INNOCENZO III papa
Il pontificato d'I. III, non eccessivamente lungo per durata di tempo (1198-1216), segnò uno dei periodi di maggiore importanza per la storia del papato e della Chiesa, sia per la vastità dell'azione politica e religiosa svolta del grande pontefice sia per le conseguenze che ne derivarono.
Lotario, figlio di Trasmondo conte di Segni e della romana Claricia Scotti, nacque ad Anagni nel 1160, e apparteneva a quella potente famiglia dei Conti che, vigoreggiando in numerosi rami, andava allora gettando le basi della sua fortuna nella Campagna e nella Marittima. Come la maggior parte dei nobili romani destinati alla carriera ecclesiastica, egli andò ben presto a studiare teologia a Parigi, dove fu discepolo di Pietro di Corbeil, e diritto a Bologna. Tornato a Roma verso il 1185, creato suddiacono nel 1187, cardinale diacono del titolo dei Ss. Sergio e Bacco da Clemente III nel 1190, a soli 38 anni, l'8 gennaio 1198, veniva eletto pontefice all'unanimità, dopo il breve pontificato di Celestino III, il fondatore della potenza della casa rivale dei Conti: gli Orsini. Ma, più che a competizioni di famiglia, l'elezione d'I. era dovuta senza alcun dubbio alla fama, rapidamente conquistata, di uomo di dottrina, di giurista acutissimo, di chierico fervido di zelo religioso e d'austerissima vita.
Le condizioni dell'Europa e della Chiesa e gl'ideali d'Innocenzo III. - Il compito che attendeva il nuovo pontefice era quanto mai arduo. La morte di Enrico VI, contro cui Celestino III aveva scagliato la scomunica, veniva a sopire per poco la grande contesa tra papato e impero, ma essa incombeva sempre come un peso morto sull'azione politica del papato, con tutte le tragiche conseguenze che la lotta importava, con la precarietà dei suoi stessi successi, con l'incertezza della sua definitiva soluzione, con l'immensa responsabilità morale, di fronte al mondo cristiano che ogni atto di ostilità tra i due grandi poteri implicava. Nello stesso tempo e spesso indipendentemente dalla competizione per la monarchia universale, i re dei principali stati europei, che il Barbarossa aveva chiamati alteramente reges provinciarum, andavano svolgendo una fortunata attività per assodare il loro potere contro l'universalismo della monarchia teocratica, cercando di sottrarre i loro stati e il loro potere all'influenza di Roma, sostenendo il diritto d'intervenire nelle elezioni ecclesiastiche, d'imporre tributi al clero, di sottoporre sempre, nei loro regni, gl'interessi di Roma alle esigenze della loro politica. E mentre i sovrani intaccavano il principio stesso dell'autorità politica del papato, la nobiltà laica e i comuni moltiplicavano i loro attentati alla proprietà ecclesiastica che andava sempre più frantumandosi sotto l'attacco di tante e così diverse forze. A questo stato di disordine e a queste condizioni di lotta permanente che la Chiesa doveva sostenere contro il laicato, corrispondeva una grave crisi interiore, crisi di carattere essenzialmente morale e disciplinare, non ancora interamente superata, dopo la grande vittoria del papato sull'impero alla fine del sec. XI; mentre l'eresia fermentava dovunque, manifestandosi rigogliosa spesso ai margini stessi dell'attività spirituale della Chiesa, nelle sue caratteristiche forme di lotta contro il clero indegno e di aspirazione ai primitivi ideali evangelici che sembravano riassumersi nell'esaltazione della povertà. E il pauperismo non era solo la condanna del temporalismo della Chiesa, ma spesso si accompagnava con la rivolta sociale di strati inferiori contro i superiori e col risvegliarsi dello spirito laico e del senso critico contro il chiericato e l'eccessivo dogmatismo della chiesa medievale.
