Innocenzo IV
A Sinibaldo Fieschi, giurista genovese, cardinale di corte, papa dal 1243 ed espressione di un nuovo tipo di pensatori politici del diritto, si deve un'idea fondamentale della storia del pensiero giuridico, quella di istituzione. A chi spetterebbero le proprietà della Chiesa se scomparissero i prelati e i fedeli? Sinibaldo risponde che resterebbero in capo al Cristo che della Chiesa, da fuori e da sopra, garantisce la continuità di quel suo corpo reale. Si dà così vita a un'idea di società nella quale agiscono istituzioni che derivano da sopra e da fuori – vuoi per un postulato teologico, vuoi per una decisione del potere civile – circostanza che le rende responsabili e attive.
Sinibaldo Fieschi nasce prima del 1190 a Lavagna in una famiglia che ha acquisito nei decenni precedenti peso politico ed ecclesiastico: il nonno Rufino, feudatario di Federico I, nel 1174 negozia una pace che introduce la casata nella politica cittadina; Manfredo, cugino del nonno, è cardinale dal 1163; tre zii, Alberto, Ibletto e Opizone fanno carriera ecclesiastica e quest’ultimo, canonico e poi vescovo di Parma, curerà l’educazione di alcuni dei figli del fratello Ugo 'de Fliscus', maritato a una figlia del nobile genovese Amico Grillo.
Sinibaldo, che di Ugo è figlio, prende la via ecclesiastica insieme ai fratelli maggiori Rubaldo e Rufino. Lascia traccia di sé nel monastero di Fruttuaria (dove forse fu oblato?), poi passa agli studi: dalla fine del 1213 è a Bologna dove diventa magister prima del dicembre 1223, poco più che trentenne.
Forse famiglio del cardinale Ugolino già prima della cattedra, Sinibaldo è però legato alla corte di Gregorio IX, che aveva eletto Parma come sede del negoziato di pace fra genovesi e pisani, poi fra genovesi e veneziani nel 1217-18.
Nel 1226, comunque, Sinibaldo è già insediato nella curia: dal 31 maggio 1227, a pochi mesi dall’elezione di Gregorio IX, diventa vicecancelliere della Chiesa di Roma e cardinale il 18 settembre, con compiti gravi, come la redazione della prima scomunica di Federico II, reo della violazione del voto di crociata.
Rettore della Marca di Ancona fra il 1234 e il 1239, torna a Roma quando si affaccia l’idea di un Concilio che scomunichi lo Svevo. Non si sa se Sinibaldo, ma certo i genovesi hanno parte in questo progetto che prevede l’arrivo via nave di un certo numero di cardinali che, però, vengono catturati il 3 maggio del 1241 da Federico II e tenuti in ostaggio.
Dopo la morte di Gregorio IX i cardinali superstiti, reclusi dal senatore di Roma Matteo, eleggono proprio il genovese che prende il nome di Innocenzo IV, il 25 giugno 1243.
Il nuovo papa prende tempo, prepara l’ingresso solenne a Roma, si trova con i cardinali a primavera e, alla vigilia dell’incontro con Federico II fissato a Narni per il 7 giugno 1244, fugge a Genova e poi da lì a Lione, dove arriva il 27 dicembre 1244. Il Concilio che da lì convoca ha lo scopo di trattare con i Tartari, recuperare la Terra Santa, promuovere gli ordini mendicanti, rompere con una nuova scomunica il vincolo del giuramento che regge l’impero.
Innocenzo IV apre il Concilio convocato a questo fine il 24 giugno del 1245 e lo chiude il 18 luglio con la lettura solenne della scomunica.
Federico II bloccato e sconfitto dalla rivolta dei parmensi il 18 marzo 1248, non riesce a dar l’assalto a Lione e deve subire l’onta di veder eletto nuovo imperatore Guglielmo d’Olanda, incoronato ad Aquisgrana il 1° novembre 1248, prima di morire il 13 dicembre 1250.
Per papa Fieschi è il definitivo successo celebrato dal trionfale ritorno in Italia – il suo biografo Nicolò da Carbio lo descrive con partecipazione – con tappe importanti come quella di Assisi, dove proclama santa Chiara, e poi fino a Roma, dove ricongiunge il papa e la sua sede, prima di morire, a Napoli, il 7 dicembre 1254.
