Innocenzo III
Lotario nacque nel 1160 o 1161 a Gavignano, nel Lazio meridionale, figlio di un Trasmundo "de comitibus Signie", con cui non si allude al titolare di una altrimenti sconosciuta contea di Segni, ma ad un membro della nobiltà fondiaria che poteva essere annoverato tra i notabili della cittadina vescovile. Sua madre Clarissa apparteneva alla famiglia romana degli Scotti, una circostanza che segnala precoci relazioni con la Roma dei Conti, come in seguito la stirpe di Lotario sarà chiamata. Proprio il pontificato di I. dà l'avvio all'ascesa della famiglia, che diventerà una delle casate nobiliari più influenti dell'Urbe fino agli inizi dell'evo moderno. Lotario ricevette la prima educazione a Roma e in seguito, nella seconda metà degli anni Settanta, fu mandato a Parigi, all'epoca centro della formazione teologica per l'Occidente, al fine di migliorare le sue opportunità di una brillante carriera nella Chiesa. Seguì così l'esempio di un numero crescente di rampolli della nobiltà romana che, a partire dalla metà del XII secolo, e con lo stesso scopo finale, soggiornarono in Francia. In seguito Lotario avrebbe spesso rievocato, con parole calorose, il periodo di studi trascorso a Parigi. Dopo aver frequentato i corsi di Arti liberali, si dedicò alla teologia e tra i suoi professori lo stesso Lotario esaltava in modo particolare Pietro di Corbeil. Poiché le opere di quest'ultimo non sono state tramandate o non sono state ancora scoperte, è impossibile determinare l'influenza intellettuale del maestro su Lotario. Divenuto papa, nel 1199 lo nominò vescovo di Cambrai e nel 1200 arcivescovo di Sens. Probabilmente Lotario frequentò anche le lezioni di Pietro Cantore, il più insigne dei maestri parigini alla fine del XII secolo, che nella sua attività di esegeta insegnava una teologia volta eminentemente alla pratica. Forse Lotario ebbe modo di ascoltare anche altri teologi, come Alano di Lilla, Prepositino di Cremona e Pietro di Poitiers. Gli studi parigini segnarono profondamente il suo modo di pensare e di argomentare e lo misero in contatto con un'élite intellettuale sulla quale, divenuto papa, poté in parte appoggiarsi, non da ultimo nominando cardinali suoi esponenti. Secondo l'anonima biografia del pontefice, i Gesta Innocentii III, Lotario studiò anche a Bologna, ma non si va oltre questa breve notizia. Poiché Bologna era il centro indiscusso degli studi in diritto romano e canonico, le congetture secondo cui Lotario possa avervi studiato teologia o altre discipline appaiono poco convincenti, tanto più che le eccellenti conoscenze giuridiche del papa sono state incessantemente celebrate dai suoi contemporanei. Non è escluso che a Bologna sia stato allievo dell'illustre decretista Uguccione, come riferirà centocinquant'anni più tardi Giovanni d'Andrea, tuttavia l'affinità intellettuale e l'assimilazione di opinioni giuridiche sono troppo poco documentabili per desumerne un rapporto diretto fra allievo e maestro. Comunque il soggiorno a Bologna dovette essere stato relativamente breve, circa tre anni, assumendo per approssimazione come termine cronologico il conferimento della suddiaconia da parte di papa Gregorio VIII, che nel corso del suo pontificato di appena sette settimane soggiornò solo in Toscana e in Emilia-Romagna, e che fu proprio a Bologna tra il 18 e il 20 novembre. La dignità di suddiacono pontificio era soprattutto onorifica, ma comportava anche una maggior contiguità con il papa, nonché una probabile sistemazione e un avanzamento nella carriera curiale. Quest'obiettivo fu conseguito nell'autunno 1190, quando Clemente III lo nominò cardinale diacono dei SS. Sergio e Bacco. Lotario entrò così nelle fila dei numerosi chierici romani che quel pontefice elevò al cardinalato dopo la riconciliazione con il Comune nel 1188, con l'intento di rafforzare i suoi sostenitori locali e tutelandosi in tal modo dalle tendenze antipapali della classe dirigente comunale. Il 7 dicembre sottoscrisse per la prima volta in questa veste un privilegio papale. È in questo periodo che Lotario fece restaurare a proprie spese la piccola chiesa dei SS. Sergio e Bacco. Negli oltre sette anni del suo cardinalato, non ebbe mai un ruolo di spicco nella Curia, malgrado firmasse la maggior parte dei privilegi di papa Celestino III. Più volte, in linea di massima affiancato ad altri cardinali, gli venne affidata l'istruzione preliminare di processi. È giunta fino a noi la risposta, poco significativa, ad una lettera dell'imperatore Enrico VI, indirizzata anche agli altri porporati. Ma la vera importanza del periodo di cardinalato di Lotario risiede nelle opere da lui scritte, che lo mostrano con evidenza saldamente ancorato alle correnti spirituali del suo tempo. Il De miseria humane conditionis risale probabilmente al 1194-1195 e rientra nella categoria della letteratura del "contemptus mundi", in cui l'uomo viene descritto come una creatura che si è allontanata dal creatore e diviene vittima della propria superbia. Il trattato ascetico-morale illustra la miserevole fragilità dell'uomo, allo scopo di ricondurlo all'umiltà. Il tono di fondo pessimistico e desolato dell'opera avrebbe dovuto essere temperato da un secondo trattato, preannunciato nel prologo ma mai apparso, sulla dignità della natura umana. I temi affrontati dallo scritto, che si compone di tre libri, sono: a) l'inadeguatezza dell'uomo, causata dalla sua corporeità e dalle passioni, che lo accompagna lungo l'intero arco della vita; b) l'uomo è all'origine della sua miseria, che discende dai peccati di avidità, avarizia, superbia, lussuria e ingiustizia (e forse Lotario ha potuto far confluire in questa parte la sua esperienza personale, compresa quella curiale); c) la morte e la decomposizione del corpo, il terrore del giudizio universale e i tormenti dell'inferno: gli espedienti stilistici a cui attinge il trattatista sono gli innumerevoli passi tratti dalla Bibbia, dai Padri, dagli autori classici e contemporanei, ma anche gli "exempla". La fosca visione del mondo che trapela da queste pagine sembra essere stata una delle idee dominanti del pontefice, che vi torna in molte lettere e sermoni, attenuandola comunque sempre con la certezza dell'azione salvifica del Cristo. L'opera conobbe un immenso successo, riconducibile sia al tema della miseria dell'esistenza umana, sia al linguaggio aspro e alla celebrità dell'autore. Se ne sono conservati più di settecento manoscritti, circostanza che dimostra come si possa annoverare fra gli scritti religiosi più letti del Medioevo: fu anche riadattata in molte lingue volgari, scrittori più tardi come Chaucer e Petrarca vi attinsero, e fu infine stampata nel 1473. Fin nell'evo moderno rimase un testo basilare delle meditazioni sull'uomo dopo il peccato originale e sulla sua esigenza di redenzione. Il De missarum misteriis, trattato liturgico-allegorico, commenta in modo esauriente la messa papale e vi ricollega affermazioni teologiche sull'eucaristia, interpretando la messa come memoria della vita di Cristo. Anche l'abbigliamento liturgico è spiegato in senso allegorico tradizionale. I sei libri trattano delle persone coinvolte nella messa papale e delle loro vesti e delle singole parti, attribuendo un particolare risalto alla consacrazione e ai problemi connessi, relativi alla transustanziazione e alla presenza reale. Queste sezioni si inseriscono palesemente nel solco della tradizione scolastica, con cui Lotario aveva familiarizzato a Parigi. Inoltre il trattato introduce all'ecclesiologia del pontefice. I manoscritti tramandati (se ne conservano circa duecento) e una gran quantità di estratti e rielaborazioni dimostrano come anche quest'opera rappresenti un importante fondamento per l'interpretazione dei sacramenti fra le generazioni successive, tanto più che in essa vengono esposte idee che riemergono in alcune decretali e nei canoni del IV concilio Lateranense. Nella prima parte del De quadripartita specie nuptiarum Lotario delinea un'interpretazione spiccatamente allegorizzante, dall'impronta personale, dei quattro tipi di unione matrimoniale, una carnale e tre mistiche (uomo-donna, natura umana e divina nella persona di Cristo, Cristo-Chiesa, Dio-anima); nella seconda, appena legata alla prima, commenta in modo convenzionale il Salmo 44. Quest'opera, la più originale del futuro papa, tradisce la formazione scolastica dell'autore e risulta illuminante non solo in relazione alle usanze matrimoniali dell'epoca, ma anche alle idee ecclesiologiche di Lotario, in particolare riallacciandole al Sermo III in consecratione pontificis, dove il rapporto tra il vescovo e la sua Chiesa viene analogamente interpretato in modo quadruplice. L'opera sopravvive solo in pochi manoscritti e non c'è traccia di una sua influenza successiva. Per disegnare un panorama più esauriente è opportuno menzionare ora anche gli scritti più tardi, iniziando dai Sermoni. L'affermazione contenuta nei Gesta, secondo cui I. sarebbe stato "sermone tam vulgari quam litterali disertus", viene confermata dai contemporanei del papa e molte occasioni in cui predicò sono ben documentate, per esempio il sermone di apertura del IV concilio Lateranense. In sintonia con una forte corrente di teologia pratica, che veniva studiata nelle scuole di Parigi e trovava applicazione nelle Artes praedicandi e in raccolte di Distinctiones concepite per la preparazione dei predicatori, lo stesso I. attribuì grande importanza alla predicazione come strumento per evangelizzare, rafforzare la fede e insegnare la morale. Sono documentati circa ottanta sermoni di I., e gran parte di essi è inserita in una collezione del 1202-1204 destinata all'abate di Cîteaux Arnaldo, successivamente ampliata, ma mancano tuttora indagini più approfondite sull'autenticità e le circostanze della sua elaborazione, sulle interpolazioni e le rielaborazioni. Considerando i manoscritti tramandati (oltre sessanta), dovettero destare comunque un notevole interesse. È ovvio scorgervi una testimonianza personale del papa e, pur contenendo molte parti convenzionali, sono spesso sobri e, simili ad esercitazioni spirituali, aprono un'illuminante prospettiva sulle opinioni teologiche e giuridiche di I. e racchiudono numerose notizie sulle usanze liturgiche. I destinatari dovevano essere in prevalenza membri del clero, che dovevano essere istruiti e resi più virtuosi dai sermoni. Sono documentabili anche frequenti paralleli con altre opere e lettere. Solo pochi mesi prima di morire I. prese la penna ancora una volta per scrivere un commento ai salmi penitenziali, che presenta un interesse teologico ed ha un'impronta molto personale. Quest'opera di rilievo, tramandata in circa trenta manoscritti e debitrice dell'interpretazione allegorica nello stile della teologia scolastica, mostra come il pontefice dopo diciotto anni di governo avesse ancora una notevole dimestichezza con i testi biblici, secondo la lezione appresa a Parigi, ma rivela anche lo scetticismo del vescovo universale, all'apparenza così potente, il quale guarda scoraggiato alla propria opera e parla della colpa di cui si fa carico chi si occupa delle cose di questo mondo. Nel prologo riprende una citazione da Gesù Sirach (13,1), al quale, secondo l'autore dei Gesta, faceva spesso riferimento rammaricandosi: "Si insudicia, colui che tocca la pece" (P.L., CCXVII, col. 696A; The Gesta Innocentii, 17, p. 14). Quando Lotario di Segni fu eletto papa, l'8 gennaio 1198 (Roma, Settizonio), assumendo il nome di Innocenzo, e si fece consacrare ed incoronare il giorno della festa della cattedra di s. Pietro (22 febbraio), era il più giovane dei ventiquattro membri da cui era composto il Collegio cardinalizio. Nel governo della Chiesa era un "foglio bianco", ma evidentemente, oltre all'origine romana, lo rese consigliabile una personalità dalle qualità spiccate, alla quale i suoi elettori affidarono la carica suprema in una difficile congiuntura politica (incertezza dopo la morte di Enrico VI in Italia e in Germania; fallimento della crociata) e in un periodo di instabilità sul fronte ecclesiastico-religioso (crescita dei movimenti ereticali, inquietudini religiose in ampie cerchie di laici). Sebbene il carattere del pontefice e le sue inclinazioni si rivelarono pienamente solo nel corso degli anni, già in questa fase si può tentare di delineare un profilo della personalità di I., appoggiandosi alle dichiarazioni dei contemporanei, ai suoi scritti e al suo operato. La sua grande cultura e la sagace intelligenza, che gli consentiva di afferrare rapidamente le situazioni e di emettere un giudizio conforme ai suoi principi, vengono esaltate senza eccezioni. Poteva contare inoltre su una straordinaria memoria e sul dono di sapersi esprimere in modo brillante sia oralmente che per iscritto. La sua prontezza di spirito, abbinata al senso dell'umorismo, affiorava soprattutto nelle udienze giudiziarie, circostanze in cui poteva anche diventare sarcastico o addirittura cattivo, e non esitava ad usare un linguaggio diretto perfino nelle occasioni cerimoniali. Nel perseguire i suoi scopi mostrò risolutezza, versatilità e fermezza. Il suo zelo era smisurato, tuttavia non lo si può definire un maniaco del lavoro, poiché era di salute cagionevole, e quindi seppe risparmiarsi adottando ritmi lavorativi ragionevoli e concedendosi una pausa di riposo pomeridiana e frequenti escursioni nella natura. Soffriva il caldo in estate, si rammaricava della sua costituzione fragile e le malattie lo confinavano spesso a letto (primavera 1198, autunno 1199, particolarmente acute nell'autunno 1203 e alla fine del 1209): le ripetute lamentele per il sovraccarico di lavoro non sono certamente un topos. Il suo senso della giustizia era così spiccato che più di una volta subì un danno politico pur di rispettare rigorosamente i principi giuridici. I. era inoltre un uomo profondamente pio, il quale, più di una volta, si rammaricò di essere distolto dalla preghiera e dalla meditazione a causa delle occupazioni di governo. Sempre rigorosamente determinato a salvaguardare la purezza della fede e della morale, gran parte delle sue iniziative scaturirono da un atteggiamento religioso di fondo da cui tuttavia a volte si discostò per ragioni politiche. Subito dopo la sua morte un anonimo scrisse questo sintetico encomio su una pagina bianca di un manoscritto del Capitolo della cattedrale di Perugia: "Innocenzo era di taglia piccola, gracile, ma leggiadra; assai versato nelle arti del Trivio e del Quadrivio, eccelleva nella teologia, d'intelligenza rapidissima, straordinariamente dotato nell'oratoria, forbito nell'espressione; possedeva una voce limpida, che veniva intesa da tutti anche allorché parlava piano" (M. Petrocchi, p. 207). A proposito dell'aspetto di I., anche altre fonti riferiscono della sua figura piccola, armoniosa, dai tratti gradevoli (The Gesta Innocentii, 1; G. von Pairis, p. 126). I ritratti che di lui si sono conservati non sono molto più espliciti: solo il frammento coevo del mosaico absidale dell'antica S. Pietro (oggi nel Museo di Roma), commissionato dallo stesso pontefice, potrebbe contenere in sé riflessi della realtà, indicando