INNOCENZO III
Lotario nacque nel 1160 o 1161 a Gavignano, nel Lazio meridionale, figlio di un Trasmundo "de comitibus Signie", con cui non si allude al titolare di un'altrimenti sconosciuta contea di Segni, ma ad un membro della nobiltà fondiaria che poteva essere annoverato tra i notabili della cittadina vescovile. Sua madre Clarissa apparteneva alla famiglia romana degli Scotti, una circostanza che segnala precoci relazioni con Roma dei Conti, come in seguito la stirpe di Lotario sarà chiamata. Proprio il pontificato di I. dà l'avvio all'ascesa della famiglia, che diventerà una delle casate nobiliari più influenti dell'Urbe fino agli inizi dell'Evo moderno.
Lotario ricevette la prima educazione a Roma e in seguito, nella seconda metà degli anni Settanta, fu mandato a Parigi, all'epoca centro della formazione teologica per l'Occidente, al fine di migliorare le sue opportunità di una brillante carriera nella Chiesa. Seguì così l'esempio di un numero crescente di rampolli della nobiltà romana che, a partire dalla metà del XII secolo, e con lo stesso scopo, soggiornarono in Francia. In seguito Lotario avrebbe spesso rievocato, con parole calorose, il periodo di studi trascorso a Parigi. Qui, dopo aver frequentato i corsi di arti liberali, si dedicò alla teologia.
Gli studi parigini segnarono profondamente il suo modo di pensare e di argomentare e lo misero in contatto con un'élite intellettuale sulla quale, divenuto papa, poté in parte appoggiarsi, non da ultimo nominando cardinali alcuni suoi esponenti. Secondo l'anonima biografia del pontefice, i Gesta Innocentii III, Lotario studiò anche a Bologna, ma non si va oltre questa breve notizia. Poiché Bologna era il centro indiscusso degli studi di diritto romano e canonico, le congetture secondo cui Lotario possa avervi studiato teologia o altre discipline appaiono poco convincenti. Comunque il soggiorno a Bologna dovette essere relativamente breve, circa tre anni, assumendo per approssimazione come termine cronologico il conferimento della suddiaconia da parte di papa Gregorio VIII, che nel corso del suo pontificato di appena sette settimane soggiornò solo in Toscana e in Emilia-Romagna, e che fu proprio a Bologna tra il 18 e il 20 novembre. La dignità di suddiacono pontificio era soprattutto onorifica, ma comportava anche una maggior contiguità con il papa, nonché una probabile sistemazione e un avanzamento nella carriera curiale.
Quest'obiettivo fu conseguito nell'autunno 1190, quando Clemente III lo nominò cardinale diacono dei SS. Sergio e Bacco. Lotario entrò così nelle fila dei numerosi chierici romani che quel pontefice elevò al cardinalato dopo la riconciliazione con il comune nel 1188, con l'intento di rafforzare i suoi sostenitori locali e tutelandosi in tal modo dalle tendenze antipapali della classe comunale dirigente. Il 7 dicembre sottoscrisse per la prima volta in questa veste un privilegio papale.
Negli oltre sette anni del suo cardinalato, non ebbe mai un ruolo di spicco nella Curia, malgrado firmasse la maggior parte dei privilegi di papa Celestino III. Più volte, in linea di massima con altri cardinali, gli venne affidata l'istruzione preliminare di processi. È giunta fino a noi la risposta, poco significativa, ad una lettera dell'imperatore Enrico VI, indirizzata anche agli altri porporati.
La vera importanza del periodo di cardinalato di Lotario risiede nelle opere da lui scritte, che lo mostrano saldamente ancorato alle correnti spirituali del suo tempo. Il De miseria humane conditionis risale probabilmente al 1194-1195 e rientra nella categoria della letteratura del contemptus mundi, in cui l'uomo viene descritto come una creatura che si è allontanata dal creatore e diviene vittima della propria superbia. L'opera conobbe un immenso successo, riconducibile sia al tema della miseria dell'esistenza umana, sia al linguaggio aspro e alla celebrità dell'autore.
Il De missarum misteriis, trattato liturgico-allegorico, commenta in modo esauriente la messa papale e vi ricollega affermazioni teologiche sull'eucaristia, interpretando la messa come memoria della vita di Cristo. I manoscritti tramandati (se ne conservano circa duecento) e una gran quantità di estratti e rielaborazioni dimostrano come anche quest'opera rappresenti un importante fondamento per l'interpretazione dei sacramenti fra le generazioni successive, tanto più che in essa vengono esposte idee che riemergono in alcune decretali e nei canoni del IV concilio lateranense.
Nella prima parte del De quadripartita specie nuptiarum Lotario delinea un'interpretazione spiccatamente allegorizzante, dall'impronta personale, dei quattro tipi di unione matrimoniale, una carnale e tre mistiche (uomo-donna, natura umana e divina nella persona di Cristo, Cristo-Chiesa, Dio-anima); nella seconda, appena legata alla prima, commenta in modo convenzionale il Salmo 44. Quest'opera, la più originale del futuro papa, tradisce la formazione scolastica dell'autore e risulta illuminante non solo in relazione alle usanze matrimoniali dell'epoca, ma anche alle idee ecclesiologiche di Lotario, in particolare riallacciandole al SermoIIIin consecratione pontificis, dove il rapporto tra il vescovo e la sua Chiesa viene analogamente interpretato in modo quadruplice. L'opera sopravvive solo in pochi manoscritti e non c'è traccia di una sua influenza successiva.
Di I. sono documentati circa ottanta sermoni, e gran parte di essi sono inseriti in una collezione del 1202-1204 destinata all'abate di Cîteaux, Arnaldo, successivamente ampliata, ma mancano tuttora indagini più approfondite sull'autenticità e le circostanze della sua elaborazione, sulle interpolazioni e le rielaborazioni. Considerando i manoscritti tramandati (oltre sessanta), dovettero destare comunque un notevole interesse. È ovvio scorgervi una testimonianza personale del papa e, pur contenendo molte parti convenzionali, sono spesso sobri e, simili ad esercitazioni spirituali, aprono un'illuminante prospettiva sulle opinioni teologiche e giuridiche di I. e racchiudono numerose notizie sulle usanze liturgiche. Probabilmente i destinatari erano in prevalenza membri del clero, che dovevano essere istruiti e resi più virtuosi dai sermoni. Sono documentabili anche frequenti paralleli con altre opere e lettere.
Solo pochi mesi prima di morire I. prese la penna ancora una volta per scrivere un commento ai salmi penitenziali, che presenta un interesse teologico ed ha un'impronta molto personale. Quest'opera di rilievo, tramandata in circa trenta manoscritti e debitrice dell'interpretazione allegorica nello stile della teologia scolastica, mostra come il pontefice dopo diciotto anni di governo avesse ancora una notevole dimestichezza con i testi biblici, secondo la lezione appresa a Parigi, ma rivela anche lo scetticismo del vescovo universale, all'apparenza così potente, il quale guarda scoraggiato alla propria opera e parla della colpa di cui si fa carico chi si occupa delle cose di questo mondo. Nel prologo riprende una citazione da Gesù Sirach (13,1), al quale, secondo l'autore dei Gesta Innocentii III papae, faceva spesso riferimento rammaricandosi: "Si insudicia, colui che tocca la pece".
Quando Lotario di Segni fu eletto papa, l'8 gennaio 1198 (Roma, Settizonio), assumendo il nome di Innocenzo, e si fece consacrare ed incoronare il giorno della festa della cattedra di s. Pietro (22 febbraio), era il più giovane dei ventiquattro membri da cui era composto il collegio cardinalizio. Nel governo della Chiesa era un 'foglio bianco', ma evidentemente, oltre all'origine romana, lo rese consigliabile una personalità dalle qualità spiccate, alla quale i suoi elettori affidarono la carica suprema in una difficile congiuntura politica (incertezza dopo la morte di Enrico VI in Italia e in Germania; fallimento della crociata) e in un periodo di instabilità sul fronte ecclesiastico-religioso (crescita dei movimenti ereticali, inquietudini religiose in ampie cerchie di laici).
