Innocenzo IX
Giovanni Antonio Facchinetti nacque a Bologna il 20 luglio 1519 da una famiglia di origine ossolana, i Nocetti o della Noce. Il padre Antonio proveniva da Cravegna (valle di Antigorio nell'alta val d'Ossola) così come la madre Francesca Cini, originaria della confinante località di Croveo (parrocchia di Baceno). A Bologna Antonio esercitava la professione del facchino, tipica delle comunità immigrate dalle valli alpine. Da ciò sarebbe derivato il soprannome "Facchinetto" poi definitivamente assunto come cognome della famiglia ormai stabilizzatasi nella città felsinea.
Secondo P. Litta, l'arrivo a Bologna di Antonio sarebbe da far risalire al 1514, appena cinque anni prima della nascita di Giovanni Antonio. Dalla secondogenita Antonia, sposata con Antonio Titta di Trento, ebbe origine la discendenza di nipoti e pronipoti del futuro papa, il quale in seguito li adottò dando loro il proprio nome. Fin dai primi tempi dell'istallazione a Bologna, Antonio fu in relazione con la famiglia senatoria dei Lambertini. Madrina al battesimo di Giovanni Antonio fu infatti Ginevra Felicini, moglie del senatore Cornelio Lambertini. Con la generazione successiva le famiglie si imparentarono attraverso il matrimonio tra Cecilia (figlia di Antonia) e Camillo Lambertini.
Nel corso della sua vita, Facchinetti non mancò di ricordare in vari modi la propria origine ossolana e il nome della sua casata, soprattutto nello stemma che rappresenta un albero di noce in campo d'argento. L. Pellanda attesta che i della Noce o Nocetti erano originari di una "principalissima città italiana", costretti all'esilio nella valle alpina a causa di faide cittadine nel corso del XV secolo. Inoltre identifica la casa natale della famiglia e testimonia che nelle chiese della valle di Antigorio si trovano lapidi e immagini di I. e che nell'oratorio della chiesa di Crodo vi è un'immagine di S. Petronio a dimostrazione del legame con la nuova patria felsinea. Già nel 1547 Facchinetti ottenne un canonicato nella chiesa dei SS. Gervasio e Protasio di Domodossola e da pontefice tenne come suo cappellano Giovanni Pietro di Varzo restando in contatto con altri ossolani. Infine nel suo testamento egli lasciò un'eredità alla chiesa di Cravegna con l'obbligo di creare un collegio a Bologna per i giovani della valle di Antigorio. Emerge dunque da parte di Facchinetti un attaccamento alla madrepatria tipico del figlio dell'emigrante che ha fatto fortuna e che indulge volentieri nel riconoscere le proprie origini e nel beneficare la comunità dalla quale proviene. D'altra parte la rivendicazione dell'origine ossolana della famiglia Facchinetti avanzata da Pellanda nel 1953 si accorda a quanto riportato da quasi tutte le biografie, dal XVII al XIX secolo, ma si giustifica per la circostanza che varie opere di larga consultazione pubblicate nella prima metà del Novecento (la Storia dei papi di L. von Pastor e le voci dell'Enciclopedia Italiana e dell'Enciclopedia Cattolica, il volume su Roma nel Cinquecento di P. Pecchiai) hanno invece dato credito, sulla base di un articolo di L. Bergamaschi del 1906, a un'origine veronese della famiglia Facchinetti derivante dalla confusione di Novara con Nogara e da un fraintendimento del testo di un rapporto degli ambasciatori del duca di Mantova che annunziavano in patria che I. era loro "vicino".
Malgrado l'umile condizione della famiglia, Facchinetti ebbe la possibilità di dedicarsi a studi letterari, filosofici e soprattutto giuridici, conseguendo il dottorato "in utroque iure" l'11 marzo 1544. Altri biografi ritengono invece che abbia raggiunto tale titolo nel solo diritto canonico, che resta comunque il suo ambito principale di specializzazione. Ricevuta l'ordinazione sacerdotale già prima della laurea, nei mesi successivi si trasferì a Roma al servizio del cardinale Niccolò Ardinghelli, segretario di Paolo III nel periodo di apertura del concilio di Trento e di lontananza del nipote Alessandro Farnese. Ardinghelli faceva parte della commissione cardinalizia sopra il concilio nella quale si distingueva per la difesa delle prerogative papali (un atteggiamento che si sarebbe riscontrato in futuro nello stesso Facchinetti). Tuttavia la fortuna di Ardinghelli presso Paolo III fu effimera e il cardinale morì improvvisamente nel 1547. Facchinetti entrò allora nella famiglia di Alessandro Farnese che lo inviò ad Avignone, dove il cardinale era legato e arcivescovo, come suo vicario e amministratore diocesano per quattro anni. In seguito alle proteste degli Avignonesi per il fatto di avere un responsabile della diocesi senza titolo vescovile, Facchinetti lasciò tale posto continuando il suo servizio per Farnese a Roma (l'8 luglio 1556 inviò una relazione sulle tensioni tra la Spagna e la Santa Sede sul confine napoletano) e a Firenze. Infine si stabilì a Parma dove si distinse nell'amministrazione corrente della città, facendo le funzioni di governatore, soprattutto nel difficile periodo della guerra contro gli Estensi nel 1558.
