INNO (dal gr. ὕμνος, lat. hymnus)
L'inno si può definire come una forma speciale e più elevata di preghiera, dalla quale si distingue perché è associato al canto (e alla danza) e quindi alla poesia (versi raggruppati in strofe; spesso con rima o assonanza e con ritornello) e perché nell'inno, anziché richiedere benefici per sé, l'orante dimentico della propria persona si effonde nelle lodi entusiastiche della divinità e nei ringraziamenti per i doni di cui essa è prodiga alla natura, e, attraverso questa e le sue bellezze, agli uomini: l'inno è dunque l'espressione lirica del sentimento religioso. Ma esso serve anche alle esigenze della liturgia, ed esprime pertanto le credenze religiose e le aspirazioni morali, non solo del suo autore, ma anche del gruppo sociale per cui è stato redatto.
Tutte le grandi religioni dell'antichità hanno avuto inni, alcuni di altissimo valore letterario e di grande importanza come documento per la storia delle religioni. Basterà citare, come esempio, per l'Egitto gl'inni al Nilo e ad Ammon e quelli di Amenofi IV (v. amenothes) al disco solare Aton; per la civiltà babilonese-assira, gl'inni a Samas, Marduk, Ishtar e Tammuz; per l'India, gl'inni del Ṛgveda; per la Persia, le Gāthā (v. Avesta); per gli Ebrei, i Salmi.
Antichità classica. - La forma più semplice dell'inno greco ci è conservata nella preghiera di Ulisse ad Atena nel decimo libro dell'Iliade (278-282) e consiste nell'invocazione e nella preghiera; quella più complessa, invece, ci è conservata nello stesso libro subito dopo la preghiera di Ulisse ora citata ed è la preghiera di Diomede alla stessa dea (283-294) e consiste nell'invocazione, in una pars epica, e nella vera e propria preghiera di chiusura. La pars epica a poco a poco si è sviluppata e ha dato all'inno una particolare caratteristica, la più ricca di tutte e senza dubbio quella che meglio metteva in mostra le doti del poeta. In un certo senso si può dire che invocazione e preghiera sono cornice del racconto epico: Demodoco, ad esempio, nell'ottavo libro dell'Iliade apre con una invocazione a Zeus il racconto della presa d'Ilio che dovrà commuovere fino alle lagrime Ulisse e indurlo a svelarsi. L'inno era accompagnato dalla cetra, ed era cantato come quello di Demodoco in festini e cerimonie da un solo poeta o da più poeti in gara fra loro. Talvolta un ritornello (ἐϕύμνιον) permetteva che al canto dell'inno prendessero parte anche gli ascoltatori; altre volte esso era semplicemente declamato dal rapsodo, oppure era ritmato fortemente con movimento di danza.
Tutti i poeti hanno composto inni, a cominciare da Panfo e Orfeo e Museo, la cui personalità è nascosta nella leggenda, dal cosiddetto Omero dei 34 inni esametrici che portano il suo nome, fino agli elegiaci come Teognide che qua e là ha inserito inni nelle sue poesie politiche, ai giambografi, ai lirici corali. Nomi come quelli di Apollodoro che fu forse maestro di Pindaro, di Laso famoso per un inno a Demetra, di Arifrone di Sicione, di Licimnio, di Alcmane, dello stesso Pindaro e degli stessi poeti tragici che inserirono, come Sofocle nell'Aiace, inni nelle loro tragedie confermano l'importanza che ebbe l'inno nella poesia antica. Ma è naturale che dalla forma esametrica si passasse (con passaggio che era in qualche modo anche un ritorno) ad altre forme metriche più chiaramente liriche, sebbene alla prima si sia ritornati quasi sempre. Socrate compose inni esametrici in onore di Apollo e di Artemide, e agl'inni esametrici si ritornò decisamente in tempo ellenistico come dimostrano gl'inni di Callimaco. Anche gl'inni orfici sono composti in esametri, ma in paremiaci sono gl'inni di Mesomede del tempo di Adriano, e in anapesti o in giambi sono quelli di Sinesio al Sole e ad Afrodite, alle Muse e agli dei. Comunque, è particolarmente interessante l'importanza che ebbe l'inno nel periodo ellenistico quando fiorirono poeti come Filico, un inno del quale, a Demetra, è stato ritrovato da poco in un papiro pubblicato da Italiani, ed è in coriambi. La storia dell'inno dimostra questo, che a poco a poco quel componimento divenne un vero e proprio genere letterario, un luogo comune dell'attività del poeta. Gl'inni di Alceo ad Apollo e a Mercurio non furono certo cantati in occorrenze religiose ma sono un motivo poetico ripreso come tale da Orazio nel suo inno a Mercurio. È inno vero e proprio il Carmen saeculare dello stesso Orazio, e fu cantato da un coro di fanciulli e fanciulle. L'inno ritornerà alle sue origini, sarà inno anche nel senso culturale quando più tardi il cristianesimo lo adotterà nel suo rituale.