Sebbene il carattere del pontefice e le sue inclinazioni si rivelassero pienamente solo nel corso degli anni, già in questa fase si può tentare di delineare un profilo della personalità di I., appoggiandosi alle dichiarazioni dei contemporanei, ai suoi scritti e al suo operato. La grande cultura e la sagace intelligenza, che gli consentiva di afferrare rapidamente le situazioni e di emettere un giudizio conforme ai suoi principi, vengono esaltate senza eccezioni. Poteva contare inoltre su una straordinaria memoria e sul dono di sapersi esprimere in modo brillante sia oralmente che per iscritto. La sua prontezza di spirito, abbinata al senso dell'umorismo, affiorava soprattutto nelle udienze giudiziarie, circostanze in cui poteva anche diventare sarcastico o addirittura cattivo, e non esitava ad usare un linguaggio diretto perfino nelle occasioni cerimoniali. Nel perseguire i suoi scopi mostrò risolutezza, versatilità e fermezza. Il suo zelo era smisurato, tuttavia non lo si può definire un maniaco del lavoro, poiché era di salute cagionevole, e quindi seppe risparmiarsi adottando ritmi lavorativi ragionevoli e concedendosi una pausa di riposo pomeridiana e frequenti escursioni nella natura. Soffriva il caldo in estate, si rammaricava della sua costituzione fragile e le malattie lo confinavano spesso a letto (primavera 1198, autunno 1199, particolarmente acute nell'autunno 1203 e alla fine del 1209): le ripetute lamentele per il sovraccarico di lavoro non sono certamente un topos. Il suo senso della giustizia era così spiccato che più di una volta subì un danno politico pur di rispettare rigorosamente i principi giuridici. I. era inoltre un uomo profondamente pio, il quale, più di una volta, si rammaricò di essere distolto dalla preghiera e dalla meditazione a causa delle occupazioni di governo. Sempre rigorosamente determinato a salvaguardare la purezza della fede e della morale, gran parte delle sue iniziative scaturirono da un atteggiamento religioso di fondo da cui tuttavia a volte si discostò per ragioni politiche.
"Il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, il consacrato del Signore, il Dio del faraone, che è posto al centro fra Dio e gli uomini, al di sotto di Dio, ma al di sopra degli uomini, che è inferiore a Dio, ma superiore all'uomo": così lo stesso I. descrisse la propria posizione nel sermone dell'ordinazione o in occasione di una commemorazione di quest'evento. Profondamente compenetrato della dignità e della responsabilità del suo ufficio, il papa, soprattutto nei primi anni del pontificato, continuò a sviluppare le idee tradizionali relative all'istituzione papale e, seppur senza formularle sempre in modo stringente, le difese con grande fermezza, dando prova anche di una notevole flessibilità spirituale laddove si trattava di imporre certi diritti. Le idee relative al primato della giurisdizione, alla competenza legislativa, alla riserva di tutte le causae maiores e delle canonizzazioni, al diritto di convocare e presiedere i concili generali non erano affatto nuove, ma I. le perseguì con un'intransigenza e una coerenza mai riscontrate fino a quel momento nel papato. Non si considerava, come era accaduto generalmente fino al 1150 circa, vicarius Petri bensì vicarius Christi, dalla cui posizione di re e sommo sacerdote, sull'esempio di Melchisedec, si faceva derivare la plenitudo potestatis pontificale. Egli trasferì al papa e alla Chiesa il modello paolino del capo e delle membra, di conseguenza ritenne la Chiesa romana, identificata con Pietro e i suoi successori, la mater omnium ecclesiarum e la Sede Apostolica romana la fonte dell'intero diritto canonico. Talvolta l'ecclesia Romana fu addirittura equiparata da I. all'ecclesia universalis. Questo primato includeva anche l'episcopato universale, il che significava negare un potere vescovile autonomo, derivato dall'autorità divina; esso veniva al contrario interpretato unicamente come partecipazione alla pienezza del potere papale ("vocati in partem sollicitudinis"). I. non mise in discussione in linea di massima l'elezione dei vescovi, ma considerava traslazioni, postulazioni, deposizioni e modifiche nei confini delle diocesi un diritto esclusivo del pontefice, facendo parte del primato di giurisdizione. Nei confronti di patriarchi e metropoliti esercitò il suo potere assoluto in modo ancor più rigido. Questa concezione del potere non solo assegnava al papa la posizione di ultima istanza d'appello, ma anche la facoltà di intervenire in ogni fase di una procedura, in qualità di "iudex ordinarius omnium", avocandola a sé. I. si attribuì inoltre ampie competenze nelle questioni riguardanti gli Ordini, il che gli consentì non solo di prendere in esame nuove regole e modificarle a propria discrezione, prima che entrassero in vigore mediante l'annuncio papale, ma anche di comportarsi negli affari personali e materiali come un superiore universale degli Ordini.
Analizzando le idee chiave di I. che esulano dal diritto, dall'ecclesiologia e dalle questioni connesse all'esercizio del potere temporale si arriva a delineare una sorprendente ricchezza di idee in ambito teologico (per esempio, nella dottrina dei sacramenti), ma anche nella valutazione di fenomeni sociali fondamentali come la famiglia, le relazioni parentali, i figli, i rapporti fra uomo e donna, anche al di là delle definizioni del diritto canonico.
Nelle questioni relative al potere temporale I. incarnò posizioni differenziate. Nel Patrimonium Sancti Petri e nella città di Roma si considerò sovrano temporale con tutti gli attributi dell'autorità e i poteri coercitivi connessi. Come signore feudale gli spettavano anche diritti d'intervento diretto, sia nello stato vassallo che era il Regno di Sicilia, soprattutto durante la minorità di Federico II, sia in Inghilterra, il cui sovrano Giovanni Senzaterra si era sottomesso al papa nel 1213 infeudando i suoi stati in "ius et proprietatem" alla Chiesa romana. Una serie di Regni, pur non avendo un rapporto di dipendenza feudale con il papa, intratteneva a diverso titolo stretti vincoli di fedeltà e di obbedienza canonica nei suoi confronti: l'Ungheria, la Norvegia, l'Aragona, la Bulgaria.
Ma la rivendicazione del potere temporale da parte del papa come vicarius Christi trascendeva i limiti dell'ambito ecclesiastico per includere la christianitas nella sua totalità. Non significava, comunque, un diritto concreto di sovranità universale, ma un governo spirituale che poteva investire anche questioni temporali. Il potere secolare, in seno alla cristianità, assolveva per lui il proprio compito solo a condizione di uniformarsi all'autorità spirituale. Quando I. intervenne in questioni temporali, si giustificò ripetutamente richiamandosi a modelli proposti più dalla teologia politica che da precise categorie giuridiche. In accordo con i suoi obblighi spirituali come vicarius Christi, egli interferiva spesso in veste di pacificatore nelle questioni temporali, ispirandosi all'articolo di fede secondo cui Cristo si era assunto il ruolo di pacificatore fra gli uomini e Dio e alla promessa della settima beatitudine nella predica della montagna ("Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio", Mt 5, 9). Il pontefice cominciava abitualmente con l'ammonire le parti contendenti, poi offriva i suoi servizi come mediatore e, nel caso entrambe le iniziative si rivelassero infruttuose, chiedeva un compromesso con arbitrato papale oppure, da ultimo, applicava il suo potere giurisdizionale, esercitato personalmente o tramite legati. Come pontefice fece ricorso anche ai metodi rituali di composizione pacifica dei conflitti, maturati nel corso dei secoli all'interno della società feudale.