Tornato a Roma, dove ricoprì il ruolo di abbreviatore delle lettere apostoliche, venne nominato da Paolo IV referendario "utriusque signaturae" nel 1559. Il 26 gennaio 1560, Pio IV gli affidò la diocesi di Nicastro anche se, come nota B. Katterbach, la nomina sarebbe da far risalire all'anno precedente, dunque ancora sotto Paolo IV, poiché in un registro di suppliche si trova già la sua firma come vescovo della diocesi calabrese il 6 luglio 1559. Primo vescovo dopo trent'anni a recarsi di persona a Nicastro, Facchinetti risiedette nella diocesi in tre periodi intervallati dalla sua partecipazione al concilio di Trento (1562-1563) e dalla sua funzione di nunzio a Venezia (1566-1572). Egli giunse a Trento al più tardi l'8 ottobre 1562 restandovi fino alla chiusura del concilio, tranne un soggiorno a Verona nel dicembre 1562 per le celebrazioni in onore del cardinale Bernardo Navagero. Al concilio Facchinetti svolse un ruolo di primo piano in varie occasioni, schierandosi insieme ad altri canonisti come Giambattista Castagna, Gabriele Paleotti e Ugo Boncompagni in difesa delle tesi filopapali propugnate dal legato pontificio cardinale Ludovico Simonetta, ad esempio riguardo al potere giurisdizionale dei vescovi sulla loro diocesi derivante non dalla consacrazione (cioè dal diritto divino), ma dalla nomina pontificia. La posizione del gruppo gravitante intorno a Simonetta si esplicò in particolare in contrapposizione alla folta delegazione francese. L'intransigenza dei canonisti legati a Roma si manifestò anche nella discussione sull'obbligo della residenza dei vescovi che essi facevano risalire al diritto canonico e non a quello divino respingendo l'opinione che gli inosservanti commettessero peccato mortale. In questo caso, rispetto agli zelanti più agguerriti (Boncompagni, Pierantonio Capua e Castagna), Facchinetti prese una posizione più sfumata, presentando con Paleotti il 10 gennaio 1563 un progetto di compromesso che si asteneva dalla valutazione sul diritto divino. Gli zelanti, però, rifiutandosi di partecipare alle sedute, fecero fallire l'iniziativa. In generale Facchinetti veniva considerato un collaboratore fedele, "stipendiato" degli zelanti e apprezzato da Simonetta (cfr. A.S.V., Carte Farnesiane, 3, cc. 332, 333v). Facchinetti difese senza riserve il primato pontificio ancora nel 1563 quando svolse un ruolo importante nella commissione sugli abusi del sacramento dell'ordine e in quella sulla revisione della riforma.
Durante questa esperienza tridentina Facchinetti ebbe occasione di rinsaldare legami di amicizia personale con prelati - quali quelli sopra citati - che ebbero in seguito un ruolo importante in Curia. Del concilio Facchinetti fu anche un importante testimone, come rivela il suo carteggio con Farnese cui riferisce le varie questioni (assenze, interruzioni, problemi di precedenze, tentativi di corruzione, morte dei partecipanti) e singoli episodi (l'arrivo della delegazione francese o la cruenta rissa avvenuta nel marzo 1563 tra i servitori spagnoli e italiani dei cardinali, nella quale egli si trovò direttamente coinvolto). Da tale corrispondenza si evince anche la non florida condizione economica di Facchinetti che spesso protestava con Farnese per i ritardi nell'invio del denaro da parte dei computisti. Egli riceveva un sussidio per il suo mantenimento a Trento, di cui aveva bisogno sia per una "rovina" che aveva subito a Nicastro, sia per passare le acque ai bagni di Lucca al fine di curare la sua già incerta salute. Terminato il concilio il 4 dicembre 1563, il 7 o l'8 era già in viaggio per Roma, via Parma e Bologna, proseguendo poi per la sua sede vescovile di Nicastro.
Tornato alla direzione della diocesi egli riprese ad applicarsi alla cura pastorale con grande disciplina, esercitando con successo la predicazione, compiendo la visita diocesana e ammettendo nuovi Ordini religiosi come i Conventuali nel 1565 a Montedoro e l'anno successivo i Carmelitani a Sambiase. Durante il suo soggiorno, instaurò buoni rapporti con gli altri vescovi calabresi, ma rimase anche in contatto epistolare con personaggi quali il cardinale Guglielmo Sirleto, al quale chiese copie di libri vari, a dimostrazione della prosecuzione della sua attività di studio anche durante l'ufficio pastorale. È forse di questo periodo o del precedente soggiorno a Trento un trattatello di diritto canonico indirizzato a Carlo Borromeo (De causis quae tractari debent in curia et de quibus ordinari cognoscere possunt; B.A.V., Borg. lat. 61, cc. 161-74v).
