Secondo numerose opinioni, sarebbe in atto un processo di progressiva oggettivazione della tutela del contraente svantaggiato nel caso di contrattazioni squilibrate (ingiuste), accennandosi ad un nuovo ordine in formazione che porrebbe, tra gli altri, anche il problema dei limiti e dell’ambito in cui può essere riconosciuta la libertà di contratto. Nonostante numerose norme possano – a prima lettura – essere interpretate in questa direzione, l’ingiustizia della contrattazione, di per sé, non è fattore rilevante in grado, in via generale ed in ogni caso, di innescare una tutela contro contrattazioni squilibrate salvo i casi in cui sia l’ordinamento a stabilire che una determinata posizione di debolezza meriti di essere protetta (es. imprenditore debole), o sussista un interesse superindividuale (es. protezione del mercato creditizio o della concorrenza).
Il riferimento alla giustizia (o, all’opposto, all’ingiustizia) del contratto evoca l’aspirazione a contrattazioni equilibrate e, contemporaneamente, allude ai mezzi utili a questo scopo; il discorso richiama il dilemma sull’atteggiamento che si ritiene debba assumere l’ordinamento: laico, quale semplice garante del libero manifestarsi delle forze (soprattutto economiche) che fanno da scenario alla contrattazione ed insensibile agli esiti del loro incontro, se non in casi eccezionali quando – ad esempio – una patologia affetti l’espressione del consenso, o vada protetto uno dei contraenti particolarmente debole; oppure etico, difensore di un’equità considerata valore rilevante di per sé ed in ogni caso, tale da giustificare l’intrusione nel contratto e l’antagonismo nel rapporto con l’autonomia privata al cui manifestarsi viene posto il limite insuperabile dell’equilibrio delle prestazioni.
In quest’ultimo caso si tratta di stabilire, in aggiunta, se lo squilibrio debba, per invalidare la regola privata, combinarsi necessariamente con altre note, quale coelemento di una fattispecie complessa.
Anticipando qui talune soluzioni, l’analisi comparata della disciplina della rescissione e dello squilibrio nei contratti del consumatore, offre un chiaro esempio dell’alternativa ora illustrata.
Nella prima (v. l’art. 1448 c.c.), l’iniquità non rileva in quanto tale se non si combina con gli ulteriori elementi del bisogno, dell’approfittamento e, soprattutto, se non assume una ben precisa dimensione quantitativa (oltre la metà del valore della controprestazione); nei contratti del consumatore, invece, se ricorre il presupposto indicato dall’art. 33 c. cons. e, cioè, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, l’iniquità è di per sé sufficiente ad innescare la conseguenza prevista dall’art. 36 c. cons. e, cioè, la nullità (di protezione) del contratto, senza doversi combinare con altre note.
La problematica così posta è attuale perché una parte della dottrina ritiene che non possano essere sottovalutate le plurime indicazioni emergenti dalla legislazione (relativamente) più recente; essa segnalerebbe l’esistenza di un atteggiamento etico dell’ordinamento (nel senso sopra detto). Secondo queste opinioni, si assisterebbe ad un processo di costante e progressiva oggettivazione della tutela contro l’ingiustizia del contratto che rileverebbe di per sé quale fattore invalidante, anche per il medio della rilevanza attribuita al principio di buona fede oggettiva. I segnali si ricaverebbero dalla normativa di tutela del consumatore (il significativo squilibrio di cui all’art. 33, co. 1, c. cons.), dalla disciplina della subfornitura (con riferimento all’eccessivo squilibrio di cui all’art. 9 della l. 18.6.1998, n. 192), dall’art. 1815, co. 2, c.c. (ove l’usurarietà, causa di nullità, deriva da un semplice calcolo aritmetico), dall’art. 7 del d.lgs. 9.10.2002, n. 231 (la nullità dipende semplicemente dalla grave iniquità del patto) e così via. Altri (Perlingieri, P., Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 334 ss.) teorizza l’operatività di un principio di proporzionalità. La stessa soft law non sarebbe avara di indicazioni in questo senso, come dimostrerebbero gli artt. 3.10 dei principi UNIDROIT e 4:109 dei Principles of European Contract Law.