Nella concezione di I. l'esercizio del potere temporale era inteso unicamente come un intervento sussidiario in singoli casi, ispirato dalla convinzione che il suo diritto alla guida temporale fosse di tutt'altra natura di quello dei principi. Per illustrare le rivendicazioni di I. relative all'esercizio del potere temporale i canonisti del Duecento e la storiografia più recente fanno spesso riferimento alle decretali Venerabilem (marzo 1202), Per venerabilem (autunno 1202) e Novit (aprile 1204), senza tuttavia tenere nella debita attenzione il fatto che questi testi dovevano giustificare l'azione in una situazione concreta.
Le idee del pontefice sull'Impero sono estremamente complesse, in quanto vi si mescolano l'azione politica nella disputa dopo la doppia elezione in Germania, le rivendicazioni territoriali nell'Italia centrale, la minaccia di un accerchiamento svevo del Patrimonium Sancti Petri, la tradizione di pensiero curiale e le dottrine dei canonisti. Gran parte dei testi relativi a questo insieme di argomenti si trova nel registro sulla disputa per il trono tedesco, ma anche in uno scambio di note con l'imperatore bizantino.
Poiché il papa è "caput et fundamentum totius christianitatis", all'imperatore non spetta alcuna giurisdizione universale: se pure la sua dignità imperiale lo pone al di sopra dei regna, questo non gli attribuisce comunque una sovranità immediata ma solo un rango e un credito elevati. Il potere imperiale discende direttamente da Dio, non dal papa, ma l'imperatore ha con il vicarius Petri un particolare rapporto di contiguità, che si fonda sul suo dovere di proteggere la Chiesa di Roma. Al contrario, la Chiesa di Roma poteva far valere nei confronti del suo defensor precisi diritti, allorché gli conferiva il titolo imperiale tramite consacrazione ed incoronazione: il diritto di verificare la sua idoneità, di punirlo laddove fossero stati violati dei doveri o in caso di ostilità e, in ultima istanza, di affidare l'imperium ad altri. Due convinzioni sono all'origine di questa posizione: innanzitutto, che il papato ha trasferito l'Impero dai greci ai franchi con Leone III, e inoltre che il favor apostolicus dev'essere accordato al candidato idoneo, il che comporta il diritto di esaminarlo. I. definì ripetutamente la sua concezione del rapporto fra papato e Impero, in base al quale ritenne giustificato il suo intervento nella disputa per il trono imperiale: "Imperium principaliter et finaliter ad sedem apostolicam pertinet", laddove con "principaliter" si allude al già menzionato trasferimento dai greci ai franchi, mentre con "finaliter" si intende la consacrazione e l'incoronazione da parte del papa e dunque il conferimento alla persona idonea. Nella decretale Venerabilem I. precisa e amplia la sua concezione distinguendo fra elezione e incoronazione imperiale: il papa riconosceva ai principi tedeschi il diritto di eleggere il re, e in tal modo egli era già "in imperatorem electus", tuttavia lo collegava alla dottrina della traslazione e sottolineava la sua facoltà di verificare la dignità e l'idoneità del candidato ‒ com'era necessario per qualsiasi consacrazione ‒ prima di incoronarlo imperatore.
E il candidato giudicato degno avrebbe quindi ottenuto il favor apostolicus. Questo concetto giuridicamente elastico, nel caso di un mutato atteggiamento del prescelto, consentiva una nuova decisione. Tuttavia, l'incoronazione non era intesa né come una conferma del candidato né come un'investitura in senso feudale. Il merito di I. consiste nell'aver lasciato in eredità ai suoi successori una dottrina in sé compiuta sulla dignità imperiale, suscettibile di essere ulteriormente perfezionata.
Sotto I. la Curia divenne un centro di potere dalle competenze fortemente ampliate, commisurato alle pretese universalistiche del papato. Nei confronti dei suoi collaboratori più stretti, i cardinali, I. mantenne la sua posizione sovrana sia in senso giuridico che ideale, in cui non vi era spazio per un governo oligarchico esercitato dal Collegio cardinalizio o addirittura per considerare il potere di questo d'origine divina. I cardinali dovevano unicamente al pontefice la propria posizione, e la loro connotazione di "membra corporis sui" o di "membra capitis" si adatta al modello del capo e delle membra, dove ogni potere discende dal capo, vale a dire dal papa. Ma il pontefice era consapevole della loro funzione imprescindibile. I cosiddetti cardinali esterni, titolari di importanti sedi episcopali o di venerabili abbazie, durante il suo pontificato non svolsero alcun ruolo. Il collegio cardinalizio nel 1198 si componeva di ventiquattro membri, provenienti in massima parte da Roma o dal Patrimonium Sancti Petri. Nei primi anni di pontificato, I. ne destinò un contingente abbastanza notevole alle legazioni, all'amministrazione, alla giustizia curiale, ma già dal 1202 al 1204, grazie al parziale rinnovamento del collegio cardinalizio è possibile individuare un circolo ristretto di cardinali annoverabili tra i suoi collaboratori prediletti: sono soltanto pochi i sopravvissuti del 'vecchio' gruppo.
Durante il pontificato I. riformò la cancelleria a varie riprese ‒ la cronologia è incerta ‒ per impedire le falsificazioni, rendere più trasparente l'iter burocratico e naturalmente anche per rendere più redditizia l'attività. Con il suo pontificato si avvia la serie quasi ininterrotta dei registri di cancelleria, tenuti da diversi notai, i quali per volere del papa o anche dei destinatari registravano i pezzi significativi (dal 20 al 30 per cento circa della produzione complessiva di documenti), con l'intento di compilare dei promemoria ufficiali del pontificato, di creare una base per la redazione delle decretali e di salvaguardare l'autenticità delle disposizioni emanate. Il registro speciale (Regestum super negotio Romani imperii) contenente il materiale relativo alla disputa per il trono tedesco aveva lo scopo di documentare il sostegno ininterrotto del papa prima ad Ottone IV e poi a Federico II. L'attività della Camera, che era preposta alla gestione delle finanze pontificie, rimane invece tuttora imperscrutabile in quanto non si conosce molto di più dei nomi dei camerari. I. si adoperò per riordinare le finanze pontificie, autorizzando tasse fisse solo per scrittori e bullatori ed esigendo un'assoluta libertà per le donazioni, ma si aspettava adeguate remunerazioni da parte dei postulanti. A lui in persona non fu mai mosso il rimprovero di corruzione.
La Curia, sotto I., cominciò a frammentarsi in ulteriori 'uffici' con personale assegnato e specifiche competenze. La Penitenzieria, che concesse pieni poteri di assoluzione a vescovi e legati, e inoltre impartiva l'assoluzione ai penitenti, assume contorni più definibili sotto il successore di I., Onorio III, ma è ugualmente possibile ripercorrerne gli esordi. Il cardinale Giovanni di S. Paolo sembra aver svolto queste funzioni per un certo lasso di tempo sotto Innocenzo III.
La funzione principale della Curia era indubbiamente quella di tribunale. Sebbene il giudizio su I. sia stato ora rettificato e lo si consideri meno come un eccelso giurista e di più come una mente genuinamente teologica, un uomo che nel dibattito su delicati problemi dogmatici non solo incarnava la più alta autorità dottrinale ma sapeva argomentare le proprie opinioni, resta il fatto che sotto il suo governo la Curia divenne la prima fonte del diritto e il tribunale per eccellenza della cristianità in Occidente.
