MANZETTI, Innocenzo
Nacque ad Aosta il 17 marzo 1826, da Pietro e da Rosa Lucia Fornara.
Il padre, originario di Invorio Inferiore presso Novara, falegname presso il collegio gesuita di S. Marco, nel 1824 si era trasferito con la moglie ad Aosta, dove aveva aperto una drogheria e una fabbrica di pasta e di salumi.
Quarto di otto figli, il M. frequentò le scuole primarie presso i Fratelli della dottrina cristiana e le superiori presso il collège royal St-Bénin, retto dai padri gesuiti; presto, però, la passione per la fisica e le arti meccaniche lo condusse a Torino, dove ottenne il diploma di geometra. Tornato ad Aosta, trovò un impiego presso l'ufficio del genio civile divisionale; assicuratosi così uno stipendio, poté dedicarsi alla sua attività preferita: gli esperimenti di fisica e di meccanica.
La fama giunse nel 1849 quando sbalordì gli spettatori con il suo "suonatore di flauto": un automa, dalla statura, la forma, le fattezze di un uomo, composto di ferro e di acciaio e ricoperto di pelle di camoscio, con una maschera e due occhi di porcellana.
All'arrivo del pubblico, l'automa, seduto su di uno scranno, muoveva le braccia, levava il cappello, salutava e pronunciava alcune parole. Tramite l'aria compressa che veniva immessa nel flauto a colpi di lingua, poteva suonare fino a dodici arie diverse, modulate da un programma registrato meccanicamente su un cilindro attraverso un macchinario simile a quello delle pianole meccaniche.
Con la fama giunsero anche le prime difficoltà nella promozione e nello sfruttamento dell'invenzione. Grazie a un contributo finanziario del Comune di Aosta, nel 1851 ebbe la possibilità di recarsi all'Esposizione universale di Londra, dove cominciò ad accarezzare l'idea di esporre il suo automa al di fuori della città natale. Dieci anni dopo un settimanale valdostano promosse una sottoscrizione pubblica per consentire di esporre l'automa all'Esposizione universale di Firenze: "Là la fama e la fortuna attendono il nostro inventore. Ma hélas! Le risorse gli mancano e non trova, non dico un generoso amante, ma uno speculatore che intenda donare i fondi necessari" (Feuille d'Aoste, 16 luglio 1861). Sarebbero bastate 2000 lire e "un po' di patriottismo", ma non si trovarono e la "meraviglia che avrebbe dovuto girare l'Europa" rimase "silenziosa e inattiva in un piccolo atelier della città" (ibid., 1° ott. 1861).
Negli anni successivi il M. lavorò a diversi progetti costruendosi la fama di scienziato geniale ma eclettico e incostante, poco abile a sfruttare le sue invenzioni, ma anche poco sostenuto dai concittadini e dalle autorità. Un'immagine costruita in particolare dall'amico E. Bérard, canonico della cattedrale e professore del collège St-Bénin, nonché direttore del principale giornale cittadino, che un giorno gli scrisse esplicitamente: "Mio caro Manzetti, inizi molte cose, ma faresti meglio a seguirne una sola e portarla a termine". L'inventore ribatté attribuendo alla povertà e all'indifferenza del governo il mancato raggiungimento della "fortuna che mi è necessaria per terminare come si deve una delle mie macchine" (Caniggia - Poggianti, pp. 19-20).
Tra i lavori più noti, un pantografo in grado di riprodurre qualsiasi oggetto, grazie al quale il M. riuscì a incidere un medaglione con l'immagine di Pio IX su di un grano di riso; un pappagallo in legno caricato con una chiave e in grado di volare libero per oltre due minuti; una macchinetta musicale che con l'ausilio di una manovella faceva muovere un pupazzetto che lanciava pallini di piombo sopra un pettine armonico producendo una serie di suoni. L'invenzione più spettacolare fu un velocipede a tre ruote, in legno e ferro, composto da una ruota anteriore e due posteriori e dotato di tre posti, mosso da una macchina a vapore e in grado di percorrere centinaia di metri su una strada battuta. Presentato al pubblico nel 1864, appariva come una specie di furgone, mosso da una caldaia che proiettava il vapore in un pistone in grado di far muovere la biella in comunicazione con le ruote anteriori. Secondo i giornali locali, "l'automovibile" percorse l'intero cammino lungo le mura romane prima di inerpicarsi lungo la salita che conduceva al convento dei cappuccini.
Più utili si rivelarono le invenzioni, nel 1861, di una pompa idraulica per lo svuotamento dei pozzi, sperimentata con successo nelle miniere di Ollomont (Aosta) invase dalle acque, e soprattutto, nel 1864 su incarico dell'amministrazione comunale di Aosta, di un filtro "naturale" che permetteva di rendere più pura l'acqua del torrente Buthier, fondamentale per l'approvvigionamento idrico di Aosta. Il filtro consisteva in un fossato scavato lungo il torrente, nel quale la purificazione delle acque si sarebbe operata attraverso le pietre, la ghiaia e la sabbia; fu distrutto da un'inondazione nel settembre del 1866, e sostituito dal M. con un nuovo filtro lungo la Mère des rives, il canale che portava l'acqua in città: Aosta ebbe così l'acqua potabile fino agli anni Ottanta dell'Ottocento, quando fu realizzato il nuovo acquedotto.