I. assunse il governo della Chiesa col preciso proposito di affermare l'autorità del vicario di Cristo quanto più largamente gli fosse possibile al fine di diffondere il bene, la pace, la giustizia; di condurre sempre più alacremente la battaglia per la riforma della Chiesa e per abbattere l'eresia di far convergere tutti gli sforzi della cristianità pacificata verso la crociata. E questi scopi, essenzialmente religiosi, costituirono senza alcun dubbio i moventi profondi di tutta la sua azione politica, volta a esaltare il potere del papato inteso però non tanto come fine a sé stesso - come poi forse avvenne con Bonifacio VIII - quanto come mezzo per attuare il principio stesso che è alla base della concezione cristiana del Medioevo: la subordinazione degl'interessi della città del secolo a quelli della città di Dio, concezione che, volta dal papato a un intento politico e riferita alle relazioni tra Stato e Chiesa, faceva del rapporto d'incompatibilità istituito tra le due civitates da S. Agostino, la piattaforma teorica della teocrazia pontificia.
Ma alla forza d'ideale e di fede che era al centro del suo spirito e alla base della sua opera, I. univa il senso della realtà e le doti pratiche del politico più consumato: conoscenza profonda di uomini e cose, dominio di sé di fronte agli eventi più disastrosi, intuito pronto nel cogliere le opportunità, finezza diplomatica, costanza spinta fino alla caparbietà, attività indefessa, un senso di giustizia che può dirsi romano. E il legame intimo che univa in lui lo scolaro di Parigi e di Bologna all'uomo d'azione consisteva essenzialmente in quella concezione tipicamente cattolica, col suo dualismo stridente di aspirazione all'eterno e al divino e di partecipazione attiva al contingente e all'umano, alla quale accenna più volte nelle sue lettere, per cui la Provvidenza stessa attua nella realtà della storia i suoi piani e i suoi disegni, e quindi occorre trar partito dall'insegnamento degli avvenimenti, che bisogna interpretare e seguire alla luce dei voleri di Dio, per collaborare a che questi possano avverarsi.
Il trionfo della teocrazia. - La più grave questione che si presentò a I. non appena salito alla cattedra dei pontefici era la successione al trono di Germania lasciato vacante per l'improvvisa morte di Enrico VI (v.; 20 settembre 1197). La questione era complicata con quella del regno di Sicilia, dove era rimasto, sotto la tutela della madre Costanza, il piccolo Federico, e con la lotta, già in atto dai tempi del Barbarossa, tra gli Svevi e il papato. Tra i due competitori eletti in Germania, Filippo di Svevia (v.) da una parte (marzo 1198) e il guelfo Ottone di Brunswick (v.) dall'altra (giugno 1198), I. rimase quasi tre anni incerto senza pronunciarsi, sia per il vantaggio evidente che veniva al papato, arbitro della contesa, dallo scisma imperiale, sia per cogliere nello sviluppo degli avvenimenti i segni che gli dessero modo di scegliere tra i due candidati, guardando esclusivamente al bene della Chiesa. Finalmente nel marzo del 1201, con una curiosa dichiarazione in cui si esaminano oggettivamente gli argomenti di diritto, di opportunità e di convenienza per la Chiesa a favore e contro i tre candidati, il piccolo Federico, Filippo di Svevia e Ottone, egli si pronunciò per quest'ultimo che, oltre ad aver ottenuto varî successi sull'avversario, si era impegnato ad abbandonare, a favore del papato, i diritti dell'Impero in Italia. Ma i successi politici e militari conseguiti in un secondo momento da Filippo di Svevia, le sue proposte conciliative, la posizione sempre più precaria di Ottone, anche per la temibile ostilità di Filippo Augusto, portarono ben presto il pontefice ad avvicinarsi allo Svevo, e già si erano gettate le basi di un accordo, suggellato anche da una promessa di matrimonio tra Beatrice, figlia di Filippo, e il nipote del papa, Lotario, che avrebbe avuto i beni matildini come feudo dell'Impero, quando l'improvvisa uccisione di Filippo (1208) capovolse ancora una volta la situazione: Ottone fu riconosciuto ed eletto re di Germania anche dagli antichi partigiani