che I. portava i baffi. (Le altre rappresentazioni più significative dell'epoca sono: iniziale splendidamente decorata nell'incipit della sesta annata del registro, A.S.V., Reg. Vat. 5, c. 72; nella chiesa inferiore del Sacro Speco, a Subiaco, figura eretta del papa, che indossa le vesti pontificali, dove tuttavia della testa sopravvive solo un piccolo frammento con l'occhio destro e una modesta porzione della fronte e della guancia. Raffigurazioni più tarde del XIII secolo: di nuovo nel Sacro Speco, a Subiaco; nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi, opera del Maestro di S. Francesco). Volendo isolare dall'ampio corpus di testi le idee centrali di I., è inevitabile chiedersi in quale misura il papa fosse direttamente coinvolto nella stesura delle lettere - oltre diecimila - redatte a suo nome. È fuor di dubbio che gran parte delle normali lettere giudiziarie, i privilegi e le consuete lettere di grazia siano state scritte senza il suo personale contributo. Non è invece agevole esprimere un giudizio a proposito di testi più complessi, ma considerando le sue opere teologiche di notevole spessore, non è concepibile che il pontefice abbia ceduto la penna ad altri per fare dichiarazioni di principio. Parallelismi riscontrabili fra le lettere di argomento teologico, sermoni e trattati, affermazioni di fondo di carattere giuridico e teologico determinanti, reminiscenze personali, giudizi insoliti su persone e situazioni, uso sporadico del singolare in sostituzione del pluralis maiestatis, e infine le discrepanze stilistiche tra il corpus delle lettere di I. e quello del suo successore Onorio III, suggeriscono un forte apporto personale del papa nelle formulazioni più importanti. Comunque sia, le dichiarazioni di principio devono essere considerate autentiche in ogni caso e non possono ritenersi manipolate. "Il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, il consacrato del Signore, il Dio del faraone, che è posto al centro fra Dio e gli uomini, al di sotto di Dio, ma al di sopra degli uomini, che è inferiore a Dio, ma superiore all'uomo" (P.L., CCXVII, col. 658): così lo stesso I. descrisse la propria posizione nel sermone dell'ordinazione o in occasione di una commemorazione di quest'evento. Profondamente compenetrato della dignità e della responsabilità del suo ufficio, il papa, soprattutto nei primi anni del pontificato, continuò a sviluppare le idee tradizionali relative all'istituzione papale, e, seppur senza formularle sempre in modo stringente, le difese con grande fermezza, dando prova anche di una notevole flessibilità spirituale laddove si trattava di imporre certi diritti. Le idee relative al primato della giurisdizione, alla competenza legislativa, alla riserva di tutte le "causae maiores" e delle canonizzazioni, il diritto di convocare e presiedere i concili generali non erano affatto nuove, ma I. le perseguì con un'intransigenza e una coerenza mai riscontrate fino a quel momento nel papato. Non si considerava, come era accaduto generalmente fino al 1150 circa, "vicarius Petri" bensì "vicarius Christi", dalla cui posizione di re e sommo sacerdote, sull'esempio di Melchisedec, si faceva derivare la "plenitudo potestatis" pontificale. Egli trasferì al papa e alla Chiesa il modello paolino del capo e delle membra, di conseguenza ritenne la Chiesa romana, identificata con Pietro e i suoi successori, la "mater omnium ecclesiarum" e la Sede apostolica romana la fonte dell'intero diritto canonico. Talvolta l'"ecclesia Romana" fu addirittura equiparata da I. all'"ecclesia universalis". Questo primato includeva anche l'episcopato universale, il che significava negare un potere vescovile autonomo, derivato dall'autorità divina; esso veniva al contrario interpretato unicamente come partecipazione alla pienezza del potere papale ("vocati in partem sollicitudinis"). I. non mise in discussione in linea di massima l'elezione dei vescovi, ma considerava traslazioni, postulazioni, deposizioni e modifiche nei confini delle diocesi un diritto esclusivo del pontefice, facendo parte del primato di giurisdizione. Nei confronti di patriarchi e metropoliti esercitò il suo potere assoluto in modo ancor più rigido. Questa concezione del potere non solo assegnava al papa la posizione di ultima istanza d'appello, ma anche la facoltà di intervenire in ogni fase di una procedura, in qualità di "iudex ordinarius omnium", avocandolo a sé. I. si attribuì inoltre ampie competenze nelle questioni riguardanti gli Ordini, il che gli consentì non solo di prendere in esame nuove regole e modificarle a propria discrezione, prima che entrassero in vigore mediante l'annuncio papale, ma si comportò negli affari personali e materiali come un superiore universale degli Ordini. Analizzando le idee chiave di I. che esulano dal diritto, dall'ecclesiologia e dalle questioni connesse all'esercizio del potere temporale si arriva a delineare una sorprendente ricchezza di idee in ambito teologico (per esempio, nella dottrina dei sacramenti), ma anche nella valutazione di fenomeni sociali fondamentali come la famiglia, le relazioni parentali, i figli, i rapporti fra uomo e donna, anche al di là delle definizioni del diritto canonico. Nelle questioni relative al potere temporale I. incarnò posizioni differenziate. Nel "Patrimonium S. Petri" e nella città di Roma si considerò sovrano temporale con tutti gli attributi dell'autorità e i poteri coercitivi connessi. Come signore feudale gli spettavano anche diritti d'intervento diretto, sia nello stato vassallo che era il Regno di Sicilia, soprattutto durante la minorità di Federico II, sia in Inghilterra, il cui sovrano Giovanni Senzaterra si era sottomesso al papa nel 1213 infeudando i suoi stati in "ius et proprietatem" alla Chiesa romana. Una serie di Regni, pur non avendo un rapporto di dipendenza feudale con il papa, intratteneva stretti vincoli di fedeltà e di obbedienza canonica nei suoi confronti: l'Ungheria, dove il sovrano, all'atto dell'incoronazione, pronunciava fra l'altro un giuramento "super apostolice sedis obedientia" (Reg. VII 58 [57], p. 96); la Norvegia, dove questo legame risaliva al 1163; l'Aragona, che con l'incoronazione di Pietro II, nel 1204, non divenne un feudo ma con cui il pontefice istituì un particolare rapporto di protezione che comportava il riconoscimento del Regno di Pietro; analoga era la situazione della Bulgaria. Ma la rivendicazione del potere temporale da parte del papa come "vicarius Christi" trascendeva i limiti dell'ambito ecclesiastico per includere la "christianitas" nella sua totalità. Non significava, comunque, un diritto concreto di sovranità universale, ma un governo spirituale che poteva investire anche questioni temporali. "Poiché i principi hanno solo singole province, i sovrani solo singoli regni, Pietro è loro superiore per pienezza e vastità; infatti egli è il luogotenente di colui al quale appartiene la terra e la sua pienezza, il mondo e tutti i suoi abitanti". Questa frase, tratta dal discorso concistoriale con cui vennero accolti alla fine del 1199 gli ambasciatori di Filippo di Svevia (Regestum Innocentii, p. 48), illustra certamente la posizione di principio, tuttavia dalle formulazioni dei testi in cui viene esposto il rapporto con il potere secolare, generalmente infarciti di retorica, non è dato riconoscere come il papa lo concepisse in concreto, tanto più che ne accettava comunque l'origine divina. Sulla supremazia del "Sacerdotium" nei confronti del "Regnum" non sussistono dubbi, come testimonia ad esempio la metafora sole-luna ricorrente più volte in questo contesto (Reg. I 401, pp. 599-601; Regestum Innocentii, 141, 179, pp. 333, 386). Dunque il potere secolare, in seno alla cristianità, assolveva il proprio compito solo a condizione di uniformarsi all'autorità spirituale. Quando I. intervenne in questioni temporali, si giustificò ripetutamente richiamandosi a modelli proposti più dalla teologia politica che da precise categorie giuridiche. In accordo con i suoi obblighi spirituali come "vicarius Christi", egli interferiva spesso in veste di pacificatore nelle questioni temporali, ispirandosi all'articolo di fede secondo cui Cristo si era assunto il ruolo di pacificatore fra gli uomini e Dio e alla promessa della settima beatitudine nel discorso della montagna ("Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio", Matteo 5, 9). Il pontefice cominciava abitualmente con l'ammonire le parti contendenti, poi offriva i suoi servizi come mediatore e, nel caso entrambe le iniziative si rivelassero infruttuose, chiedeva un compromesso con arbitrato papale oppure, da ultimo, applicava il suo potere giurisdizionale, esercitato personalmente o tramite legati. Come pontefice fece ricorso anche ai metodi rituali di composizione pacifica dei conflitti, maturati nei secoli all'interno della società feudale. Nella concezione di I. l'esercizio del potere temporale era inteso unicamente come un intervento sussidiario in singoli casi, ispirato dalla convinzione che il suo diritto alla guida temporale fosse di tutt'altra natura di quello dei principi. Per illustrare le rivendicazioni di I. relative all'esercizio del potere temporale i canonisti del Duecento e la storiografia più recente fanno spesso riferimento alle decretali Venerabilem (marzo 1202), Per venerabilem (autunno 1202) e Novit (aprile 1204), senza tuttavia tenere nella debita attenzione il fatto che questi testi dovevano giustificare l'azione in una situazione concreta. Le idee del pontefice sull'Impero sono estremamente complesse, in quanto vi si mescolano l'azione politica nella disputa dopo la doppia elezione in Germania, le rivendicazioni territoriali nell'Italia centrale, la minaccia di un accerchiamento svevo del "Patrimonium S. Petri", la tradizione di pensiero curiale e le dottrine dei canonisti. Gran parte dei testi relativi a questo insieme di argomenti si trova nel registro sulla disputa per il trono tedesco, ma anche in uno scambio di note con l'imperatore bizantino. Poiché il papa è "caput et fundamentum totius christianitatis", all'imperatore non spetta alcuna giurisdizione universale: se pure la sua dignità imperiale lo pone al di sopra dei "regna", questo non gli attribuisce comunque una sovranità immediata ma solo un rango e un credito elevati. Il potere imperiale discende direttamente da Dio, non dal papa, ma l'imperatore ha con il "vicarius Petri" un particolare rapporto di contiguità, che si fonda sul suo dovere di proteggere la Chiesa di Roma. Al contrario, la Chiesa di Roma poteva far valere nei confronti del suo "defensor" precisi diritti, allorché gli conferiva il titolo imperiale tramite consacrazione ed incoronazione: il diritto di verificare la sua idoneità, di punirlo laddove fossero stati violati dei doveri o in caso di ostilità e, in ultima istanza, di affidare l'"imperium" ad un altro popolo. Due convinzioni sono all'origine di questa posizione: innanzitutto, che il papato ha trasferito l'Impero dai Greci ai Franchi con Leone III, e inoltre che il "favor apostolicus" dev'essere accordato al candidato idoneo, il che comporta il diritto di esaminarlo. I. definì ripetutamente la sua concezione del rapporto fra papato e Impero, in base al quale ritenne giustificato il suo intervento nella disputa per il trono imperiale: "Imperium principaliter et finaliter ad sedem apostolicam pertinet" (Regestum Innocentii, nrr. 2, 18, 29, 30, 31, 33, 47), laddove con "principaliter" si allude al già menzionato trasferimento dai Greci ai Franchi, mentre con "finaliter" si intende la consacrazione e l'incoronazione da parte del papa e dunque il conferimento alla persona idonea. Nella decretale Venerabilem, I. precisa e amplia la sua concezione distinguendo fra elezione e incoronazione imperiale: il papa riconosceva ai principi tedeschi il diritto di eleggere il re, e in tal modo egli era già "in imperatorem electus", tuttavia lo collegava alla dottrina della traslazione e sottolineava la sua facoltà di verificare la dignità e l'idoneità del candidato - com'era necessario per qualsiasi consacrazione - prima di incoronarlo imperatore. E il candidato giudicato degno avrebbe quindi ottenuto il "favor apostolicus". Questo concetto giuridicamente elastico, nel caso di un mutato atteggiamento del prescelto consentiva una nuova decisione. Tuttavia, l'incoronazione non era intesa né come una conferma del candidato né come un'investitura in senso feudale. Il merito di I. consiste nell'aver lasciato in eredità ai suoi successori una dottrina in sé compiuta sulla dignità imperiale, suscettibile di essere ancora perfezionata. La decretale Per venerabilem (Reg. V 127 (128), pp. 250-55; [Corpus Iuris Canonici] X 4.17.13) adduce due argomentazioni, che in realtà nel testo sono oscurate da vaghi richiami a passi biblici e, in particolare, veterotestamentari. "Casualiter, certis causis inspectis", il papa, sulla base del potere sacerdotale conferitogli da Dio, poteva esercitare la giurisdizione temporale come una sorta di diritto d'emergenza, in particolare nei casi in cui non vi fosse un'istanza temporale competente. Questa giurisdizione straordinaria presuppone naturalmente una richiesta da parte degli interessati. La decretale Novit (ibid. VII 43 (42), pp. 72-6; X 2.1.13) vide la luce nel contesto dei tentativi di pacificazione connessi all'interminabile guerra anglo-francese, allorché il sovrano sconfitto Giovanni Senzaterra, in gravi angustie, si rivolse al pontefice. Quando Filippo II Augusto respinse l'intromissione papale, in quanto la questione atteneva al diritto feudale, I. formulò la celebre frase "Non ratione feudi, cuius ad te spectat iudicium, sed occasione peccati, cuius ad nos pertinet sine dubitatione censura", poiché era un peccato grave la rottura del giuramento prestato allorché era stata conclusa la pace. Quest'intervento rimase tuttavia privo di effetti, perché il peccato stigmatizzato era inscindibile dal diritto feudale e Filippo II Augusto non si curò della pretesa papale. L'intervento nella sfera temporale provocato da un peccato grave può essere esemplificato in modo ottimale dalla deposizione di un principe, diritto che I. si arrogò comunque unicamente nel quadro della legislazione antiereticale. Nella decretale Vergentis (marzo 1199) disponeva la confisca dei beni di chi tollerava l'eresia: essa doveva colpire anche tutti i detentori del potere temporale che non adempivano ai loro doveri, vale a dire che non estirpavano l'eresia nei loro domini. A tale scopo era necessario coinvolgere nella lotta anche altri signori temporali prospettando loro come compenso e bottino la terra conquistata. In conformità con questo concetto il papa distribuì le terre del conte Raimondo di Tolosa e lo depose nel corso del IV concilio Lateranense. Il decreto promulgato in questa circostanza, Excommunicamus (can. 3; X 5.7.13), fissa la procedura per il futuro: un principe che trascuri di estirpare dalle sue terre l'eresia dev'essere scomunicato; se nell'arco di un anno non adempie a quest'obbligo, il papa può sciogliere i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà e spartire i suoi possedimenti fra i