Sennonché, i casi sopra riferiti ed altri che pure potrebbero essere portati ad esempio di una particolare attenzione rivolta al tema dell’equità della contrattazione (come la disciplina della clausola penale eccessiva, la riduzione ad equità del contratto risolubile per eccessiva onerosità e di quello rescindibile, l’art. 36 Cost., etc.), non giustificano, comunque, la conclusione circa l’esistenza di un principio di carattere generale che dà rilievo ex se all’iniquità dello scambio e, perciò, non sono significativi dell’esistenza di una regola espressiva del principio per cui l’ingiustizia della contrattazione rileva quale fattore invalidante del contratto, o anche solo per giustificare un intervento correttivo della regola privata.
La nostra opinione è che in tutti i casi di intervento dell’ordinamento su quest’ultima, con lo scopo di correggere uno squilibrio, la giustificazione va rintracciata nell’esistenza di una condizione di debolezza, identificata, o nel deficit partecipativo alla formazione del negozio (tanto vero che nei contratti del consumatore non sono considerate vessatorie le clausole oggetto di trattativa individuale: art. 34, co. 4, c. cons.), o nella mancanza di alternative soddisfacenti (la contrattazione col monopolista, o i rapporti di subfornitura); altre volte si tratta di proteggere un interesse superindividuale attinente, ad esempio, alla regolarità del mercato, o della concorrenza (v. l’art. 1815, co. 2, c.c.). Ma non si può certo sostenere che l’ordinamento protegga, in quanto valore autonomamente rilevante, l’equilibrio delle prestazioni con l’impegno ad intervenire per il solo fatto dell’esistenza di uno squilibrio, manipolando o, altrimenti ripudiando il contratto.
L’analisi della disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), della rescissione del contratto concluso in stato di bisogno (art. 1448 c.c.), della reductio ad aequitatem della clausola penale eccessiva (art. 1384 c.c.) e della riduzione ad equità del contratto rescindibile (art. 1450 c.c.), dell’interpretazione condotta con l’impiego del canone ex art. 1371 c.c.(quando, cioè, il contratto resti oscuro nonostante l’impiego di tutti gli altri canoni), sostiene la conclusione che si è sopra anticipata ed ora cercheremo di dimostrarlo passando in rassegna proprio questi casi.
L’art. 1467 c.c. stabilisce che l’efficacia del contratto può essere rimossa se l’equilibrio patrimoniale che esso riflette si altera in modo da rendere eccessivamente onerosa la prestazione di una parte, se ciò è l’effetto di avvenimenti straordinari ed imprevedibili. In questa ipotesi, l’indizio dell’inesistenza di una volontà di presidiare l’equivalenza oggettiva delle prestazioni si ricava dal rimedio concesso alla parte contro cui la domanda di risoluzione è proposta; essa può evitarla offrendo di ricondurre ad equità il contatto (art. 1467, co. 3, c.c.). Ora, se si aderisce alla tesi di chi reputa che la reductio ad aequitatem opera ripristinando l’originario rapporto di adeguatezza sancito dai contraenti (Gatti, S., L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm. 1963, I, 462-463), è evidente che quante volte quest’ultimo fosse caratterizzato da squilibrio, il sistema della reductio produrrebbe l’effetto paradossale della sua salvaguardia. La conclusione è la stessa se anche si aderisce alla tesi di chi sostiene che lo squilibrio debba essere corretto riconducendo il rapporto tra prestazioni nell’ambito dell’alea normale, quello stesso limite che, se non superato, non consentirebbe l’esercizio dell’azione di risoluzione ex art. 1467 c.c. (Pino, A., La eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, 65 ss); anche in questo caso, infatti, se si ipotizza un’eccessiva onerosità sopravvenuta a carico del contraente già vittima di un iniziale squilibrio, l’intervento del giudice non potrebbe incidere sull’equità dell’originario programma di scambio, dato che esso costituirebbe il punto di riferimento e la base di partenza di raffronto parametrico per la valutazione della misura del riflesso del rischio, proprio di ogni contrattazione commutativa. In entrambi i casi, pertanto, la norma va letta come funzionale a neutralizzare le ricadute che eventuali sopravvenienze potrebbero avere su un rapporto contrattuale del cui equilibrio originario l’ordinamento si disinteressa, se non per assumerlo quale punto di riferimento dell’intervento correttivo.
