GUEVARA, Iñigo (Innico)
Nacque in Castiglia intorno al 1418 e fu il maggiore dei figli di Pedro e Costanza de Tovar.
Dopo la morte di Pedro, Costanza sposò R0drigo Lopez d'Avalos, connestabile di Castiglia, dal quale ebbe altri due figli, Iñigo e Alfonso. A causa del sostegno accordato alla fazione di Enrico, signore di Santiago, fratello del re Alfonso V d'Aragona durante le lotte per il potere verificatesi in Castiglia, il connestabile venne deposto nel 1422 e trovò rifugio, insieme con la famiglia, a Valencia, dove morì nel 1428.
A salvare Costanza e i suoi figli dalla povertà giunse una pensione elargita da Alfonso V d'Aragona. Sebbene ancora adolescenti, i quattro fratelli accompagnarono probabilmente il monarca quando questi si imbarcò, nel 1432, per la sua seconda spedizione italiana. Essi si guadagnarono rapidamente la stima del re, prima per le loro qualità di uomini di corte, poi, quando nel 1435 si avviò la campagna di conquista del Regno di Napoli, per la loro prodezza di uomini d'arme. Fu in particolare il G. a distinguersi, al punto che nel giugno del 1435 Alfonso lo investì di tutti i possedimenti detenuti in Calabria dai nemici del re, Francesco Sforza e Micheletto Attendolo. Dal momento che quei territori non erano ancora stati di fatto conquistati, tale concessione non si tradusse per il G. in un'immediata fonte di ricchezza, ma valse comunque come pegno della determinazione di Alfonso a compensare la perdita dei territori di Castiglia subita dai fratelli con nuovi possedimenti napoletani. Questa prospettiva sembrò minacciata allorché, durante la battaglia navale di Ponza, combattuta il 5 ag. 1435, il G. fu fatto prigioniero dai Genovesi con il suo fratellastro Iñigo d'Avalos. Essi furono comunque tra quei pochi fortunati che, insieme con il re Alfonso e l'infante Enrico, furono tenuti in una dorata prigionia a Milano dal duca Filippo Maria Visconti, signore di Genova. Rilasciato insieme con il re, il G. scese nuovamente in campo nel Regno di Napoli nel febbraio del 1436. La fiducia conquistatasi presso Alfonso fu nuovamente premiata con incarichi militari, che egli seppe meritare in occasione della vittoria di San Germano (1438) e in una delicata missione diplomatica presso Francesco Sforza nel luglio del 1438. Benché lo Sforza non intendesse ritirarsi dal Regno, il G. riuscì comunque a ottenere un parziale successo, poiché il condottiero accettò infine un armistizio. Altri importanti uffici si accumularono quando Alfonso gli conferì il ruolo di maggiordomo reale e lo elevò al rango di consigliere. Le proprietà terriere promessegli si accrebbero rapidamente di pari passo ai suoi onori, e nel 1440 gli furono assegnate le città di Ariano e Apice. Egli ne entrò in possesso effettivo soltanto nel maggio del 1441, quando vennero tolte allo Sforza. Nelle vittorie finali del 1442 il G. ebbe un ruolo cospicuo, prima guidando una colonna alla conquista di Napoli (2 giugno) e poi a capo di uno squadrone di cavalleria nell'azione decisiva della battaglia di Carpenone (28 giugno).
Completata la conquista del Regno di Napoli, l'attenzione si spostò sulla frontiera settentrionale, dove lo Sforza costituiva ancora una minaccia. Di nuovo Alfonso si servì largamente del talento del Guevara. Alla fine di luglio del 1442 egli fu inviato all'accampamento dello Sforza con l'incarico di negoziare l'arruolamento di una condotta al servizio del re. La missione venne portata a termine con sorprendente sollecitudine, dacché in quattro giorni il G. concluse un patto che contemplava tanto la stipulazione per la condotta quanto una promessa di matrimonio tra il figlio dello Sforza e la figlia di Alfonso. Al suo ritorno presso il re, tuttavia, Alfonso gli contestò di aver abusato dei poteri concessigli e rifiutò l'accordo. Sembra che in effetti il G. fosse stato coinvolto, forse inconsapevolmente, in una manovra intesa a ottenere più moderate pretese da Niccolò Piccinino, un condottiero rivale già al servizio del re. Per certo l'incidente non dovette produrre una frattura nei rapporti tra il sovrano e il suo servitore, se poco più tardi Alfonso conferì al G. il titolo di conte di Ariano e in seguito, nel novembre del 1442, il possesso della città di Potenza, pure con il titolo comitale. Nel 1444 il G. ascese al rango ancor più prestigioso del marchesato come marchese del Vasto.