degli Svevi ed I. lo coronò imperatore (4 ottobre 1209) dopo che, nel diploma di Spira (marzo 1209), egli ebbe riconfermato le antiche promesse, impegnandosi a rinunciare a qualsiasi ingerenza nelle elezioni ecclesiastiche. Ma la lotta tra papato e impero non poteva conchiudersi con un accordo. Un anno dopo, infatti, I. si vedeva costretto a lanciare la scomunica contro Ottone (18 novembre 1210) che, ad onta alle sue promesse, aveva rivendicato i diritti dell'impero sul regno di Sicilia, avanzando in armi nella Campania. Contro Ottone, deposto dall'impero, I. proclamò allora la candidatura del piccolo Federico (v. federico 11, imperatore), malgrado il pericolo, sempre deprecato dai pontefici, di un'unione del regno di Sicilia con l'Impero: il pontefice non aveva nel momento altra possibilità di scelta e d'altronde fidava nella devozione del giovinetto re che aveva promesso di rinunciare alla corona di Sicilia in favore di suo figlio Enrico, e sin dall'inizio della sua attività politica si era mostrato così condiscendente verso la Chiesa, da essere designato dall'avversario col titolo dispregiativo di "re dei preti". Federico fu coronato re a Francoforte il 5 dicembre 1212 e la battaglia di Bouvines (luglio 1214), abbattendo definitivamente Ottone, segnò il completo trionfo di Federico e d'I., che, almeno fino ad allora, era apparso come l'arbitro dell'elezione imperiale e aveva mostrato al mondo quanto fosse duro e pericoloso opporsi alla volontà della Chiesa.
Contemporaneamente alla lotta con l'impero, I. aveva dovuto condurre le fila d'una vastissima azione politica volta ad affermare in Sicilia la signoria feudale della S. Sede, in Roma e nell'Italia centrale il dominio effettivo del papato, nei principali stati d'Europa l'autorità del vicario di Cristo come suprema potestà spirituale e terrena, custode della morale e del diritto, arbitro del destino dei re e dei popoli: azione complessa, coronata da innegabili, se pure effimeri, successi, perseguita con instancabile attività.
In Sicilia, Costanza (v.) aveva, prima di morire, riconosciuto il regno come feudo della Chiesa ed aveva affidato Federico alla tutela del pontefice, ed I., col duplice titolo di signore e di tutore, volse l'opera sua alla riconquista del regno conteso tra feudatarî tedeschi venuti con Enrico VI, come Marcualdo d'Anweiler e Duitpoldo di Vohburg, e rappresentanti della nobiltà legata ai Normanni, come l'infido cancelliere Gualtieri di Palear. Dopo tempestose vicende durante le quali I. dovette far fronte anche alla coalizione di Marcualdo e Gualtieri uniti contro il legato pontificio e fu costretto a valersi dell'ambizione di Gualtieri di Brienne, imparentato con gli ultimi Normanni, finalmente nel 1208, morti Marcualdo d'Anweiler e Gualtieri di Brienne, e divenuto Federico II maggiorenne, poté vedere effettivamente riconosciuto il diritto della Chiesa sul Regno.
A Roma, I., con un'abile politica a volta conciliativa a volta intransigente, favorendo specialmente la borghesia dei mercanti, legata da vitali interessi alla S. Sede, e facendo leva sulla potenza della sua famiglia - il fratello del pontefice, Riccardo, venuto in possesso dei beni dei Poli, aveva eretto la famosa Torre dei Conti, che ancora oggi domina nella regione del Foro - dopo varî accordi col popolo, era riuscito a farsi arbitro della nomina del senatore, abbattendo a suo favore quella sovranità del comune romano che nella recente rivoluzione di Arnaldo da Brescia aveva fondato la sua più gloriosa tradizione. È vero che la rivolta popolare, eccitata da Giovanni Capocci, contese al pontefice il potere che egli pretendeva esercitare sul comune e lo costrinse nel 1203 a fuggire da Roma rifugiandosi a Palestrina, ma nel 1205, con la nomina del senatore Rodolfo della Suburra, I. riuscì ad imporsi. Intanto, costituitasi, sotto il suo impulso, la lega toscana e sconfitto Marcualdo, anche la Marca d'Ancona, il ducato di Spoleto, la contea d'Assisi ritornarono in potere della Chiesa che, intorno al 1208, aveva così saldamente rassodato la sua potenza in gran parte dell'Italia centrale e meridionale.