In effetti, resoconti coevi sui processi condotti dalla Curia mettono in rilievo il costante coinvolgimento del papa e dei suoi consiglieri in questioni di natura giuridica, mostrando come non fosse poi così difficile arrivare fino al pontefice in persona. Affluivano alla Curia postulanti provenienti da ogni luogo della cristianità, e se anche molti casi venivano delegati a giudici locali, tuttavia i casi trattati nella Curia stessa erano abbastanza numerosi da determinare un sovraccarico di lavoro e il conseguente affanno del papa. I. si riservava le sentenze finali relative alle maggiori controversie, dibattute talvolta da anni o addirittura decenni: i lunghi documenti redatti in tali circostanze rivelano spesso una profonda competenza giuridica e un impegno lavorativo assai intenso.
Non solo tutti i pareri legali, ma anche molte altre lettere furono inserite nelle collezioni di decretali, compilate già dopo pochi anni da uomini vicini alla Curia, che avevano facoltà di copiare i testi sui registri (per Ranieri di Pomposa, 1201, è attestato, per gli altri ‒ Gilberto, 1202/1203 ca., Alano Anglico, 1206 ca., Bernardo da Compostella, 1208 ‒ è molto probabile). Per garantirne l'autenticità, nel 1209 I. incaricò il suo notaio Pietro Collivaccino di Benevento di redigere a partire dai registri una collezione ufficiale di decretali ‒ denominata in seguito Compilatio Tertia ‒ e di inviarla a Bologna affinché divenisse un solido fondamento per l'insegnamento e la dottrina giuridica. Collezioni più tarde, come ad esempio la Compilatio Quarta di Giovanni il Teutonico, del 1216, non si basano più direttamente sui registri. Nei millenovecentosettantuno capitoli del Liber Extra del 1234, le decretali di I., con cinquecentonovantasei numeri, a cui se ne aggiungono altre settanta del IV concilio lateranense, rappresentano la parte più consistente. Le innovazioni giuridiche di I. investono tutti i settori del diritto, anche se molte riguardano evidentemente i vescovi e la loro elezione, nonché questioni procedurali e relative al diritto matrimoniale. Una di queste novità ha avuto conseguenze di ampia portata: l'introduzione del procedimento inquisitorio nel processo penale canonico. Quest'introduzione aveva dinanzi a sé un fosco futuro: non solo venne recepita in tempi brevi dalla giustizia secolare, ma fino alla metà degli anni Trenta legati pontifici, sinodi episcopali e rappresentanti del potere temporale se ne appropriarono usandola diffusamente come strumento nella lotta contro gli eretici, in sostituzione delle regole procedurali del diritto comune.
Ad I. stava particolarmente a cuore la crociata (v.) per liberare la Terrasanta, nell'incrollabile convinzione della legittimità, e addirittura della qualità morale, dell'impiego della forza contro i pagani e in generale contro i nemici della Chiesa. Ma proprio la quarta crociata, avviata con grande fervore nel 1198 e conclusa senza fortuna nel 1207, mostra impietosamente i limiti delle possibilità di un'azione laicomilitare alla quale il papa si sentiva chiamato in quanto detentore della plenitudo potestatis.
Nella seconda metà di aprile del 1213 I. bandì una nuova crociata, fermamente intenzionato questa volta ad evitare gli errori commessi nella precedente impresa.
I preparativi furono avviati celermente. Gli sforzi di pacificazione intrapresi con Filippo II Augusto e Giovanni Senzaterra devono essere valutati in questa prospettiva, e il papa in Germania e in Italia settentrionale si adoperò ugualmente per riconciliare i nemici. La colletta, oggetto di un'intensa propaganda, con l'installazione di cassette per le elemosine in tutte le chiese, suscitò opposizioni, alle quali diede voce il celebre poeta Walther von der Vogelweide ("Sagent an, her Stoc, hat iuch der babest her gesendet"). Campagne di predicazione investirono l'intero Occidente. In effetti, ovunque presero la croce numerosi personaggi insigni: Giovanni Senzaterra e Federico II, alla sua seconda incoronazione ad Aquisgrana nel luglio 1215, il duca Leopoldo VI d'Austria, il re Andrea d'Ungheria. La crociata fu uno dei temi portanti del IV concilio lateranense, e già nella predica d'apertura I. paragonò il gravoso "transitus" in Terrasanta, al quale tutti erano chiamati, all'eterno "transitus" nella beatitudine del Signore e sottolineò il suo impegno personale a mobilitarsi con ogni mezzo per quest'impresa. E l'Ordinatio expeditionis pro recuperanda Terra Sancta, del 14 dicembre 1215, rappresenta il risultato dei dibattiti sulla crociata approvati dal concilio. La dichiarazione più eloquente fu l'annuncio che il papa in persona avrebbe benedetto l'esercito crociato, che doveva partire il 1o giugno 1217 ‒ un segno manifesto dell'importanza prioritaria della crociata per il suo pontificato. Le disposizioni dettagliate e le misure organizzative, tra cui spicca la pace generale per una durata di quattro anni, dovevano assicurare il successo dell'impresa e, negli ultimi mesi di pontificato, I. lavorò soprattutto per ristabilire la pace nell'Italia centrale e settentrionale. Il papa morì al servizio "del crocifisso", come amava definire il suo impegno per la crociata, trasmettendo questa fervida aspirazione al suo successore, il quale la considerò una delle eredità più significative del precedente pontificato.
"Ad extirpandas hereses universas": è questa la formula centrale della prima lettera in cui viene trattato il problema degli eretici, scritta a poche settimane dall'inizio del pontificato, che I. ripeterà spesso.
La lotta contro l'eresia fu un tema capitale che attraversò l'intero pontificato e il papa dovette investire una profusione di energie e di mezzi senza precedenti in quest'impresa. Ma la persecuzione, spinta fino all'annientamento fisico tramite la crociata, era solo un risvolto della questione. L'altro era la comprensione per i motivi di quanti intendevano ritornare alla fede cattolica, e la ricerca delle ragioni della diffusione dell'eresia individuate nei comportamenti biasimevoli del clero: "Omnis in populo coruptela principaliter procedit a clero": sono le parole di biasimo rivolte dal pontefice ai prelati all'apertura del concilio lateranense.
I. cercò per anni di procedere contro i catari (v.) della Francia meridionale facendo ricorso agli abituali strumenti della Chiesa e riponendo le sue speranze in una serie di legati, soprattutto appartenenti all'Ordine cistercense. Ma i risultati furono deludenti. Nel Patrimonium Sancti Petri il papa mescolò motivi politici alla lotta contro l'eresia e la decretale contro l'eresia Vergentis in senium, inserita programmaticamente all'inizio della seconda annata del registro, non era stata concepita in un primo momento come progetto generale, ma era solo indirizzata al comune ribelle di Viterbo. Ben presto, tuttavia, venne recepita come decretale e lo stesso papa la trasferì ad altre situazioni.
I sostenitori dell'eresia dovevano essere coperti d'infamia, ovvero perdere i diritti civili, essere esclusi dai pubblici uffici e da qualsiasi affare legale. Le proprietà dell'eretico andavano confiscate e i suoi figli diseredati; queste misure severissime erano motivate dall'accusa di crimine di lesa maestà. L'obiettivo consisteva nell'isolare gli eretici e nel ricondurli in seno alla Chiesa grazie a queste pressioni e, all'occorrenza, nel loro annientamento sociale e fisico. Il papa si mostrò più comprensivo nel 1199 a Metz, dove raccomandò di procedere con cautela contro i valdesi, che si riunivano in conventicole segrete e leggevano la Bibbia in volgare.