L'anno seguente il G., a capo di una condotta di 300 lance, affiancò il re nella campagna intrapresa per cacciare lo Sforza dalle terre della Chiesa. Una congiura segreta organizzata con due capitani dello Sforza stesso, Pietro Brunoro Sanvitale e Troilo di Muro, probabilmente ordita in occasione della missione diplomatica del luglio 1442, venne a buon fine nel settembre del 1443, quando il G. accompagnò Brunoro a ricevere la resa di Jesi dalle mani di Troilo di Muro. Poco dopo Alfonso ripartì per Napoli portando con sé il G., che prese parte alla vita di corte.
Borso d'Este, che lo aveva conosciuto nel 1444, lo poneva tra "li governatori dela maiesta del Re, i quali attende ala persona soa" (cit. in Foucard). Tristano Caracciolo ricordava più tardi la sua reputazione quale "in primis regi carus" e perfetto cortigiano: "quippe arma egregie tractabat, equorum studiosus, quos agere moderarique probe callebat; musicae non expers, cantare saltareque ad virilem dignitatem satis aptus". Diede pubblico saggio della sua abilità di cavaliere in occasione di una giostra organizzata nel maggio 1444 per celebrare le nozze del figlio del re. Gli interessi letterari lo spinsero a entrare a far parte del circolo accademico riunitosi attorno ad Alfonso e lo portarono a raccogliere una scelta biblioteca. La sua forbitezza diplomatica gli guadagnò un posto tra i nobili inviati a Roma nel 1447 a rappresentare Alfonso all'incoronazione del papa Niccolò V.
Una nuova fase dell'attività militare si aprì nel novembre 1446 quando Alfonso fece marciare il suo esercito a Nord nel tentativo di estendere la propria influenza in Toscana. Nell'unica azione di rilievo di quella campagna - l'assedio di Piombino - il G. ebbe parte importante, a capo delle due colonne di armati che il 10 sett. 1448 tentarono invano di espugnare la città. Il fallimento non ebbe però conseguenze per la sua carriera, che culminò il 26 dicembre successivo con la nomina a gran siniscalco, uno dei sette grandi uffici del Regno. Ciò gli diede giurisdizione su tutto il personale della corte, nonché alcune responsabilità in ordine all'amministrazione dei castelli e all'arruolamento delle truppe.
Nel maggio del 1452 una nuova apertura delle ostilità in Italia centrale costrinse l'esercito di Alfonso a muovere ancora verso Nord, questa volta sotto la guida del figlio del re, Ferdinando duca di Calabria. Sebbene il G. fosse partito insieme con le truppe, non sembra che egli si trattenesse in Toscana, ma che invece tornasse a Napoli per svolgere un ruolo importante nell'organizzazione di un esercito di rinforzo che Alfonso progettava di condurre personalmente l'anno successivo. Questi aveva già raggiunto la frontiera quando una grave malattia gli impedì di procedere oltre, sicché, nell'ottobre del 1453, il comando venne trasferito al Guevara. Il siniscalco partì all'inizio di novembre con l'ordine di avanzare nonostante le proibitive condizioni meteorologiche, poiché la situazione in Toscana era critica. Fermatosi a Roma per consultarsi con il papa, egli proseguì finché si rese conto che era ormai troppo tardi per dar seguito alla campagna. Pur avendo ricevuto l'ordine di mantenere le posizioni fino alla prossima primavera, il G. ignorò tali disposizioni e, lasciati i suoi uomini, rientrò a Napoli alla fine di dicembre. Per quanto Alfonso desse credito alle sue giustificazioni, l'insubordinazione, tuttavia, sembrò raffreddare i loro rapporti: certo è che negli ultimi quattro anni del regno egli non ricevette altri onori. Il G. continuò nondimeno ad adempiere ai suoi doveri di siniscalco, tra i quali quello di presenziare alle cerimonie del Parlamento, riunitosi nell'aprile del 1455 e nell'ottobre del 1456. In tali occasioni il siniscalco sedeva ai piedi del re. Le meno cordiali relazioni tra Alfonso e il G. rallegrarono i molti nobili napoletani che mal sopportavano i favori elargiti al G. e ai suoi fratelli. Ciò potrebbe aver incoraggiato aperte dichiarazioni di ostilità, come quella che sfociò nella lite tra il G. e Antonio Caldora nel 1455, allorché reciproche accuse di infedeltà condussero i contendenti a sfidarsi in un duello che solo l'intervento del re poté evitare.