Quanto alla rescissione, si è già detto che solo il concorso di tutti gli elementi previsti dall’art. 1448 c.c. può giustificarla, non svolgendo l’iniquità un ruolo né esclusivo né dominante nel raffronto con gli altri elementi della fattispecie (Cass. 13.2.2009, n. 3646; Id. 6.3.2007, n. 5133). Non solo: taluno ha posto in evidenza che la disciplina della rescissione delinea – in realtà – una sorta di statuto dell’approfittamento di una parte a danno dell’altra, perché indicare qual è il limite entro il quale lo squilibrio è sostanzialmente ammesso (non oltre la metà di quanto si sia ricevuto, o sia stato promesso: ultra dimidium), significa tracciare un confine entro il quale l’iniquità non rileva, o, meglio, entro il quale essa è legalmente ammessa, col risultato di segnalare, contemporaneamente, il limite entro cui è consentito approfittare dell’altra parte (Lucarelli, F., Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, 56).
In ordine alla reductio ad aequitatem della clausola penale eccessiva, l’estraneità a questo rimedio di qualsiasi intento moralizzatore di una contrattazione ingiusta, perché squilibrata, si ricava dall’analisi della sua funzione. Nella prospettiva di chi accentua quella risarcitoria, come strumento di liquidazione preventiva del danno, è ovvio che la facoltà di riduzione, anche d’ufficio - come oramai ritenuto ammissibile – è espressione del potere del giudice di garantire che il risarcimento sia proporzionato al danno; nella prospettiva di chi, invece, accentua la funzione sanzionatoria della clausola, lo stesso potere di intervento si spiega quale espressione della necessità di garantire la correlazione, anche quantitativa, tra violazione e sanzione. A tutte e due le prospettive, pertanto, è estranea qualsiasi velleità di manipolazione del frutto dell’autonomia privata in funzione di salvaguardia del valore dell’equità della contrattazione o, per meglio dire, per garantirne la moralità.
La norma dell’art. 1450 c.c., poi, rafforza ancor di più questa conclusione. Essa permette al contraente profittatore (quello, cioè, che abbia tratto un vantaggio iniquo dallo stato di bisogno, o di pericolo, dell’altra parte) di offrire la riduzione ad equità del contratto, così consolidandone l’efficacia. Lo strumento della riduzione è tutto consegnato nella sue mani, non potendo la chiara formulazione della norma consentire interpretazioni che attribuiscano l’iniziativa anche al contraente svantaggiato; in tal modo, la sorte del contratto iniquo è fatta dipendere dalla volontà del soggetto che si è avvantaggiato ed il ristabilimento dell’equilibrio contrattuale non può certo rappresentare un bilanciamento sufficiente di questa asimmetria, tenuto conto che molte volte il bisogno, o il pericolo, possono aver spinto la parte a stipulare un contratto che, altrimenti, non avrebbe mai accettato, onde è semmai il contratto in quanto tale che andrebbe, in questi casi, eliminato, piuttosto che riformulate le sue condizioni economiche. Inversamente, se il profittatore non ritenesse di offrire la reductio ad aequitatem, il contraente svantaggiato avrebbe unicamente la scelta della rescissione (e non il riequilibrio), anche quando considerasse il contratto opportuno e necessario in ordine al se, e non conveniente esclusivamente in ordine all’aspetto economico.
All’art. 1371 c.c. una dottrina ha assegnato funzione centrale nel sistema quale punto di emersione normativa del criterio dell’equità e della giustizia sostanziale del contratto (Donisi, C., Appunti di teoria dell’interpretazione, Lezione decima, 6, inedito). Laddove la norma indica il criterio dell’equo contemperamento degli interessi delle parti quale canone ermeneutico da applicare se il significato del contratto resti oscuro, nonostante l’impiego delle altre regole interpretative, essa «… intende riferirsi ad un criterio normativo che dovrebbe essere posto alla base di tutta la regolamentazione contrattuale, cioè in questa norma emerge quell’esigenza di considerare il contratto come lo strumento giusto, il contratto come mezzo … che realizzi una giustizia sostanziale nell’ambito delle parti contraenti e non semplicemente una giustizia formale»: in quella disposizione andrebbe ravvisata – secondo questa prospettiva – «… la tendenza del sistema verso la moralizzazione di tutta l’attività contrattuale» (Donisi, C., Appunti, cit.). La conclusione non può essere condivisa: tutta la questione risiede nell’intendersi sulla portata del concetto di oscurità del contratto che la norma indica quale presupposto