Nel 1566 il nuovo pontefice Pio V lo nominò nunzio pontificio a Venezia (brevi del 13 e del 22 marzo) in sostituzione di Pierantonio Capua, concedendogli anche una sovvenzione di 300 scudi. Così Facchinetti dovette lasciare la sua diocesi, della quale tuttavia continuò a occuparsi, spesso attraverso Sirleto. Presentandolo all'ambasciatore veneziano Paolo Tiepolo, Pio V espresse un grande apprezzamento per la sua attività vescovile. Nel suo viaggio dalla Calabria verso Venezia, Facchinetti incontrò a Roma Tiepolo che ne riferì favorevolmente al Senato ("modestissimo, assai intelligente e bono"), soprattutto per l'atteggiamento prudente. In realtà la Nunziatura veneziana, come possiamo seguire dal carteggio con Roma pubblicato da A. Stella, si rivelò esperienza piena di difficoltà e non esente da qualche amarezza, a parte l'esaltante periodo della lega e della vittoria cristiana a Lepanto. I compiti affidati a Facchinetti erano relativi soprattutto al rispetto delle norme tridentine, con particolare attenzione alla riforma del clero e al risanamento morale dei monasteri femminili, al buon funzionamento dell'Inquisizione e alla salvaguardia dell'immunità ecclesiastica. Secondo H. Jedin la figura di Facchinetti mostra esemplarmente la trasformazione del ruolo del nunzio da rappresentante del papa a promotore della riforma tridentina. Egli infatti fu partecipe di una fase nell'evoluzione delle Nunziature che giunge fino agli inizi del XVII secolo nella quale, almeno nei primi tempi, i nunzi erano spesso vescovi che avevano partecipato direttamente al concilio. A Venezia, ad esempio, sia il predecessore (Capua) che il successore (Castagna) di Facchinetti erano tra i curialisti zelanti con i quali egli aveva collaborato in vario modo a Trento. L'applicazione della riforma (concili provinciali, costumi del clero) venne particolarmente seguita da Facchinetti, in particolare sul tema della residenza del clero sul quale nel luglio 1568 egli pubblicò la bolla di Pio V. Malgrado queste premesse, l'azione del nunzio finì però con lo scontrarsi con l'autorità veneziana su temi dai risvolti più politici, in particolare sull'immunità ecclesiastica, sulla giurisdizione temporale del papa su Ceneda e sulla reticenza veneziana a condannare gli eretici nell'Inquisizione, soprattutto gli stranieri e i personaggi di elevata condizione.
Insensibili alle pressioni di Facchinetti, i Veneziani mantennero infatti la loro autonomia come nel caso della condanna capitale dell'umanista relapso Publio Francesco Spinola, che venne annegato di notte (secondo l'uso veneziano) anziché esser messo pubblicamente al rogo come richiesto dal nunzio. Più morbida fu la posizione di Facchinetti riguardo alle proteste dei librai veneziani contro il monopolio delle edizioni del catechismo tridentino, del breviario e del messale riservato dal papa ai tipografi romani. Secondo Facchinetti imporre il monopolio (misura per lui di mero carattere economico) significava creare una situazione sfavorevole al ben più importante e sostanziale controllo inquisitoriale sul contenuto dei libri. Egli quindi era incline a chiudere un occhio e consigliò Roma a muoversi con prudenza senza danneggiare il commercio librario, denunciando invece i molteplici sotterfugi per introdurre affermazioni eretiche nelle edizioni veneziane.
Nel 1568 Facchinetti venne incaricato da Pio V di provvedere di libri la biblioteca del convento domenicano di S. Croce di Bosco Marengo. Egli inviò a Roma alcune liste (alle quali avrebbe contribuito lo stampatore veneziano Giovanni Maria Giunta) che si rivelano sorprendentemente ricche di libri proibiti, in particolare di stampatori di Basilea (la lista che ci è rimasta indica trecentosettantuno titoli con i relativi prezzi di mercato). Anche se è probabile che Facchinetti non conoscesse bene tutte le opere incluse, si può supporre, come osserva U. Rozzo, che in quegli anni vi fosse una tolleranza verso libri non ortodossi e stranieri anche tra prelati di alto rango e che tale atteggiamento fosse di fatto obbligato se si voleva organizzare una buona biblioteca.
Altre difficoltà emergono da questioni più spicciole: ad esempio non si trovava l'accordo per stabilire un corriere postale tra Venezia e Roma. Inoltre Facchinetti aveva di nuovo problemi economici: le rendite della cancelleria della Nunziatura erano molto inferiori ai 200 ducati d'oro al mese previsti e Facchinetti non riuscì neppure a recuperare i 2.000 scudi spesi per il rifacimento della residenza. Sui temi giurisdizionali poi si arrivò quasi a una rottura. Nel 1568 le difficoltà raggiunsero l'acme in occasione dell'emanazione della bolla In coena Domini con un incidente diplomatico che quasi costò a Facchinetti il richiamo da parte del pontefice, presso il quale intervenne in favore del nunzio il cardinale Giovanni Francesco Gambara, cui Facchinetti aveva fatto in precedenza dei favori (B.A.V., Urb. lat. 879/II, cc. 364-68v). Un altro dissapore tra il nunzio e Roma sorse nel 1568 per una controversia tra Farnese e Giovanni Francesco Commendone sull'abbazia commendatizia di S. Zeno: in tale occasione Facchinetti apparve appoggiare il primo, suo protettore, contro l'opinione papale favorevole al secondo. Quando la minaccia turca si fece tanto impellente da consigliare Venezia al compromesso, Facchinetti ebbe occasione di mettersi in buona luce. Appoggiandosi ai senatori filopapali contro i "giovani" come Nicolò da Ponte e Leonardo Donà, Facchinetti si adoperò per impedire accordi particolari tra il Turco e la Serenissima e per inserire Venezia nel concerto delle nazioni cattoliche. Il nunzio dovette muoversi accortamente per evitare contrasti tra Spagnoli e Veneziani, mentre i Turchi premevano in Dalmazia al punto che egli chiese di reclutare soldati per Venezia anche nello Stato pontificio. Malgrado la freddezza dei Veneziani, Facchinetti riuscì a far concludere l'accordo e a convincere Pio V a concedere dei benefici