Anche fuori d'Italia I. cercò di affermare la sua autorità e il prestigio della Chiesa, dovendo lottare spesso con la resistenza accanita dei sovrani che non sempre si adattavano a subire la ferrea volontà del pontefice. In Francia, fin dal 1193 si trascinava la scottante questione del divorzio del re con la danese Ingeborga. I. lanciò l'interdetto sulla Francia per piegare Filippo Augusto a riprendere la moglie ripudiata, e questi cedette, almeno in apparenza, ottenendo il ritiro dell'interdetto e persino il riconoscimento dei figli avuti dalla moglie illegittima, Agnese di Merania. Ma in realtà di fronte a Filippo Augusto che non ostante le dimostrazioni di ossequio per la chiesa non si peritava di esprimere spesso, in termini crudi e senza ambagi, il contrasto dei suoi interessi di re con quelli del papato, I. doveva accontentarsi di una pura affermazione di principio.
Contro Giovanni Senzaterra, invece, anche per l'aiuto di Filippo Augusto, I. riportò un grande successo nella questione dell'elezione dell'arcivescovo di Canterbury, che il pontefice fece a Roma nella persona di Stefano Langton. Scoppiata la lotta tra l'Inghilterra e la Chiesa, con la persecuzione da parte del re del clero ossequente a Roma, I. fu costretto a lanciare l'interdetto sul regno, poi a scomunicare il re, a sciogliere i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, infine a deporre Giovanni e a trasferire il suo regno ad un altro sovrano: solo la minaccia delle armi di Filippo Augusto, che si apprestava ad invadere l'Inghilterra in nome del pontefice, valse a piegare Giovanni che riconobbe il suo regno come feudo della Chiesa (1213). Filippo Augusto, costretto a lasciare la presa per l'improvviso mutarsi della politica del pontefice, cercava più tardi di prendersi la rivincita, lasciando partire contro l'Inglese, malgrado tutte le proteste papali, la spedizione guidata da suo figlio Luigi.
E come Giovanni Senzaterra, anche Pietro II d'Aragona aveva fatto, nel 1205, a Roma, atto di vassallaggio per il suo regno alla Chiesa, e Kalojan, re dei Bulgari, e Ottocaro di Boemia avevano domandato la loro corona al pontefice, e Alfonso IX di León si era piegato alle ingiunzioni d'I. di rimandare la moglie sposata contro i canoni, e Sancio I di Portogallo, dopo una lunga controversia, aveva ceduto dinanzi all'autorità della Chiesa. È vero che questo vassallaggio formale a Roma era spesso il modo migliore di sfruttare per i proprî interessi la grande autorità morale del papato, o per sottrarsi al proprio nemico vittorioso, o per legittimare un potere più o meno illegittimamente acquistato. È vero anche che l'opera d'I. si svolgeva in un momento in cui l'Impero stesso era quasi alla mercé del papato. In ogni modo, i successi ottenuti da I., se pur dovuti in parte al suo ascendente personale, sono un segno della grande influenza morale che la Roma dei papi ancora esercitava nel mondo. E appunto in rapporto a questi successi e durante l'aspra lotta condotta per conseguirli, I. venne formulando la più ampia e compiuta teoria del potere teocratico.