per conferire al giudice il potere di interpretare l’atto in quel modo che realizzi l’equo contemperamento degli interessi (se è a titolo oneroso). Infatti, se l’oscurità è tale da non poter consentire la decifrabilità del minimo contenuto volitivo, dovrebbe farsi luogo alla dichiarazione di nullità, piuttosto che all’interpretazione del contratto, tenuto conto che una volontà indecifrabile è equiparabile, quoad effectus, ad una mancante (Carresi, F., Interpretazione del contratto, in Commentario c.c. Scialoja-Branca, IV, Delle obbligazioni, artt. 1362-1371, Bologna-Roma, 1992, 143) o – con altre parole – non si potrebbe concepire un dovere di intendere, quanto di rielaborazione del materiale predisposto dalle parti (Irti, N., Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 1145). Se un minimo di decifrabilità degli interessi programmatici delineati dai contraenti è la precondizione dell’interpretazione e, quindi, dell’applicabilità del criterio esposto dal citato art. 1371 c.c., va da sé che l’equo contemperamento attuato dal giudice è la risultante di un’attività che, in luogo di discostarsi – vulnerandola – dalla regola privata, la presuppone e ne rispetta il programma fissato dai contraenti assumendo, quale dato di riferimento, proprio gli interessi lì esposti. Con la conseguenza che, se l’equità interpretativa non è eversiva della programmazione realizzata dalle parti, bensì rispettosa del piano da esse prefigurato, all’interno del quale ordina, bilanciandoli, gli interessi individuati, il contemperamento non potrà che essere il riflesso di quello stesso equilibrio e dei rapporti di forza di cui è il frutto; in ultima analisi, delle diseguaglianze di fatto esistenti tra gli interessati cui la norma non potrà che offrire riconoscimento (Alpa, G., L’interpretazione del contratto, I, Orientamenti e tecniche della giurisprudenza, Milano, 1983, 322). Ne esce confermata l’affermazione contenuta nella Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice civile per cui con la norma dell’art. 1371 c.c. « … non si è voluto attribuire al giudice un potere generale di revisione dei contratti, né si è voluto introdurre il principio dell’equilibrio contrattuale».
L’art. 36 Cost. potrebbe essere arruolato, a buona ragione, tra le disposizioni che rilasciano concrete indicazioni circa un’attenzione dell’ordinamento per la giustizia materiale del contratto; con essa – come noto – si afferma il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. A tale stregua vi è stato chi, in dottrina, ha ritenuto potersi trarre da questa norma implicazioni più in generale anche sul piano dell’agire solidaristicamente corretto delle parti (Rodotà, S., Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 174). Se, da un lato, si ritiene che essa attribuisca al lavoratore un vero e proprio diritto soggettivo ad una retribuzione equa, dall’altro, la sua spiegazione in chiave di particolare favor per il predetto lavoratore non risolve tutti i problemi collegati alla questione se essa sia, contemporaneamente, espressiva dell’esigenza di un’oggettiva equivalenza delle prestazioni. Ad una più attenta analisi, la disposizione si presenta come neutra ai fini della soluzione della questione che ci occupa; per rendersene conto occorre muovere dalla constatazione che essa fissa due distinti criteri, richiamandosi, da un lato, alla quantità e qualità del lavoro prestato e, dall’altro, alla sufficienza della retribuzione a garantire un’esistenza libera e dignitosa.
Col primo, ci si ispira ad un principio di proporzionalità che obbedisce – se così si può dire – ad una logica di scambio; col secondo si abbandona questa visione di corrispettività perseguendo l’obiettivo di somministrare strumenti economici che consentano lo sviluppo della personalità (Ghezzi, G.-Romagnoli, U., Il rapporto di lavoro, III, Bologna, 1995, 238); la norma, perciò, prospetta la coessenzialità dei criteri della retribuzione oggettivamente giusta, ma anche di quella soggettivamente sufficiente; tanto basta per escludere che la disposizione possa rilasciare indicazioni utili ad inferirne l’esistenza di un generale principio di giustizia delle ragioni di scambio, apparendo il criterio di proporzionalità insufficiente, di per sé, ad integrare il precetto costituzionale di retribuzione equa.
Anche dalla normativa speciale una parte della dottrina ha voluto ricavare indici di una tendenza del legislatore a salvaguardare la giustizia delle ragioni di scambio ma con esiti, a nostro parere, non diversi da quelli sin qui visti.