principi cattolici. E inoltre chiunque persista nella scomunica per un anno, diviene sospetto di eresia e si rende colpevole di "contemptus clavium". Comunque I. non si avvalse più di questa risorsa per deporre sovrani invisi e nemici della Chiesa, ma lasciò ai suoi successori un temibile strumento d'intervento. L'intervento del pontefice nelle questioni temporali fu agevolato dalla cosiddetta protezione papale per i principi laici, che a partire dalla fine dell'XI secolo venne accordata in misura crescente e anche da I. secondo molteplici modalità (in generale ai crociati, "personis miserabilibus" come principi minorenni e vedove, al conte Baldovino di Fiandra nel 1199, poi imperatore di Costantinopoli nel 1204, a re Giovanni di Gerusalemme nel 1212, alla Svezia in forma non chiara nel 1216, al langravio Ermanno di Turingia nel quadro della disputa per il trono tedesco nel 1203, al Regno di Boemia nel 1204, al duca Bernardo di Sassonia nel 1207, al duca Leopoldo d'Austria nel 1208, a re Pietro II d'Aragona, sul quale si tornerà, a duchi polacchi quali Boleslao di Slesia nel 1198, al duca di Cracovia nel 1207, a Ladislao della Grande Polonia nel 1211). Le conseguenze giuridiche erano modeste e il papa considerò sempre questa protezione un gesto di pace nei confronti della persona e dei possedimenti del suo destinatario, il cui rispetto era garantito da sanzioni spirituali. A coloro che beneficiavano di questa protezione, spesso richiesta per motivi politici, era consentito di appellarsi alla sua giustizia. Ma così facendo essi riconoscevano implicitamente la sua competenza in questioni secolari e agevolavano anche sul piano politico l'intervento del papa. Sotto I. la Curia divenne un centro di potere dalle competenze fortemente ampliate, commisurato alle pretese universalistiche del papato. Nei confronti dei suoi collaboratori più stretti, i cardinali, I. mantenne la sua posizione sovrana sia in senso giuridico che ideale, in cui non vi era spazio per un governo oligarchico esercitato dal Collegio cardinalizio o addirittura per considerare il potere di questo d'origine divina. I cardinali dovevano unicamente al pontefice la propria posizione, e la loro connotazione di "membra corporis sui" (Reg. I 345, p. 515) o di "membra capitis" (ibid. IV 215; X 1.5.3) si adatta al modello del capo e delle membra, dove ogni potere discende dal capo, vale a dire dal papa. Ma il pontefice era consapevole della loro funzione imprescindibile. I cosiddetti cardinali esterni, titolari di importanti sedi episcopali o di venerabili abbazie, durante il suo pontificato non svolsero alcun ruolo. Il Collegio cardinalizio nel 1198 si componeva di ventiquattro membri, provenienti in massima parte da Roma o dal "Patrimonium S. Petri". Nei primi anni di pontificato, I. ne destinò un contingente abbastanza notevole alle legazioni, all'amministrazione, alla giustizia curiale, ma già dal 1202 al 1204, grazie al parziale rinnovamento del Collegio cardinalizio, è possibile individuare un circolo ristretto di cardinali annoverabili tra i suoi collaboratori prediletti: sono soltanto pochi i sopravvissuti del "vecchio" gruppo. I. creò trenta cardinali in sei tornate (1198, 1200, 1204, 1206, 1212, 1216). Più della metà era originaria di Roma e del "Patrimonium S. Petri"; in tal modo egli intendeva legare al sistema di potere curiale famiglie insigni della città e del contado: quattro dei cardinali erano anche imparentati con il pontefice. In questo senso il suo nepotismo non oltrepassava il livello abituale ai suoi tempi. Alcuni cardinali dovevano la loro ascesa ai servizi resi nella Cappella pontificia, nella Cancelleria e nella Camera. Altri appartenevano al ceto dirigente di Milano, Vercelli, Capua, pochi erano gli stranieri: tre francesi, uno spagnolo, due inglesi. Questi ultimi, Stefano Langton e Roberto di Corson, erano maestri all'Università di Parigi, una scelta che illumina uno dei criteri applicati da I. nell'individuare i suoi collaboratori più stretti: essere dotati di una solida cultura. Al contrario era irrilevante appartenere ad un ordine religioso, infatti solo tre Cisterciensi rientrano nel gruppo di cardinali creati dal papa. Fra i suoi collaboratori più vicini si annoverano: Ugolino (dal 1206 vescovo cardinale di Ostia, spesso legato, nel 1227 papa Gregorio IX), Leone Brancaleoni (più volte legato in Germania), Benedetto di S. Susanna, poi cardinale vescovo di Porto (successore di Pietro Capuano, uomo di Celestino III e personaggio di spicco nei primi anni del pontificato come legato presso l'esercito crociato a Costantinopoli), Guala Bicchieri (ripetutamente legato in Francia e in Inghilterra), lo spagnolo Pelagio (attivo soprattutto come uditore presso il tribunale della Curia, in seguito incaricato dal papa di guidare l'esercito nella V crociata), Stefano di Fossanova (camerario e legato), Pietro Collivaccino di Benevento (canonista e legato). Cencio, il successore di I. sul trono papale, non svolse alcun ruolo come cardinale, il che fornisce un indizio dell'insoddisfazione dei porporati verso lo stile di governo del papa. I. convocava i cardinali a consulto - il Concistoro ha un altro significato - e discuteva con loro tutti gli affari più importanti. Nella Cappella chiamò giovani e promettenti chierici, affidando loro in misura crescente, accanto ai tradizionali compiti liturgici, anche il disbrigo di questioni amministrative, le istruzioni preliminari connesse alla giustizia curiale e le legazioni, mansioni per le quali non pochi vennero ricompensati con sedi espiscopali e dignità cardinalizie. La Cancelleria, preposta alla redazione di privilegi e lettere, era oggetto di un'attenzione particolare da parte del pontefice, in quanto vennero incrementati vigorosamente sia la produzione scritta (stimata oltre le diecimila lettere) sia, di conseguenza, il personale impiegato (notai, scrittori). A capo della Cancelleria, con il compito di datare i privilegi, vi erano tre notai in carica da uno a tre anni; solo dal dicembre 1205 al giugno 1213 Giovanni Odelo, cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin e imparentato con il pontefice, svolse le funzioni di cancelliere della Chiesa romana. La sua importanza era modesta. Durante il pontificato, I. riformò la Cancelleria a varie riprese - la cronologia è incerta - per impedire le falsificazioni, rendere più trasparente l'iter burocratico e naturalmente anche per rendere più redditizia l'attività. L'ordinamento più antico della Cancelleria (prima del 1206; forse un ampliamento di una disposizione già adottata sotto Celestino; cfr. M. Tangl, pp. 53 ss.), diverse costituzioni contro i falsari, che vennero inserite nel Corpus Iuris Canonici (X 5.20.4-9), la regolamentazione delle tasse di Cancelleria, il controllo dei procuratori e della loro attività tramite il can. 37 del Laterano IV, insomma una più rigorosa attenzione alla stesura dei documenti, l'organizzazione del collegio degli scrittori, i provvedimenti per reprimere la corruzione e la sciatteria, l'introduzione dell'ufficio del correttore: sono questi alcuni fra gli aspetti della riforma della Cancelleria promossa da I., che ebbe dei riflessi anche sulle caratteristiche esteriori dei documenti redatti. Le prime sottoscrizioni degli scrittori, note di registrazione, note dei procuratori e note di spedizione appaiono nei primi anni del pontificato, le prime note di correzione negli ultimi. Con il pontificato di I. si avvia la serie quasi ininterrotta dei registri di Cancelleria, tenuti da diversi notai, i quali per volere del papa o anche dei destinatari registravano i pezzi significativi (dal 20 al 30% circa della produzione complessiva di documenti), con l'intento di compilare dei promemoria ufficiali del pontificato, di creare una base per la redazione delle decretali e di salvaguardare l'autenticità delle disposizioni emanate. Il registro speciale (Regestum super negotio Romani imperii) contenente il materiale relativo alla disputa per il trono tedesco aveva lo scopo di documentare il sostegno ininterrotto del papa prima ad Ottone IV e poi a Federico II. L'attività della Camera, che era preposta alla gestione delle finanze pontificie, rimane tuttora imperscrutabile in quanto non si conosce molto di più dei nomi dei camerari. (Il cisterciense Stefano di Fossanova aveva assunto il suo incarico nel 1206 e lo mantenne anche dopo aver ricevuto la dignità cardinalizia nel 1213). La Curia era finanziata in massima parte tramite le rendite patrimoniali, i censi cui erano soggetti i monasteri e altre istituzioni religiose che erano stati inseriti durante il pontificato di Celestino III nel Liber censuum, i tributi feudali, le tasse per l'esercizio della giustizia, le tasse di Cancelleria e donazioni di ogni tipo, che non riuscirono a cancellare il pregiudizio di una Curia avida e venale. I. si adoperò per riordinare le finanze pontificie, autorizzando tasse fisse solo per scrittori e bullatori ed esigendo un'assoluta libertà per le donazioni (Gesta Innocentii, 41), ma si aspettava adeguate remunerazioni dai postulanti. A lui in persona non fu mai mosso il rimprovero di corruzione. Sotto il suo pontificato si moltiplicano i casi in cui ci si adoperò per dotare i curiali di prebende, per lo più presso i Capitoli delle cattedrali, soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania, e in tal senso I. esercitò notevoli pressioni. Ma numerose istituzioni religiose accordavano autonomamente ad uomini della "familia" papale e della cerchia dei cardinali pensioni, prebende e donazioni per influenzarne favorevolmente le decisioni. La Curia, sotto I., cominciò a frammentarsi in ulteriori "uffici" con personale assegnato e specifiche competenze. La Penitenzieria, che concesse pieni poteri di assoluzione a vescovi e legati, e inoltre impartiva l'assoluzione ai penitenti, assume contorni più definibili sotto il successore di I., Onorio III, ma è ugualmente possibile ripercorrerne gli esordi. Il cardinale Giovanni di S. Paolo sembra aver svolto queste funzioni per un certo lasso di tempo sotto Innocenzo III. Il papa risiedette prevalentemente nel Palazzo del Laterano, ma anche a S. Pietro, dove fece erigere una torre (dei duecentoventidue mesi del suo pontificato, ne trascorse circa centosessanta a Roma, di cui trenta a S. Pietro, il periodo di massima continuità dal settembre 1204 al maggio 1206). Nei mesi estivi I., insieme alla Curia, lasciava abitualmente la città per soggiornare in località del "Patrimonium S. Petri" (soprattutto a Viterbo, Anagni, Ferentino, Segni, ma anche a Subiaco, Orvieto, Rieti, Montefiascone, Perugia, ecc.). La funzione principale della Curia era indubbiamente quella di tribunale. Sebbene il giudizio su I. sia stato ora rettificato e lo si consideri meno come un eccelso giurista e più come una mente genuinamente teologica, un uomo che nel dibattito su delicati problemi dogmatici non solo incarnava la più alta autorità dottrinale ma sapeva argomentare le proprie opinioni, resta il fatto che sotto il suo governo la Curia divenne la prima fonte del diritto e il tribunale per eccellenza della cristianità in Occidente. Un passaggio dei Gesta sancisce in modo incontrovertibile questo ruolo: "Tre volte a settimana egli convocava un concistorio pubblico, solenne, una consuetudine che era caduta in disuso. In quest'occasione, dopo aver ascoltato le singole accuse, faceva esaminare da altri i casi meno rilevanti. Invece trattava personalmente i più significativi, con tale sottigliezza e accortezza ["tam subtiliter et prudenter"] che tutti si meravigliavano di tali qualità e che molti uomini eruditi ed esperti nel diritto si recavano alla Chiesa di Roma per ascoltarlo. Essi apprendevano nei suoi concistori assai più di quanto avessero appreso nelle scuole, soprattutto quando ascoltavano la proclamazione delle sentenze. Infatti egli sapeva esporre le opinioni giuridiche con tale sottigliezza ed efficacia, che ciascuna delle parti già sperava di aver vinto il processo ascoltandolo mentre spiegava le loro rispettive opinioni giuridiche. Qualsiasi avvocato, anche esperto, che si trovava ad affrontarlo, trepidava profondamente in attesa della sua replica" (Gesta Innocentii, 41, coll. 80 s.; The Gesta Innocentii, p. 61). In effetti, resoconti coevi sui processi condotti dalla Curia mettono in rilievo il costante coinvolgimento del papa e dei suoi consiglieri in questioni di natura giuridica, mostrando come non fosse poi così difficile arrivare fino al pontefice in persona. Affluivano alla Curia postulanti provenienti da ogni luogo della cristianità, e se anche molti casi venivano delegati a giudici locali, tuttavia i casi trattati nella Curia stessa erano abbastanza numerosi da determinare un sovraccarico di lavoro e il conseguente affanno del papa. I. si riservava le sentenze finali relative alle maggiori controversie, dibattute talvolta da anni o addirittura decenni: i lunghi documenti redatti in tali circostanze rivelano spesso una profonda competenza giuridica e un impegno lavorativo assai intenso. Non solo tutti i pareri legali, ma anche molte altre lettere furono inserite nelle collezioni di decretali, compilate già dopo pochi anni da uomini vicini alla Curia, che avevano facoltà di copiare i testi sui registri (per Ranieri di Pomposa, 1201, è attestato, per gli altri - Gilberto, 1202/1203 ca., Alano Anglico, 1206 ca., Bernardo da Compostela, 1208 - è molto probabile). Per garantirne l'autenticità, nel 1209 I. incaricò il suo notaio Pietro Collivaccino di Benevento di redigere a partire dai registri una collezione ufficiale di decretali - denominata in seguito Compilatio Tertia - e di inviarla a Bologna affinché divenisse un solido fondamento per l'insegnamento e la dottrina giuridica. Collezioni più tarde, come ad esempio la Compilatio Quarta di Giovanni il Teutonico, del 1216, non si basano più direttamente sui registri. Nei millenovecentosettantuno capitoli del Liber Extra del 1234, le decretali di I., con cinquecentonovantasei numeri, a cui se ne aggiungono altre settanta del IV concilio Lateranense, rappresentano la parte più consistente. Le innovazioni giuridiche di I. investono tutti i settori del diritto, anche se molte riguardano evidentemente i vescovi e la loro elezione, nonché questioni procedurali e relative al diritto matrimoniale. Una di queste novità ha avuto conseguenze di ampia portata: l'introduzione del procedimento inquisitorio nel processo penale canonico. Subito dopo l'inizio del suo pontificato I. aveva già dovuto sperimentare che gli ecclesiastici, anche per gravi colpe, non potevano essere sottoposti al tradizionale procedimento d'accusa, poiché, specialmente nel caso di alti prelati, era difficile trovare un accusatore, disposto a farsi carico dell'onere della prova o a superare il timore di ritorsioni. Di conseguenza il papa istituì rapidamente la facoltà di avviare d'ufficio una procedura giudiziaria contro chierici, anche senza un'accusa formale di terzi - "per inquisitionem" - con l'interrogatorio di testimoni o il ricorso ad altre prove, e perfezionò il procedimento attraverso ulteriori decretali (Licet Heli X 5.3.41; Qualiter et