Gentillet, Innocent
Nacque intorno al 1532 nel Dauphiné, forse a Vienne. Si formò come giurista e fu un esponente del fronte ugonotto durante le guerre civili francesi. Dopo la strage di san Bartolomeo (24 agosto 1572) si rifugiò a Ginevra, dove compose forse una Remonstrance contro il nuovo re Enrico III e la regina madre Caterina de’ Medici apparsa anonima nel 1574. In quel testo si annunciava la stesura di uno scritto più ampio contro M., definito «ateista» e ignorante di storia, e contro i suoi seguaci «machiavellisti»: i forestieri italiani padroni della corte colpevoli di ispirare le trame che turbavano la Francia. Inoltre G. si mostrò attento alle mosse di François, duca d’Alençon e poi d’Anjou, fratello del re, il quale tentò di tessere un accordo tra i cattolici politiques e gli ugonotti per arginare il partito devoto a Roma, pubblicando anonima una Brieve remonstrance a la noblesse de France sur le faict de la declaration de monseigneur le duc d’Alençon in cui confluì il testo precedente (1576). Sempre nel 1576 apparvero anonimi i Discours contro M., che avevano avuto il permesso di stampa dalle autorità ginevrine (e da Théodore de Bèze, successore di Giovanni Calvino) il 21 ottobre 1575.
Dato il veemente tono anti-italiano del testo, la comunità degli esuli religionis causa della penisola, guidata dal ministro Niccolò Balbani, reagì con durezza, protestando davanti al Consiglio di Ginevra e costringendo G. a stampare una Declaration de l’auteur des Discours contre Machiavel pour satisfaire aux plantifs d’aucuns Italiens (poi inclusa in alcune edizioni dei Discours); tuttavia quelle pagine esacerbarono gli animi. Infatti, lungi dall’essere una palinodia, il testo (ora in Stewart 1969, pp. 146-50) ribadì che gli italiani avevano appreso da M. i principi politici che rovinavano la Francia; e puntualizzò che a parlare male degli italiani erano anzitutto gli storici della penisola. Affetti dal morbo papista, gli italiani, secondo l’autore, rischiavano di finire come i greci, prima decaduti e poi soggiogati dai turchi per volere di Dio. Fu tale la rabbia che il testo suscitò negli esuli italiani (tra cui figurava Pietro Perna, l’editore di M.) che uno di loro, Francesco Lamberti, bastonò G. per punire la sua insultante italofobia.
Dopo avere pubblicato e dedicato a Enrico di Navarra l’Apologie, ou défense pour les chréstiens de France, qui sont de la religion évangélique (Ginevra 1578; poi accresciuta nel 1588 e tradotta in latino), G. tornò in Francia, venne nominato presidente della Chambre tripartie di Grenoble e si mise al servizio del duca François de Lesdiguières, capo degli ugonotti del Dauphiné, partecipando alla lotta politica e agli scontri interni all’Assemblea degli Stati della terra natale. Nell’estate del 1579 incontrò Caterina, irritata dal contegno degli ugonotti, che lo nominò in due epistole indirizzate al re quale ispiratore delle richieste dei protestanti; e mantenne solidi rapporti con Ginevra, dove nel 1585 stampò la seconda edizione dei Discours (questa volta con il proprio nome sul frontespizio) e dove andò in esilio di nuovo nel 1586, l’anno in cui pubblicò il Bureau du Concile de Trente dedicato a Enrico di Navarra (ebbe due edizioni in francese e una in latino). Con ogni probabilità, per effetto della fine della tregua religiosa e della nuova guerra, non mise più piede in Francia e morì a Ginevra nel 1588.
I Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un royaume ou autre principauté […] contre Nicolas Machiavel Florentin, più noti come l’Anti-Machiavel, sono un testo capitale nella storia della formazione degli stereotipi del machiavellismo e dell’antimachiavellismo. Opera polemica divisa in tre parti e in cinquanta capitoli, il libro estrapola alcune ‘massime’ dal Principe e dai Discorsi (letti rispettivamente nelle traduzioni francesi di Gaspard d’Auvergne e Jacques Gohory, riunite nell’edizione di Hierosme de Marnef e Guillaume Cavellat, Parigi 1571) e offre una sintesi del pensiero di M. accompagnata da confutazioni puntigliose e da dure invettive contro la malvagità, l’empietà e la pericolosità del Segretario fiorentino. Scritti in un preciso contesto – la Francia delle lotte civili – i Discours segnarono una discontinuità nei confronti dell’ammirazione diffusa per M. e documentata fino ad allora oltralpe (François de la Noue dichiarò di avere smesso di apprezzarlo proprio dopo avere letto G.). Ebbero grande fortuna nell’Europa delle guerre di religione, conoscendo molte edizioni e traduzioni, ben ventiquattro fino al 1655: dieci in francese (dal 1576 in poi), otto in latino (dal 1577 in poi), tre in tedesco (1580, 1624, 1646), due in inglese (1602, 1608) e una in fiammingo (1637). Delle traduzioni tuttavia solo l’ultima dipese dalla seconda edizione, che apparve a Losanna nel 1585 per i tipi di Jean Chiquelle ed ebbe due ristampe nel 1609 e nel 1620. Per rispondere alle accuse di parzialità che gli erano state mosse, G. accrebbe il testo con l’aggiunta di ventitré confutazioni di passi tratti dall’Arte della guerra (tradotta da Jean Charrier, 1546) e dalle Istorie fiorentine (tradotte da Yves de Brinon, 1577). Fu comunque la prima versione a imporsi alla lettura di estimatori e detrattori.
Le cinquanta confutazioni di M. sono divise in tre parti: la prima riunisce gli insegnamenti «du Conseil» (3 massime), la seconda «de la Religion» (10 massime) e la terza, la più corposa, «de la Police» (37 massime). L’opera si apre con una lettera a d’Alençon, datata 1° marzo 1576, in cui si esplicita il senso dell’intrapresa: senza mai nominare Caterina, G. scrive infatti di avere percorso l’opera di M. ritenendolo il maestro di quella forma di tirannia che affliggeva la Francia da oltre quindici anni per colpa dei forestieri che dominavano il Paese. M. aveva insegnato loro a simulare la pietà, a comportarsi crudelmente, a darsi ai vizi, a impadronirsi del potere, sovvertendo così il governo temperato e morale durato fino all’ascesa di Carlo IX. La préface è ancora più esplicita: la Francia è governata «à la Florentine», dai compatrioti e dalla dottrina di M., i cui scritti sono «l’Alcoran des Courtisans» e sono «rempli de toute meschanceté, impieté & ignorance» (Discours contre Machiavel, ed. A. D’Andrea, P.D. Stewart, 1974, pp. 9-21). Lungi dall’essere un fine lettore di storia, M. – che secondo G. fu cacciato dalla sua città – era un uomo vizioso e di scarsa esperienza, poiché non poteva ritenersi grande politica quella dei tirannelli italiani intenti a farsi la guerra tra di loro, specie se rapportata al governo di un Paese vasto e nobile come la Francia. Scopo degli italiani, protetti dalla regina fiorentina, era di sostituirsi ai nobili e di sterminare con l’inganno e il pretesto della fede quanti si opponevano agli abusi di una corte di stranieri. Del resto, puntualizza l’autore aprendo la terza parte, M. aveva disegnato quel tiranno «en exercice» tratteggiato già da Bartolo da Sassoferrato (pp. 215-16).
I Discours erano anche una risposta al clima esaltato creatosi dopo la notte di san Bartolomeo, quando un segretario papale, Camillo Capilupi, poté tessere le lodi della presunta astuzia che aveva portato allo spegnimento dei calvinisti nello Stratagemma di Carlo IX re di Francia contro gli ugonotti rebelli (Roma 1574), ripubblicato in francese come monito per i riformati da quel Jacob Stoer che avrebbe curato sempre a Ginevra la stampa latina di G. (1577). L’equazione italianità-intrigo fu favorita da scritti come questo, che aizzarono in tutta Europa l’odio nei riguardi degli infidi ‘forestieri’ e di Caterina, nonché dalla polemica dell’internazionale calvinista contro l’irreligiosità degli italiani, papisti e machiavellisti, di cui è testimonianza il Reveille-matin des françois (1573), che prima di G. aveva polemizzato con la regina, con M. e con le sue ‘massime’ (occorre tenere presente anche la Franco-Gallia di François Hotman, del 1573). E tuttavia, lungi dall’essere una rozza opera di manipolazione, come ha rilevato Sydney Anglo, i Discours fornirono un’efficace lettura di M., che, se da un lato forzava le pagine del Segretario fiorentino fino a ridurle a una lunga sequela di aforismi, occultando la passione repubblicana dell’autore, dall’altro offriva una chiave interpretativa parziale e ideologica, ma comunque vivace, fortunata e non priva di ancoraggio nei testi, che G. lesse con cura.