alla Serenissima. Il suo successo raggiunse l'apice, ovviamente, con la vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571), che tuttavia illuse il rappresentante pontificio. Muovendo da uno spirito di crociata, nel contesto di un papato aggressivo come quello di Pio V, Facchinetti sognava che la lega si trasformasse in un fronte stabile antiprotestante sotto l'egida pontificia. Ma questa posizione intransigente gli impedì di cogliere la realtà veneziana, nei mesi successivi alla vittoria, quando l'entusiasmo si raffreddò. Le ambiguità spagnole allontanarono Venezia dalla lega e la morte di Pio V (1° maggio 1572) privò Facchinetti di un punto di riferimento. Il nuovo papa Gregorio XIII Boncompagni (concittadino di Facchinetti e suo collega a Trento) aveva un programma politico meno rigido che il nunzio non condivideva. Il pontefice appariva ai Veneziani come succube della Spagna, tanto che si arrivò a schernire in Senato le "esposizioni" di Facchinetti il cui atteggiamento bellicoso risultò utopistico al doge e ai senatori, sempre meno disposti anche ad accettare i precetti tridentini. Il colpo di scena avvenne quando nel segreto del Consiglio dei Dieci (e non quindi in Senato) la Serenissima decise di stringere la pace separata col Turco (7 marzo 1573). La notizia creò sconcerto e sdegno a Roma e costò a Facchinetti un rimprovero da parte di Tolomeo Galli, segretario di Gregorio XIII. In effetti, anche se Facchinetti non poteva conoscere la decisione finale, non doveva certo considerarsi una sorpresa il distacco di Venezia dalla lega. Invece le informazioni fornite da Facchinetti nel periodo 1571-1573 non resero al papa la reale immagine della situazione. Troppo tardi Facchinetti spiegò al pontefice che per mantenere buoni rapporti con la Serenissima occorreva staccarsi dall'abbraccio con Filippo II per evitare che l'antispagnolismo si trasformasse in antipapalismo. Ma Gregorio non percorse questa strada e sostituì Facchinetti con Castagna, anch'egli zelante collega canonista a Trento. Per Facchinetti il periodo conclusivo della Nunziatura veneziana fu senza dubbio il momento più difficile, nel quale rimpianse la tranquillità e gli studi di Nicastro, mostrando anche un risentimento e un'ambizione verso posti di maggior prestigio insolita per il suo spirito di servizio verso la Chiesa. Negli ultimi tempi in laguna si ammalò e nel mesto congedo fu salutato da pochi senatori del partito dei "vecchi", mentre i "giovani", contro i quali egli si era schierato, detenevano il potere. Mantenne peraltro la commenda del priorato di S. Andrea di Carmignano (diocesi di Padova), ottenuta nel 1570, che avrebbe ceduto al nipote Antonio nel 1587.
Nel 1574 Facchinetti era di nuovo a Nicastro. Da Roma il cardinale Galli lo esortò a partecipare al secondo sinodo provinciale indetto dall'arcivescovo di Reggio Calabria Gaspare del Fosso per promuovere il rispetto dei decreti tridentini e per procedere contro i vescovi ortodossi "vagabondi". Venne anche incaricato di organizzare la venuta dei Gesuiti. Durante il sinodo si ammalò gravemente venendo assistito fino alla guarigione. Questa malattia lo spinse a rinunciare alla diocesi di Nicastro e a tornare a Roma, portandosi un ricordo positivo della sua esperienza pastorale in Calabria. Divenuto papa si ricordò delle cure ricevute dando particolari privilegi alla chiesa di Terranova Sappominulio e ricevendo una delegazione della sua antica diocesi.
Nel marzo 1575 Facchinetti era a Roma (come risulta dall'Autobiografia del cardinale Giulio Antonio Santori) e riceveva una pensione di 400 scudi. Il 14 dicembre 1576, nominato patriarca di Gerusalemme, riprese la sua attività curiale presso l'Inquisizione e la Consulta. Nel 1582 ottenne la commenda dei monasteri basiliani di S. Elia e Filarete (diocesi di Mileto) e di S. Maria di Merola (diocesi di Reggio Calabria). Gregorio XIII, dopo l'incidente veneziano, tornò a riporre molta fiducia in lui affidandogli incarichi nella Segnatura. Il 12 dicembre 1583 lo nominò cardinale del titolo dei SS. Quattro Coronati, nella medesima promozione di Giambattista Castagna e Niccolò Sfondrati (futuri Urbano VII e Gregorio XIV). Pastor riferisce di una lettera di felicitazioni per la nomina cardinalizia inviata a Facchinetti da Aldo Manuzio.
In qualità di cardinale egli divenne membro degli organismi di Curia presso i quali aveva prestato in precedenza la sua attività: Inquisizione, Sacra Consulta e Segnatura. Con Sisto V Facchinetti dovette abbandonare la Segnatura e spostarsi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Entrò anche in una commissione di cinque cardinali incaricata di decidere se togliere la censura a Enrico III dopo l'uccisione del cardinale di Guisa, ma l'assassinio di Enrico rese superflua la commissione stessa.
Intanto egli poteva giocare in Curia un importante ruolo di protezione degli interessi di Bologna. Per la stima di cui godeva presso Sisto V Facchinetti era forse il cardinale bolognese che aveva maggiori possibilità d'intervento. Per questo motivo le autorità felsinee favorirono la fulminante ascesa sociale della famiglia, accettando anche il fatto che il nipote Cesare prendesse in Senato il posto spettante a un'altra famiglia.
Facchinetti ripagò queste attenzioni raccomandando ai legati inviati a Bologna le giuste misure per una buona amministrazione in accordo con l'oligarchia e restando in costante contatto con gli ambasciatori bolognesi a Roma. La sua posizione di protettore del tribunale della Concordia gli consentì di nominarne i membri. Inoltre intervenne per moderare le controversie, anche se non riuscì a far stabilire delle capitolazioni della sua città con Roma durante il pontificato sistino. Nel 1588 appoggiò un'iniziativa mirante ad aumentare il potere dei Quaranta rispetto a quello del legato, che però non ebbe successo, e fu infine coinvolto nelle difficili, talora burrascose, trattative per l'ampliamento del Senato bolognese.