Tuttavia, nel Sud della Francia, il pontefice propose il ricorso alla violenza. Dal 1204 chiese ripetutamente al sovrano francese di intervenire militarmente contro gli eretici, ma Filippo II Augusto, troppo impegnato nella guerra contro Giovanni Senzaterra, continuò a respingere le pretese del papa, anche quando, nell'autunno del 1207, venne rivolto a tutti i credenti di Francia un appello alla lotta contro l'eresia che era stato preceduto dalla pubblica scomunica del conte Raimondo VI di Tolosa.
Nel frattempo però erano anche andate in porto trattative pacifiche con gli eretici: in seguito all'intervento del vescovo di Osma e del suo vicepriore Domenico, che chiesero ai legati di rinunciare ad un contegno arrogante e ad inammissibili ostentazioni di potere per avviare un intenso dialogo con gli eretici, fu infatti possibile recuperarne una parte. Anche la deposizione di un numero consistente di vescovi indegni, sostituiti soprattutto da Cistercensi, consolidò la posizione cattolica.
Alla fine, il ricorso alla violenza fu determinato dall'uccisione del legato papale, il cistercense Pietro di Castelnau, il 14 gennaio 1208, che lo stesso I. imputò al conte di Tolosa. Alcune settimane più tardi il papa chiamò un'altra volta i grandi di Francia, sia laici che ecclesiastici, alla lotta contro l'eresia, ma quando la creazione di un esercito consistente fallì di nuovo per la protesta del re e quest'ultimo consentì soltanto ad un modesto contingente militare di battersi contro gli eretici, I. lo sopravanzò, proclamando la spedizione di una crociata, con tutti i privilegi connessi, e impartendo le disposizioni organizzative, come già era accaduto per l'analoga impresa in Oriente. In seguito definì i partecipanti "crucesignati". Malgrado la sottomissione di Raimondo di Tolosa, che ottenne l'assoluzione nel giugno 1209, poco dopo ebbe inizio il sanguinoso e spietato conflitto che ben presto degenerò in una guerra di conquista scatenata dai baroni della Francia settentrionale. Sembra che I. abbandonasse l'idea della crociata già nel corso del 1209, per vedere nell'impresa solo una guerra contro gli eretici: una distinzione capziosa, di fronte alle devastazioni e ai danni religiosi irreparabili che ne derivarono. Negli anni fino al IV concilio lateranense il papa si rivelò irremovibile sull'uso della violenza nella lotta contro l'eresia.
Con taluni gruppi eterodossi riconquistati alla Chiesa e anche in altre circostanze I. dimostrò però una vigile sensibilità per le novità che affioravano nelle comunità religiose. Per favorire la loro integrazione con Roma, egli trovò spesso soluzioni a metà strada fra restrizioni giuridiche e magnanima condiscendenza, anche perché aveva una spiccata inclinazione personale per la vita degli Ordini ed eresse a programma la sua incentivazione: "ut temporibus nostris melius religio christiana proficiat et instituta regularia per nos de die in diem amplius convalescant". Aveva una particolare predilezione per i Cistercensi (v.; la veste talare bianca del papa sembra aver avuto origine in questo periodo sul modello dell'Ordine), ma durante il pontificato tutta una serie di Ordini organizzati in modo più tradizionale ottenne il riconoscimento o la regola dal papa: l'Ordine ospedaliero dello Spirito Santo di Guido di Montpellier (1198; nel 1204 lo trasferì a Roma e nel 1208, dopo la morte di Guido, la casa madre divenne l'ospedale di S. Spirito in Sassia), l'Ordine dei Trinitari di S. Giovanni di Matha (1198), l'Ordine Teutonico (v.; 1199), l'Ordine ospedaliero di S. Marco a Mantova (1207).
Particolarmente carico di significato è l'incontro di I. con s. Francesco (v.) che resta ammantato da un'aura di leggenda. Francesco, nella primavera del 1209, venne a Roma insieme ai suoi compagni penitenti di Assisi. Il frate non ottenne dal papa l'approvazione formale di uno stile di vita conforme al vangelo e il permesso per la predicazione dei laici, ma I. concesse comunque un'opportunità alla piccola comunità approvandone le intenzioni. Potevano predicare e realizzare il loro stile di vita radicale, a condizione di assoggettarsi ad un rigoroso controllo da parte del vescovo locale e della S. Sede. Di una 'conferma verbale' della regola primitiva non si dovrebbe parlare in questo contesto, ma piuttosto di un positivo incoraggiamento.
I primi tentativi messi in atto da Domenico, nell'autunno del 1215, per ottenere dalla Chiesa di Roma l'approvazione della sua comunità di predicatori (v. Frati predicatori), già riconosciuta dal vescovo di Tolosa, e promuoverne in tal modo un'influenza universale, non ottennero i risultati auspicati. I. prese sotto la sua protezione solo la comunità di religiose fondata da Domenico a Prouille; la conferma dell'Ordine, come per i Minori, fu concessa solo sotto Onorio III.
Anche nell'esercizio della sovranità temporale sul Patrimonium Sancti Petri e su Roma, I. determinò delle svolte che influenzarono a lungo il corso degli eventi. Con tempismo e risolutezza il pontefice seppe volgere a suo favore il crollo del potere imperiale nell'Italia centrale, dopo la morte di Enrico VI, per riesumare antiche pretese del papato, che furono estese dal Lazio alle Marche, al ducato di Spoleto e alla Tuscia. Anche la Sardegna fu annoverata fra gli obiettivi del dominio papale, ma il progetto naufragò a causa della supremazia pisana. Malgrado l'estrema frammentazione del potere e le numerose rivalità locali, nell'arco di pochi anni vennero poste le basi per la creazione di un'amministrazione più efficiente nel Patrimonium Sancti Petri, che avrebbe raggiunto nei pontificati successivi una notevole solidità.
Una delle premesse per il successo di questa politica di recuperi territoriali era il solenne riconoscimento da parte dei re tedeschi (Ottone IV, Neuss 1201 e Spira 1209; Federico II, Eger 1213). Il dominio papale nelle Marche, in Umbria e nella Toscana meridionale rimase in superficie ‒ le pretese sull'intera Tuscia vennero rapidamente abbandonate ‒ e i comuni e la nobiltà locale si adeguarono ai disegni del pontefice secondo l'opportunità del momento. I. si comportò da autentico sovrano temporale nella terra "que est a Radicophano usque ad Ceperanum", ossia nell'odierno Lazio. La sua parte settentrionale era stata imperiale sotto Enrico VI, ma già nei pochi mesi tra la morte di quest'ultimo e quella di Celestino III si era rivolta al papa. Quando I. volle però trasformare il riconoscimento puramente nominale delle città e dei grandi baroni di questo territorio in una sovranità effettiva, si scontrò con una violenta opposizione, soprattutto da parte di Orvieto e Narni, e il confronto, anche di natura militare, si protrasse fino al 1201. Nell'estate del 1207, contrariamente alle sue consuetudini, I. non scelse la Campagna come luogo di soggiorno estivo bensì Viterbo. Qui, negli anni precedenti, aveva attecchito saldamente l'eresia che si era diffusa tra le stesse autorità locali, una circostanza che rifletteva anche la distanza crescente dal governo temporale del pontefice. Mediante pene canoniche l'eresia era stata repressa ed a Viterbo era stato restaurato un regime politico consono. Ma il dominio papale divenne effettivo solo con la grande dieta convocata per la prima volta in città nella seconda metà di settembre. I notabili laici e religiosi del Patrimonium della Tuscia furono vincolati sotto giuramento a riconoscere i diritti rivendicati dal papa e vennero approvate una tregua e disposizioni in merito alla giurisdizione del rettore. Quanto fosse precario quest'ordine solennemente istituito fu evidente già pochi anni dopo, allorché i baroni del Patrimonium della Tuscia e le città ad eccezione di Viterbo si schierarono dalla parte di Ottone IV. Solo l'invio di un cardinal legato ristabilì la situazione, sicché nell'estate del 1210 venne opposta resistenza all'avanzata dell'imperatore, e il dominio da lui instaurato in quell'area si disgregò non appena Ottone abbandonò l'Italia alla fine dell'autunno 1211.