quando X 5.1.17; 2.1.17; Inquisitionis negotium X 5.1.21). Il pontefice, con il supporto di questa nuova procedura, riuscì effettivamente ad allontanare dal loro ufficio una serie di vescovi indegni. Tuttavia I. riservò esplicitamente la nuova procedura agli ecclesiastici e nel IV concilio Lateranense essa fu dichiarata vincolante per l'intera Chiesa (can. 8). Non venne applicata né contro i laici né contro gli eretici, ma aveva dinanzi a sé un fosco futuro: non solo venne recepita in tempi brevi dalla giustizia secolare, ma fino alla metà degli anni Trenta del XIII secolo legati pontifici, sinodi episcopali e rappresentanti del potere temporale se ne appropriarono usandola diffusamente come strumento nella lotta contro gli eretici, in sostituzione delle regole procedurali del diritto comune. Ad I. stava particolarmente a cuore la crociata per liberare la Terrasanta, nell'incrollabile convinzione della legittimità, e addirittura della qualità morale, dell'impiego della forza contro i pagani e in generale contro i nemici della Chiesa. Ma proprio la IV crociata, avviata con grande fervore nel 1198 e conclusa senza fortuna nel 1207, mostra impietosamente i limiti delle possibilità di un'azione laico-militare alla quale il papa si sentiva chiamato in quanto detentore della "plenitudo potestatis". Le notizie degli insuccessi dell'esercito crociato tedesco indussero I., nell'estate del 1198, ad un intervento energico e alla decisione di assumere personalmente la gestione di gran parte dell'organizzazione della spedizione. Il vibrante appello del 15 agosto 1198 non prometteva soltanto ai crociati i consueti privilegi, ma conteneva indicazioni minuziose in merito alla pianificazione dell'impresa; in esso si nominavano due cardinali legati per affidare loro assai più della guida spirituale dell'impresa. L'attuazione delle misure organizzative fu celere: propaganda attraverso i predicatori, pacificazione di tutto l'Occidente e dell'Oriente cristiano per favorire il reclutamento dei cavalieri combattenti, finanziamento mediante tassazione dell'intero clero, preparazione diplomatica nell'area del Mediterraneo orientale ove l'imperatore bizantino e i principi latini del Levante erano perennemente in contrasto fra loro. Il reclutamento procedette in un primo tempo in modo stentato, poi, in seguito ai rinnovati appelli del papa, nell'autunno del 1199, si costituì il nucleo dell'esercito crociato, formato da un gruppo di principi in prevalenza originari della Francia settentrionale, che intendeva avviare la spedizione nell'estate del 1202 muovendo da Venezia. I. cedette l'iniziativa a quest'esercito, perché nel frattempo era emerso con chiarezza che aveva sopravvalutato le proprie possibilità di organizzare un'impresa militare tanto dispendiosa. Con tale decisione egli si trasformò da promotore attivo in istanza di controllo in balia della buona volontà dei partecipanti. E ben presto apparve come in questa veste il ruolo del papa fosse relativamente ininfluente: quando rappresentanti dei baroni crociati e dei Veneziani sottoposero al papa, nella primavera del 1201, il contratto di noleggio, concluso in aprile, per il trasporto dell'esercito crociato in Oriente, al fine di ottenerne la conferma, I. negò la sua approvazione poiché l'accordo rappresentava un onere finanziario troppo pesante per i partecipanti e li esponeva ad un'eccessiva dipendenza verso i Veneziani, dipendenza che fin dall'inizio aveva messo in pericolo l'impresa. Il patto prevedeva la spartizione delle future eventuali conquiste fra i crociati e Venezia, il che avrebbe innescato infinite controversie nel Levante latino. Quando nell'estate del 1202 un gruppo di crociati molto meno cospicuo del previsto giunse a Venezia e non fu in grado di effettuare i pagamenti richiesti, il doge propose di dilazionare il debito a condizione che l'esercito si impadronisse del porto dalmata di Zara, conteso da Veneziani e Ungheresi. Sul piano morale veniva quindi a crearsi una situazione coattiva: da un lato, era garantita in tal modo la prosecuzione dell'impresa, dall'altro, era inevitabile attaccare il re ungherese, che già da lungo tempo aveva preso la croce ed era di conseguenza sotto la protezione speciale della Chiesa, esponendosi a pesanti sanzioni religiose. Il cardinale legato Pietro Capuano, presente a Venezia dal luglio 1202 - l'altro, Soffredo, era già salpato alla volta dell'Oriente - non seppe prendere una decisione univoca, dichiarò che la progettata aggressione era illecita, ma raccomandò ad alcuni di sopportare i tormenti della coscienza. Malgrado l'atteggiamento ambivalente, il legato divenne inviso ai Veneziani, che decisero di ricusarlo come plenipotenziario papale. Pietro lasciò così Venezia e nell'autunno del 1202 fece ritorno in Curia. Quest'episodio contribuì a dimostrare quanto fosse fallace la speranza di poter tenere sotto controllo la crociata tramite i legati. Il distacco fra il papa e la "sua" crociata si accentuò ulteriormente allorché la flotta, il 10 novembre, gettò l'ancora nel porto di Zara. Qui fu raggiunta da una lettera del papa, che cercava di impedire l'attacco con la minaccia della scomunica. Tentativo vano, poiché due settimane dopo la città cadde. I crociati, che si stabilirono lì per svernare, furono scomunicati, ma I. evitò di calcare la mano e si affannò a costituire un'alternativa per non compromettere la compattezza dell'esercito, che proprio a causa dell'avventura dalmata si era notevolmente disgregato. La delegazione dei crociati, che si presentò alla Curia romana nel febbraio 1203, ottenne l'assoluzione a condizioni lievi, ma la promessa di riparare al danno compiuto, fatta dai baroni crociati prima di proseguire il viaggio, nell'aprile 1203, in seguito alle rimostranze del papa, fu disattesa. I Veneziani rimasero comunque scomunicati. I. non poté più esercitare alcuna influenza su questi eventi poiché il cardinale legato non si ricongiunse ora all'esercito, ma nella primavera del 1203 fece vela direttamente alla volta della Palestina. La decisione si rivelò fatale, perché in tal modo i tentativi di Bonifacio di Monferrato e di altri principi di servirsi dell'esercito crociato per realizzare i loro piani bizantini non poterono essere contrastati. Dai primi mesi del 1202, I. aveva dovuto confrontarsi con i progetti ancora confusi del principe bizantino Alessio - figlio dell'imperatore Isacco II Angelo, spodestato da Alessio III nel 1195 - fuggito in Occidente, il quale intendeva usare l'esercito crociato che si stava formando per riportare sul trono il padre. Aveva ottenuto l'appoggio di Filippo di Svevia e del margravio del Monferrato, che dall'autunno 1201 aveva assunto il comando dell'esercito. I. respinse il progetto, ma nondimeno i tentativi in questa direzione proseguirono e riguadagnarono d'attualità nella città di Zara conquistata, anche perché qui fece la sua comparsa nel gennaio 1203 il giovane pretendente al trono bizantino insieme agli accompagnatori svevi. Poiché l'esercito si trovava in una situazione critica - continue diserzioni, penuria di viveri, difficoltà finanziarie -, i baroni si lasciarono sedurre dalle promesse svevo-bizantine, che in un colpo avrebbero eliminato tutti gli inconvenienti rendendo possibile una vittoriosa riconquista della Terrasanta. E Venezia, grazie a questo avvicendamento sul trono, avrebbe potuto assicurarsi una posizione privilegiata a Costantinopoli, con l'auspicio di ottenere anche migliori condizioni per i suoi commerci. La decisione di condurre l'esercito in quella città, stringendo addirittura accordi precisi, venne presa a Zara prima che partisse l'ambasceria inviata al papa, sicché il comportamento tenuto nei confronti della Curia può essere considerato un deliberato raggiro. Infatti il papa proibì proprio quello che i baroni avevano stabilito qualche settimana prima: attaccare cioè un paese cristiano. Questo dimostra, in ogni caso, che I. non era tempestivamente informato degli eventi e che la spedizione era sfuggita completamente al suo controllo. Nei suoi contatti con i crociati, durante i mesi successivi, non riuscì mai a precorrere i tempi e cercò vanamente di riprendere il controllo della situazione. Alla lettera dei crociati e del nuovo imperatore al papa, in cui si riferiva esaurientemente del cambio di governo a Costantinopoli (luglio 1203) e della speranza di realizzare un'unione delle Chiese greca e latina - notizia, questa, che giungeva particolarmente gradita ad I. -, venne data una risposta che non poteva tener conto della situazione completamente mutata (ossia della conquista di Costantinopoli, avvenuta il 12 aprile 1204), e in cui si continuava ad auspicare l'immediata prosecuzione della spedizione in direzione della Terrasanta. L'organizzazione dell'Impero latino, la sua frammentazione in principati feudali, l'insediamento di una gerarchia latina, furono tutti eventi che si realizzarono indipendentemente dalla volontà del pontefice. Solo a circa sei mesi dalla conquista I. affidò le sue reazioni ad una missiva, questa volta dai toni entusiastici, poiché ancora era all'oscuro dei misfatti perpetrati durante la caduta di Costantinopoli e la tanto agognata unione delle Chiese appariva a portata di mano. Tuttavia, da questo momento, il pensiero della spedizione alla volta di Gerusalemme passò gradualmente in secondo piano, perché il papa fu assorbito dalle questioni connesse all'Impero latino e dai problemi posti dall'insediamento della gerarchia latina. Alla fine del 1204 i due legati rientrarono dalla Terrasanta. Nel periodo seguente I. cercò di rafforzare la debole posizione dell'imperatore Baldovino tramite il cardinale Pietro Capuano, di attenuare la minaccia rappresentata dai Bulgari, di ridimensionare l'influenza dei Veneziani e di organizzare le istituzioni ecclesiastiche dell'Impero latino. Anche in ciò trovò però molti ostacoli e la grande speranza di un'effettiva unione con la Chiesa greca rimase irrealizzata. L'interesse del pontefice per la crociata si spense progressivamente e nella primavera del 1207 egli definì per l'ultima volta i latini nel nuovo Impero "crucesignati". Il fallimento della IV crociata era ormai palese. La Terrasanta ne risultò indebolita, l'unione delle Chiese latina e greca si rivelò un'illusione, l'Impero latino ebbe vita breve e dipese costantemente dall'appoggio dell'Occidente, la frattura tra Oriente e Occidente si accentuò irreparabilmente e l'Impero bizantino non riuscì mai più a risollevarsi realmente da questo tracollo. La corresponsabilità di I. negli avvenimenti, che non furono conseguenza di un piano sapientemente elaborato ma il frutto di una concatenazione di eventi imprevedibili, è difficilmente dimostrabile: un energico intervento prima e dopo la conquista di Zara avrebbe però senz'altro modificato il corso delle cose. Nella seconda metà di aprile del 1213, I. bandì una nuova crociata, fermamente intenzionato questa volta ad evitare gli errori commessi nella precedente impresa. Quia maior, un autentico capolavoro di stile, richiamò tutti i cristiani al dovere di venire in aiuto al loro Signore e Salvatore, proprio com'era obbligo di ogni vassallo venire in aiuto al suo signore scacciato. Direttive il più possibile minuziose ed esaurienti per la preparazione dell'impresa avrebbero dovuto determinare il successo di questa crociata: disposizioni dettagliate in merito a privilegi dei crociati, finanziamento, obblighi di chierici e laici per l'armamento dei soldati e delle navi, proscrizione della pirateria, propaganda, processioni augurali, nomina dei delegati per la crociata. I preparativi furono avviati celermente. Gli sforzi di pacificazione intrapresi con Filippo II Augusto e Giovanni Senzaterra devono essere valutati in questa prospettiva, e il papa in Germania e in Italia settentrionale si adoperò ugualmente per riconciliare i nemici. La colletta, oggetto di un'intensa propaganda, con l'installazione di cassette per le elemosine in tutte le chiese, suscitò opposizioni, alle quali diede voce il celebre poeta Walther von der Vogelweide ("Sagent an, her Stoc, hat iuch der babest her gesendet"). Campagne di predicazione investirono l'intero Occidente. In effetti, ovunque presero la croce numerosi personaggi insigni: Giovanni Senzaterra e Federico II, alla sua seconda incoronazione ad Aquisgrana nel luglio 1215, il duca Leopoldo VI d'Austria, il re Andrea d'Ungheria. La crociata fu uno dei temi portanti del IV concilio Lateranense, e già nella predica d'apertura I. paragonò il gravoso "transitus" in Terrasanta, al quale tutti erano chiamati, all'eterno "transitus" nella beatitudine del Signore e sottolineò il suo impegno personale a mobilitarsi con ogni mezzo per quest'impresa. E l'Ordinatio expeditionis pro recuperanda Terra Sancta (P.L., CCXVII, coll. 269-73), del 14 dicembre 1215, rappresenta il risultato dei dibattiti sulla crociata approvati dal concilio. La dichiarazione più eloquente fu l'annuncio che il papa in persona avrebbe benedetto l'esercito crociato, che doveva partire il 1° giugno 1217 - un segno manifesto dell'importanza prioritaria della crociata per il suo pontificato. Le disposizioni dettagliate e le misure organizzative, tra cui spicca la pace generale per una durata di quattro anni, dovevano assicurare il successo dell'impresa e, negli ultimi mesi di pontificato, I. lavorò soprattutto per ristabilire la pace nell'Italia centrale e settentrionale. Il papa morì al servizio "del crocifisso", come amava definire il suo impegno per la crociata, trasmettendo questa fervida aspirazione al suo successore, il quale la considerò una delle eredità più significative del precedente pontificato. "Ad extirpandas hereses universas": è questa la formula centrale della prima lettera (Reg. I 81, p. 120) in cui viene trattato il problema degli eretici, scritta a poche settimane dall'inizio del pontificato, che I. ripeterà spesso. La lotta contro l'eresia fu un tema capitale che attraversò l'intero pontificato e il papa dovette investire una profusione di energie e di mezzi senza precedenti in quest'impresa. Ma la persecuzione, spinta fino all'annientamento fisico tramite la crociata, era solo un risvolto della questione. L'altro era la comprensione per i motivi di quanti intendevano ritornare alla fede cattolica, e la ricerca delle ragioni della diffusione dell'eresia individuate nei comportamenti biasimevoli del clero: "Omnis in populo coruptela principaliter procedit a clero", sono le parole di biasimo rivolte da I. ai prelati all'apertura del concilio Lateranense (P.L., CCXVII, col. 678). Nel sud della Francia il catarismo era diventato un temibile rivale per la Chiesa, perché essendo stato favorito da istanze sociali e politiche, aveva potuto diffondersi senza incontrare ostacoli, avvantaggiandosi anche del declino morale dell'alto clero e delle aspirazioni religiose rimaste inappagate di ampi strati di popolazione. Anche nell'Italia centrale e settentrionale, fin dentro il "Patrimonium S. Petri", i Catari crearono attive comunità, e altri gruppi come i Valdesi si erano diffusi nella Francia settentrionale e in aree della Germania e dell'Italia. Gli strumenti