Non è noto quando esattamente il M. cominciò a lavorare al "telegrafo parlante". Alcuni biografi citano le ricerche degli anni 1849-50, legate al tentativo di dare voce all'automa, come primi esperimenti di trasmissione a distanza della voce, senza l'ausilio dell'elettricità. Il primo rudimentale apparecchio telefonico documentato fu realizzato tra il 1861 e il 1864 quando fu ripetutamente sperimentato nelle vie di Aosta.
L'apparecchio era così descritto da P. Dupont, amico del M. e maggiore medico dell'esercito: "Il telegrafo parlante era composto da un cornetto a forma di imbuto nel quale si trovava una lamina di ferro (una piastrina molto sottile) piazzata trasversalmente. Questa lamina vibrava facilmente sotto l'impulso delle onde sonore provenienti dal fondo dell'imbuto. Nel cornetto trovava posto anche un ago magnetizzato infilato in una bobina, posizionato verticalmente rispetto alla lama vibrante e vicino a questa. Dalla bobina partiva un filo di rame avvolto nella seta il cui secondo capo si collegava a una bobina piazzata in un apparecchio identico a quello già descritto. Da quest'ultimo partiva un ulteriore filo elettrico che andava a collegarsi al primo. Dunque, se in prossimità della lama del cornetto si emetteva un suono, questo suono era subito riprodotto dalla lama dell'altro cornetto. La comunicazione tra le lame delle due cornette avveniva in forza di un principio che le vibrazioni di una lama di ferro davanti al polo di un pezzo di ferro magnetizzato determinano delle correnti elettriche che durano quanto dura la vibrazione della lama. In poche parole le onde sonore prodotte dalla voce, il suono, in un cornetto si trasformano nell'apparecchio in onde elettriche e ridiventano onde sonore nell'altro cornetto" (Caniggia - Poggianti, p. 61).
Sul funzionamento dell'apparecchio i giudizi dei contemporanei non furono univoci. Pur dicendosi certo che il M. avrebbe legato "il suo nome alla scoperta più sorprendente del nostro secolo", Bérard osservò che "alcuni esperimenti ci sono parsi fattibili sebbene ancora imperfetti" (L'Indépendant, 29 giugno 1865). Meno prudente il tono di alcuni giornali nazionali, a sentire i quali era stato "trovato il modo di trasmettere per mezzo del telegrafo elettrico i suoni musicali" (L'Arpa [Bologna], 24 luglio 1865), cosa che avrebbe permesso a due negozianti di "trattare direttamente i loro affari da Londra a Calcutta" (Il Diritto [Torino], 10 luglio 1865).
A New York anche A. Meucci venne a sapere attraverso l'Eco d'Italia del 19 ag. 1865 degli esperimenti del M. e, in una lettera a un amico italiano, I. Corbellino, fabbricante di carta genovese, si preoccupò di rivendicare la priorità delle sue ricerche, affermando di non poter "negare al signor Manzetti la sua invenzione", e osservando però "che possono trovarsi due pensieri che abbiano la stessa scoperta, e che unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante" (Caniggia - Poggianti, p. 68). Visibilmente preoccupato, chiese a un altro amico italiano, E. Bendelari, di fargli "sapere se in Italia avete istruito o parlato a qualche persona, riguardo alla mia idea su tale affare" (ibid., p. 66). Bendelari rispose di non aver comunicato "la vostra idea a persona alcuna".
Di certo il M. non brevettò nulla, né ebbe modo di assistere alla disputa fra Meucci e A.G. Bell sull'invenzione del telefono. Morì ad Aosta, infatti, povero e dimenticato, il 15 marzo 1877, un anno dopo l'attribuzione a Bell del brevetto per il suo "telefono elettrico parlante".
Fu il professor P. Fornari, direttore del R. Istituto sordomuti di Milano, in un saggio apparso nell'Educatore italiano del dicembre 1883 (nel pieno della contesa giudiziaria fra Bell e Meucci), a rivendicare la priorità dell'invenzione del M., accusando gli amici valdostani e le autorità italiane in genere di non averne saputo valorizzare la scoperta. La disputa che ne seguì evidenziò non solo la difficoltà di definire "il primo telefono perfetto" (secondo Bérard, quello del M. era "abbastanza perfetto"), ma soprattutto gli usi politici della vicenda, con il M. che, sostenuto da F. Denza - il barnabita direttore della Specola vaticana e padre della meteorologia italiana - diventa bandiera di una scienza cattolica, e con La Civiltà cattolica che lo contrappone polemicamente a Meucci "compagno, amico, ospite di Garibaldi" (XL [1889], vol. 2, p. 214).
Fonti e Bibl.: P. Fornari, I. M. Il vero inventore del telefono, in L'Educatore italiano, 13 e 20 dic. 1883; T. Tibaldi, L'inventore del telefono: I. M. di Aosta, Torino 1897; A. Zanotto, Innocent M. dans le centenaire de sa mort (1877-1977), in Bulletin de l'Académie St-Anselme, IL (1979), pp. 55-61; B. Catania, Antonio Meucci…, I, Torino 1994, pp. 437-442; M. Caniggia - L. Poggianti, Il valdostano che inventò il telefono. I. M. (1826-1877), Aosta 1996.