Certo, laddove in M. si legge, per esempio, «quanto sia pericoloso credere agli sbanditi» (Discorsi II xxxi), in G. si trova «Le Prince ne se doit fier aux estranger» (Discours I 3); ma la confutazione di alcuni passi era destinata a imprimersi nelle menti di quanti in Europa si opponevano ai cattolici e al tentativo di cancellare nel sangue antiche libertà e nuove forme di religione. Si prenda, per esempio, la massima 21 della terza parte, un esteso commento a Principe xviii e alle pagine in cui si parla della natura umana e ferina della politica, auspicando per il principe-centauro (che deve sapere agire «contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione») l’uso delle arti volpine e leonine. Il principe prudente non può né deve mai «osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere». Agli occhi di G. parole come queste mostravano che M. insegnava a violare i patti e le promesse giurate, suggerendo quella finzione di pietà impiegata già da Ferdinando il Cattolico. Rispettare gli accordi era tuttavia una virtù degli antichi Romani e dei francesi di ogni tempo, premiati per questo con le vittorie militari; mentre al contrario il massacro di Vassy (1562) aveva fatto sorgere «une guerre civile qui a tant duré». Trasgredire la promessa di pace fatta a Saint-Germain, insomma, aveva attirato sciagure perché aveva spinto molti a imbracciare le armi contro il loro sovrano (Discours contre Machiavel, cit., pp. 390-91).
I Discours intervenivano nella lotta politica francese offrendo ai lettori ‘massime’ significative di M. forzate in senso dispotico: come, per esempio, che il principe deve costruire fortezze nel suo stesso regno per tenere i sudditi in obbedienza (III 33, con riferimento a Principe xx e Discorsi II xxiv); o che per mantenersi deve suscitare le divisioni e le parzialità e sterminare gli oppositori (III 15 e III 30-31, con riferimento a Principe xx e a Discorsi I iv, II ii e III iii). Per l’autore inoltre la dottrina di M., come un corpo estraneo, aveva stravolto la costituzione antica della Francia, con lo scopo di ridurre il potere dei parlamenti e della nobiltà e di arricchire i forestieri con la venalità delle cariche. La nobiltà era forza di contenimento della monarchia mista, temperava l’arbitrio dei re, e M. insegnava ai tiranni come abbassare i grandi fino a impoverirli, enervarli e rovinarli (III 36 e 37, con riferimento a Principe xix e a Discorsi I iv e III i).
Anche le dieci massime riguardanti la religione riunite nella seconda parte contribuirono a fissare la lettura di M. quale epicureo maestro dell’impostura e del ‘veleno’ ateistico (con riferimento a Principe xviii e a Discorsi I xi-xiv e II v). In sintonia con polemisti cattolici come Jerónimo Osório, G. contestò a M. il modo in cui aveva descritto la figura di Mosè, obiettandogli che non si poteva asserire che l’etica cristiana fosse contraria alla virtù militare (II 3, con riferimento a Discorsi II ii); né che la predicazione del Vangelo avesse avviato il declino dell’impero romano; né, ancora, che la religione di Numa fosse superiore a quella di Cristo (II 9). Più complessa l’analisi della massima II 6, nella quale si riferisce la tesi secondo cui la Chiesa di Roma aveva rovinato l’Italia rendendola divisa e priva di religione: l’autore usò quel passo per denunciare ancora una volta la scelleratezza degli italiani (asserita dallo stesso M.) e la sorte alla quale rischiava di andare incontro la Francia a causa del papato e dei suoi emissari fiorentini.