di cui si avvalse la Chiesa per battersi contro l'eresia furono, accanto alla predicazione e all'opera di persuasione, sanzioni religiose come la scomunica e l'interdetto, rivelatesi però inefficaci. A partire dal III concilio Lateranense le stesse sanzioni colpirono però anche tutti i sostenitori, associate alla degradazione giuridica tramite lo scioglimento dal giuramento di fedeltà, l'asservimento, la confisca dei beni e l'impiego della forza militare (can. 27). Tutto venne inasprito dalla decretale Ad abolendam del sinodo di Verona (1184), che coinvolgeva molto più vigorosamente il braccio secolare nella persecuzione dell'eresia e agitava la minaccia di severe punizioni in caso di inadempienza. Ma queste misure rimasero lettera morta e per i vescovi, ai quali spettava in primo luogo di combattere l'eresia, rappresentavano in generale un compito esorbitante. Anche I. cercò per anni di procedere contro i Catari della Francia meridionale facendo ricorso agli abituali strumenti della Chiesa e riponendo le sue speranze in una serie di legati, soprattutto appartenenti all'Ordine cisterciense. Ma i risultati furono deludenti. Nel "Patrimonium S. Petri" il papa mescolò motivi politici alla lotta contro l'eresia e la decretale contro l'eresia Vergentis in senium, inserita programmaticamente all'inizio della seconda annata del registro, non era stata concepita in un primo momento come programma generale, ma era solo indirizzata al Comune ribelle di Viterbo. Ma ben presto venne recepita come decretale e lo stesso papa la trasferì ad altre situazioni. I sostenitori dell'eresia dovevano essere coperti d'infamia, ovvero perdere i diritti civili, essere esclusi dai pubblici uffici e da qualsiasi affare legale. Le proprietà dell'eretico andavano confiscate e i suoi figli diseredati; queste misure severissime erano motivate dall'accusa di crimine di lesa maestà. L'obiettivo consisteva nell'isolare gli eretici e nel ricondurli in seno alla Chiesa grazie a queste pressioni e, all'occorrenza, nel loro annientamento sociale e fisico. Il papa si mostrò più comprensivo nel 1199 a Metz, dove raccomandò di procedere con cautela contro i Valdesi, che si riunivano in conventicole segrete e leggevano la Bibbia in volgare. Tuttavia, nel sud della Francia, il pontefice propose il ricorso alla violenza. Dal 1204 chiese ripetutamente al sovrano francese di intervenire militarmente contro gli eretici, ma Filippo II Augusto, troppo impegnato nella guerra contro Giovanni Senzaterra, continuò a respingere le pretese del papa, anche quando, nell'autunno del 1207, venne rivolto a tutti i credenti di Francia un appello alla lotta contro l'eresia che era stato preceduto dalla pubblica scomunica del conte Raimondo VI di Tolosa. Nel frattempo erano anche però andate in porto trattative pacifiche con gli eretici: in seguito all'intervento del vescovo di Osma e del suo vicepriore Domenico, che chiesero ai legati di rinunciare ad un contegno arrogante e ad inammissibili ostentazioni di potere per avviare un intenso dialogo con gli eretici, fu infatti possibile recuperarne una parte. Anche la deposizione di un numero consistente di vescovi indegni, sostituiti soprattutto da Cisterciensi, consolidò la posizione cattolica. Alla fine, il ricorso alla violenza fu determinato dall'uccisione del legato, il cisterciense Pietro di Castelnau, il 14 gennaio 1208, che lo stesso I. imputò al conte di Tolosa. Alcune settimane più tardi il papa chiamò un'altra volta i grandi di Francia, sia laici che ecclesiastici, alla lotta contro l'eresia, ma quando la creazione di un esercito consistente fallì di nuovo per la protesta del re e quest'ultimo consentì soltanto ad un modesto contingente militare di battersi contro gli eretici, I. lo sopravanzò, proclamando la spedizione di una crociata, con tutti i privilegi connessi, e impartendo le disposizioni organizzative, come già era accaduto per l'analoga impresa in Oriente. In seguito definì i partecipanti "crucesignati". Malgrado la sottomissione di Raimondo di Tolosa, che ottenne l'assoluzione nel giugno 1209, poco dopo ebbe inizio la sanguinosa e spietata guerra che ben presto degenerò in una guerra di conquista scatenata dai baroni della Francia settentrionale. Sembra che I. abbandonasse l'idea della crociata già nel corso del 1209, per vedere nell'impresa solo una guerra contro gli eretici: una distinzione capziosa, di fronte alle devastazioni e ai danni religiosi irreparabili che ne derivarono. Negli anni fino al IV concilio Lateranense, il papa si rivelò irremovibile sull'uso della violenza nella lotta contro l'eresia: non sempre riuscì però a intuire i mutevoli giochi politico-militari fra Raimondo di Tolosa, l'ambizioso Simone di Montfort, re Pietro II d'Aragona e i contendenti coinvolti, né i legati interpretarono sempre fedelmente la volontà del pontefice. Anche se fu scarsamente informato sulle atrocità della guerra e se nuovamente si pose il problema della trasmissione delle notizie, con la connessa impossibilità di gestire in modo idoneo la variabile situazione politico-militare, non si può assolvere I. dalla corresponsabilità nell'accaduto, anzi è il primo papa colpevole di aver acconsentito che si abusasse dei privilegi crociati. Solo dopo la morte in battaglia del re aragonese a Muret, nel settembre 1213, I. contribuì a chiarire la situazione inviando un cardinale legato, il giurista Pietro di Benevento. Tutto mirava alla cessione dei territori conquistati a Simone di Montfort, anche se il legato dispose affinché fossero incorporati per un certo lasso di tempo nei possedimenti della Chiesa di Roma. Solo durante il IV concilio Lateranense il papa pronunciò, senza soddisfare nessuno, il verdetto in merito ai territori conquistati della Linguadoca, che conteneva in sé i presupposti di futuri conflitti. Simone di Montfort ottenne tutte le terre conquistate dai crociati, ma dovette prenderle in feudo dai precedenti titolari. La terra non conquistata sarebbe stata amministrata dalla Chiesa finché Raimondo VII, figlio di Raimondo VI, mandato in esilio, non fosse stato in grado di governarla autonomamente. La lunga ombra della crociata contro gli Albigesi non deve far dimenticare l'altro risvolto del confronto con gli eretici. I. venne incontro abilmente alle richieste dei gruppi riformistico-radicali e riuscì a ricondurli in seno alla Chiesa fissando regole più flessibili. Gli Umiliati, un movimento formatosi nelle città lombarde nell'ultimo quarto del XII secolo, raccoglievano laici e chierici, che conducevano una vita laboriosa, semplice, ispirata ai precetti del vangelo, ma nel 1184 erano stati tacciati di eresia a causa della pratica della predicazione dei laici. Tuttavia le loro comunità continuarono a sopravvivere e suscitarono ampi consensi grazie alle molte attività caritative e allo stile di vita esemplare. Poco dopo l'inizio del pontificato furono avviate le trattative tra il papa e gli Umiliati, che approdarono nel giugno 1201 al riconoscimento e alla regolamentazione da parte della Chiesa: tre rami furono ammessi (chierici e religiosi; laici che nelle comunità conducevano una vita ispirata al modello religioso; laici che vivevano in famiglia) e fu loro consentito di mantenere il proprio codice di vita edificante. Ebbero addirittura il permesso di conservare la pratica della predicazione dei laici, a condizione di osservare alcune restrizioni. I capi delle quattro principali comunità assunsero il controllo e formarono un Capitolo generale. Il riconoscimento degli Umiliati, che sopravvissero fino al XVI secolo, rappresentò una svolta nella posizione della Curia verso i movimenti religiosi e l'eresia. Analoga fu la vicenda con alcuni gruppi di Valdesi. In una pubblica disputa a Pamiers, al principio del 1207, il vescovo Diego di Osma e il suo vicepriore Domenico riuscirono a convincere gli interlocutori valdesi, il cui portavoce era Durando di Huesca, della superiorità della dottrina cattolica. I Valdesi erano pronti a tornare in seno alla Chiesa, a patto di poter continuare la loro vita apostolica, povera ed itinerante. A Roma si sottoposero ad un esame per provare la loro fede, furono riconosciuti dal pontefice come "pauperes catholici" e ottennero anche un "propositum conversationis". Promisero solennemente obbedienza ai vescovi e al papa e non solo poterono continuare nella loro predicazione, ma mantennero anche alcune usanze peculiari come la rinuncia a prestare giuramento. Durando di Huesca divenne uno zelante predicatore e con il suo scritto Liber antiheresis fece conoscere le idee di alcuni gruppi eterodossi. I poveri cattolici sopravvissero alcuni decenni e loro elementi residui confluirono negli Eremitani di S. Agostino. Nel 1210 un altro gruppo di Valdesi guidato da Bernardo Prim giurò obbedienza e in seguito ottenne dalla Curia il "propositum conversationis", la protezione papale e il permesso di continuare la predicazione itinerante, di convertire gli eretici e di rinunciare a qualsiasi proprietà. Ma dopo il 1212 non se ne ha più notizia. Non solo con i gruppi eterodossi riconquistati alla Chiesa ma anche in altre circostanze I. dimostrò una vigile sensibilità per le novità che affioravano nelle comunità religiose. Per favorire la loro integrazione con Roma, egli trovò spesso soluzioni a metà strada fra restrizioni giuridiche e magnanima condiscendenza, anche perché aveva una spiccata inclinazione personale per la vita degli Ordini ed eresse a programma la sua incentivazione: "ut temporibus nostris melius religio christiana proficiat et instituta regularia per nos de die in diem amplius convalescant" (Reg. I 202, pp. 209 ss.). Aveva una particolare predilezione per i Cisterciensi (la veste talare bianca del papa sembra aver avuto origine in questo periodo sul modello dell'Ordine), ma durante il pontificato tutta una serie di Ordini organizzati in modo più tradizionale ottenne il riconoscimento o la Regola dal papa: l'Ordine ospedaliero dello Spirito Santo di Guido di Montpellier (1198; nel 1204 lo trasferì a Roma e nel 1208, dopo la morte di Guido, la casa madre divenne l'ospedale di S. Spirito in Sassia), l'Ordine dei Trinitari di S. Giovanni di Matha (1198), l'Ordine teutonico (1199), l'Ordine ospedaliero di S. Marco a Mantova (1207). Con l'intento di perfezionare la disciplina il papa introdusse alcune novità, che trovarono un assetto stabile e vincolante nel IV concilio Lateranense, come ad esempio la convocazione di Capitoli nei monasteri direttamente soggetti alla Sede apostolica, per elaborare un programma comune di vigilanza e di riforma. Uno solo di questi Capitoli, quello di Perugia del 1203, ha lasciato il resoconto richiesto. Benché I. non tornasse più sulla questione, il progetto fu ripreso nel can. 12 del concilio Lateranense. I Capitoli generali triennali e i visitatori furono prescritti a tutti i monasteri. L'idea che tutti i religiosi impegnati nella missione in Livonia (Cisterciensi, Canonici Regolari, Benedettini) potessero essere riuniti in un unico Ordine (1201), governato da un'unica Regola e tenuto ad indossare un unico abito era originale, ma non trovò attuazione; e l'istituzione di un "universale coenobium" per tutte le religiose a Roma in S. Sisto (fine del 1207), allo scopo di perfezionare la disciplina e soprattutto la clausura, poté essere realizzata solo sotto Onorio III con l'aiuto determinante di s. Domenico. Particolarmente carico di significato è l'incontro di I. con s. Francesco che resta ammantato da un'aura di leggenda. Francesco, nella primavera del 1209, venne a Roma, insieme ai suoi compagni Penitenti di Assisi. Sostenuto dall'appoggio del vescovo locale, sperava di ottenere dal papa l'approvazione di un "propositum", di uno stile di vita conforme al vangelo e il permesso per la predicazione dei laici, poiché la vita apostolica itinerante, alla quale il gruppo si era votato, implicava anche la predicazione universale secondo il precetto biblico. Dopo che un cardinale incaricato ebbe esaminato le richieste con esito positivo, furono ricevuti in udienza dallo stesso I., il quale peraltro non accordò una conferma scritta, ma concesse comunque un'opportunità alla piccola comunità approvandone le intenzioni. Potevano predicare e realizzare il loro stile di vita radicale, a condizione di assoggettarsi ad un rigoroso controllo da parte del vescovo locale e della Santa Sede. Di una "conferma verbale" della Regola primitiva non si dovrebbe parlare in questo contesto, ma piuttosto di un positivo incoraggiamento. I. ha comunque dato spazio all'appassionato entusiasmo di Francesco, confidando nella possibilità di una stretta osservanza del vangelo. Come apprendiamo da Giacomo da Vitry, nella Curia crebbe la simpatia per i "fratres et sorores minores", sebbene non vi sia notizia di un altro incontro fra I. e il "poverello". Il papa non ebbe invece contatti con Chiara d'Assisi. I primi tentativi messi in atto da Domenico, nell'autunno del 1215, per ottenere dalla Chiesa di Roma l'approvazione della sua comunità di predicatori, già riconosciuta dal vescovo di Tolosa, e promuoverne in tal modo un'influenza universale, non ottennero i risultati auspicati. I. prese sotto la sua protezione solo la comunità di religiose fondata da Domenico a Prouille; la conferma dell'Ordine, come nel caso dei Minori, fu concessa solo sotto Onorio III. Il can. 13 del IV concilio Lateranense (Ne nimia religionum), che proibiva l'introduzione di nuovi Ordini religiosi e orientava gli aspiranti verso le Regole già approvate, non ha infatti nulla a che fare direttamente con Francesco o Domenico, ma esprime la preoccupazione di disciplinare i movimenti religiosi in rapido sviluppo con le loro molteplici forme di comunità. Il canone rimase, d'altronde, lettera morta. Anche nell'esercizio della sovranità temporale sul "Patrimonium S. Petri" e su Roma, I. determinò delle svolte che influenzarono a lungo il corso degli eventi. Con tempismo e risolutezza il pontefice seppe volgere a suo favore il crollo del potere imperiale nell'Italia centrale, dopo la morte di Enrico VI, per riesumare antiche pretese del papato, che furono estese dal Lazio alle Marche, al Ducato di Spoleto e alla Tuscia. Anche la Sardegna fu annoverata fra gli obiettivi del dominio papale, ma il progetto naufragò a causa della supremazia pisana. Malgrado l'estrema frammentazione del potere e le numerose rivalità locali, nell'arco di pochi anni vennero poste le basi per la creazione di un'amministrazione più efficiente nel "Patrimonium S. Petri", che avrebbe raggiunto nei pontificati successivi una notevole solidità. Una delle premesse per il successo di questa politica di recuperi territoriali era il solenne riconoscimento da parte dei re tedeschi (Ottone IV, Neuss 1201 e Spira 1209; Federico II, Eger 1213). Il dominio papale nelle Marche, in Umbria e nella Toscana meridionale rimase in superficie - le pretese sull'intera Tuscia vennero rapidamente abbandonate - e i Comuni e la nobiltà locale si adeguarono ai disegni del pontefice secondo l'opportunità del momento. I. si comportò da autentico sovrano temporale nella terra "que est a Radicophano usque ad Ceperanum", ossia