Cristianesimo. - Prescindendo dalla tradizione giudaica, nutrita dai Salmi e dalle altre composizioni liriche dell'ebraismo, tradizione che passò quasi per intero nel cristianesimo; prescindendo, inoltre, da meno certe ma probabili tradizioni di una lirica personale, spontanea e del momento, così nelle feste giudaiche come nei misteri ellenistici ed orientali; e restringendosi alla sola lettura dei primi libri cristiani (canonici, apostolici e subapostolici), balzano evidenti e numerosi gli elementi di poesia, e, assai più spesso che non paia, le parole si dispongono non solo in un numero prosaico pronunziatissimo, ma in un deciso e nettissimo ritmo. Il Magnificat (Luca, I, 46-55), il Benedictus (Luca, I, 68-79), il Nunc dimittis (Luca, II, 29-32), stanno a parte, piuttosto legati alla tradizione giudaica, quasi per intero; ma passi di San Paolo, come Rom., XI, 36; Efes., III, 21; V, 14 ecc.; passi dell'Apocalisse, come IV, 8; V, 9; V, 12-13; XV, 3, appaiono naturalmente rilevati nel contesto, contesto quasi sempre, anch'esso, vivissimo e come rovente, ma stilisticamente più piano, più sciolto. Innumeri esempî del genere potrebbero trarsi dai primi scrittori cristiani, e non pochi accenni o diretti o indiretti all'innografia e innodia dei primi secoli; ma per questo, come per le più antiche liturgie, bisogna discendere al sec. IV, se si vuole uscire dal vago, dall'ipotetico e molto spesso dall'incerto e confuso.
Per quel che riguarda l'Occidente latino, né Commodiano, né Iuvenco possono figurare alle origini dell'inno cristiano e latino: furono due letterati, specialmente il primo, piuttosto meschini. Ilario di Poitiers può essere considerato come il primo o più insigne innologo cristiano, per quanto nessuno dei molti inni a lui attribuiti (se non, forse, quello: Hymnum dicat turba fratrum) sia opera sua. A S. Ambrogio, invece, risalgono con certezza almeno quattro inni (Deus creator omnium; Aeterne rerum conditor; Iam surgit ora tertia; Jesu redemptor gentium), e risale l'onore d'aver messo in maggior voga e fortuna, tra i cristiani, l'innodia. Gl'inni di Ambrogio sono tutti in strofe di quattro versi e versi dimetri giambici. Egli amava che il popolo cantasse nella chiesa quest'inni, come per infervorarsi; e si discolpa d'aver introdotto l'usanza. Segno che era nuova e non da tutti tollerata: in realtà, era estranea, per quanto sembra, alla comune e consueta celebrazione liturgica (cfr. Patrol. Lat., XVI, coll. 1017-18). Il giovane Agostino, con la sua testimonianza (Confess., IX, 7), conferma la maraviglia che dové fare la cosa in Milano: egli, in fondo, era e poteva ritenersi un semplice curioso. Di S. Paolino di Nola, non ci resta nessun inno, sebbene pare ne componesse; di Prudenzio ce ne restano anche più del necessario. I suoi inni, infatti, prolissi ed estenuati, raramente raggiungono l'altezza della lirica vera, e più raramente ancora paiono preghiera. Alcuni brani hanno avuto fortuna nelle scuole cristiane medievali, e 7 inni dell'attuale Breviario Romano sono tratti da più lunghe sue composizioni, tra cui il famoso Salvete flores martyrum per i santi Innocenti. Nel sec. V Sedulio e Claudiano Mamerto; nel VI, Ennodio di Pavia e Fortunato di Poitiers scrissero inni, ancor oggi in uso nella liturgia romana. L'assegnazione a S. Gregorio Magno di alcuni inni è campata in aria; così pure si dica per papa Damaso.
Le tradizioni che lasciava l'età patristica dovevano essere raccolte e straordinariamente allargate nel Medioevo. Già l'uso invalso con Ambrogio dové dar luogo a esagerazioni, se troviamo canoni conciliarî decisamente ostili a quell'uso, e se osserviamo che, p. es. in Roma, l'introduzione degl'inni nella liturgia sembra molto tardiva, cioè dopo il Mille. Ma il monachismo portò l'innodia medievale a un rigoglio straordinario, come tutta l'ufficiatura. Nella Spagna, la liturgia mozarabica abbondava già d'inni e innografi piuttosto mediocri; nell'Irlanda la produzione, di preferenza per uso privato e non liturgico, non fu meno vasta: di essa, nulla è rimasto nella liturgia.