Dopo la morte di Caterina, la seconda edizione (1585) attenuò gli attacchi rivolti agli italiani, resisi inattuali in un contesto in cui gli stranieri più temuti in Francia erano diventati i sudditi di Filippo II; ed estese il commento a ventitré passi dell’Arte della guerra, che G. confutò minuziosamente, e delle Istorie, giudicate la migliore opera di M. (la tavola delle aggiunte in Anglo 2005, pp. 431-33).
L’Anti-Machiavel ebbe un impatto notevole sia nel mondo protestante sia in quello cattolico, coalizzati contro l’empietà del Segretario fiorentino smascherata da Gentillet. Ma il suo anti-italianismo meritò una risposta quasi immediata nella Difesa della città di Firenze e dei fiorentini. Contra le calunnie e le maldicentie de’ maligni stilata da Fabio Mini nel 1577, che liquidò l’equazione tra ateismo e cultura fiorentina. Inoltre G. attirò l’attenzione della curia romana che il 14 marzo 1579 pose gli anonimi Discours nella lista dei libri proibiti, traendone tuttavia la spinta decisiva per sbarrare la strada a ogni ipotesi di emendazione delle pagine di M. (più tardi, nell’Indice del 1596, fu vietata tutta l’opera del giurista ugonotto). Il 21 ottobre 1579 la Congregazione dell’Indice decise così che l’opera di M. era omnino reprobanda, ita ut de coetero nullus audeat illa expurgare («da riprovare del tutto, cosicché peraltro nessuno debba osarne la correzione», cit. in Godman 1998, pp. 323-24). D’altra parte le opere di polemica anti-machiavelliana stilate da autori cattolici negli anni della revisione dell’Indice tridentino e del conflitto curiale sull’atteggiamento da tenere nei riguardi del nuovo re Enrico di Navarra, scomunicato come ex capo dei calvinisti, ripresero talvolta G. senza una conoscenza diretta del Segretario fiorentino. È il caso di un testo che, stilato forse da Giovanni Battista Strozzi, fu stampato con il nome del gesuita Antonio Possevino in una silloge di confutazioni di malvagi autori schierati in un temuto fronte politique: il Iudicium de Nuae militis Galli scriptis, quae ille Discursus politicos, & militares inscripsit. De Ioannis Bodini Methodo historiae: Libris de repub. & Daemonomania. De Philippi Mornaei libro de perfectione Christiana. De Nicolao Machiauello (1592), poi confluito nella Bibliotheca Selecta (1593). Riprendendo le parole di Minuccio Minucci, che gli aveva scritto in proposito nel 1588, Possevino definì l’autore anonimo dell’Anti-Machiavel non meno empio di M.; ma dimostrò di dipenderne commettendo il grossolano errore di pensare che il Principe fosse diviso in tre parti, così come la confutazione di Gentillet.
L’eco dei Discours fu forte anche in Germania (come mostra l’epistola che apre l’edizione del Principe curata da Hermann Conring nel 1660) e soprattutto in Inghilterra. Del resto la versione latina di Lambert Daneau stampata a Ginevra nel 1577 era indirizzata a Francis Hastings e a Edward Bacon per avvisarli del rischio che la società elisabettiana sprofondasse nelle stesse guerre intestine che insanguinavano la Francia per le massime del satanico maestro di Caterina. Non a caso qualche anno dopo Christopher Marlowe aprirà The Jew of Malta (1589) evocando lo spirito sinistro di un «Machevill» che dopo aver oltrepassato le Alpi e soggiornato in Francia si apprestava ora alla conquista della terra britannica quale spettro del papismo, dell’empietà e della cultura italiana, diffusa grazie agli emigrati religionis causa e sempre più temuta dai puritani. E tuttavia, proprio in Inghilterra, G. fu definito sprezzantemente un «Momo» buono per allietare la lettura dei bottegai dall’anonimo estensore (Giacomo Castelvetro? Alberico Gentili?) del prologo all’edizione dei Discorsi uscita nel 1584 con un luogo di stampa e un editore fittizi per i tipi di John Wolfe. Contro l’immagine di M. quale maestro dei tiranni, il testo invogliava alla lettura del Segretario fiorentino e ne esaltava gli insegnamenti civili in polemica con i suoi detrattori e con i Discours.