Nel conclave che elesse Urbano VII, Facchinetti era tra i papabili del partito spagnolo dietro però a Castagna. La situazione si ripeté poche settimane dopo nel conclave che elesse Gregorio XIV. Anche in questa occasione Facchinetti era tra i candidati spagnoli (avendo ottenuto anche l'appoggio dei cardinali d'Aragona, Salviati, Laureo e Caetani), ma dopo Sfondrati, che infatti ebbe la meglio. Soprattutto in questo secondo caso sembra che abbia pesato il timore di una scarsa malleabilità dell'intransigente Facchinetti una volta nominato.
Con Gregorio XIV tornò in Segnatura, dirigendola di fatto per le assenze del papa causate dal suo cattivo stato di salute. Mantenne altresì il posto nella Congregazione per la riforma insieme a Paleotti, Scipione Lancellotti, Ippolito Aldobrandini, cui si aggiunsero Paolo Emilio Sfondrati e Federico Borromeo. La commissione trovò un accordo per promuovere la preparazione di giovani da inviare come missionari e propose la costituzione di un grande seminario a Roma sul modello del Collegio Germanico. Essa intendeva anche affrontare il grave problema della mancata applicazione a Roma dei decreti tridentini e auspicava la riforma della Dataria. Facchinetti fu anche impegnato nella Congregazione di Francia, dove si oppose a spese eccessive per l'esercito pontificio, e nella Congregazione per la successione ad Alfonso II di Ferrara.
L'elezione di Facchinetti al soglio di S. Pietro fu il risultato dell'accordo tra il partito spagnolo e il cardinale Montalto, inizialmente contrario. Dopo l'intervento mitigatore di Filippo II del 5 dicembre 1590, il partito spagnolo non aveva un candidato ma esprimeva un gruppo di papabili, nel cui novero stava anche Facchinetti, ma che vedeva in prima fila Ludovico Madruzzo. Montalto (Alessandro Peretti) invece propendeva per Santori. Tuttavia Madruzzo non era ben visto da tutti gli spagnoli e gli italiani lo consideravano tedesco. Inoltre il partito spagnolo (sul quale faceva pressione anche il duca d'Olivares in quel tempo a Roma diretto verso Napoli) voleva un conclave breve cosicché il cardinale Giovanni Mendoza propose a Montalto un candidato di compromesso come Facchinetti, di qualità inoppugnabili quanto a moralità, erudizione, esperienza di Curia e di amministrazione dello Stato, già in età avanzata e di salute poco buona. Infine venne superata l'avversione del granduca di Toscana che aveva funzionato come veto nei rispetti di Facchinetti nei precedenti conclavi.
Già il 27 ottobre 1591 Girolamo Ragazzoni aveva fatto un ritratto del futuro papa nel quale si rispecchiava un pontefice animato dall'attuazione della riforma mediante l'applicazione dei decreti tridentini e dalla lotta al protestantesimo in Francia, un ritratto che si adattava bene alla figura di Facchinetti. Al conclave, apertosi il 28 ottobre, presenziarono cinquantasei cardinali e fin dalla prima votazione egli ottenne un buon numero di voti (ventitré contro i dodici di Santori) che salirono a ventotto la mattina seguente. Questo risultato convinse la maggior parte dei cardinali e, dopo una giornata spesa a convincere Montalto, a tarda notte si giunse all'elezione. Facchinetti assunse il nome di Innocenzo IX, richiamandosi al più illustre dei giuristi assurti al rango pontificio, Innocenzo III. Lo stesso pontefice attribuì il suo successo all'appoggio spagnolo in conclave e al "placet" di Filippo II. Anche a Firenze l'elezione fu salutata come quella di un amico dopo le difficoltà che avevano anche portato alla diffusione della voce (che si ritrova nella biografia di P. Litta) di una eventuale partecipazione di Facchinetti, all'epoca al servizio del Farnese, alla congiura antimedicea dei Pucci.
Dopo aver ceduto nelle precedenti elezioni ad altri due cardinali, Castagna e Sfondrati, come lui legati alla Spagna e creature di Gregorio XIII, l'occasione si era finalmente presentata in modo favorevole a Facchinetti, anche se troppo tardi come dimostrano i suoi settantadue anni e, soprattutto, il suo fisico provato, "pelle e ossa", e il suo colorito cinerino. Era comunque personaggio rispettabile e rispettato: "cortigiano vecchio, gran pratticone in tutte le cose e in tutti i carichi e congregationi, sodo nelle deliberationi" (B.A.V., Urb. lat. 1059/II, c. 346r-v). Le sue prime mosse furono all'insegna della morigeratezza e del rigore di impronta tridentina. Il 3 novembre venne incoronato dal cardinale diacono Andrea d'Austria in una cerimonia che si svolse in forma privata sotto le logge della basilica vaticana e non sulle scale di S. Pietro. Il risparmio di denaro gli consentì di offrire ai poveri per la consueta elemosina 4.600 scudi anziché i 4.000 dei suoi predecessori. Al contrario di questi, non dette nulla né ai conclavisti, né ai familiari: Gregorio XIV aveva devoluto ben 12.000 scudi ai primi e 7.000 ai secondi. I. non mostrò invece nessuna fretta di beneficiare i parenti, limitandosi a nominare coppiere Marc'Antonio Lambertini, suo nipote per parte di madre. Il nipote destinato al cardinalato fu invece lasciato a Bologna a terminare i suoi studi.