Sotto I. il carattere del dominio temporale del papa subì delle modifiche. Alle forme di governo, determinate prevalentemente da rapporti patrimoniali e da legami feudo-vassallatici, subentrò una specie di sovranità che imponeva ai sudditi una serie di obblighi, come testimonia un'obbedienza generale contenuta in una lettera del 1200 destinata a diverse città delle Marche: giuramento di fedeltà, da rinnovare ogni dieci anni, obbligo di prestare servizio militare, partecipazione alle diete, tributo annuale e riconoscimento della suprema giustizia pontificia; a ciò si aggiungevano i vincoli di vassallaggio. I. poté realizzare realmente numerosi punti essenziali del programma per assicurare la pace nei suoi territori. Molti conflitti che contrapposero nobili e comuni furono ricomposti pacificamente di fronte al tribunale pontificio, in forma di arbitrato o di sentenza emanata alla fine di un processo.
Anche Roma (v.), dato che I. si considerò il suo signore temporale con molta maggior intensità rispetto ai suoi predecessori, divenne parte irrinunciabile della sua politica di recuperi. Ma per riuscire ad assicurarsi questo dominio il papa dovette impegnarsi in un lungo e difficile confronto, la cui valutazione, ardua a causa dell'univocità delle fonti, fa riferimento quasi esclusivamente ai Gesta Innocentii.
Già nel 1198 scoppiarono disordini, fomentati da gruppi che avevano impedito a Celestino III un governo ordinato della città, ma I. riuscì in un primo tempo ad imporsi e ad ottenere ampi riconoscimenti. Nel 1199 la guerra fra Roma e Viterbo scosse il fragile equilibrio fra il papa, le famiglie senatoriali più influenti e il comune, che vedeva garantita la sua autonomia solo nell'opposizione ai disegni pontifici. Soltanto la vittoria su Viterbo di un esercito pontificio-comunale, all'inizio del 1201, parve consolidare di nuovo la posizione di I., il quale riuscì ad imporsi. Ma ben presto la precaria situazione tornò a inasprirsi e finì per provocare una polarizzazione politica, nella quale emersero le famiglie dei Conti, degli Annibaldi, dei Capocci, degli Orsini, ed altre. La nuova nobiltà romana si formò nelle varie fasi del confronto con I. per il dominio sulla città. Nell'autunno del 1202 scoppiarono nuovi disordini, quando il clan degli Orsini fece ricorso alla forza contro alcuni parenti del pontefice, tra cui il fratello Riccardo, responsabile della Tor de' Conti presso il Foro Romano ed esponente della politica familiare intrapresa da Innocenzo III. Nella primavera del 1203 questi scontri degenerarono in guerra aperta, in seguito alla quale Riccardo venne scacciato dalla sua torre e costretto alla fuga. Fino all'autunno del 1204 a Roma la situazione si mantenne confusa: i partiti contendenti ingaggiarono una sanguinosa guerra civile che durò lunghi mesi. L'opposizione antipapale aspirava alla creazione di un comune completamente autonomo, sul modello di quelli dell'Italia settentrionale. I. dovette addirittura abbandonare la città per un periodo piuttosto lungo, sebbene la posizione lievemente eccentrica del Laterano assicurasse una discreta protezione. Ma nell'ottobre del 1204, esaurite ormai le forze, la fazione antipapale dovette cedere le armi. I. dettò le condizioni della pace: Roma da quel momento in poi sarebbe stata soggetta al suo dominio e il papa avrebbe avuto l'ultima parola in merito alle cariche senatoriali: il radicalismo delle aspirazioni comunali era sconfitto. Per il resto del pontificato non sarebbero stati più contestati i diritti del papa al governo del comune e i senatori nominati negli anni seguenti svolsero di fatto la funzione di suoi luogotenenti a Roma. Il clan dei Conti fu il principale beneficiario di questa situazione. Ma per prudenza I. continuò a risiedere nella sua solida torre presso S. Pietro per oltre un anno. Da questo momento la storia della città si fa assai meno vivace e solo l'incoronazione di Ottone IV, nell'ottobre 1209, vi riportò per breve tempo una certa agitazione. Evidentemente le forze dell'opposizione, mai realmente pacificate, intendevano far leva sui sentimenti antitedeschi. Tuttavia I. non dovette più fronteggiare in futuro conflitti interni alla città e la conclusione trionfale del suo pontificato, segnata dal IV concilio lateranense, non venne più compromessa da dissidi di matrice romana.
Quando I., nel novembre 1198, definì il Regno di Sicilia "Ecclesiae patrimonium speciale" alludeva al rapporto di dipendenza feudale dal papato, che risaliva alla metà del sec. XI, ed accennava ad un profondo impegno "in temporalibus", ulteriormente rafforzato da eventi imprevedibili. Da cardinale Lotario aveva sperimentato come Enrico VI, in virtù dell'unione del Regno di Sicilia all'Impero, avesse posto un minaccioso ostacolo alla libertà della Chiesa romana stringendo in una morsa lo Stato pontificio e avesse propugnato tenacemente i diritti regi, soprattutto nelle nomine dei vescovi e nelle legazioni. Pertanto I., nel corso di tutto il suo pontificato, perseguì nella politica siciliana il duplice obiettivo di impedire la paventata unione con l'Impero e di ridurre l'influenza regia nel governo della Chiesa. Quando nel settembre del 1197, dopo la morte dell'imperatore, la vedova Costanza prese il potere, subito si rivolse al pontefice come signore feudale per migliorare la propria posizione e quella del figlio Federico II. Le trattative le fecero ottenere dopo oltre un anno l'auspicato riconoscimento al prezzo delle rinunce richieste. Ma non si giunse mai al previsto giuramento di vassallaggio ‒ malgrado il documento con il testo del giuramento fosse già stato redatto ‒ poiché Costanza morì il 27 novembre 1198.
Nel suo testamento aveva nominato I. tutore del figlio, di appena quattro anni, e reggente del Regno. I. assolse questo compito con grande impegno e di conseguenza si trovò coinvolto per una decina d'anni in un viluppo spesso inestricabile di forze, in cui condottieri tedeschi, baroni gelosi della propria indipendenza, alti prelati, le città del Regno, il consiglio dei familiari residente a Palermo, le città portuali di Genova e Pisa, nonché avventurieri di varia provenienza si contendevano il predominio. In questa situazione confusa I., solo per brevi periodi, riuscì ad imporre la sua autorità e fu ripetutamente costretto a formare coalizioni, perché i suoi strumenti di potere erano limitati e i cardinali legati (fra gli altri Gregorio di S. Maria in Portico, Gerardo di S. Adriano, Gregorio di S. Teodoro) non si dimostrarono all'altezza delle sue aspettative. La politica siciliana assorbì ingenti quantità di denaro, che non furono compensate dalle entrate regie e dai risarcimenti successivi di Federico II.