nell'odierno Lazio. La sua parte settentrionale era stata imperiale sotto Enrico VI, ma già nei pochi mesi tra la morte di quest'ultimo e quella di Celestino III si era rivolta al papa. Quando I. volle però trasformare il riconoscimento puramente nominale delle città e dei grandi baroni di questo territorio in una sovranità effettiva, si scontrò con una violenta opposizione, soprattutto da parte di Orvieto e Narni, e il confronto, anche di natura militare, si protrasse fino al 1201. Nell'estate del 1207, contrariamente alle sue consuetudini, I. non scelse la Campagna come luogo di soggiorno estivo bensì Viterbo. Qui, negli anni precedenti, aveva attecchito saldamente l'eresia che si era diffusa tra le stesse autorità locali, una circostanza che rifletteva anche la distanza crescente dal governo temporale del pontefice. Mediante pene canoniche l'eresia era stata repressa ed a Viterbo era stato restaurato un regime politico consono. Ma il dominio papale divenne effettivo solo con la grande Dieta convocata per la prima volta in città nella seconda metà di settembre. I notabili laici e religiosi del "Patrimonium" della Tuscia furono vincolati sotto giuramento a riconoscere i diritti rivendicati dal papa e vennero approvate una tregua e disposizioni in merito alla giurisdizione del rettore. Quanto fosse precario quest'ordine solennemente istituito, fu evidente già pochi anni dopo, allorché i baroni del "Patrimonium" della Tuscia e le città ad eccezione di Viterbo si schierarono dalla parte di Ottone IV. Solo l'invio di un cardinale legato ristabilì la situazione, sicché nell'estate del 1210 venne opposta resistenza all'avanzata dell'imperatore, e il dominio da lui instaurato in quell'area si disgregò non appena Ottone abbandonò l'Italia alla fine dell'autunno 1211. Negli ultimi anni di pontificato il governo di I. a nord di Roma, soprattutto dopo che pure la ribelle Narni si piegò, fu incontrastato, anche perché egli seppe adattarsi alle molteplici forme dell'esercizio del potere delle città e della nobiltà. Nella Sabina e nel Lazio meridionale il dominio pontificio si era consolidato già dalla metà del XII secolo, rendendo così relativamente agevole la politica dei recuperi. I nobili più potenti della Sabina, in precedenza soprattutto sostenitori dell'Impero, si sottomisero rapidamente. Anche fra i grandi baroni della Campagna, dopo un iniziale stallo, si allargò il consenso per il nuovo papa. Il giuramento di vassallaggio ad Anagni, nel 1201, insieme all'"homagium ligium" di Giovanni da Ceccano, uno dei più influenti baroni della Campagna, stanno a simboleggiare questo favore. E la saldezza dell'autorità di I. come signore temporale emerse con evidenza nel conflitto sotterraneo che oppose, fra il 1202 e il 1204, i Frangipane e la città di Terracina per una questione di diritti signorili, e che fu ricomposto pacificamente grazie ad una sentenza del papa, rispettata da entrambe le parti contendenti. La maggior facilità con cui l'autorità papale veniva riconosciuta a sud di Roma dipende senz'altro anche dalla presenza molto più frequente della Curia nella Campagna, soprattutto durante i mesi estivi. Anche i rapporti di parentela contribuivano a rinsaldare i legami della regione col papa. Rilevante era la presenza del fratello di I., Riccardo, titolare di estesi feudi nel Lazio, che, con la Contea di Sora, si incuneava addirittura nel Regno, del cognato Pietro Annibaldi e del cugino, il maresciallo pontificio Giacomo Giovanni Oddolina: casi che esemplificano in modo eloquente queste relazioni. Sotto I. il carattere del dominio temporale del papa subì delle modifiche. Alle forme di governo, determinate prevalentemente da rapporti patrimoniali e da legami feudo-vassallatici, subentrò una specie di sovranità che imponeva ai sudditi una serie di obblighi, come testimonia un'obbedienza generale contenuta in una lettera del 1200 destinata a diverse città delle Marche: giuramento di fedeltà, da rinnovare ogni dieci anni, obbligo di prestare servizio militare, partecipazione alle Diete, tributo annuale e riconoscimento della suprema giustizia pontificia; a ciò si aggiungevano i vincoli di vassallaggio. I. poté realizzare realmente numerosi punti essenziali del programma per assicurare la pace nei suoi territori. Molti conflitti fra nobili e Comuni furono ricomposti pacificamente di fronte al tribunale pontificio, in forma di arbitrato o di sentenza alla fine di un processo. Nel corso di tutto il XIII secolo e anche oltre la più importante istituzione del "Patrimonium S. Petri" fu il rettorato della provincia. Era stato introdotto già intorno alla metà del XII secolo nel Lazio meridionale, ma I. rinvigorì questo sistema di amministrazione provinciale e lo estese anche alle altre regioni dello Stato della Chiesa. Da quattro a cinque rettori operavano contemporaneamente con un ampio ventaglio di mansioni amministrative e giuridiche. A partire da I. il loro avvicendarsi si può seguire in modo quasi ininterrotto. I detentori di quest'ufficio furono in prevalenza cardinali, ma non di rado anche laici, fra cui personaggi imparentati con il papa. Sotto l'aspetto militare questo sistema di governo poggiava sui "castra specialia", con cui si potevano controllare sia il territorio che le principali vie di comunicazione. Anche Roma, dato che I. si considerò il suo signore temporale con intensità molto maggiore rispetto ai suoi predecessori, divenne parte irrinunciabile della sua politica di recuperi. Ma per riuscire ad assicurarsi questo dominio il papa dovette impegnarsi in un lungo e difficile confronto, la cui valutazione, ardua a causa dell'univocità delle fonti, fa riferimento quasi esclusivamente ai Gesta Innocentii. Già nel 1198 scoppiarono disordini, fomentati da gruppi che avevano impedito a Celestino III un governo ordinato della città, ma I. riuscì in un primo tempo ad imporsi e ad ottenere ampi riconoscimenti. Tuttavia nel 1199 la guerra fra Roma e Viterbo scosse il fragile equilibrio fra il papa, le famiglie senatoriali più influenti e il Comune, che vedeva garantita la sua autonomia solo nell'opposizione ai disegni pontifici. Soltanto la vittoria su Viterbo di un esercito pontificio-comunale, all'inizio del 1201, parve consolidare di nuovo la posizione di I., il quale riuscì ad imporsi. Ma ben presto la labile situazione tornò a inasprirsi e finì per provocare una polarizzazione politica, nella quale emersero le famiglie dei Conti, degli Annibaldi, dei Capocci, degli Orsini, ed altre. La nuova nobiltà romana si formò nelle varie fasi del confronto con I. per il dominio sulla città. Nell'autunno del 1202 scoppiarono nuovi disordini, quando il clan degli Orsini fece ricorso alla forza contro alcuni parenti del pontefice, tra cui il fratello Riccardo, responsabile della Tor de' Conti presso il Foro Romano ed esponente della politica familiare intrapresa da Innocenzo III. Nella primavera del 1203 questi scontri degenerarono in guerra aperta, in seguito alla quale Riccardo venne scacciato dalla sua torre e costretto alla fuga. Fino all'autunno del 1204 a Roma la situazione si mantenne confusa: i partiti contendenti ingaggiarono una sanguinosa guerra civile che durò lunghi mesi. L'opposizione antipapale aspirava alla creazione di un Comune completamente autonomo, sul modello di quelli dell'Italia settentrionale. I. dovette addirittura abbandonare la città per un periodo piuttosto lungo, sebbene la posizione lievemente eccentrica del Laterano assicurasse una discreta protezione. Ma nell'ottobre del 1204, esaurite ormai le forze, la fazione antipapale dovette cedere le armi. I. dettò le condizioni della pace: Roma da quel momento in poi sarebbe stata soggetta al suo dominio, il papa avrebbe avuto l'ultima parola in merito alle cariche senatoriali, il radicalismo delle aspirazioni comunali era sconfitto. Per il resto del pontificato non sarebbero stati più contestati i diritti del papa al governo del Comune e i senatori nominati negli anni seguenti svolsero di fatto la funzione di suoi luogotenenti a Roma. Il clan dei Conti fu il principale beneficiario di questa situazione. Ma per prudenza I. continuò a risiedere nella sua solida torre presso S. Pietro per oltre un anno. Da questo momento la storia della città si fa assai meno vivace e solo l'incoronazione di Ottone IV, nell'ottobre 1209, vi riportò per breve tempo una certa agitazione. Evidentemente le forze dell'opposizione, mai realmente pacificate, intendevano far leva sui sentimenti antitedeschi. Tuttavia I. non dovette più fronteggiare in futuro conflitti interni alla città e la conclusione trionfale del suo pontificato, segnata dal IV concilio Lateranense, non venne più compromessa da dissidi di matrice romana. Quando I., nel novembre 1198, definì il Regno di Sicilia "Ecclesiae patrimonium speciale" (Reg. I 413, p. 621) alludeva al rapporto di dipendenza feudale dal papato, che risaliva alla metà del sec. XI, ed accennava ad un profondo impegno "in temporalibus", ulteriormente raf-forzato da eventi imprevedibili. Da cardinale Lotario aveva sperimentato come Enrico VI, in virtù dell'unione del Regno di Sicilia all'Impero, avesse posto un minaccioso ostacolo alla libertà della Chiesa romana stringendo in una morsa lo Stato pontificio e avesse propugnato tenacemente i diritti regi, soprattutto nelle nomine dei vescovi e nelle legazioni. Pertanto I., nel corso di tutto il suo pontificato, perseguì nella politica siciliana il duplice obiettivo di impedire la paventata unione con l'Impero e di ridurre l'influenza regia nel governo della Chiesa. Quando nel settembre del 1197, dopo la morte dell'imperatore, la vedova Costanza prese il potere, subito si rivolse al pontefice come signore feudale per migliorare la propria posizione e quella del figlio. Le trattative le fecero ottenere dopo oltre un anno l'auspicato riconoscimento al prezzo delle rinunce richieste. Ma non si giunse mai al previsto giuramento di vassallaggio - malgrado il documento con il testo del giuramento fosse già stato redatto - poiché Costanza morì il 27 novembre 1198. Nel suo testamento aveva nominato I. tutore del figlio, di appena quattro anni, e reggente del Regno. I. assolse questo compito con grande impegno e di conseguenza si trovò coinvolto per una decina d'anni in un viluppo spesso inestricabile di forze, in cui condottieri tedeschi, baroni gelosi della propria indipendenza, alti prelati, le città del Regno, il consiglio dei familiari residente a Palermo, le città portuali di Genova e Pisa, nonché avventurieri di varia provenienza si contendevano il predominio. In questa situazione confusa I., solo per brevi periodi, riuscì ad imporre la sua autorità e fu ripetutamente costretto a formare coalizioni, perché i suoi strumenti di potere erano limitati e i cardinali legati (fra gli altri Gregorio di S. Maria in Portico, Gerardo di S. Adriano, Gregorio di S. Teodoro) non si dimostrarono all'altezza delle sue aspettative. La politica siciliana assorbì ingenti quantità di denaro, che non furono compensate dalle entrate regie e dai risarcimenti successivi di Federico II. È difficile individuare le linee di questo conflitto decennale e determinare la posizione assunta di volta in volta dal papa. La prima fase fu segnata dal conflitto con Marcovaldo di Anweiler fino alla morte di questi nel 1202. Stretto collaboratore di Enrico VI, duca di Ravenna e margravio di Ancona, egli cercò di far fortuna dopo la perdita dei suoi domini nell'Italia settentrionale. Nell'autunno del 1199 si stabilì in Sicilia dove catturò il giovane Federico II. Malgrado alcune sconfitte subite ad opera delle armate pontifice al comando di Giacomo di Andria, imparentato con I., e di Gualtiero di Brienne, genero francese di Tancredi di Lecce, riuscì a consolidare il suo potere nell'isola, mentre sulla terraferma prevaleva l'influenza papale. Ancora più oscura appare la fase che si concluse con la fine della reggenza nel 1208. Sull'isola, in questi anni di anarchia, dominarono il capitano tedesco Guglielmo di Capparone, lo scaltro Gualtiero di Pagliaria, già cancelliere dell'imperatore e vescovo di Troia, Palermo e infine Catania, e addirittura il legato pontificio, mentre sulla terraferma Diepold di Schweins-peunt, conte di Acerra, e Gualtiero di Brienne, principale sostegno della politica papale - fino alla morte, prigioniero di Diepold, nell'estate del 1205 -, erano i due poli intorno ai quali si andavano formando mutevoli coalizioni. I. nel gennaio 1207 si lamentò del pesante fardello della reggenza: le notti insonni, l'eccesso di lavoro, che faceva coincidere il pranzo con la cena, la stesura di innumerevoli documenti, il rinvio di altri impegni importanti, le spese ingentissime e il sovraccarico di attività per i collaboratori più stretti (Reg. IX 249; P.L., CCXV, col. 1081). Quando all'inizio del 1208 cedette al fratello Riccardo la Contea di Sora, che si estendeva sul confine settentrionale del Regno, concepì questo gesto come un atto di conciliazione, insieme alla Dieta di S. Germano convocata in giugno, alla quale presenziò: in quest'occasione vincolò i convenuti - provenienti dalla parte settentrionale del Regno - sotto giuramento alle condizioni della pace e nominò due alti ufficiali affinché vigilassero sulla situazione. Ma le disposizioni del papa non furono osservate. Poco prima della fine della reggenza, nel dicembre 1208, poté concludere il matrimonio di Federico con Costanza di Aragona, da lui caldeggiato. Se il papa si era addossato tutti gli oneri della reggenza nella convinzione di giovare alla libertà della Chiesa, dovette subire ben presto un'amara delusione da parte del suo antico pupillo. Infatti Federico II non era affatto intenzionato a rinunciare ai tradizionali diritti dei sovrani normanni sulla Chiesa. Al contrario: già nel 1209 scoppiò un conflitto per l'assegnazione della sede arcivescovile di Palermo. Ma la sua recrudescenza venne frenata da un altro conflitto più grave, quello con l'imperatore Ottone IV. A partire dall'incoronazione imperiale del 1209 la politica siciliana del pontefice coincise con la politica intrapresa nei confronti dell'Impero. I. intrattenne relazioni con tutti i paesi della cristianità latina, ma anche con il mondo greco e addirittura con i capi musulmani. La sue lettere raggiunsero quasi tutte le terre conosciute all'epoca, documentando l'universalità del papato. In esse le questioni ecclesiastico-religiose si mescolano con quelle più strettamente politiche, ma le prime ebbero sempre il sopravvento. Per lo più partivano dalla periferia e non dalla Curia stessa. Avevano lo scopo di ottenere una sentenza giudiziaria, avere risposta ad un quesito giuridico oppure dottrinario, assicurarsi diritti già acquisiti o conquistarne di nuovi. Solo pochi temi sono direttamente riconducibili all'iniziativa romana, ma vennero affrontati allora con grande tenacia: la crociata, la lotta contro l'eresia, la riforma della Chiesa, il concilio e naturalmente il dominio temporale del "Patrimonium S. Petri" e, in senso più ampio, del Regno di Sicilia. Pertanto il quadro che se ne ricava dei rapporti del pontefice con gli altri paesi risulta deformato, poiché le