Questi provvedimenti lo resero popolare, anche perché il 2 novembre emanò disposizioni per obbligare i baroni a consegnare al prefetto dell'Annona ingenti quantità di grano per il popolo romano. Il cardinale Sfondrati fu costretto a far rientrare a Roma il grano che aveva mandato fuori; in seguito questi fu obbligato anche a restituire doni di grande valore ricevuti durante il pontificato dello zio. Il rapporto con l'ex cardinale nipote non fu però ostile: I. lo lasciò in carica alla Consulta e lo inserì in sua vece al Sant'Uffizio. Con lui il papa discusse con puntigliosa attenzione i provvedimenti del suo predecessore, per deciderne la conferma. Il 4 novembre si svolse il primo Concistoro con il giuramento. In quel giorno I. (con la bolla Quae ab hac Sancta Sede) confermò e inasprì il divieto di vendere i possedimenti ecclesiastici e di rinnovare le concessioni dei feudi pontifici decaduti (già promulgato da Sisto V ma sospeso da Gregorio XIV). Inoltre decise di costituire una riserva monetaria in Castel S. Angelo (vennero raccolti 250.000 scudi) soprattutto per poter sopperire alle necessità militari in Francia, evitando i prestiti cui egli era pregiudizialmente contrario. Infine restaurò l'antica prassi della comunicazione diretta della notizia della nomina ai patriarchi, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati, facendo scrivere tale annuncio al cardinale di Verona, Agostino Valier. In due occasioni I. si concesse agli aspetti cerimoniali del suo ufficio. L'8 novembre ebbe luogo la cerimonia del possesso della basilica del Laterano (descritta da Giovanni Paolo Mucanzio e Paolo Alaleoni) durante la quale I. cavalcò una mula secondo il cerimoniale e poi si recò in lettiga nella sua chiesa titolare dei SS. Quattro Coronati, cadendo in quel giorno la festa patronale. Altra uscita pubblica fu quella per la consegna della berretta cardinalizia a Odoardo Farnese, nominato dal suo predecessore nel marzo 1591, celebrata con gran pompa nel palazzo di famiglia e nelle strade adiacenti. I. partecipò alla festa "con viso dolce", dismettendo per una volta il suo solito atteggiamento austero. Senza dubbio tale occasione aveva il significato di un ringraziamento verso la famiglia che lo aveva protetto in gioventù. Il legame restò infatti ben vivo se anche a Bruxelles, dove il gran capitano Alessandro Farnese comandava le truppe spagnole, si festeggiò l'elezione di I. e si inviarono per mare carichi di grano.
Nel frattempo si creò la fama di grande lavoratore, di costumi frugali (mangiava solo una volta al giorno) e dedito al bene del popolo di Roma, i cui rappresentanti riceveva spesso in udienza il lunedì. A beneficio della città, provvide a fissare il prezzo massimo delle vettovaglie più comuni (che ben presto però scomparvero dal mercato) e a intensificare la lotta ai banditi.
Nel riordino degli uffici di Curia intervenne con iniziative degne di menzione, che tuttavia restarono allo stato embrionale. Si ricorda soprattutto la suddivisione tra tre segretari, secondo un criterio geografico, delle materie di Stato. I. evitò quindi la concentrazione in un solo personaggio degli affari politici ma creò un ufficio più complesso nel quale a Giovanni Andrea Caligari, vescovo di Bertinoro, era affidata la sezione su Francia e Polonia (per quanto già alla fine di novembre si vociferasse di un ritorno del prelato alla propria diocesi), a Giovanni Francesco Zagordi, suo segretario "in minoribus", quella su Spagna e Italia e a Minuccio Minucci quella sulla Germania. Altri personaggi formavano la sua segreteria, il più illustre dei quali fu il latinista Antonio Boccapaduli assegnato alle lettere latine e alle lettere ai principi. Al contempo funzionavano le Congregazioni cardinalizie per i vari paesi che egli mantenne, ripristinò o stabilì ex novo (Francia, Germania, Polonia).
La Congregazione della Riforma, cui Facchinetti aveva a lungo partecipato da cardinale, non recuperò sotto il suo papato la primitiva energia, malgrado la presidenza di Paleotti, esaurendosi poi definitivamente nel papato clementino. Restarono quindi sul tappeto grandi progetti di impulso alle missioni, come la proposta del vescovo di Tournai, Jean de Vandeville, di creare a Roma un seminario per la preparazione del clero missionario, che pure aveva incontrato l'interesse di Innocenzo IX. La Congregazione della Riforma avrebbe dovuto intervenire soprattutto sulle materie beneficiali riguardanti la Dataria, riformando decisamente quest'ufficio. Ma I. tolse alla Congregazione questo importante obiettivo e la indirizzò verso questioni di morale come le misure contro le prostitute e verso l'elaborazione di nuove disposizioni sull'abito del clero.
Non cedette invece il passo l'attività inquisitoriale del Tribunale del Sant'Uffizio che I. presiedeva il giovedì, dopo averne fatto a lungo parte come consultore e poi membro. Tra le sette "giustizie" eseguite nei due mesi del suo pontificato (almeno da quanto si apprende da B.A.V., Urb. lat. 1645, cc. 53-82v) cinque derivavano da accuse di eresia e apostasia dalle quali i condannati non riuscirono a scampare neppure con l'abiura.