È difficile individuare le linee di questo conflitto decennale e determinare la posizione assunta di volta in volta dal papa. La prima fase fu segnata dal conflitto con Marcovaldo di Annweiler fino alla morte di questi nel 1202. Stretto collaboratore di Enrico VI, duca di Ravenna e margravio di Ancona, egli cercò di far fortuna dopo la perdita dei suoi domini nell'Italia settentrionale. Nell'autunno del 1199 si stabilì in Sicilia dove catturò il giovane Federico II. Malgrado alcune sconfitte subite ad opera delle armate pontificie al comando di Giacomo di Andria, imparentato con I., e di Gualterio di Brienne, genero francese di Tancredi di Lecce, riuscì a consolidare il suo potere nell'isola, mentre sulla terraferma prevaleva l'influenza papale. Ancora più oscura appare la fase che si concluse con la fine della reggenza nel 1208. Sull'isola, in questi anni di anarchia, dominarono il capitano tedesco Guglielmo Capparone, lo scaltro Gualtiero di Palearia, già cancelliere dell'imperatore e vescovo di Troia, Palermo e infine Catania, e addirittura il legato pontificio, mentre sulla terraferma Diepold di Schweinspeunt, conte di Acerra, e Gualterio di Brienne, principale sostegno della politica papale ‒ fino alla morte, prigioniero di Diepold, nell'estate del 1205 ‒, erano i due poli intorno ai quali si andavano formando mutevoli coalizioni. I. nel gennaio 1207 si lamentò del pesante fardello della reggenza: le notti insonni, l'eccesso di lavoro, che faceva coincidere il pranzo con la cena, la stesura di innumerevoli documenti, il rinvio di altri impegni importanti, le spese ingentissime e il sovraccarico di attività per i collaboratori più stretti. Quando all'inizio del 1208 cedette al fratello Riccardo la contea di Sora, che si estendeva sul confine settentrionale del Regno, concepì questo gesto come un atto di conciliazione, insieme alla dieta di San Germano convocata in giugno, alla quale presenziò: in quest'occasione vincolò i convenuti ‒ provenienti dalla parte settentrionale del Regno ‒ sotto giuramento alle condizioni della pace e nominò due alti ufficiali affinché vigilassero sulla situazione. Ma le disposizioni del papa non furono osservate. Poco prima della fine della reggenza, nel dicembre 1208, poté concludere il matrimonio di Federico con Costanza d' Aragona (v.), da lui fortemente caldeggiato. Se il papa si era addossato tutti gli oneri della reggenza nella convinzione di giovare alla libertà della Chiesa, dovette subire ben presto un'amara delusione da parte del suo antico pupillo. Infatti Federico II non era affatto intenzionato a rinunciare ai tradizionali diritti dei sovrani normanni sulla Chiesa. Al contrario: già nel 1209 scoppiò un conflitto per l'assegnazione della sede arcivescovile di Palermo. Ma la sua recrudescenza venne frenata da un altro conflitto più grave, quello con l'imperatore Ottone IV. A partire dall'incoronazione imperiale del 1209 la politica siciliana del pontefice coincise con la politica intrapresa nei confronti dell'Impero.
I. intrattenne relazioni con tutti i paesi della cristianità latina, ma anche con il mondo greco e addirittura con i capi musulmani. La sue lettere raggiunsero quasi tutte le terre conosciute all'epoca, documentando l'universalità del papato. In esse le questioni ecclesiastico-religiose si mescolano con quelle più strettamente politiche, ma le prime ebbero sempre il sopravvento. Per lo più partivano dalla periferia e non dalla Curia stessa. Avevano lo scopo di ottenere una sentenza giudiziaria, avere risposta ad un quesito giuridico oppure dottrinario, assicurarsi diritti già acquisiti o conquistarne di nuovi. Solo pochi temi sono direttamente riconducibili all'iniziativa romana, ma vennero affrontati allora con grande tenacia: la crociata, la lotta contro l'eresia, la riforma della Chiesa, il concilio e naturalmente il dominio temporale del Patrimonium Sancti Petri e, in senso più ampio, del Regno di Sicilia. Pertanto il quadro che se ne ricava dei rapporti del pontefice con gli altri paesi risulta deformato, poiché le tante questioni sulle quali I. e l'apparato curiale intervennero ‒ su sollecitazione esterna piuttosto che per autonoma iniziativa ‒ erano regolate dal diritto canonico comune, tuttavia presentano numerose varianti e soprattutto potrebbero essere descritte solo disponendo di molti dettagli. I rapporti si delineano più chiaramente attraverso l'angolo di visuale delle legazioni, che I. affidò, con una consistenza e un'ampiezza di raggio d'azione fino ad allora sconosciute, soprattutto a cardinali, ma anche ad altri uomini della Curia o ad abati e semplici monaci, in particolare cistercensi. Nella loro prospettiva il potere papale si materializza in modo più tangibile. Le legazioni più frequenti riguardavano l'Italia, dove le mete principali erano il Patrimonium Sancti Petri e il Regno meridionale, seguiti dall'Italia settentrionale e, in ordine decrescente, Francia e Germania, Inghilterra, Oriente e Impero latino, Ungheria, Dalmazia, Spagna, Bulgaria, ecc. In qualche caso il pontefice inviò in alcune regioni anche incaricati speciali, che portavano altri titoli, per assolvere compiti più circostanziati: per esempio, i visitatores, che fra il 1205 e il 1208 dovettero eliminare alcuni abusi nell'episcopato lombardo.
L'atteggiamento di I. nella disputa per il trono tedesco, ben documentato dal Regestum super negotio Romani imperii, a dispetto delle sottili argomentazioni giuridiche e morali addotte ‒ già illustrate in precedenza trattando la concezione papale del rapporto fra "Imperium" e "Sacerdotium" ‒ dipendeva unicamente da motivi politici, ossia dalla preoccupazione di difendere la libertà della Chiesa romana e la consistenza dei recuperi territoriali e di stornare la minaccia di una unio Regni ad Imperium. Poiché i due pretendenti (Filippo di Svevia, eletto il 6 marzo 1198 a Mühlhausen, in Turingia, dalla maggioranza dei principi, e incoronato a Magonza dall'arcivescovo di Tarantasia, che non ne aveva facoltà, e Ottone di Brunswick, eletto a Colonia l'8 giugno 1198, incoronato ad Aquisgrana dall'arcivescovo "idoneo" di Colonia), per migliorare le rispettive posizioni, ambigue dal punto di vista giuridico, cercarono di guadagnarsi il favore del pontefice e chiesero di ricevere da lui la corona imperiale, molto dipese dalla decisione di I., soprattutto relativamente ai principi ecclesiastici vincolati dall'obbedienza al pontefice. Poiché sul fronte degli Hohenstaufen veniva portata avanti la politica già perseguita da Federico Barbarossa e da Enrico VI, e Filippo negò l'auspicata sottomissione, il papa non poté che scegliere Ottone, disposto a riconoscere i diritti e i possedimenti della Chiesa romana. Ma I. si fece garantire sulla base di documenti scritti queste promesse. Dopo che il papa, tra la fine del 1200 e il 1201, rilasciò la sua dichiarazione dinanzi ai cardinali, nella nota Deliberatio de tribus electis, Ottone, la cui posizione nel frattempo era peggiorata, il 9 giugno 1201 presentò a Neuss il documento prescritto, che conteneva ampie assicurazioni relativamente ai territori e si impegnava ad appoggiare la politica papale di recuperi e a mantenere l'indipendenza del Regno di Sicilia. Alcune settimane più tardi il legato pontificio Guido pubblicò solennemente a Colonia il riconoscimento papale nei confronti di Ottone e annullò i giuramenti di fedeltà prestati a Filippo di Svevia. I. replicò nel marzo 1202 alle rimostranze dei fautori del partito svevo ribadendo i principi basilari già formulati nel 1201 nella decretale Venerabilem. La pretesa, espressa anche in questa circostanza, di poter dichiarare non vincolante il giuramento di fedeltà a Filippo e l'ordine di tributare ad