tante questioni sulle quali I. e l'apparato curiale intervennero - su sollecitazione esterna piuttosto che per autonoma iniziativa - erano regolate dal diritto canonico comune, tuttavia presentano numerose varianti e soprattutto potrebbero essere descritte solo disponendo di molti dettagli. I rapporti si delineano più chiaramente attraverso l'angolo di visuale delle legazioni, che I. affidò, con una consistenza e un'ampiezza di raggio d'azione fino ad allora sconosciute, soprattutto a cardinali, ma anche ad altri uomini della Curia o ad abati e semplici monaci, in particolare cisterciensi. Nella loro prospettiva il potere papale si materializza in modo più tangibile. Le legazioni più frequenti riguardavano l'Italia, dove le mete principali erano il "Patrimonium S. Petri" e il Regno del Sud, seguiti dall'Italia settentrionale e, in ordine decrescente, Francia e Germania, Inghilterra, Oriente e Impero latino, Ungheria, Dalmazia, Spagna, Bulgaria, ecc. In qualche caso il pontefice inviò in alcune regioni anche incaricati speciali, che portavano altri titoli, per assolvere compiti più circostanziati: per esempio, i "visitatores", che fra il 1205 e il 1208 dovettero eliminare alcuni abusi nell'episcopato lombardo. In seguito sarà sufficiente limitare l'analisi in modo paradigmatico ad alcuni paesi dove l'aspetto politico è in primo piano: Germania, Francia, Inghilterra, Aragona e, nell'area più periferica, Ungheria e Bulgaria. L'atteggiamento di I. nella disputa per il trono tedesco, ben documentato dal Regestum Innocentii III super negotio Romani imperii, a dispetto delle sottili argomentazioni giuridiche e morali addotte - già illustrate in precedenza trattando la concezione papale del rapporto fra "Imperium" e "Sacerdotium" - dipendeva unicamente da motivi politici, ossia dalla preoccupazione di difendere la libertà della Chiesa romana e la consistenza dei recuperi territoriali e di stornare la minaccia di una "unio regni ad imperium". Poiché i due pretendenti (Filippo di Svevia, eletto il 6 marzo 1198 a Mühlhausen, in Turingia, dalla maggioranza dei principi, e incoronato a Magonza dall'arcivescovo di Tarantasia, che non ne aveva facoltà, e Ottone di Brunswick, eletto a Colonia l'8 giugno 1198, incoronato ad Aquisgrana dall'arcivescovo "idoneo" di Colonia), per migliorare le rispettive posizioni, ambigue dal punto di vista giuridico, cercarono di guadagnarsi il favore del pontefice e chiesero di ricevere da lui la corona imperiale, molto dipese dalla decisione di I., soprattutto relativamente ai principi ecclesiastici vincolati dall'obbedienza al pontefice. Poiché sul fronte degli Hohenstaufen veniva portata avanti la politica già perseguita da Federico Barbarossa e da Enrico VI, e Filippo negò l'auspicata sottomissione, il papa non poté che scegliere Ottone, disposto a riconoscere i diritti e i possedimenti della Chiesa romana. Ma I. si fece garantire sulla base di documenti scritti queste promesse. Dopo che il papa, tra la fine del 1200 e il 1201, rilasciò la sua dichiarazione dinanzi ai cardinali, nella nota Deliberatio de tribus electis, Ottone, la cui posizione nel frattempo era peggiorata, il 9 giugno 1201 presentò a Neuss il documento prescritto, che conteneva ampie assicurazioni relativamente ai territori e si impegnava ad appoggiare la politica papale di recuperi e a mantenere l'indipendenza del Regno di Sicilia. Alcune settimane più tardi il legato pontificio Guido pubblicò solennemente a Colonia il riconoscimento papale nei confronti di Ottone e annullò i giuramenti di fedeltà prestati a Filippo di Svevia. I. replicò nel marzo 1202 alle rimostranze dei fautori del partito svevo ribadendo i principi basilari già formulati nel 1201 nella decretale Venerabilem. La pretesa, espressa anche in questa circostanza, di poter dichiarare non vincolante il giuramento di fedeltà a Filippo e l'ordine di tributare ad Ottone onori regali, apparvero eccessivi a molti contemporanei e suscitarono in numerosi sostenitori di Filippo conflitti di coscienza. I. ne era consapevole e quindi procedette con una certa flessibilità. Obbligò solo pochi vescovi partigiani degli Hohenstaufen a schierarsi dalla parte di Ottone; in molti casi finse di ignorare che continuavano a restare fedeli a Filippo e si adoperò per attenuare le scomuniche che il legato aveva inflitto ai prelati. L'appoggio dato al guelfo, giustificato con un alto impegno intellettuale, poté soltanto rinviare il suo declino. Dal 1204 si innescò un ampio movimento di defezioni, per cui nell'autunno del 1206 Ottone era ormai confinato nelle sue terre d'origine. I. gli tolse gradualmente il suo sostegno e avviò trattative con Filippo, il quale già ne aveva fatto richiesta dal 1203. Nella primavera del 1207 due dei cardinali più agguerriti si recarono in Germania, in estate annullarono la scomunica di Filippo, in autunno annunciarono una tregua e nella primavera seguente ripartirono alla volta di Roma accompagnati da emissari di entrambi i sovrani, affinché il papa stesso concludesse le trattative. L'obiettivo fu raggiunto, ma si ignora il contenuto preciso degli accordi. Filippo acconsentì verosimilmente a rinunciare alle pretese sul Regno di Sicilia e in merito all'Italia centrale si dovette giungere ad un compromesso. La morte di Filippo, ucciso da Ottone di Wittelsbach per una vendetta personale, il 21 giugno 1208, restituì ad I. la sua libertà di manovra. Il papa si rivolse di nuovo al candidato guelfo e si impegnò a sostenere energicamente la sua causa fra i principi tedeschi. Tuttavia, ancor più decisivo della sua iniziativa fu lo stato d'animo dominante in Germania, ormai estenuata da questa contesa: l'elezione di Ottone a Francoforte, l'11 novembre 1208, fu accolta da ampi consensi. Al desiderio di Ottone di ricevere la corona imperiale, I. rispose inviando due cardinali legati e rinnovando la richiesta di concessioni scritte, che venne soddisfatta a Spira il 22 marzo 1209. Le promesse relative alla Chiesa (libertà nella elezione dei vescovi, rinuncia ai diritti di regalia e di spoglio) e il reiterato riconoscimento delle "recuperationes", delle terre matildine e del Regno di Sicilia come feudo papale non vennero purtroppo ribaditi da Ottone IV in occasione dell'incontro con il pontefice nel giugno 1209, per cui sull'incoronazione imperiale, il 4 ottobre 1209, già si allungava l'ombra del conflitto. Poiché Ottone venne meno alle promesse, solo pochi mesi dopo I. lo minacciò di scomunica se non avesse desistito dal prendere iniziative ostili nei confronti della Chiesa romana e di Federico II. La scomunica fu confermata allorché un distaccamento di truppe imperiali avanzò verso l'Italia meridionale, e venne proclamata solennemente quando Ottone, nel novembre 1210, varcò i confini del Regno. Furono sciolti i giuramenti di fedeltà e ai vescovi fu ordinato di annunciare l'anatema in tutto l'Impero. Di fronte alla mancanza d'efficacia delle misure canoniche il papa, dopo alcuni mesi di incertezza, avallò le intenzioni di un gruppo di oppositori fra i principi tedeschi e diede il suo assenso all'elezione di un nuovo sovrano. Eletto nel settembre 1211, Federico II, che poté registrare i primi successi della sua politica di rivendicazioni proprio nel Regno di Sicilia, si assunse i rischi dell'impresa e dopo aver lasciato l'isola, nel marzo 1212, si assicurò a Roma l'appoggio del papa e nel settembre seguente raggiunse la Germania sud-occidentale. (Nuova elezione a Francoforte nel dicembre 1212 e incoronazione a Magonza). Sostenuto dall'alleanza con la Francia, Federico ingaggiò battaglia con Ottone, che alla fine venne sconfitto a Bouvines nel luglio 1214. Ma già in precedenza I. aveva chiesto, in cambio del suo appoggio, le più solenni assicurazioni. A Eger Federico garantì con una bolla d'oro e la menzione di numerosi testimoni principeschi le concessioni territoriali ed ecclesiastiche, come Ottone IV già aveva fatto quattro anni prima, e un anno più tardi assegnò solennemente alla Chiesa romana i territori recuperati, la Sardegna e la Corsica. Un anno dopo la nuova incoronazione ad Aquisgrana, il 25 luglio 1215, Federico dovette acconsentire a dare altre assicurazioni sotto giuramento dinanzi ad un cardinale legato: rinunciare alla Sicilia dopo l'incoronazione imperiale e alla patria potestà sul figlio Enrico, incoronato re di Sicilia, e affidare ad un uomo approvato dal papa la tutela del bambino fino alla maggiore età. Il concilio Lateranense confermò le trasformazioni politiche e vanificò qualsiasi speranza di restituzioni di Ottone IV, che rimase confinato nelle sue terre d'origine. L'intervento nella disputa per il trono tedesco aveva costretto I. a numerose inversioni di rotta, che in precedenza aveva respinto per ragioni di ordine giuridico e morale. Le ripetute, e puntualmente disattese, assicurazioni dei re tedeschi dimostrarono quanto fosse precaria la posizione del pontefice ed effimera la sua autorità, se non era in sintonia con gli interessi politici. Ma come risultato a lungo termine il pontefice poté assicurarsi il riconoscimento della sovranità feudale sul Regno di Sicilia ed imporre la sua politica di recuperi nell'Italia centrale. Inoltre, tramite le decretali, era stato sancito il diritto d'intervento del papa, che poteva essere agevolmente trasferito dal caso dell'elezione contestata a quella ordinaria. Del complesso delle lettere di I. circa un terzo è destinato alla Francia: più che a tutti gli altri paesi. Più volte il papa manifestò la sua predilezione per il paese in cui aveva studiato. "Tibi et regno tuo specialiter nos teneri fatemur", scrisse al re Filippo II Augusto (Reg. I 171, p. 243) e durante tutto il pontificato gli riconoscerà l'attributo di "specialis". I rapporti con il re di Francia ruotarono principalmente intorno a tre temi: il matrimonio con Ingeborg, la guerra anglo-francese e la lotta all'eresia nelle regioni meridionali. La principessa danese, sposata nel 1193 e subito ripudiata, si era appellata alla Sede apostolica contro la sentenza di annullamento emessa dal compiacente episcopato francese e già sotto Celestino III aveva ottenuto giustizia, ma ciò non aveva impedito al re di prendere in moglie Agnes di Andechs-Meranien. I. riprese subito la causa e nel 1200, in seguito all'ostinato rifiuto di Filippo di separarsi da Agnes per riunirsi ad Ingeborg, colpì addirittura il Regno di Francia con un interdetto di nove mesi, si adoperò per far riconciliare la coppia e rimase tenacemente schierato dalla parte di Ingeborg fino alla soluzione puramente formale della vicenda nel 1213, pur astenendosi dal prendere provvedimenti radicali per timore delle ripercussioni politiche. In previsione della crociata, già nel 1198 la guerra anglo-francese venne arginata e un cardinale legato svolse un ruolo decisivo nelle trattative che condussero infine alla pace di Le Goulet (22 maggio 1200), che separò i belligeranti per un certo periodo di tempo. Ma i tentativi di mediazione di I. negli anni successivi si rivelarono infruttuosi: Filippo II Augusto portò a termine la conquista delle provincie inglesi sulla terraferma, senza curarsi affatto dei moniti e delle minacce di Roma. È opportuno ricordare nuovamente in questo contesto la decretale Novit, che giustificò l'intervento papale "ratione peccati". Nel 1202 era già stata messa in risalto la sovranità del re rispetto all'imperatore. Invece l'invito rivolto al re francese di sottomettere l'Inghilterra a causa dell'atteggiamento ostinato di Giovanni Senzaterra nel grande interdetto, avrebbe avuto seguito se Giovanni, in ultimo, non avesse ceduto il suo Regno come feudo alla Santa Sede nel 1213. Così I. cambiò completamente la sua posizione. Il papa poté annoverare fra i propri successi la mediazione pacificatrice dopo la disfatta di Bouvines e l'annullamento dei progetti d'invasione dell'Inghilterra da parte del figlio primogenito di Filippo Augusto. Infatti la cessazione delle ostilità in Occidente avrebbe reso disponibili soldati per la crociata. Della crociata contro gli Albigesi e dell'atteggiamento del sovrano francese, si è già parlato in precedenza. I rapporti di I. con l'Inghilterra possono essere considerati esemplari per quel che riguarda le relazioni del papa anche con altri paesi. In linea di massima I. non avanzò richieste nuove, ma mostrò una determinazione molto maggiore e sottolineò costantemente che ciò discendeva dalla sua supremazia spirituale. L'aspetto politico e quello esclusivamente religioso appaiono inscindibili; il primo, tuttavia, ebbe implicazioni internazionali, soprattutto nei confronti della Francia e nella contesa per il trono tedesco. I primi anni del pontificato furono segnati dagli sforzi profusi da I., da un lato, per assicurarsi il sostegno del sovrano inglese a favore di Ottone IV, dall'altro, soprattutto in vista della crociata, per giungere ad una pace tra il re di Francia e il suo avversario inglese. Ma il papa non riuscì ad evitare che Filippo II conquistasse la Normandia né a convincerlo a tornare sui propri passi. Dal 1205 lo spinoso conflitto per l'elezione dell'arcivescovo di Canterbury pesò in modo determinante sui rapporti con l'Inghilterra. I. respinse sia il candidato del Capitolo sia il vescovo Giovanni di Norwich, appoggiato da Giovanni Senzaterra, annullò entrambe le elezioni e fece scegliere da membri del Capitolo presenti a Roma Stefano Langton, cardinale inglese ed ex professore di teologia dell'Università di Parigi. Il papa intendeva imporlo a Canterbury mediante sanzioni di ordine spirituale. In seguito all'opposizione del sovrano, nel marzo del 1208 lanciò l'interdetto su tutta l'Inghilterra, provocando in risposta misure di ritorsione da parte del re. Alla fine, dopo il fallimento delle trattative, Giovanni Senzaterra venne scomunicato nel gennaio 1209. Al contrario di altri paesi gli abitanti dell'isola sentivano l'autorità papale con molta intensità. Dopo che la vita religiosa per anni declinò e Giovanni Senzaterra proseguì nella sua politica di repressione, I., nel febbraio 1213, gli pose un ultimatum - i documenti per lo scioglimento dei sudditi del sovrano dal giuramento di fedeltà erano già pronti - ed esortò il re di Francia a conquistare l'Inghilterra. Poiché Giovanni temeva di non poter più fare affidamento sui suoi baroni, mutò bruscamente atteggiamento e, nel maggio 1213, accettò le condizioni di pace del papa, acconsentendo a riconoscere Stefano Langton come nuovo arcivescovo, a reintegrare nelle loro sedi i vescovi scacciati e a restituire i beni ecclesiastici confiscati. Il 15 maggio 1213 cedette il Regno alla Sede apostolica e lo riottenne in feudo contro il pagamento di un censo annuale di 1.000 libbre. Di conseguenza il pontefice sospese immediatamente l'intervento francese e inviò alcuni legati per riorganizzare la Chiesa inglese. I. non riuscì ad impedire la nuova spedizione di Giovanni Senzaterra sulla terraferma, che si concluse con la sconfitta di Bouvines (27 luglio 1214), ma il cardinale legato Roberto di Corson fu coinvolto nella mediazione che condusse alla tregua. Anche nel confronto fra Giovanni Senzaterra - che il 4 marzo 1215 aveva preso la croce - e