I timori che assalirono la maggior parte degli Spagnoli durante l'ultima malattia di Alfonso, nell'estate del 1458, spinsero il G. a portar via dal suo palazzo napoletano tutti i beni di valore e a inviarli al sicuro in patria. Convocato al capezzale del re morente, a Castel dell'Ovo, il 26 giugno 1458, fu testimone delle sue ultime volontà; quindi, per ordine dello stesso Alfonso, andò a presentarsi, insieme con gli altri ufficiali, all'erede al trono Ferdinando. L'ambasciatore milanese così descrive la scena: "Piangendo, se gli gitto steso ai piede col corpo in terra ai piede et besoli cum dirli, io sum qua tuo servo schiavo et vassallo; comandame che omai te tengo per mio signore" (Nunziante, 1892, pp. 581 s.). Un giuramento formale di fedeltà suggellò il nuovo vincolo. Il G. conservò tutti gli onori e le proprietà, ma rinunciò ad alcuni incarichi (governatore della Terra di Bari, capitano di Barletta, Trani, Molfetta e Giovinazzo) in cambio di una pensione annua. Ma la modesta rinuncia non servì minimamente a compiacere i baroni napoletani che già vagheggiavano una partenza degli Spagnoli intromessi nei loro ranghi per opera di Alfonso. I Guevara e i d'Avalos erano chiaramente determinati a restare. La potente famiglia dei Caldora dava voce a un diffuso risentimento chiamando il G. "un barbaro non conosciuto" (Nunziante, 1893, p. 17).
Quando, nel 1459, l'ostilità dei baroni nei confronti di Ferdinando si tramutò in ribellione, il G. e i suoi fratelli restarono fedeli al re. Dalla sua roccaforte di Ariano egli si unì a Matteo da Capua nel novembre per impedire il congiungimento delle forze di Antonio Caldora con quelle del ribelle principe di Rossano e di Giovanni d'Angiò. All'inizio del 1460 a lui e ai suoi fratelli venne affidata la difesa delle terre di Puglia contro il principe di Taranto. Ma la fortuna voltò loro le spalle. Un conflitto con Ercole d'Este, alleato di dubbia fiducia, provocò la sconfitta, la diserzione dello stesso Ercole nonché la perdita di molte città, compresa Vieste, dove risiedevano la moglie e i figli del Guevara. Sebbene durante questi mesi non si trovasse al fianco del re, egli nondimeno continuò a inviare dispacci chiedendo continuamente con urgenza a Ferdinando di concentrare le forze nella difesa della Terra di Lavoro e della Puglia, avvertimenti espressi in un tono che avrebbe potuto irritare il sovrano. Tuttavia, pur avendo perso molti dei suoi possedimenti, il G. rimase saldo nella sua lealtà: nel maggio del 1460 difese Ariano contro Giovanni d'Angiò e il principe di Taranto e rifiutò le loro offerte. Ancor più decisivo fu l'appoggio che egli fornì a Ferdinando dopo la disastrosa battaglia di Sarno (luglio 1460), dacché le forze del G. e dei suoi fratelli ammontavano allora a un terzo di tutte quelle su cui il re poteva ancora contare.
I tentativi di Ferdinando di venire a patti con i ribelli in seguito alla disfatta di Sarno procurarono a tratti motivi di tensione nei rapporti tra il re e il G., come accadde nel dicembre del 1460, quando questi rifiutò qualunque accordo con il Caldora che non restaurasse i propri perduti possedimenti. Ciononostante, nelle trattative con il principe di Taranto, durante l'estate del 1461, egli svolse un importante ruolo di intermediario. Falliti questi tentativi di negoziazione, partecipò quindi, nel 1462, al Consiglio reale ove venne decisa la strategia militare e, insieme con i fratelli, si unì all'esercito messo insieme per la resa dei conti finale nel luglio di quell'anno. La decisiva battaglia di Troia, combattuta il 18 agosto, lo vide nuovamente in prima linea.
La notizia che fu ucciso o mortalmente ferito a Troia è da considerarsi infondata poiché il 1° settembre il re gli ordinò di cacciare il Caldora dagli Abruzzi. Fu qui che egli probabilmente perse la vita, dato che il 9 ott. 1462 il duca di Milano inviò le proprie condoglianze subito dopo essere stato informato della sua morte.
La prima moglie del G. fu Lucrezia Sanseverino, ma non sono note le date del matrimonio e della morte di lei. Il G. sposò in seconde nozze Covella Sanseverino, sorella del duca di San Marco, che gli sopravvisse con i due figli. Il maggiore, Pietro, succedette al padre come marchese del Vasto e gran siniscalco; il secondo divenne conte di Potenza.
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