La concezione politico-religiosa d' Innocenzo III. - Egli aveva esordito come scrittore da cardinale, con una serie di trattati di teologia ascetica (De contemptu mundi, sive de miseria conditionis humanae; Mysteriorum legis et sacramenti Eucharistiae libri sex; De quadripartita specie nuptiarum) nei quali, se appare evidente l'esercitazione di scuola, non manca l'espressione di una profonda esperienza religiosa. Ma una volta strappato alla quiete della contemplazione e degli studî e lanciato nel violento turbine dell'azione, egli andò sistemando in una sintesi organica e definitiva quelle teorie del dominio universale del papato che, sulla base delle decretali pseudo-isidoriane e della falsa donazione di Costantino, era andata prendendo forma nel Dictatus papae di Gregorio VII e negli scrittori e nell'epistolografia pontificia dei secoli XI e XII da Benzone a Graziano, da Innocenzo II a Alessandro III.
I. portò alle ultime conclusioni quella teoria. Se l'anima è superiore al corpo, è giusto che la Chiesa, che presiede al governo delle anime, sia superiore all'Impero, che presiede al governo dei corpi. Inoltre il papa non è tanto il successore di Pietro, quanto il vicario di Cristo rex regum et dominus dominantium, e come tale rappresenta il più alto potere della terra nello spirito e nella materia. Egli unge i re e l'imperatore, mentre non può avvenire il contrario. Nella S. Scrittura Melchisedech, sacerdote e re nello stesso tempo, rappresenta la prefigurazione del supremo potere dei pontefici, mentre anche de iure, per la donazione di Costantino, spetta alla Chiesa l'Impero, che essa trasferì dai Greci ai Germani con la consacrazione di Carlomagno nell'800 (translatio imperii). E per chiarire meglio i rapporti che intercedono tra Pietro e Cesare, I. ricorre per primo ai simboli, che ebbero poi tanta fortuna, del sole (papato) e della luna (impero) e delle due spade, ambedue spettanti di diritto al pontefice che usa però solo la spirituale, mentre l'uso della spada temporale è concesso all'imperatore, come advocatus Ecclesiae. Ma se in teoria al pontefice è riservata di diritto solo l'ingerenza nelle questioni spirituali, in pratica l'influenza indiretta che egli dovrebbe esercitare nelle questioni temporali, attraverso l'autorità imperiale, si muta spesso in un intervento diretto con la norma, che I. enunciò per primo e di cui fece largo uso, che il pontefice, ratione et occasione peccati, cioè per quel supremo controllo su tutte le azioni umane rispetto alla morale e alla legge divina, che è nei suoi doveri, ha la potestà d'intervenire in ogni questione anche temporale.
Così, innestando la concezione dello stato feudale sulla base teologica del supremo potere del vicario di Cristo, I. veniva ad additare come ideale politico supremo quel sacerdotium regale, in cui il pontefice avrebbe rappresentato il vertice di una gerarchia di stati vassalli dipendenti direttamente o indirettamente, per mezzo dell'Impero, dalla Chiesa.
La crociata contro gl'infedeli e contro gli eretici. - Se I. aveva un così alto concetto della sua autorità e del suo potere, sentiva anche pienamente la grande responsabilità che quel potere importava in quanto il papato doveva tendere con tutte le sue forze alla realizzazione dei suoi più alti fini: la riconquista dei Luoghi santi, la difesa della purezza della fede contro gli assalti dell'eresia, la riforma morale e disciplinare della Chiesa. A questi tre scopi egli dedicò gran parte della sua attività sin dagl'inizî del suo pontificato. La crociata soprattutto gli fu sempre a cuore, forse anche perché essa portava con sé una più diretta ingerenza del papato nella vita politica dei singoli stati. Per essa scongiurò più volte i sovrani alla pace, per essa concesse loro decime e privilegi. Egli la bandì nel 1199, appena salito al trono pontificio, tornò a bandirla nel 1207, quando la conquista di Costantinopoli parve aver fatto definitivamente deviare dalla Terrasanta la quarta crociata; la fece di nuovo proclamare solennemente nel concilio del Laterano del 1215, per il 1° giugno 1217, e la morte lo colse mentre attendeva febbrilmente ai preparativi della grande impresa. Fin dal 1199, I. aveva cercato di preparare anche diplomaticamente il terreno alla crociata, ristabilendo dei rapporti, se non amichevoli, almeno cortesi, con l'imperatore d'Oriente, per ricostituire l'unità della Chiesa ed avere un aiuto contro gl'infedeli; svolgendo una politica di favore e di amicizia con i Bulgari; inviando legati in Siria per risolvere le gravi lotte tra signori feudali e vescovi che indebolivano sempre più i principati cristiani d'Oriente. E se pure tutta questa opera non portò a risultati concreti, rimane tuttavia come documento dell'interesse vivissimo col quale il pontefice guardava a tutte le questioni orientali, che si riducevano per lui essenzialmente a due: la riunione della Chiesa greca e la liberazione dei Luoghi santi.