Con il rinascimento carolino, l'innografia ebbe cultori insigni, come Paolo diacono (cui si deve l'inno Ut queant laxis per S. Giovanni Battista: da cui Guido d'Arezzo trasse il nome delle note musicali); Paolino II patriarca di Aquileia, Alcuino, Teodufo di Orléans (morto nel 821) autore dell'inno Gloria, laus et honor della processione delle Palme; ecc. Costoro appartengono al primo periodo di quel rinascimento, ai poeti più o meno di corte. In un secondo tempo, troviamo il meglio della poesia cristiana medievale nella scuola di S. Gallo: nella quale prevalse ora una tradizione classica e obbediente alla metrica (Ratpert, Hartmann, Notker physicus, ecc.), ora una corrente del tutto nuova e rinnovatrice: quella dei creatori di "sequenze" e "tropi". A capo di essa sta Notker balbulus (morto nel 912). L'innovazione doveva schiudere le porte a una flori-lissima produzione liturgica. L'Ave maris stella, di anonimo, si fa risalire dai più a questo periodo.
Ma all'infuori di questi gruppi, l'innografia fu coltivata un poco dappertutto; ed è difficile incontrarsi in scrittori medievali che non fossero, come per necessità, innologi. La composizione d'inni entrava nella formazione culturale di ciascuno. Per ciò stesso diviene illimitato il campo, e non è il caso di far nomi in particolare: tanto più che la qualità non risponde che troppo di rado alla quantità. In Italia Pier Damiani e Alfano di Salerno ci lasciarono discreti inni; in Germania Hermannus Contractus di Reichenau ha avuto l'onore di due inni che son poi divenuti popolarissimi: Alma Redemptoris Mater e Salve Regina. Il borgognone Wipo, cappellano di corte di Corrado II ed Enrico III, è autore della sequenza pasquale Victimae paschali laudes. In tutto questo periodo, la caratteristica principale dell'innografia è l'amplissima libertà di ritmo e spesso la scorrettezza e povertà di lingua.
Nei secoli XII e XIII, con una maggiore ricchezza e purezza, fiorirono innografi grandissimi quali Pietro il Venerabile, S. Bernardo (a cui si attribuiscono ingiustamente tante poesie medievali, certamente non sue: tra queste, il famoso Jubilus); Pietro Abelardo, troppo ragionatore nelle sue poesie; e soprattutto, Adamo di S. Vittore, che forse rimane il più grande e vero poeta latino del Medioevo, maestro più insigne del ritmo sequenziale. A S. Tommaso d'Aquino spettano con certezza tutte le poesie contenute nell'ufficio del SS. Sacramento, tra cui il Pange lingua (il Tantum ergo ne rappresenta le ultime due strofe di chiusa) adoperato di continuo dalla devozione cattolica; il Lauda Sion, sequenza della messa (l'O salutaris hostia ne è il finale); il Sacris solemniis con la strofa Panis angelicus; e forse appartiene a lui anche l'Adoro te devote. Il Dies irae si ascrive a Tommaso da Celano, lo Stabat mater a Iacopone da Todi. Ma il numero degl'inni dal 1100 al 1400 diviene immenso e non è il caso di tentarne un cenno, anche perché mancano studî d'insieme, e forse è difficile pervenire a visioni d'insieme. In realtà è quasi sempre materiale tanto povero, quant'è innumerevole.
Gl'inni che via via entrarono nella liturgia, quando poi nel 1500 i libri liturgici subirono una revisione, non andarono esenti da riforma: quelli che oggi abbiamo, sono una rimanipolazione metrica dei veri e autentici inni, salvo rarissime eccezioni. Nelle ufficiature nuove, introdotte di recente nella liturgia, gl'inni sono moderni, di stampo accademico e quasi tutti scarsi di valore poetico. Fra i più noti innologi va ricordato il francese J.-B. Santeuil.