Un’indicazione si è voluto trarre dal divieto di abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della l. n. 192/1998 che sanziona con la nullità i patti di cui quell’abuso sia espressione. Premesso che – a nostro avviso – la ragione della tutela va individuata nella consapevolezza dell’evoluzione del rapporto di lavoro a domicilio nella forma del cd. capitalismo molecolare per cui, pur nel contesto di un rapporto tra imprese, sussiste sempre l’esigenza di tutela della parte debole, l’interesse dell’ordinamento per la vicenda della subfornitura e per la difesa del contraente, imprenditore debole, sussiste a misura che sia stata superata una soglia di attenzione normativamente concretizzata nella dipendenza economica del partner contrattuale, diagnosticata dall’astratta possibilità di determinare uno squilibrio eccessivo di diritti ed obblighi, conseguenza di una posizione di dominanza relativa dell’impresa avvantaggiata. Ciò rappresenta la precondizione perché possa avere rilievo una successiva e distinta condotta che a sua volta, per essere illegittima, deve potersi qualificare come abusiva, tale potendosi considerare solo se si sostanzi nel far acquisire al contraente avvantaggiato condizioni contrattuali di favore, gravose, ma, all’un tempo non giustificate dall’economia e dalla logica del contratto. Il che val quanto dire che anche in questo caso non è la pura e semplice giustizia materiale delle ragioni di scambio a rappresentare l’obiettivo della tutela apprestata dall’ordinamento o, quanto meno, non è essa da sola in grado di giustificare l’innesco del meccanismo di reazione da parte di quest’ultimo.
Tanto meno indici di un’attenzione dell’ordinamento alla giustizia materiale del contratto possono ricavarsi dalla disciplina consumeristica. È vero che l’art. 33 c. consumo (ex art. 1469 bis c.c.) prevede che «Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» sanzionando detto squilibrio con la nullità della clausola vessatoria (art. 36); ma è bensì vero che il successivo art. 34, al comma 2 esclude che la valutazione del carattere vessatorio della clausola possa riguardare l’adeguatezza del corrispettivo, mentre il comma 4 espunge dall’area della vessatorietà le clausole, o gli elementi di clausola, che siano stati oggetto di trattativa individuale. Quindi, l’intera disciplina non esprime la possibilità di un controllo della convenienza ed opportunità dell’affare; senza dire che secondo una dottrina (Montinaro, R., La figura giuridica del consumatore nei contratti di cui al capo XIV bis titolo II del libro IV del codice civile, in Giust. Civ. 1998, II, 230) la stessa valutazione della relazione riguarda il solo rapporto tra obbligazioni accessorie (limitazione di responsabilità, garanzie, rimedi, etc.). Tra tutti gli elementi rilevati, quello certamente più significativo nell’escludere qualsiasi intento di moralizzazione della contrattazione è, comunque, l’esclusione della protezione quando la clausola sia stata negoziata individualmente perché ciò sta a significare che anche un contratto ingiusto è vincolante e irretrattabile pur quando una parte sia il consumatore.
Il d.lgs. n. 231/2002 ha dato attuazione – come noto – alla direttiva del Consiglio e del Parlamento europei del 29.6.2000 (n. 2000/35/CE) relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali ed in questo contesto è inserita la previsione dell’art. 7 al cui tenore gli accordi tra imprese sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del suo ritardo, possono essere dichiarati nulli dal giudice, anche d’ufficio, quando risultino gravemente iniqui in danno del creditore, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce, o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra di loro. In tal caso, la norma prevede che il giudice, dichiarata la nullità, «… applica i termini legali ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo». In questa previsione potrebbe scorgersi una rilevanza attribuita di per sé allo squilibrio economico, dato che esso rileva in quanto tale per giustificare l’intervento del giudice che può garantire la giustizia del contratto riconducendo ad equità la clausola.
Sennonché, com’è reso chiaro dai considerando della direttiva, lo scopo della normativa è quello di impedire le distorsioni concorrenziali dipendenti dall’(ab)uso da parte dell’impresa degli esiti del proprio inadempimento il cui costo, negoziato in termini convenienti (per sé, ed iniqui per l’altra parte) con la clausola disciplinante le conseguenze dell’inadempimento, o del ritardo, potrebbe essere preferito rispetto al costo (ad esempio) dell’indebitamento bancario necessario ad effettuare il pagamento. Accertato, perciò, che l’interesse che muove il legislatore è quello della tutela del mercato, va altresì notato che la normativa, se concerne i patti relativi ai tempi di pagamento e le conseguenze dell’inadempimento, non tocca l’aspetto della possibile iniquità dell’accordo concernente il corrispettivo; il che conferma, nuovamente, che l’obiettivo del legislatore non è etico, ma funzionalista, preoccupandosi esclusivamente dell’efficienza del mercato raggiunta tramite la garanzia di certezza dei costi e di effettività dei pagamenti, strumentali ad impedire effetti distorsivi sulla concorrenza.