i baroni ribelli, che l'avevano costretto a sottoscrivere la Magna Charta (12 maggio 1215), I. appoggiò il nuovo vassallo dichiarando nulla la validità del documento il 24 agosto 1215. (Poiché l'arcivescovo di Canterbury non diede seguito a questo verdetto, venne sospeso!). Il pontefice, con sanzioni spirituali, cercò di scongiurare la minaccia di un trasferimento del Regno d'Inghilterra al figlio di Filippo Augusto, al quale i baroni ribelli avevano offerto il trono, e inoltre dispose un riordinamento interno della Chiesa inglese affidando il compito al suo legato Guala, un cardinale fra i più validi, che al momento della morte del papa e del re (19 ottobre 1216) era in piena attività. Costui provvide ad assicurare il trono al minorenne Enrico III, a concludere la pace e ad annullare negli anni seguenti le conseguenze del grande interdetto. I re d'Aragona, fin dall'epoca di Urbano II, beneficiarono della protezione papale, che nei confronti di Pietro II (1169-1213) assumerà tratti particolari. I., nei primi anni di pontificato, si impegnò per il mantenimento della pace tra i Regni spagnoli. Nel 1204 il re si recò a Roma e venne accolto solennemente dal pontefice alle porte della città, fu unto dal cardinale vescovo di Porto, incoronato da I. e investito delle insegne regali. Da parte sua, Pietro prestò giuramento di fedeltà e di obbedienza alla Chiesa romana e al pontefice. In S. Pietro offrì il suo Regno all'apostolo Pietro, promise un censo e dopo poche ore lasciò Roma per imbarcarsi alla volta dell'Aragona. Contrariamente ad una lunga tradizione storiografica, questa cerimonia - la prima unzione ed incoronazione di un sovrano aragonese - non fu un atto regolato dal diritto feudale, per cui Pietro diventava vassallo del pontefice avendo prestato un giuramento feudale; il re cercò semplicemente di rafforzare in tal modo la protezione papale per consolidare la propria posizione nel conglomerato di terre situate su entrambi i versanti dei Pirenei, sulle quali esercitava la sua autorità oltre al nucleo territoriale originario. L'oblazione del Regno equivaleva al riconoscimento del potere papale "in temporalibus" e ad una particolare forma di sottomissione, da cui discendeva il riconoscimento del potere regio di Pietro. Ma I. mantenne un certo ritegno nei confronti delle richieste dell'aragonese e rifuggì da riconoscimenti di carattere giuridico. La protezione papale si dimostrò efficace non tanto per garantire gli incerti confini territoriali del Regno, quanto piuttosto per ostacolare all'interno i rivali di Pietro. Questo legame, così fondato, non resse tuttavia alle esigenze politiche durante la crociata contro gli Albigesi e Pietro II, avendo deciso di ottemperare agli obblighi nei confronti del suo feudatario, il conte Raimondo di Tolosa, combatté contro i crociati fino alla morte avvenuta a Le Muret nel settembre 1213. Alcune settimane prima (4 luglio 1213) aveva ricevuto la conferma della protezione papale, auspicata fin dal lontano 1204, anche se I. non concesse nulla di più della protezione e dell'indulto di pene canoniche riservate al papa, indulto in vigore dai tempi di Urbano II. Il documento doveva impedire a Pietro di appoggiare i suoi vassalli eretici, ma rimase privo di effetti. Confidando nello speciale rapporto di protezione, la vedova di Pietro II, Maria di Montpellier, decise nel suo testamento di nominare I. tutore dell'erede, l'infante Giacomo di sei anni, che nella speranza di ristabilire la pace era stato promesso alla figlia di Simone di Montfort e dunque era nelle sue mani. Il papa in effetti salvò il trono al giovane principe. Il cardinale legato Pietro di Benevento lo scortò in patria, costituì un governo per il periodo di tutela e persuase nobili e città a rendere omaggio all'infante nel 1214. E I. assolse molto seriamente il suo impegno di tutore, anche quando nel 1215 diffidò il figlio di Filippo Augusto, diretto a sud alla testa di un esercito di crociati, dall'attentare ai possedimenti dell'aragonese nella Francia meridionale. L'efficacia della diplomazia pontificia non deve comunque essere sopravvalutata. I suoi fallimenti furono più numerosi dei successi pieni e duraturi. I rapporti con il re Enrico di Ungheria (1196-1204) ne sono un eloquente esempio. Nei primi anni di pontificato I. si adoperò - con risultati positivi - per ricomporre la disputa tra il re e il fratello Andrea, soprattutto in vista di un coinvolgimento ungherese nella crociata, che parve realizzarsi quando entrambi i fratelli presero la croce. Per questo motivo il papa sorvolò su alcune spinose questioni, quali talune promesse non mantenute nei confronti della Serbia o la riorganizzazione della Chiesa serba da parte di vescovi ungheresi. Ma l'aggressione a Zara, da circa vent'anni ungherese, da parte dell'esercito crociato, condannata dal papa molto tiepidamente, guastò i rapporti, come pure gli intensificati contatti con la Bulgaria di Kalojan (Joannitsa 1197-1207), che aveva mire espansionistiche ed era in lite con l'Ungheria a causa di conflitti irrisolti soprattutto in Serbia. La prospettiva di riunire la Chiesa bulgara a quella latina, estendendo così la giurisdizione papale nei Balcani, indusse I. ad accondiscendere alle richieste di Kalojan, che desiderava essere innalzato di rango ed incoronato. Ma la legazione del cardinale Leone di S. Croce nei Balcani dalla primavera del 1204 era nata sotto auspici sfavorevoli. Pur riuscendo a scongiurare la guerra imminente fra Kalojan e Enrico, non si giunse ad un arbitrato in merito agli oggetti del contendere: il legato fu anzi preso prigioniero dal sovrano ungherese per impedirgli di proseguire il viaggio per la Bulgaria, allo scopo di ottenere altre concessioni. Per motivi non chiariti - in ogni caso non in seguito alle proteste e alle minacce del papa - il legato alla fine venne rilasciato e il 4 novembre 1204 incoronò Kalojan re della Bulgaria. Ma la prevista mediazione di pace fra Bulgaria e Ungheria fallì. Neppure gli atti d'amicizia nei confronti di Kalojan poterono impedire l'aggressione sferrata contro l'Impero latino, che si concluse con la disfatta di Adrianopoli, la cattura e la morte dell'imperatore Baldovino alcuni mesi più tardi. Nessuno dei problemi politici dei Balcani fu risolto definitivamente dalla diplomazia pontificia, che raccolse solo successi effimeri: né i conflitti fra Bulgari e Ungheresi, né la riorganizzazione della Chiesa serba o le dispute intorno alla sovranità in Serbia, o ancora l'espansionismo bulgaro antitetico alle intenzioni latine. L'apogeo del pontificato di I. coincide con il concilio celebrato nella basilica del Laterano dall'11 al 30 novembre 1215. La convocazione con la bolla Vineam Domini Sabaoth (19 aprile 1213) e l'appello alla crociata, di pochi giorni successivo, Quia maior nunc, mettono in risalto la stretta connessione fra gli obiettivi della riforma della Chiesa e della riconquista della Terrasanta. Ma dovevano essere risolti anche i problemi politici che laceravano la cristianità. Per preparare il concilio il pontefice ordinò la raccolta di "gravamina", ma le altre fonti tacciono su questi resoconti. All'apertura del concilio presenziarono oltre quattrocento vescovi, ottocento abati e priori e molti rappresentanti delle potenze secolari, sicché il Laterano IV fu il concilio più frequentato del Medioevo. L'affollamento era tale che alcuni convenuti vi morirono. Il sermone introduttivo del pontefice, profondamente radicato nel suo bagaglio intellettuale, verteva sul tema biblico "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione" (Luca 22, 15) rielaborando entrambi gli argomenti della riforma della Chiesa e della liberazione di Gerusalemme. Lo svolgimento del concilio è ben documentato dal resoconto di un testimone oculare e dimostra che i canoni conclusivi furono discussi solo in piccola parte. Invece, in presenza del pontefice, furono trattate nel corso di tre sedute numerose questioni ecclesiastiche e politiche: l'elezione contestata del patriarca latino di Costantinopoli e i diritti primaziali dell'arcivescovo di Toledo nei confronti degli arcivescovi di Braga, Santiago de Compostela, Tarragona e Narbona. Si era già parlato del riassetto della carta geopolitica della Francia meridionale a favore di Simone di Montfort, malgrado la presenza dei conti di Foix e di Tolosa. La decisione in merito alla legittimità di Ottone IV o Federico II come sovrano tedesco non fu affrontata, perché fra gli emissari nemici scoppiò una rissa. Nella terza sessione, il 30 novembre, venne approvato solennemente il Credo, fu condannata l'eresia, specialmente quella di Gioacchino da Fiore e di Amalrico di Bena, e fu approvata la crociata con la bolla Ad liberandam. Con la crociata, che doveva procedere senza intralci, I. motivò anche la scomunica dei baroni inglesi, che si erano sollevati contro Giovanni Senzaterra, e la sospensione dell'arcivescovo di Canterbury Stefano Langton. Confermò, inoltre, definitivamente Federico II e condannò Ottone IV. Solo a conclusione del concilio vennero proclamati i settanta decreti che non furono però votati. Non erano neppure stati integralmente formulati, perché la redazione finale e la diffusione ai vescovi fu rinviata al 1216. Possono essere considerati opera di I., che in tal modo fece sancire dal concilio i suoi propositi dogmatici e riformatori. Se ne possono individuare le premesse nelle opere del papa e nelle decisioni prese fino a quel momento, piuttosto che nei concili provinciali precedenti al 1215, ai quali in parte presenziarono legati pontifici (Avignone 1209, Parigi 1212, Montpellier 1215). La professione di fede introduttiva Firmiter (can. 1) aveva un orientamento espressamente antieretico e rielaborava nella dottrina dei sacramenti concetti della scuola teologica di Parigi, per esempio la transustanziazione. Le due costituzioni seguenti (cann. 2, 3) trattavano delle eresie di Gioacchino da Fiore e dell'eresia in particolare. Le costituzioni riformatrici si riferivano a quasi tutti i settori della vita ecclesiastica. Alla moralità del clero si provvide con circostanziate norme di comportamento (cann. 14-20) e si rinnovò la condanna di ogni forma di simonia (cann. 63-6). Venne messa in risalto la responsabilità dei vescovi nella cura delle anime e fu loro prescritto di preoccuparsi anche della scelta di predicatori e confessori idonei (can. 10), nonché di insegnanti da destinare alle cattedrali per la preparazione del clero (can. 11), e soprattutto di sorvegliare la formazione dei candidati al sacerdozio (can. 27). Le disposizioni in merito all'elezione canonica dei vescovi, libera dall'influenza temporale, "per inspirationem, per scrutinium, per compromissum", continuarono ad avere effetto per secoli (cann. 24-6). Anche il compito di tenere periodicamente Capitoli provinciali e di visitare gli Ordini venne menzionato, insieme al divieto di fondare nuovi Ordini religiosi (cann. 12, 13). L'obbligo della decima venne esteso anche ai conventi (cann. 55-6) e, vista la contiguità con la simonia, il concilio proibì di chiedere denaro all'ingresso di un candidato in convento (can. 64). L'obbligo della confessione annuale e della comunione pasquale per tutti i credenti (can. 21) fu il più duraturo nel tempo. Anche la regolamentazione del diritto matrimoniale continuò ad essere valida per secoli e in parte lo è ancora oggi nella Chiesa: poiché le regole invalse fino ad allora, secondo le quali i parenti fino al settimo grado non potevano contrarre matrimonio, avevano provocato molti abusi e reso quasi impossibili le unioni fra nobili, il can. 50 ridusse l'impedimento al matrimonio fra parenti al quarto grado e il can. 52 abolì la "affinitas secundi et tertii generis". I matrimoni clandestini vennero proibiti e ai parroci venne imposto l'obbligo di rendere pubblica l'intenzione di celebrare il matrimonio (can. 51). Prescrizioni assai dettagliate completarono la procedura dei processi romano-canonici (cann. 8, 24, 42, 48, 61). Le disposizioni contro gli ebrei (divieto di commerciare e di assumere cariche pubbliche; contrassegno sulle vesti; cann. 67-70) contribuirono a discriminarli. A eccezione di pochi canoni (42, 49, il can. 71 della crociata), i decreti vennero inseriti nel Corpus Iuris Canonici e lasciarono la loro impronta sulla Chiesa più di qualsiasi altro concilio medievale fino al tridentino. I. morì il 16 luglio 1216 a Perugia. Restò sepolto fino al 1892 nella cattedrale di questa città, poi le sue spoglie furono traslate a Roma in S. Giovanni in Laterano. Sebbene i posteri abbiano negato a I. l'appellativo di Magno, egli deve essere annoverato fra i più grandi papi del Medioevo, se si tiene conto di come egli abbia raggiunto molti degli obiettivi che si era prefissato e della duratura influenza del suo pontificato. Durante il suo pontificato l'intera Chiesa riconobbe il primato del papa e della Sede romana più di quanto non fosse avvenuto prima e il gran numero di decretali da lui emanate evidenzia come la successiva evoluzione del diritto canonico sarebbe stata, da allora in poi, una prerogativa papale. I canoni del IV concilio Lateranense sono in parte ancora in vigore. Rivestì un'enorme importanza anche la sensibile apertura del centro della cristianità ai nuovi movimenti religiosi e alla loro integrazione. Gli esordi dei Minori e dei Predicatori si collocano durante il suo pontificato. Per riorganizzare la Curia papale venne creato un apparato amministrativo che operò poi a lungo. Nella sfera del potere temporale I. riuscì ad assicurare in modo duraturo la sovranità pontificia nel "Patrimonium S. Petri". Le ombre che tuttavia connotano questo pontificato riguardano i rapporti tra la Chiesa latina e quella greca, che fin dalla IV crociata, proclamata da I. ma sfuggita al suo controllo, e dopo la conquista di Costantinopoli, si guastarono irreparabilmente. Anche la crociata bandita dal papa contro gli Albigesi, nel legittimare l'uso della forza per combattere l'eresia, rappresenta una svolta nella storia della Chiesa che perdurerà nei secoli e i dispositivi del procedimento inquisitoriale crearono le premesse per la successiva infausta azione del tribunale speciale dell'Inquisizione. Già i contemporanei - osservatori e cronisti, che ne hanno lasciato una vivida memoria - riconobbero la straordinaria personalità di I. e non furono avari nei suoi confronti di epiteti celebrativi come "stupor mundi" (Matteo Paris, Geoffroy de Vinsauf). Spesso lo paragonarono a Salomone per il suo ininterrotto impegno a favore del diritto (Ranieri di Pomposa, un anonimo poema e una testimonianza personale del 1202), e Martino di Troppau espresse il giudizio che si manterrà intatto nei secoli: "in omnibus gloriosus". Al contrario, sono rare le voci dissonanti e la più nota tra esse è quella di Walther von der Vogelweide, poeta che comunque militava nello schieramento degli Hohenstaufen.
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Nel settembre 1998 si è svolto a Roma un grande convegno su I., i cui atti (previsti in IV voll.) saranno pubblicati a cura dell'Istituto storico italiano per il Medioevo.
Traduzione
di Maria Paola Arena.