Bibl.: Buoni, come repertori, U. Chevalier, Repertorium hymnologicum, Lovanio 1892-1894 (ma cfr. C. Blume, Repertorium Repertorii, Lipsia 1901) e J. Julian, Dictionary of hymnology, Londra 1907. Come raccolta di testi, dopo quelle di H. A. Daniel, Thesaurus hymnologicus, Halle e Lipsia 1841-56; di F. J. Mone, Lateinische Hymnen d. Mittelalters, Friburgo 1853-5; inoltre la raccolta monumentale che tutte le riassume di G. M. Dreves e C. Blume, Analecta Hymnica Medii Aevi, Lipsia 1886 ss. Da vedersi, la serie Poetae latini medii aevi nei Monumenta Germaniae Historica, Berlino 1880-1899. Gli studî sono innumerevoli; comunque il meglio della bibliografia va ricercata in quella dei singoli autori, nelle storie letterarie del periodo classico e medievale. Una veduta d'insieme, sicura, è in M. Manitius, Geschichte der christlich-latein. Poesie, Stoccarda 1891; e per i problemi della ritmica, cfr. W. Meyer (aus. Speier), Gesammelte Abhandlungen zur mittellateinischen Rythmik, Berlino 1905.
Inni patriottici e nazionali.
Distinti dagl'inni religiosi, ma aventi in comune con essi la esaltazione di un'entità superiore ai singoli, sono i canti e le musiche a carattere patriottico, sorti in genere nei periodi storici in cui le nazioni presero coscienza di sé medesime (i primi veri inni nazionali sono del secolo XVIII), e talora prescelti, come specialmente rappresentativi di questo o quel paese, a costituirne i segni musicoverbali caratteristici e simbolici ("ufficiali"), così come le bandiere e gli stemmi ne sono le particolari indicazioni figurative.
Troppo lungo sarebbe anche semplicemente menzionare i nomi di questi inni, molti dei quali, del resto, sono ancor oggi presenti nel pensiero collettivo. La Carmagnole, il Ça ira, la Marseillaise della Rivoluzione francese; Die Wacht am Rhein dei Tedeschi (guerra del 1870-71), la Brabançonne dei Belgi (rivoluzione del 1830), la Marcia di Rákóczy degli Ungheresi (guerre di Francesco II Rákóczy), per ricordarne solo alcuni, appartengono tutti a periodi di fervore patriottico, di grandi commovimenti politico-sociali. Particolare significato hanno per l'Italia gl'inni del Risorgimento: tra cui celeberrimi l'Inno di Mameli (1847, musica di M. Novaro) e l'Inno di Garibaldi (1860, parole di L. Mercantini, musica di A. Olivieri). L'impresa libica italiana diede lo spunto all'Inno a Tripoli, la guerra mondiale a una serie di canti, uno specialmente dei quali, La canzone del Piave, è divenuto inno patriottico. La rivoluzione fascista trovò il proprio inno in Giovinezza, divenuto ufficiale della nazione italiana insieme alla Marcia reale.
Inni nazionali riconosciuti dei principali stati, a tutto il 1932: Argentina: "Oid mortales el grito sagrado libertad" (1813); Austria: "Sei gesegnet ohne Ende, Heimaterde wunderhold" (dal 1930, musica di J. Haydn); Belgio: "La Brabançonne" (1830); Brasile: "Ouviram do Ypiranga as margens placidas (1831)"; Bulgaria: "Šumi Marica okrvavena" (1883); Cecoslovacchia: "Kde domov mu̇j?" (1834); Danimarca: "Kong Christian stod ved højen Mast" (1778); Francia: "La Marseillaise" (1792); Germania: "Deutschland, Deutschland über Alles" (1841, musica di Haydn); Giappone: "Kimi-ga-yo" (1880); Gran Bretagna: "God save the King" (1743) e "Rule Britannia" (1740); Grecia: "Σὲ γνωρίζ'ἀπὸ τὴν κόψι"; Irlanda: "The Soldier's Song"; Italia: "Marcia Reale" (1834, musica di G. Gabetti) e "Giovinezza" (musica di G. Blanc); Iugoslavia: "Bože pravde" (1872); Lituania: "Lietuva, tēvyne mūsu"; Norvegia: "Ja, vi elsker dette landet" (1865); Olanda: "Wilhelmus van Nassouwe ben ick van dietschen bloet" (1570); Polonia: "Jeszcze Polska nie zginęła" (1797); Portogallo: "A Portugueza" (1910); Romania: "Traiasca Regele în pace Şi onor" (1862); Svezia: "Du gamla, du fria, du fjällhöga Nord"; Svizzera: "Rufst du, mein Vaterland" - "O monts indépendants" - "Ci chiami, o patria" (1743, musica Come "God save the King"); Turchia: "Korkma! sönmez bu çafaklarda yuzen al sancak" (1921); Ungheria: "Isten áldd még a magyart jó kedvvel, bőséggel", marcia nazionale; "Rákóczy nemzete hallod a kürt szavát?"; URSS: "Internazionale" (1871).