L’apporto di Sinibaldo alla storia del diritto segue due vie. Da un lato, egli incrementa e perfeziona l’uso papale di pubblicare decretali che, rispondendo a casi reali o immaginati, colmino le lacune del diritto canonico e ne regolino aspetti conflittuali. Innocenzo IV immagina di collocarle o nello stesso Liber extra, che sotto Gregorio IX aveva costituito il secondo tomo del diritto canonico, o nelle Novellæ, che saranno più tardi assorbite dal Liber sextus. Sinibaldo però produce come 'maestro privato' anche un monumentale commentario che costituisce il deposito dei suoi apporti giuridici più innovativi e che farà scuola per secoli: il suo Apparatus in quinque libros decretalium (poi sempre App. con l’indicazione della decretale commentata) al Liber Extra (disponibile in anastatica o online nell’ultima edizione del 1481) è infatti uno dei massimi capolavori della finezza canonistica classica. Per il Fieschi, infatti, la grande e definitiva crisi dei rapporti fra papato e impero richiede un ripensamento sistematico della struttura del potere a partire da quegli aggregati che per lui sono universitates.
Per Sinibaldo le universitates non possono esercitare la iurisdictio se non quando agite da rectores (App. ad Cum accessissent, Lib. Extra 1, 2, 8) e se costituite per un fine espresso (App. ad Dilecta in Christo): come tali non sono passibili di scomunica, «quia nomina sunt iuris et non personarum» (App. ad Gravem, Lib. Extra 5, 39, 52). Da questa indagine discende il suo apporto alla teoria della istituzione. Fino a Innocenzo IV incluso la dottrina corporativa identifica l’organismo collettivo con i propri membri, il proprio patrimonio e il proprio rappresentante. Sinibaldo considera in questo modo anche la Chiesa, ma si spinge oltre costruendo un caso astratto (App. ad Cum super electionem, Lib. Extra 2, 12, 4): cosa accadrebbe delle proprietà della Chiesa se sparissero tutti i fedeli e tutti i prelati? Per lui è evidente che quelle proprietà non andrebbero disperse perché il Cristo, da sopra e da fuori, garantirebbe alla Chiesa quella permanenza che noi oggi chiamiamo istituzione. Erroneamente avvicinata alla successiva dottrina della persona ficta (per il Fieschi, Cristo non è affatto fictio, ma una realtà che costituisce la persistenza nel tempo e l’obbligazione a ciò che da sopra e da fuori costituisce la Chiesa come istituzione, al di là della posizione e della volontà dei suoi membri effettivi), questa tesi gli permette di applicare alla chiesa le norme sul minore, che agisce solo tramite un procuratore, in ciò che gli preme.
Questa embrionale ecclesiologia istituzionale vuole rispondere a una grande sfida storica: ha come scopo una comprensione della Chiesa che le consenta di continuare a offrirsi come modello sociale generale. La conclusione del commento alla Cum super è significativa: «Sive autem dicas Christum, sive ecclesiam generalem, sive specialem, sive episcopum, vel alium prælatum, sive Papam vicarium Christi possidere, dicas secundum prædictum modum procedendum». L’ecclesiologia istituzionale nasce come riprova della simbiosi fra Chiesa e società ovvero come riprova della funzione di modello che l'assetto ecclesiastico può e deve avere per la società.
Questa simbiosi deprime elementi fondamentali della concezione della Chiesa: spinge verso i margini la predicazione, la santità, la tensione escatologica; e al tempo stesso valorizza altri elementi fino a quel momento ritenuti secondari, dalla concezione piramidale della Chiesa e delle sue strutture, alla teoria del papato come elemento necessario all'insieme dell'ordine creato e garanzia dell'ordine sociale, che si sarebbe successivamente estesa fino a fare del pontefice una necessità soteriologica e una garanzia di infallibilità. Si può forse dire che senza la spinta della cristianità, come ideologia e come regime, la dottrina delle istituzioni non avrebbe trovato la sua via: fa parte del corso degli eventi che tale dottrina abbia dato a quello che Walter Ullmann definì il medieval papalism un impulso tanto più poderoso quanto più invisibile a occhio nudo.