Nella politica estera I. si trovò di fronte a situazioni difficili in Polonia a causa della ribellione dei principi contro il re, che venne seguita con attenzione a Roma nella apposita Congregazione da lui stabilita. In Francia la guerra che l'esercito pontificio conduceva contro Enrico di Navarra gravava pesantemente sulle casse della Chiesa, senza portare a nulla e producendo anzi qualche incomprensione con l'alleato spagnolo. Alcuni rapporti che mettono in luce l'inutilità dell'azione dell'esercito e la sua pessima gestione vennero sottoposti al papa che il 13 novembre 1591 decise, anche per ragioni interne di bilancio, di limitare le spese rispetto al suo predecessore fissando a 50.000 scudi il contributo alle truppe guidate da Ercole Sfondrati, duca di Montemarciano, ed esaminando l'ipotesi di ridurlo ulteriormente. Inoltre venne posto il termine del 15 dicembre per l'auspicato intervento dal Belgio delle truppe di Alessandro Farnese, in mancanza del quale l'esercito pontificio sarebbe stato disciolto. Tale decisione venne evitata in extremis, anche a causa dei continui rinvii del Farnese, ma la situazione dei soldati del papa rimase una difficile eredità per il successore di Innocenzo IX.
Sul piano dei rapporti con gli altri principi risultano molto stretti i contatti con il duca di Mantova che soggiornò a lungo a Roma, ospite con il suo seguito della Sede apostolica. Una delegazione della Repubblica di Lucca non giunse in tempo per rendergli visita. La questione di Ferrara, resa più acuta dagli effetti della ripresa della bolla che vietava nuove concessioni nei feudi dove si fosse esaurita la successione, non si risolse nel brevissimo pontificato di I., ma a questi, che aveva già mostrato un atteggiamento sfavorevole ad Alfonso, giunsero rapporti di vario orientamento.
I. non ebbe molto tempo per occuparsi delle parti più lontane della cristianità cattolica. Il cardinale Santori gli aveva raccomandato di occuparsi del Collegio Greco e vennero anche avanzati progetti su Costantinopoli e su Candia (che si voleva ricondurre al rito latino) che non ebbero seguito. Invece, a causa della difficile situazione dei cattolici tedeschi, provvide ad abbassare per loro le tasse della Dataria. A seguito di una richiesta di Filippo II già presentata a Gregorio XIV, I. concesse il titolo, puramente onorifico, di patriarca delle Indie Occidentali a Pedro Moya de Contreras, arcivescovo di Città del Messico. Per quanto coinvolto anche in importanti mansioni per la Corona spagnola, Moya ebbe un ruolo di grande importanza nella Chiesa messicana, sia come inquisitore, sia come promotore dell'introduzione dei dettami tridentini. Non è noto tuttavia se il prelato abbia ricevuto la bolla pontificia in quanto risulta (pur con qualche dubbio) essere deceduto il 7 dicembre 1591. In seguito I. venne ricordato come pontefice attento alle istanze di espansione missionaria della Chiesa. Nel 1678 Urbano Cerri, segretario della Congregazione "de Propaganda Fide", in un rapporto generale sulle missioni, rievocava i progetti di I. di fondazione di un collegio per i Turchi convertiti e di aiuto alle missioni in Giappone (Archivio Storico della Congregazione "de Propaganda Fide", Miscellanee Varie, XI, "Relazione di Mons.r Urbano Cerri alla Santità di N.S.P.P. Innocenzo XI dello stato di Propaganda Fide", c. 49r-v).
Non mancarono poi iniziative nell'amministrazione temporale dello Stato pontificio, con particolare attenzione al risanamento delle saline di Cervia e dei porti del litorale laziale e di Ancona e con interventi in favore della città di Roma come la regolazione del corso del Tevere (creando uno scolmatore per rendere più salubre l'area del Vaticano), la sistemazione del Borgo, il completamento della cupola di S. Pietro dove in quell'anno non si poté celebrare la messa di Natale. Inoltre I. tolse all'abate commendatario di Farfa e S. Salvatore la giurisdizione temporale sugli ampi territori abbaziali (misura peraltro presto rientrata) e ristabilì per Recanati il rango di città.
Anche dai contemporanei venne notata questa attività quasi febbrile del pontefice nelle piccole decisioni cui si accompagnava invece una prudenza nelle nomine cardinalizie e relative alle funzioni maggiori che venne vista come irresolutezza e lentezza. La nomina del cardinale nipote, Antonio Facchinetti (pronipote diciottenne del papa), avvenne solo il 18 dicembre 1591, una settimana dopo che egli era stato autorizzato a venire a Roma e investito di un protonotariato e di un posto nella Segnatura. La sua nomina non fu però unica: I. elevò alla porpora anche il bolognese Filippo Sega, vescovo di Piacenza e nunzio a Parigi, probabilmente anche per l'esigenza contingente di avere un rappresentante del livello di un legato in Francia a causa della delicata situazione politica. Tale coincidenza fu vista però come una "diminutio" dell'elezione del nipote che confermava il distacco, spesso palesemente ostentato, di I. dagli interessi di famiglia. Solo alla fine di dicembre si ebbe la nomina di Cesare (senatore bolognese, nipote del papa e padre del cardinale Antonio) come generale della Chiesa. L'altro nipote, Giovanni Antonio, ecclesiastico e già in passato beneficiato di un'abbazia e di una chiesa in Calabria, venne nominato castellano di S. Angelo. I. mostrò, almeno in apparenza, un certo distacco anche nei confronti delle istanze avanzate dai suoi concittadini: non prima della metà di dicembre ricevette infatti una delegazione bolognese incaricata di rendergli omaggio, ma anche di richiedere una diminuzione dei privilegi degli enti ecclesiastici, in particolare in materia di esportazione di grano dalla città.