Non è qui il luogo di rifare la storia della quarta crociata (v. crociate). Basterà ricordare che I., dopo aver veduto con immensa amarezza la grande spedizione cristiana fatta strumento dell'imperialismo veneto, e dopo aver lanciato la scomunica contro il doge Dandolo e tutti i crociati per la presa di Zara, dovette, suo malgrado, piegarsi agli eventi e togliere la scomunica persino al doge che non fece mai atto di esplicita sottomissione, ben conoscendo che senza i Veneziani l'impresa sarebbe completamente fallita, e sperando che alla fine la spedizione avrebbe potuto raggiungere i suoi obbiettivi. La presa di Costantinopoli e il costituirsi dell'Impero latino d'Oriente, dopo un primo moto di sorpresa, lo riempirono di gioia ed egli vide nel grande avvenimento la volontà di Dio: era la punizione che si abbatteva sui Greci per lo scisma, ed il mezzo per riunire finalmente la chiesa greca alla latina. Ma i massacri e i saccheggi fatti dai crociati gli strapparono veementi proteste, ed espresse il più vivo risentimento quando vide Balduino prendere la corona imperiale da un'assemblea di feudatarî, senza nemmeno consultare il pontefice, e le spoglie del bottino divise tra i Veneti e i crociati con un patto in cui la cattedra metropolitana di Costantinopoli veniva senz'altro infeudata a Venezia, senza neppur far menzione dei diritti di Roma. E se il suo senso di moderazione e di giustizia lo portò spesso a prendere le parti del clero greco perseguitato e a contrastare lo spirito di rapina dei crociati, I. s'illuse d'altronde di poter ricostituire l'unità della chiesa con la forza delle armi, latinizzando senz'altro il clero greco, o sostituendolo con la forza, se non si fosse piegato alla volontà degl'invasori. Illusioni, delusioni ed errori di valutazione che mostrano come al papato sfuggisse ormai l'effettivo dominio delle grandi forze politiche del mondo cristiano.
Come la quarta crociata, anche la crociata contro gli Albigesi (v.), scatenata dal pontefice, doveva poi svolgersi fuori dal suo controllo.
L'eresia si era costituita, nella ricca terra di Linguadoca e di Provenza, in un'organizzazione che irretiva tutta la vita della regione: gli stessi signori erano impotenti a contrastare la propaganda degli eretici; spesso anzi la favorivano in quanto essa attaccava vivacemente la proprietà ecclesiastica. L'estirpazione dell'eresia nella Francia meridionale era, così, divenuta uno dei più gravi fra i problemi, che la Chiesa non era riuscita fino allora a risolvere. I vescovi stessi, per i loro interessi di signori feudali, mostravano nella lotta contro gli eretici un' indifferenza che era in vivo contrasto con l'insistenza della S. Sede perché si adottassero severe misure repressive. I. dapprima tentò tutte le vie già tentate ed altre nuove ne esperimentò: legazioni, ingiunzioni ai signori perché ricercassero e punissero gli eretici, poteri speciali dati ai suoi inviati per inquisire sull'ortodossia dei fedeli, propaganda fatta da missionarî cattolici, utilizzando anche gli stessi eretici convertiti (pauperes catholici), contraddittorî pubblici con gli eretici; ma quando vide fallire tutti questi tentativi e lo stesso Pietro di Castelnau, legato pontificio, fu assassinato, egli scatenò contro gli Albigesi quella crociata che dava ai signori della Francia del nord il modo di acquistare in patria le indulgenze delle imprese d'oltremare, conquistando insieme le ricche terre del Mezzogiorno. Quando poi la crociata si macchiò di massacri e di violenze inaudite, e tra gli stessi crociati si scatenarono le cupidigie e la lotta per ripartirsi le spoglie del ricco bottino, I. cercò di far intendere la sua parola di moderazione e di giustizia, e di contrastare le mire di conquista di Simone di Montfort e l'ambizione dello stesso Arnoldo di Citeaux, prendendo quasi sotto la sua protezione Raimondo conte di Tolosa, spossessato con la violenza dei suoi dominî. Ma nel concilio del Laterano del 1215 dovette piegarsi al fatto compiuto e sanzionare l'opera dei crociati.