Alcune importanti concezioni ecclesiologiche di Sinibaldo si ritrovano in una lettera, la Eger cui lenia, redatta fra il 1245 e il 1246. La sua autenticità è stata disputata, ma in essa appare ben visibile il modo in cui papa Fieschi o la sua camera rileggano alla luce di un principio di assoluta e indubitata superiorità del potere papale tutta la tradizione teologico-politica della Chiesa latina. Anziché forzare, come la tradizione gregoriana, la legittimità del potere ricevuto, Eger trasforma perfino il fondamento costantiniano del potere del papa. Ciò che l’imperatore dà alla chiesa, le apparteneva già e la 'donazione' serve solo a integrare il potere imperiale in un disegno nel quale il pontefice assume entro certi confini tutte le prerogative di potere, al di sopra di ogni discussione giacché (App. ad Super eo, Lib. Extra 1, 21, 2) può «interpretare il vangelo e farvi aggiunte». Per quanto contraddittoriamente, si collega a questa idea la tesi espressa nella Quod super, una decretale che ridefinisce quella che fino allora era stata l'ordinaria articolazione di iurisdictio e potestas nella teoria politica: il patrimonio decretistico e le decretali di Innocenzo III avevano elaborato una categoria – la plenitudo potestatis – per indicare lo scarto fra il potere dei vescovi, chiamati in partem sollecitudinis, e la figura del papa, al quale spettava una pienezza di potere che non poteva conoscere altro ostacolo, se non quello dell’essere colto a fide devius e che fino a Costanza rimarrà come una eccezione decorativa del sistema. In questa visione la giurisdizione discendeva dalla potestà ed era coperta da quella.
Nella dottrina di Innocenzo IV, invece, sollecitata proprio dallo scontro con il potere imperiale, che dev’essere distrutto senza distruggerne la portata, non si dimentica che la giurisdizione appartiene all’ordine della creazione: quando crea il mondo Dio crea anche una iurisdictio che è quella che ordina i rapporti fra le persone e le cose. Di questa iurisdictio, secondo Innocenzo IV, è legittimo titolare anche l’infedele: ciò non significa che non sia soggetto in ultima analisi alla potestà su tutta la creazione che il Cristo esercita per mezzo del proprio vicario in terra, ma impedisce anche che il papa si trovi di fatto privato, proprio a causa della sua reclamata potestà, della possibilità di negoziare con sovrani e imperi non cristiani – cosa che effettivamente il Fieschi farà inviando, subito dopo il suo arrivo a Lione, ambascerie al khan dei mongoli, Güyük, con il quale sperava invano di concludere un'alleanza anti-islamica. Per questo, da un lato il papa custodisce il rispetto teorico della lecita giurisdizione degli infedeli, dall’altro (App. ad Licet ex suscepto, Lib. Extra 2, 2, 10) ha il compito di rimuovere i governanti inetti, ma anche di giudicare della fedeltà degli ebrei alla sola torah e di punire lo studio osservante del Talmud, e ovviamente di punire l’eresia.
Nel dare la caccia agli eretici (lo spiega la bolla Ad extirpanda, datata il 15 e 22 maggio 1254 da Assisi e indirizzata alle autorità di Lombardia, della Romagna e della Marca Trevisana) c’erano precedenti in Innocenzo III, ancor prima nel 12° sec. e perfino nella legislazione giustinianea: ma il Fieschi riordina e sistematizza atti preventivi (come il giuramento), atti legislativi (la promulgazione di un bannum), atti procedurali (la costituzione di un tribunale d’inquisizione, con dodici buoni cattolici, due domenicani e due francescani) e fiscali (per portare le spese a carico del comune). I renitenti ricadono sotto le pene previste «juxta legem Padue promulgatam per Fridericum tunc imperatorem». Oltre alle norme sulla carcerazione la bolla chiede alle autorità di costringere gli eretici – è questo il punto cruciale (§ 25) – a confessare il loro errore: per questo devono sottoporli a qualsiasi tortura, eccetto quelle che causerebbero la mutilazione di qualche parte del corpo o quelle che potrebbero condurli a morte.
Si tratta in apparenza della estensione al processo inquisitoriale delle norme del processo penale secolare («sicut coguntur fures et latrones rerum temporalium accusare suos complices et fateri maleficia quæ fecerunt»), ma non solo. Ad extirpanda mirava a liquidare quelle frange ereticali ancora sopravviventi nell'Italia settentrionale il cui vigore espansivo aveva colpito il pontefice nel viaggio di ritorno da Lione a Roma. Tuttavia egli enfatizza il valore dell'eresia come crimine di lesa maestà di natura anche politica, il quale, come delitto politico, non può non avere conseguenze fatali sul reo e sul suo clan familiare. E tramite lui la tortura verrà così a far parte della mentalità del tradimento in età moderna, come strumento attraverso cui portare allo scoperto il tradimento stesso. Innocenzo IV non si propone un uso istruttorio della tortura o finalizzato allo smascheramento degli eretici: infatti essa deve essere direttamente inflitta ad omnes hæreticos quos captos, e così obbligarli ad errores suos expresse fateri. È l’eresia come crimine politico contro l'ordine cristiano che dev'essere colpita in questo modo: né la resipiscenza, né la punizione sono qui in gioco, ma la proclamazione sanguinaria dell’errore, attraverso cui il colpevole riconosce l’ordine che ha violato. Come dimostreranno la penalistica dell’età moderna e la sua scia di atrocità, l'estorsione della confessione è il momento forte, anzi catartico della punizione del crimine politico, il drammatico moment of connivance fra accusato e accusatore.