I. preferì da un lato delegare le varie mansioni a più persone anziché concentrare il lavoro in un unico collaboratore e dall'altro mantenere la continuità delle istituzioni già formate senza ricambi di personale, come avveniva di consueto. Appena nominato egli infatti dichiarò l'intenzione di non fare grandi cambiamenti almeno fino a Natale, forse anche perché era il terzo papa a insediarsi nel volgere di due anni. Ad esempio si mosse con prudenza nei cambiamenti del personale delle Nunziature per le quali si registrarono avvicendamenti a Napoli, dove Pietro Astorgio di San Pietro prese il posto di Germanico Malaspina (21 dicembre 1591), e a Venezia, dove si insediò (per nomina del 22 dicembre 1591) il bolognese Alessandro Musotti, giurista, vescovo di Imola, già maestro di casa e tesoriere segreto di Gregorio XIII.
Rispetto alla sua attività di amministratore, assunse minor risalto l'impegno verso gli aspetti spirituali del suo ufficio, un punto debole messo in evidenza dal cardinale Santori, che peraltro riteneva che I. si fosse prefisso un programma di lavoro eccessivo per le sue forze. In effetti abbiamo scarse notizie di iniziative in tal senso. Egli si limitò a promuovere un giubileo plenario simile a quello dell'Anno santo (legato peraltro alle aspettative per la fine della guerra in Francia) e a concedere indulgenze per i missionari. Anche i suoi interessi culturali furono soprattutto indirizzati, oltre che alle materie giuridiche, verso la politica, come dimostra la sua passione per le opere di Platone e Aristotele.
Tuttavia la sua decisione di ottemperare alla popolare devozione del pellegrinaggio delle Sette chiese, il 21 dicembre, fu la causa della sua malattia e successivamente della morte. Già anziano e debole e oltremodo sensibile al freddo, egli cadde malato il giorno successivo, tanto da dover annullare le udienze. Tra il 24 e il 28 la situazione peggiorò irrimediabilmente. Negli ultimi giorni di vita sembra che egli facesse qualche resistenza a beneficiare in extremis i parenti, volendo solo ricevere i sacramenti e prepararsi alla morte che sopraggiunse nelle prime ore del 30 dicembre.
La salma fu oggetto di una prolungata devozione da parte del popolo prima di essere tumulata nelle Grotte vaticane. L'orazione funebre venne pronunciata dal gesuita Benedetto Giustiniani.
La produzione letteraria di I., non abbondante, è rimasta manoscritta. Essa riguarda soprattutto il commento alle opere politiche di Aristotele, le questioni relative al concilio di Trento, e la morale, nonché ovviamente le materie giuridiche. In particolare egli si dedicò a una confutazione di Machiavelli che forse passò al gesuita Antonio Possevino da lui chiamato a Roma, con un incarico in una Congregazione, proprio allo scopo di scrivere un'opera contro il segretario fiorentino. Tra i letterati e gli eruditi del tempo si ha notizia solo di suoi contatti con Annibal Caro, quando entrambi dimoravano presso la corte di Alessandro Farnese. Nel 1903 sono state pubblicate da L. Frati alcune massime moraleggianti, conservate nella Biblioteca universitaria di Bologna, nelle quali I. mette in mostra un atteggiamento pratico in materie che vanno dalla condotta da assumere verso i potenti e i servitori al modo di chiedere favori, dalla condanna del gioco alla discussione sull'amore profano.
Fonti e Bibliografia
Per i suoi scritti, oltre l'edizione delle massime morali di L. Frati, I ricordi di due papi, "Archivio Storico Italiano", ser. V, 35, 1905, pp. 447-52, cfr. le indicazioni in A. Ciacconio e in N. Bazzetta (v. infra); cfr. anche B.A.V., Borg. lat. 61, cc. 161-74v.
Per la documentazione epistolare relativa alla Nunziatura di Venezia cfr. Nunziature di Venezia, VIII-X, a cura di A. Stella, Roma 1963-77 (Fonti per la Storia d'Italia, 65, 117, 132); L'Archivio della Nunziatura di Venezia sezione II (an. 1550-1797). Inventario, a cura di G. Roselli, Città del Vaticano 1998 (Collectanea Archivi Vaticani, 42); per la corrispondenza con Sirleto v.: B.A.V., Vat. lat. 6182, cc. 96, 108, 117v, 129v, 344, 361v; Vat. lat. 6189/I, cc. 238, 250, 255v, 260; Vat. lat. 6946, cc. 34, 38v, 55, 65, 83, 137v, 156; la corrispondenza con Farnese ha seguito il dismembramento dei fondi farnesiani: per quella tridentina cfr. anche Concilium Tridentinum, IX (v. infra) e A.S.V., Carte Farnesiane, 3 e 5.
Per altra documentazione v. anche gli "Avvisi" in B.A.V., Urb. lat. 1059/II (16 ottobre-28 dicembre 1591) e 1060/I (1° gennaio 1592) e un "Diario" in Urb. lat. 1645, cc. 53-82v.
Cfr. inoltre B.A.V., Vat. lat. 12229, cc. 201-02v; Vat. lat. 5474 e 5474B, passim; Vat. lat. 7246, cc. 12-3v; Vat. lat. 7179, c. 278r-v; Vat. lat. 12345, c. 290r-v; Barb. lat. 2886, cc. 341-43v.
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