La riforma della Chiesa. - Non minore attività I. dedicò alla riforma della Chiesa, che egli concepì soprattutto come il rafforzarsi dell'autorità del papato su tutto l'orbe cattolico.
Egli affermò recisamente la supremazia del vescovo di Roma sulle pretese d'indipendenza del patriarca di Costantinopoli, difese strenuamente la libertà delle elezioni ecclesiastiche da ogni ingerenza laica, praticò largamente, nonostante resistenze locali spesso formidabili, il diritto da parte del pontefice a provvedere personalmente a tutte le cariche e a tutti gli uffici della Chiesa. I metropoliti e gli arcivescovi, eletti canonicamente dai loro suffraganei, dovettero piegarsi a richiedere il pallium a Roma per esercitare la loro autorità. Le esorbitanze del potere vescovile furono frenate, proteggendo i capitoli e appoggiando l'autorità dei metropoliti. Nei capitoli si favorì una larga immissione di clero regolare, più morale e più legato a Roma, contro il clero secolare.
In ogni sede Roma dispose dei benefici vacanti per inviarvi spesso chierici romani, che godevano la personale fiducia del papa. Tutto ciò, oltre al diritto d'appello a Roma sempre difeso da I., importava una serie interminabile di contese, di rivendicazioni, di giudizî: il papa stesso in Roma sedeva tutti i giorni come giudice per decidere inappellabilmente delle questioni di tutte le chiese del mondo, e mentre egli combatteva la venalità consuetudinaria dei funzionarî della curia, gettava le basi della centralizzazione amministrativa dei proventi finanziarî della Chiesa, che avrà poi il suo documento più significativo nel Liber censuum.
Il concilio ecumenico del 1215 coronò l'opera e segnò in certo modo il trionfo del grande pontefice. Con un concorso di arcivescovi, vescovi, abati, principi non mai prima visto, esso si svolse nella grande Basilica Lateranense sotto la presidenza d' I., e proclamò la decadenza dall'impero di Ottone IV e la candidatura di Federico II, sanzionò la vittoria dei crociati contro gli Albigesi, celebrò la riunione della chiesa greca, bandì la crociata, enunciò 75 canoni per la riforma della disciplina e dei costumi ecclesiastici. Tra questi importante quello che proibisce la costituzione di nuove regole religiose, perché mostra come I. se pure conobbe, apprezzò e incoraggiò l'opera di Domenico di Guzman e di S. Francesco d'Assisi, non approvò ufficialmente, come poi volle la leggenda, la costituzione dei nuovi ordini mendicanti. Ma poco dopo il concilio, I., mentre si volgeva tutto a organizzare la crociata, colto da malaria morì improvvisamente a soli 56 anni (16 luglio 1216).