La condizione peregrina del papato impone inoltre a Fieschi di rivedere la dottrina sui limina apostolorum, cioè il luogo nel quale il vescovo deve recarsi per rinsaldare la sua comunione con il principe degli apostoli: il diritto previgente, dalla riforma gregoriana dell'11° sec. in poi, aveva saldato le prerogative della Chiesa romana e quelle del successore di Pietro. L’attribuzione esclusiva al papa del titolo di vicario di Cristo, che prima di Innocenzo III veniva usato per tutti i vescovi, è parte di questo processo. Innocenzo IV deve quindi misurarsi con le prerogative della sede (dove ha lasciato un collegio di cardinali a governare il patrimonio) e quelle della persona del pontefice: e la sua soluzione è che tutto ciò che compete a Roma vada riferito al luogo dove il papa dimora, perché ubi papa, ibi est Roma.
Il principio avrà effetti specifici durante la cattività avignonese, ma rimarrà un caposaldo della dottrina romana sul papato: a essa il papato si riferirà nell'organizzazione di atti come quelli che seguono le campagne napoleoniche, la proclamazione della Repubblica romana nei moti del 1848; anzi, continuerà a pensarla come extrema ratio dopo la fine del potere temporale, quando si pensa di eleggere il nuovo papa a Malta, e, in un senso opposto, durante l’occupazione nazista di Roma del 1944, quando Pio XII predispone le cose perché la sua eventuale deportazione venga considerata una rinunzia all’ufficio e la delega al cardinale di Palermo per l’organizzazione di un nuovo conclave.
La fortuna della dottrina canonistica del Fieschi è molto singolare: Enrico da Susa la usa come una fonte e così tutti i grandi canonisti, e grazie alle posizioni molto nette sulla superiorità del potere papale continuerà a essere insegnata fino al Cinquecento inoltrato. Per altro verso la sua teoria sulla giurisdizione come prerogativa di ogni società, nella querelle teologica che segue il descubrimiento del nuovo mondo, sarà lo strumento principale, per la difesa dei diritti degli indios. Sunteggiato nei grandi strumenti del diritto canonico ottocentesco, Fieschi ridiventa oggetto di studi nella ricerca medievistica su Federico II e solo dopo la metà del Novecento la sua produzione canonistica ridiventa tema di ricerca: prima con Stephan Kuttner a partire dalle decisioni del Lionese I, poi con gli studi della scuola fiorentina di Paolo Grossi e Mario Sbriccoli sull'unanimità e sul crimine di lesa maestà, proseguiti nelle ricerche di Brian Tierney e dei suoi allievi alla fine del 20° secolo.
Apparatus Innocentii IV PP. in V Libros Decretalium, Francofortii ad Moenum 1570 (rist. anast. 1968).
I principali mss. sono Biblioteca apostolica vaticana Ross 597 e Urb. lat. 157.
Sul testo cfr. M. Bertram, Angebliche Originale des Dekretalenapparats Innozenz' IV, in Proceedings of the VIth International Congress of Medieval canon law, Berkeley (Cal.) 1980, ed. S. Kuttner, K. Pennington, Città del Vaticano 1985, pp. 41-47; Registres d’Innocent IV (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome), 4 voll., éd. É. Berger, Paris 1884-1921.
Gli atti e i documenti di Innocenzo IV si leggono in:
Regesta pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, 2 voll., Berolini 1874-1875.
Bullarum privilegiorum ac diplomatum Romanorum pontificum amplissima collectio, a cura di C. Cocquelines, 3° vol., Romæ 1740 (rist. anast. Graz 1964).
Epistolæ sæculi XIII e regestis Pontificum Romanorum, a cura di G.H. Pertz, C. Rodenberg, 3 voll., Berolini 1883-1894 (rist. anast. München 1982).
Strumenti:
C.A. Willemsen, Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. und der letzten Staufer, München 1986.
A. Quintana Prieto, La documentación pontificia de Inocencio IV (1243-1254), 2 voll. Roma 1987.
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Studi:
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A. Paravicini Bagliani, Innocenzo IV, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.
Sulla biografia:
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Sulla dottrina:
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