Ma fu soprattutto nei Paesi Bassi e in Francia che G. fu letto, e bastano a dimostrarlo, se non gli scritti di Jean Bodin, di certo alcuni passi di Michel de Montaigne, l’opera di Étienne Pasquier (che pure lo ritenne un estremista), l’Histoire des histoires di Henri de La Popelinière (1599, che lamentò gli scarsi riconoscimenti attribuiti all’autore dei Discours) e le Vindiciae contra tyrannos di Stephanus Iunius Brutus (Philippe du Plessis Mornay?), uno scritto lontano dalle idee di G. (che non avrebbe mai giustificato la ribellione politica in sé), ma aperto da un prologo antimachiavelliano firmato da un Cono Superantius: pseudonimo che secondo alcuni critici coprirebbe l’identità di Gentillet. Più tardi la sua fortuna si confuse con quella più generale (e generica) degli stereotipi antimachiavelliani, anche se le pagine finali dei Discours poterono ispirare, ancora all’inizio del Settecento, posizioni nostalgiche come quella di Henri de Boulainvilliers. Nel Novecento Friedrich Meinecke ha individuato in G. l’esponente di un’attardata Francia delle rappresentanze cetuali che nel nome di M. aveva reagito contro l’ascesa delle ragioni dello Stato moderno.
Bibliografia: Anti-Machiavel. Édition de 1576, éd. C.E. Rathé, Genève 1968; Discours contre Machiavel, ed. A. D’Andrea, P.D. Stewart, Firenze 1974.
Per gli studi critici si vedano: F. Meinecke, Die Idee der Staatrason in der neueren Geschichte, München-Berlin 1924 (trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1970, pp. 51-56); M. D’Addio, Les six livres de la République e il pensiero cattolico del Cinquecento in una lettera del Monsignor Minuccio Minucci a Possevino, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, 1° vol., Firenze 1955, pp. 127-44; C.E. Rathé, Innocent Gentillet and the First Anti-Machiavel, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1965, 25, pp. 186-225; A. D’Andrea, The last years of Innocent Gentillet, ‘princeps adversariorum Machiavelli’, «Renaissance quarterly» 1967, 20, pp. 12-16; R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969, pp. 279-92; P.D. Stewart, Innocent Gentillet e la sua polemica antimachiavellica, Firenze 1969; A. D’Andrea, The political and ideological context of Innocent Gentillet’s Anti-Machiavel, «Renaissance quarterly», 1970, 23, pp. 397-411; S. Mastellone, Venalità e machiavellismo in Francia, Firenze 1972; M.P. Holt, The duke of Anjou and the politique struggle during the wars of religion, Cambridge 1986; M. Van Gelderen, The political thought of the Dutch revolt, Cambridge 1992; V. Kahn, Reading Machiavelli: Innocent Gentillet’s discourse on method, «Political theory», 1994, 22, pp. 539-60; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; A.M. Battista, Politica e morale nella Francia dell’età moderna, Genova 1998; P. Godman, From Poliziano to Machiavelli, Princeton 1998; J. Balsamo, ‘Les plus meschant d’entre eux ne voudroit pas estre Roy’. La Boétie et Machiavel, «Montaigne studies», 1999, 11, pp. 5-27; P. Carta, I fuorusciti italiani e l’antimachiavellismo francese del ’500, «Il pensiero politico», 2003, 36, pp. 213-38; H. Heller, Anti-Italianism in sixteenth-century France, Toronto 2003; H. Höpfl, Jesuit political thought, Cambridge 2004; S. Anglo, Machiavelli. The first century, Oxford-New York 2005; Della tirannia. Machiavelli con Bartolo, a cura di J. Barthas, Firenze 2007; V. Frajese, Machiavelli, Niccolò, e machiavellismo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, a cura di A. Prosperi, V. Lavenia, J. Tedeschi, Pisa 2010, ad vocem.