Il valore dell'opera d'I. - Il grande pontefice si era logorato in un lavoro quotidiano immane. Oltre a occuparsi di tutta la politica europea, egli s'interessava anche di opere particolari, come la creazione dell'ospedale di S. Spirito in Sassia per raccogliere, oltre che gli infermi e i poveri, anche i neonati, abbandonati prima sulla riva del Tevere, e attendeva incessantemente a quella sua minuta e immensa corrispondenza con sovrani, principi, vescovi, chierici e semplici fedeli d'ogni parte del mondo, su dubbî di fede, questioni morali, teologiche, giuridiche, politiche, che ci rivela ancora oggi in tutta la sua evidenza la personalità ricca e complessa d'Innocenzo III. Ma i frutti della sua opera non furono quali almeno egli aveva sognato. La sua opera politica fu una grande costruzione minata alle basi: l'Impero e il Papato politico, insanabilmente nemici e insieme indissolubilmente legati alla stessa concezione, dovevano necessariamente cadere con essa, mentre Filippo Augusto, che a Bouvines aveva di fatto deciso della sorte dell'Impero, rappresentava già l'orientamento del nuovo spirito politico europeo.
Dentro l'ambito della concezione della monarchia universale, però, per il progressivo differenziamento dello spirito laico da quello ecclesiastico, si era venuta da una parte formando la coscienza e la dottrina dello stato laico, dall'altra l'organizzazione accentratrice monarchica della Chiesa. L'aver saputo dar forma concreta e duratura a questa organizzazione, l'aver rinsaldato la compagine morale e spirituale della Chiesa con la lotta contro l'eresia e la riforma dei costumi, l'aver tentato di risvegliare le grandi forze ideali latenti nella coscienza cristiana, sono appunto i meriti e i frutti dell'opera d' I. Circa un secolo dopo, infatti, con Bonifacio VIII, la concezione teocratica del papato politico cadrà miseramente, ma la Chiesa, almeno nella sua organizzazione disciplinare e amministrativa e per le nuove forze ideali espresse dal suo seno con gli ordini mendicanti, sarà essenzialmente quale I. aveva contribuito a formarla.
Opere d'I. III. - Le opere d' I., circa ottanta sermoni, una dozzina di opuscoli di argomento teologico morale, un commentario sui Salmi della penitenza (di dubbiosa attribuzione a I.) e infine l'immenso epistolario, sono edite nella Patrologia latina del Migne, t. CCXVII. Le lettere si trovano anche in regesti più o meno sommarî in A. Potthast, Regesta pontificum romanorum, Berlino 1874, t. 1; Böhmer-Ficker, Regesta Imperii, t. V; Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Federici II.
V. tav. LXXIX.
Fonti: Per le fonti della storia d' I., oltre alle lettere del pontefice, v. le vite di lui, in Patr. Lat., t. CCXIV, coll. 17-238; e Muratori, R. I. S., t. III, p. 480-486. Per le numerose fonti cronistiche, v. gli esatti riferimenti della Realencykl. für prot. Theol., t. IX, p. 112.
Bibl.: Una completa bibliografia, fino al 1908, su I, si trova nell'opera più importante scritta sul pontefice: A. Luchaire, Innocent III, voll. 6, Parigi 1904-1908, che hanno i seguenti sottotitoli: I. Rome et l'Italie, II. La croisade des Albigeois, III. La papauté et l'Empire, IV. La question d'Orient, V. Les royautés vassales du Saint-Siège, VI. Le concile du Latran et la réforme de l'Église. V. anche F. Hurter, Geschichte des Papstes Innocenz III. und seiner Zeitgenossen, voll. 4, Amburgo 1834-1842; e Brischor, Papst I. III. und seine Zeit, Friburgo 1883; W. Meyer, Staatstheorien Papst Innocenz III., Bonn 1820; I. Fiebach, Die Augustinischen Anschauungen Papst I. III. als Grundlage für die Beurteilung seiner Stellung zum deutschen Thronstreit (1198-1208) Diss., Greifswald 1914; I. Baethgen, Die Regentschaft Papst I. III. im Königreich Sizilien, Heidelberg 1913 (H. Abh. 44); A. Viscardi, Saggi sulla letteratura religiosa del Medioevo romanzo, Padova 1932.