Operate le debite distinzioni, la conclusione è sostanzialmente analoga per l’art. 1815, co. 2, c.c. secondo cui «se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi». Anche questa disposizione, a motivo dell’oggettivizzazione dell’usura monetaria (che si configura se il tasso supera di oltre la metà quello medio rilevato trimestralmente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), potrebbe essere considerata punto di emersione normativa dell’attenzione dell’ordinamento alla giustizia della contrattazione. Sennonché, qui come per il ritardo nei pagamenti, l’interesse dell’ordinamento è il corretto esercizio dell’attività creditizia e finanziaria, nonché la genuinità e trasparenza dei relativi meccanismi; si tratta, cioè, della tutela di un interesse pubblico settoriale che giustifica la posizione di «un limite normativo alla disponibilità del patrimonio individuale» (De Angelis P., Usura, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 4.2) rappresentando il superamento del limite un indizio del malfunzionamento del mercato creditizio individuato come bene giuridico da proteggere e del quale va salvaguardata la funzione sociale. Resta fuori da questa prospettiva, come si vede, qualsiasi intento di protezione di una parte contro lo squilibrio del sinallagma.
La normativa cui si allude in rubrica, vincolante solo nei limiti della sua ricezione pattizia in quanto non d’origine statuale, è quella, in particolare, dei Principles of european contract law (Pecl) elaborati dalla Commissione di diritto europeo dei contratti sotto la direzione di O. Lando e H. Beale, nonché dei principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali; ma anche la sua analisi non consente di pervenire a conclusioni diverse da quelle sin qui raggiunte.
L’art. 4:109 Pecl, sotto la rubrica Ingiusto profitto o vantaggio iniquo, stabilisce che una parte può annullare il contratto se al momento della sua conclusione versava in una condizione di minorazione nei confronti dell’altra (dipendenza, relazione di fiducia, bisogno, necessità urgenti, prodigalità, ignoranza, mancanza di esperienza, dell’accortezza necessaria a contrattare) e quest’ultima, a conoscenza, o dovendo essere a conoscenza di ciò, ha tratto un vantaggio iniquo, o un ingiusto profitto.
L’art. 3.10 dei principi Unidroit, sotto la rubrica Eccessivo squilibrio, afferma che una parte può annullare il contratto se al momento della sua conclusione esso, o la clausola, attribuivano ingiustificatamente all’altra parte un vantaggio eccessivo, dovendosi considerare, tra gli altri fattori, le difficoltà economiche, o le necessità immediate della prima parte, la sua imperizia, ignoranza, inesperienza, mancanza di abilità a trattare. Entrambe le disposizioni rendono chiaro che non è l’iniquità in sé a rilevare, se non si combina con una pluralità d’altri fattori (stato soggettivo della parte danneggiata e scientia in capo all’approfittatore).
Situazione non dissimile si ripropone anche nella normativa più avanzata e recente costituita dal Draft common frame of Reference (Dcfr). Il Dcfr è stato pensato dalla Commissione europea nel suo Action Plan di cui alla comunicazione al Parlamento e al Consiglio on a more coherent European contract law del dicembre 2003, come uno strumento per assicurare che uno stesso concetto, pur utilizzato in ambiti territoriali differenti, sia applicato e interpretato in modo uniforme, ma anche quale base per uno strumento opzionale che le parti possono scegliere come legge da applicare, o riferimento da utilizzare da parte dei legislatori europei nella loro attività di futura codificazione (tool box).
Analizzando la disciplina dell’Unfair exploitation posta dall’art. 7:207, si può verificare l’esistenza di una previsione non dissimile da quella dell’art. 4:109 dei Pecl, da cui il Dcfr dichiaratamente trae spunto. Infatti, si dice che una parte può chiedere l’annullamento del contratto se versava in una delle condizioni di minorazione sostanzialmente analoghe a quelle previste dall’art. 4:109 cit., l’altra parte conosceva, o poteva conoscere tale condizione, e ne ha tratto «an excessive benefit or grossly unfair advantage».