Ottone onori regali, apparvero eccessivi a molti contemporanei e suscitarono in numerosi sostenitori di Filippo conflitti di coscienza. I. ne era consapevole e quindi procedette con una certa flessibilità. Obbligò solo pochi vescovi partigiani degli Hohenstaufen a schierarsi dalla parte di Ottone; in molti casi finse di ignorare che continuavano a restare fedeli a Filippo e si adoperò per attenuare le scomuniche che il legato aveva inflitto ai prelati. L'appoggio dato al Guelfo, giustificato con un alto impegno intellettuale, poté soltanto rinviare il suo declino. Dal 1204 si innescò un ampio movimento di defezioni, per cui nell'autunno del 1206 Ottone era ormai confinato nelle sue terre d'origine. I. gli tolse gradualmente il suo sostegno e avviò trattative con Filippo, il quale già ne aveva fatto richiesta dal 1203. Nella primavera del 1207 due dei cardinali più agguerriti si recarono in Germania, in estate annullarono la scomunica di Filippo, in autunno annunciarono una tregua e nella primavera seguente ripartirono alla volta di Roma accompagnati da emissari di entrambi i sovrani, affinché il papa stesso concludesse le trattative. L'obiettivo fu raggiunto, ma si ignora il contenuto preciso degli accordi. Filippo acconsentì verosimilmente a rinunciare alle pretese sul Regno di Sicilia e in merito all'Italia centrale si dovette giungere ad un compromesso. La morte di Filippo, ucciso da Ottone di Wittelsbach per una vendetta personale, il 21 giugno 1208, restituì ad I. la sua libertà di manovra. Il papa si rivolse di nuovo al candidato guelfo e si impegnò a sostenere energicamente la sua causa fra i principi tedeschi. Tuttavia, ancor più decisivo della sua iniziativa fu lo stato d'animo dominante in Germania, ormai estenuata da questa contesa: l'elezione di Ottone a Francoforte, l'11 novembre 1208, fu accolta da ampi consensi. Al desiderio di Ottone di ricevere la corona imperiale, I. rispose inviando due cardinali legati e rinnovando la richiesta di concessioni scritte, che venne soddisfatta a Spira il 22 marzo 1209. Le promesse relative alla Chiesa (libertà nella elezione dei vescovi, rinuncia ai diritti di regalia e di spoglio) e il reiterato riconoscimento delle recuperationes, delle terre matildine e del Regno di Sicilia come feudo papale non vennero purtroppo ribaditi da Ottone IV in occasione dell'incontro con il pontefice nel giugno 1209, per cui sull'incoronazione imperiale, il 4 ottobre 1209, già si allungava l'ombra del conflitto. Poiché Ottone venne meno alle promesse, solo pochi mesi dopo I. lo minacciò di scomunica se non avesse desistito dal prendere iniziative ostili nei confronti della Chiesa romana e di Federico II. La scomunica fu confermata allorché un distaccamento di truppe imperiali avanzò verso l'Italia meridionale, e venne proclamata solennemente quando Ottone, nel novembre 1210, varcò i confini del Regno. Furono sciolti i giuramenti di fedeltà e ai vescovi fu ordinato di annunciare l'anatema in tutto l'Impero. Di fronte alla mancanza d'efficacia delle misure canoniche il papa, dopo alcuni mesi di incertezza, avallò le intenzioni di un gruppo di oppositori fra i principi tedeschi e diede il suo assenso all'elezione di un nuovo sovrano. Eletto nel settembre 1211, Federico II, che poté registrare i primi successi della sua politica di rivendicazioni proprio nel Regno di Sicilia, si assunse i rischi dell'impresa e dopo aver lasciato l'isola, nel marzo 1212, si assicurò a Roma l'appoggio del papa e nel settembre 1212 raggiunse la Germania sudoccidentale (nuova elezione a Francoforte nel dicembre 1212 e incoronazione a Magonza). Sostenuto dall'alleanza con la Francia, Federico ingaggiò battaglia con Ottone, che alla fine venne sconfitto a Bouvines nel luglio 1214. Ma già in precedenza I. aveva chiesto, in cambio del suo appoggio, le più solenni assicurazioni. A Eger Federico garantì con una bolla d'oro e la menzione di numerosi testimoni principeschi le concessioni territoriali ed ecclesiastiche, come Ottone IV già aveva fatto quattro anni prima, e un anno più tardi assegnò solennemente alla Chiesa romana i territori recuperati, la Sardegna e la Corsica. Un anno dopo la nuova incoronazione ad Aquisgrana, il 25 luglio 1215, Federico dovette acconsentire a dare altre assicurazioni sotto giuramento dinanzi ad un cardinal legato: rinunciare alla Sicilia dopo l'incoronazione imperiale e alla patria potestà sul figlio Enrico, incoronato re di Sicilia, e affidare ad un uomo approvato dal papa la tutela del bambino fino alla maggiore età. Il concilio lateranense confermò le trasformazioni politiche e vanificò qualsiasi speranza di restituzioni di Ottone IV, che rimase confinato nelle sue terre d'origine. L'intervento nella disputa per il trono tedesco aveva costretto I. a numerose inversioni di rotta, che in precedenza aveva respinto per ragioni di ordine giuridico e morale. Le ripetute, e puntualmente disattese, assicurazioni dei re tedeschi dimostrarono quanto fosse precaria la posizione del pontefice ed effimera la sua autorità, quando non era in sintonia con gli interessi politici. Ma come risultato a lungo termine il pontefice poté assicurarsi il riconoscimento della sovranità feudale sul Regno di Sicilia ed imporre la sua politica di recuperi nell'Italia centrale. Inoltre, tramite le decretali, era stato sancito il diritto d'intervento del papa, che poteva essere agevolmente trasferito dal caso dell'elezione contestata a quella ordinaria.
L'apogeo del pontificato di I. coincide con il concilio celebrato nella basilica del Laterano dall'11 al 30 novembre 1215. La convocazione con la bolla Vineam Domini Sabaoth (19 aprile 1213) e l'appello alla crociata, di pochi giorni successivo, Quia maior nunc, mettono in risalto la stretta connessione fra gli obiettivi della riforma della Chiesa e della riconquista della Terrasanta. Ma dovevano essere risolti anche i problemi politici che laceravano la cristianità. All'apertura del concilio presenziarono oltre quattrocento vescovi, ottocento abati e priori e molti rappresentanti delle potenze secolari, sicché il IV Laterano fu il concilio più frequentato del Medioevo. L'affollamento era tale che alcuni convenuti vi morirono.
Lo svolgimento del concilio è ben documentato dal resoconto di un testimone oculare e dimostra che i canoni conclusivi furono discussi solo in piccola parte. Invece, in presenza del pontefice, furono trattate nel corso di tre sedute numerose questioni ecclesiastiche e politiche, mentre non fu in un primo tempo affrontata la decisione in merito alla legittimità di Ottone IV o di Federico II come sovrano tedesco, perché fra gli emissari nemici scoppiò una rissa: solo nella terza sessione, il 30 novembre, fu confermata definitivamente la potestà di Federico II e condannato Ottone IV. A conclusione del concilio vennero proclamati i settanta decreti che non furono però votati. Non erano neppure stati integralmente formulati, perché la redazione finale e la diffusione ai vescovi fu rinviata al 1216. Possono essere considerati opera di I., che in tal modo fece sancire dal concilio i suoi propositi dogmatici e riformatori. A eccezione di pochi canoni (42, 49, il can. 71 della crociata), i decreti vennero inseriti nel Corpus Iuris Canonici e lasciarono la loro impronta sulla Chiesa più di qualsiasi altro concilio medievale fino al tridentino.
I. morì il 16 luglio 1216 a Perugia. Restò sepolto fino al 1892 nella cattedrale di questa città, poi le sue spoglie furono traslate a Roma in S. Giovanni in Laterano (una più ampia e completa versione di questa biografia, con accurate indicazioni bibliografiche, in W. Maleczek, Innocenzo III, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 326-350).