto ampi, che ben si accordano con una cultura politica di provenienza, quella inglese, aperta alle idee di rappresentanza e di limitazione del potere regio. Nel caso delle colonie fondate a partire da una compagnia privilegiata inoltre, l’idea politica di un diritto di partecipazione alla gestione della cosa pubblica è rafforzato dall’esistenza dei diritti del colono in qualità di azionista della compagnia stessa. Nell’America inglese si ha quindi fin dalle origini un diffuso ricorso ad assemblee istituzionalizzate per la gestione della cosa pubblica.
Il complesso mosaico religioso complica ulteriormente il quadro. Spagna e Francia sono inflessibili nel precludere l’accesso ai territori d’oltremare a tutto coloro che non diano garanzie d’ortodossia: ebrei, musulmani e protestanti. L’Inghilterra invece, come abbiamo visto, non solo tollera un certo pluralismo confessionale nelle sue colonie, ma utilizza le colonie come valvole di sfogo per le gravi tensioni religiose interne all’Inghilterra del tempo. Il Massachussetts ha infatti una decisa impronta puritana, il Maryland nasce come colonia prevalentemente cattolica e la Pennsylvania è un insediamento quacchero.
La realtà etnica e sociale delle colonie inglesi d’America è complessa come quella istituzionale e religiosa. Il New England e in parte anche le colonie centrali come New York e la Pennsylvania sono insediamenti di agricoltori e artigiani. Talvolta si tratta di immigrati giunti come “servi a contratto” per un limitato numero di anni, altre volte di coloni liberi arrivati con le loro famiglie. Dato il loro clima temperato, inadatto alle piantagioni, la presenza di schiavi africani non supera il 3 per cento della popolazione totale. Molto rilevante è invece le presenza di diverse tribù indiane con le quali i coloni hanno una relazione ambivalente. Talvolta prevale la collaborazione economica o militare – diretta contro tribù o contro i francesi – altre volte l’aperta ostilità. I piccoli e sparsi insediamenti europei sono però molto vulnerabili alle incursioni degli indigeni. La guerra dei Pequot, nel 1636, e la cosiddetta “guerra di re Filippo”, che oppone i coloni del Massachussets agli indiani nel 1675-76 sono due tra gli episodi più sanguinosi di uno stato di guerriglia spesso endemico.
Anche quando non si trovano in aperto conflitto, le relazioni tra indiani e coloni nel Nord America sono comunque improntate a una segregazione culturale ed etnica che nel tempo diventa sempre più rigida. A differenza dell’America spagnola, i matrimoni misti, come quello celebre fra Pocahontas, figlia del capo dei Powathan della Virginia, e John Rolfe, sono molto rari, e anche l’impegno missionario della chiesa anglicana e delle comunità puritane è minore di quello profuso nei territori dominati dalla Spagna o dal Portogallo cattolici.
Nelle colonie più meridionali, come la Virginia e la Carolina, il contesto sociale ed etnico è completamente diverso. Si tratta infatti di colonie sin dall’inizio fondate su latifondo e piantagioni e quindi sul lavoro di servi o schiavi. Gran parte degli immigrati bianchi sono servi a contratto e quindi la società coloniale presenta un forte squilibrio demografico fra uomini e donne, e strutture familiari più fragili. I conflitti che oppongono i coloni e gli indigeni non hanno qui come posta in gioco il controllo della terra ma soprattutto la cattura di schiavi. La maggior parte degli schiavi proviene però direttamente dall’Africa e nelle seconda metà del Seicento il loro numero aumenta considerevolmente. All’inizio del Settecento, circa il 20 per cento della popolazione della Virginia è costituito da schiavi di colore, mentre gli indiani sono quasi interamente eliminati dalla violenza o dalle malattie.
Ancora più elevata la percentuale degli schiavi dediti alla coltivazione e alla lavorazione della canna da zucchero sulle isole caraibiche. Alla fine del Seicento, gli schiavi sono oltre i due terzi degli abitanti, ma per alimentare ed espandere la manodopera necessaria alle piantagioni è indispensabile un continuo afflusso dalle coste occidentali dell’Africa.
Uno dei segni del nuovo ruolo economico e politico che l’Inghilterra si conquista nel teatro atlantico nel corso del Seicento, nonostante le sue vicissitudini interne, è il suo primato nella tratta degli schiavi. Nella seconda parte del secolo, la metà dei circa 750 mila schiavi africani deportati nelle Americhe attraversano l’Atlantico a bordo di navi inglesi.
Anche se nel Seicento la tratta dei neri non ha ancora raggiunto le dimensioni tragiche e imponenti del secolo seguente, essa costituisce una componente fondamentale del sistema di scambi atlantici o, se si preferisce, dell’economia-mondo centrata sull’Europa occidentale e che si estende, attraverso l’Atlantico, su un porzione in continua espansione del continente americano e su parte dell’Africa occidentale, dal Senegal all’Angola. Questo sistema è stato in genere etichettato come “commercio triangolare”. In base a questo schema, armi, tessuti economici e chincaglierie vengono inviate dall’Europa all’Africa in cambio di schiavi da deportare in America. A loro volta le colonie inviano nel Vecchio Continente i prodotti delle piantagioni e l’argento per acquistare i manufatti europei che non sono in grado di produrre autonomamente. In realtà la rete di scambi che unisce i quattro continenti – America meridionale, settentrionale, Europa e Africa – attraverso l’Atlantico è molto più complessa e multilaterale.
Le economie del New England e di altre colonie settentrionali inglesi sono sempre più legate a quelle delle Antille e del Sudamerica sia inglesi che iberiche, dove esportano grano, pesce, manufatti, importando zucchero e naturalmente argento. Ma le colonie inglesi del Nord America acquistano anche direttamente, scambiandoli con rhum o manufatti, schiavi africani da rivendere nelle piantagioni della fascia tropicale, mentre lo sviluppo di attività manifatturiere avvia una corrente di esportazioni di manufatti – ad esempio navi – in direzione dell’Europa. Il tentativo di Spagna e Inghilterra, ispirato ai criteri mercantilistici, di plasmare le economie coloniali in funzione degli interessi metropolitani, entra quindi in crisi già nel Seicento. L’America non può essere descritta semplicemente nei termini di una “periferia” destinata a rifornire la madrepatria di materie prime a buon mercato e ad assorbire manufatti provenienti dal Vecchio Mondo. Le economie americane sono anche direttamente connesse con quelle asiatiche soprattutto attraverso il Pacifico.
È però vero che l’Inghilterra beneficia di una quota crescente dei profitti di questo complesso sistema di scambi e che all’interno dell’economia inglese il peso dei traffici coloniali e degli interessi a essi legati, aumenta enormemente, orientando anche le scelte di politica estera.