Si tratta di una quasi esatta sovrapponibilità delle due norme, com’è confermato, dal punto di vista formale, da the Table of Destinations a p. 53 del Dcfr che sottolinea la derivazione dell’una (art. 7:207 Dcfr) dall’altra (art. 4:109 Pecl).
Anche in un caso come questo di normativa sostanzialmente diversa da quella di origine sapienziale – come sono i Pecl ed i principi Unidriot – la quale, pur non essendo vincolante, promana, tuttavia, da un organismo comunitario, si trae conferma ancora una volta dell’irrilevanza, in sé e per sé, dell’ingiustizia delle ragioni dello scambio poiché l’innesco del meccanismo di tutela (declinato sub specie di invalidazione del contratto) è subordinato alla compresenza di plurime condizioni, tutte necessariamente concorrenti e precisamente: a) un’asimmetria di potere contrattuale indotta da una condizione di minorazione in cui si trova un contraente nei confronti dell’altro; b) la sua conoscenza da parte di quest’ultimo, e c) l’approfittamento della condizione di minorazione dell’altra parte, con d) il conseguimento di un beneficio eccessivo, o di un vantaggio gravemente iniquo. Ciò che rimanda alle conclusioni a suo tempo tratte a proposito del significato che, ai fini che qui interessano, rilascia la disciplina della rescissione.
Va, infine, verificato se la regola della buona fede (oggettiva) e – ove ne sia predicabile l’esistenza – un eventuale principio di proporzionalità, possono rilevare ai fini che qui interessano. È indubbio che la prima possieda potenzialità applicative, non foss’altro perché ne è oramai generalmente condivisa la sua natura di criterio che impegna ad orientare il comportamento contrattuale nella direzione della solidarietà ed è intesa come regola che obbliga alla tutela dell’interesse altrui sino al limite in cui ciò non comporti un sacrificio eccessivo del proprio, obbligo direttamente derivabile da quello solidaristico di stampo costituzionale (art. 2 Cost.: v. Cass., 20.4.1994, n. 3775).
In questo senso si potrebbe sostenere – ad esempio – che il principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. non potrebbe che contrastare col comportamento di una parte che in sede di formazione del contratto conseguisse vantaggi ingiusti. Ma se anche così si ritenesse, non si potrebbe mai ammettere che la sua violazione importa conseguenze sul piano della validità del medesimo contratto perché questa conseguenza sarebbe impedita dall’inidoneità della violazione di una regola di condotta (qual è pacificamente quella di buona fede) a produrre conseguenze invalidanti, in omaggio alla persistente attualità della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento con il correlato rilievo solo risarcitorio collegato alla violazione delle seconde (tra le altre, v. Cass., S.U., 19.12.2007, n. 26724). Ma anche l’applicabilità del (pur) solo rimedio risarcitorio è conclusione da revocare in dubbio perché è nuovamente la disciplina della rescissione che impedisce di propugnarlo tenuto conto che, nell’indicare le condizioni solo ricorrendo le quali tutte insieme e contemporaneamente l’iniquità assume valenza ai fini rescissori, si esclude, per ciò solo, che quest’ultima possa rilevare altrimenti, anche se ai limitati fini risarcitori.
Le stesse norme che sopra abbiamo esaminato hanno fatto dire ad una dottrina (Perlingieri, P., Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti cit., loc. cit.) che sarebbe immanente nell’ordinamento un principio di proporzionalità, idoneo ad assicurare al contratto una valenza etica supplendo all’inidoneità delle tecniche di controllo sin qui segnalate. Secondo questa opinione, il principio avrebbe radici nelle regole costituzionali di uguaglianza, solidarietà e ragionevolezza ed impregnerebbe anche la dimensione codicistica, trovando espressione, ad esempio, nelle norme che valorizzano il giudizio di gravità dell’inadempimento (artt. 1480, 1492, 1668, 1584, 1622, 1636, 1635, 1455, 1525 c.c.), o in quelle che nella proporzionalità tra debito e garanzia rilasciano indicazioni nel senso della necessaria proporzionalità legale, o giudiziale (artt. 2873, co. 2, e 2875 c.c.). Il principio prescinderebbe dalla clausola generale di buona fede la quale ne rappresenterebbe, semmai, un correttivo applicativo nel senso che esso dovrebbe essere attuato secondo buona fede.
Sennonché, il principio di proporzionalità è, sostanzialmente, un mero strumento di controllo della moderazione del potere attribuito ad un’autorità, discrezionale e funzionalizzato, nonché sistema di verifica di corrispondenza dell’esercizio del potere al fine che col suo esercizio si intende perseguire; tanto vero che il terreno elettivo della sua applicabilità è quello dell’azione amministrativa, potendo il controllo (insufficiente) di mera conformità a legge essere compensato dalla possibilità del controllo dall’interno dell’atto sub specie della sua adeguatezza allo scopo (per indicazioni, v. Perfetti, U, L’ingiustizia del contratto, Milano, 2005, 326 ss.). In questo senso, la correlazione tra proporzionalità ed uso di un potere discrezionale addita l’area di incidenza effettuale del principio restringendolo all’interno dei confini segnati dai rapporti tra ineguali (es. istituzioni comunitarie e stati membri, o tra i secondi ed i cittadini, più in generale tra questi e la pubblica amministrazione). Se questo è, quantunque il rapporto inter pares non costituisca impedimento assoluto all’operare del principio, come dimostra la sua vigenza nell’ordinamento internazionale (v. Cannizzar, E., Il principio della proporzionalità nell’ordinamento internazionale, Milano, 2000, passim), è pur sempre l’esercizio di un potere di interferenza discrezionale ed unilaterale nell’altrui sfera giuridica ciò che ne condiziona l’impiego anche nell’ordinamento internazionale nel quale opera pur sempre come critère de limitation des pouvoir unilatéraux des Etats (Cannizzaro, E., Il principio, cit. 277). Se, quindi, presuppone un potere di interferenza e supremazia, espressione di discrezionalità, ancor prima che di autorità, dovrebbe escludersene l’applicabilità ai rapporti di diritto privato, o in via di principio (v. Allegretti, U., L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 367 e nt. 523; conf. Sandulli, A., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 393-394), o quanto meno considerando che la mitigazione del potere discrezionale non rappresenta un’esigenza in tutti i casi in cui, come il contratto, il piano già delineato dei diritti e degli obblighi e l’assenso preventivo alla produzione degli effetti esauriscono qualsiasi necessità di controllo, difettando la discrezionalità. D’altronde, l’esempio dell’art. 1460, co. 2, c.c. dimostra come il giudizio di proporzionalità lì formulato (tra gravità dell’inadempimento e reazione dell’excipiens) è strumentale a quello di buona fede espressamente evocata dalla norma, per cui è vero semmai che è quest’ultima a giovarsi, quale formante valutativo, del criterio di proporzionalità onde è alla prima (con gli effetti che si sono sopra esaminati) e non al secondo che occorre, a tutto voler concedere, fare riferimento.
La ricerca svolta permette di concludere che l’ingiustizia in sé del contratto non ha un suo autonomo rilievo; contemporaneamente non può passare inosservata la linea evolutiva che soprattutto la normativa speciale addita quando segnala, in modo più marcato che in passato, l’ingiustizia delle ragioni dello scambio quale componente, tendenziale, di una disciplina di intervento autoritario finalizzato al controllo del contenuto del contratto.
Ma un conto è dire che l’ordinamento da rilievo al valore in sé e per sé della giustizia del contratto, altro che sussiste un interesse alla predisposizione di contratti giusti in alcune situazioni nelle quali solo l’ordinamento si riserva la selezione dei valori che giustificano la rilevanza comparativa dei rapporti ivi considerati rispetto alla generalità degli altri; rapporti in cui l’ingiustizia delle ragioni di scambio non rileva mai da sola, ma quale coelemento di una fattispecie invalidante complessa, finalizzata, normalmente, a proteggere condizioni di minorazione di uno dei contraenti (es. imprenditore debole), o laddove rilevi quale unico elemento della fattispecie invalidante, in quanto strumentale alla protezione di interessi superindividuali (es. protezione del mercato creditizio o della concorrenza).
Art. 36 Cost.; artt. 1175, 1337, 1371, 1375, 1384, 1448, 1450, 1455, 1525, 1460, co. 2, 1467, 1492, 1584, 1622, 1635, 1636, 1668, 1815 co. 2, 2873 co. 2, 2875 c.c.; artt. 33, 34 e 36 d.lgs. 6.9.2006, n. 206 (codice del consumo); art. 9 l.18.6.1998, n. 192; art. 7 d.lgs. 9.10.2002, n. 231; art. 4:109 Principles of European Contract Law; art. 3.10 principi Unidroit; art. 7:207 Draft common frame of Reference (Dcfr).
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