SPINAZZI, Innocenzo
– Nacque il 18 luglio 1726 a Roma, nel rione Pigna, da Angelo Maria e da Lisa Buard, originaria di Liegi (Faccioli, 1967, p. 16 s.), impropriamente detto Vincenzo (Leipziger Kunstblatt, 1818, n. 82, pp. 337 s.).
Centrale nella formazione del giovane furono la bottega del padre, rinomato argentiere, e il successivo alunnato presso Giovan Battista Maini, da cui trasse la purezza di linee propria del tardo classicismo. Peculiare del periodo fu lo studio dall’antico, come nella raccolta personale di calchi (Carloni, 2001, pp. 98 s.), con esempi classici, e moderni (Gian Lorenzo Bernini, François Duquesnoy, Pierre Legros; ibid.). Spinazzi mutuò dal maestro la tecnica del gesso, che dispiegò in vari contributi: la semilunetta L’arcangelo Michele indica a s. Francesco di Paola la parola ‘Charitas’ per la cappella omonima in S. Andrea delle Fratte (post 1736), gli stucchi in quella di S. Anna (1749), gli altari del transetto nel duomo di Civita Castellana (1741-42), forse il gruppo di S. Gregorio Magno con angeli e cherubini, del 1752, per un pennacchio della cupola in S. Luigi dei Francesi (Chracas, 14 ottobre 1752, 5499, pp. 10 s.), integrando l’opera di Maini, defunto in quello stesso anno. Dopo la prova di ammissione con Jaele che inchioda Sisara, perduta, il bassorilievo Cincinnato accoglie gli ambasciatori del Senato – ora all’Accademia di S. Luca (Golzio, 1933), su disegni di Maini (Montagu, 1993, pp. 454 s.) – gli valse la vittoria al concorso Clementino del 1750.
Tramite il cardinale Alessandro Albani (Carloni, 2001, p. 101), Spinazzi ottenne nel 1753 dai padri scolopi l’incarico per il S. Giuseppe Calasanzio che, rivisto il modello al vero da parte di Agostino Masucci e Pompeo Batoni, venne collocato in versione marmorea nella basilica di S. Pietro, braccio destro del transetto (Chracas, 4 ottobre 1755, 5964, pp. 7 s.). Seguì nel 1757 la Tomba del cardinale Gioacchino Besozzi per la basilica romana di S. Croce in Gerusalemme (Roani, 1980, pp. 60 ss.), con l’orante in ginocchio, «un Aquila posata sopra alcuni libri [...] e un Putto che tiene un martello in mano» (Chracas, 16 luglio 1757, 6243, pp. 9 s.). Benché ritenuti certi (Roani, 2005, pp. 24 s.), non vi furono in realtà rapporti subordinati con Bartolomeo Cavaceppi (Rossi Pinelli, 1981, pp. 45 s.), né l’appartenenza alla sua cerchia di collaboratori (de Rossi, 1826, pp. 23 ss.). Spinazzi ricavò fama di copista sul mercato antiquario locale da opere come la Venere callipigia Farnese, esito della collaborazione finale con Maini – come suggerisce la controversia tra gli eredi del maestro e lord James Caulfield per una serie di «busti di marmo biancho» completati postumi (Gilbert, 1891, pp. 238 s.; Montagu, 2006, pp. 199 ss.) – e replicata negli anni 1749-50 per Charles Watson, e oggi a Wentworth Woodhouse, Inghilterra (Honour, 1958, pp. 224 s.).
Deludente risultò la società professionale con Gioacchino Falcioni nel 1761, nonostante l’atelier nella centrale via Margutta (Carloni, 2001, pp. 96 s.), tanto che nel 1766 essa non venne rinnovata. L’impegno rimase però efficace, imponendo a Spinazzi nel 1770 una garanzia comprendente la replica dei Lottatori (agli Uffizi dal 1677), dedotta dall’Accademia medicea di Roma e indispensabile per trarre la versione in marmo menzionata nel 1763 in un atto, poi abortito, con il mercante amburghese Joachim Coldorff (Carloni, 2001, pp. 117 ss.). Anziché l’assunzione presso una corte europea, come peraltro previsto nell’atto costitutivo (p. 96 s.), a decretare la fine della società fu la condivisione obbligata dei compensi autonomi: in particolare le opere di Spinazzi in S. Lucia del Gonfalone (1761-65) – la «Raggiata con gloria d’Angeli e Puttini nell’Altar Maggiore» e la figura della Santa – su incarico dell’omonima Arciconfraternita realizzata con Ferdinando Lisandroni, a cui rimasero i «modelletti in creta cotta» (Carloni, 2002, pp. 192 s.), opere perdute ante 1866, oppure gli Angeli ai lati del cartiglio mariano e due Putti a stucco, eseguiti nel 1765 per la cappella della Vergine in S. Carlo al Corso (Roani, 1980, pp. 64 s.).
Cautele di bilancio, forse più del prestigio collezionistico (se rapportato al clamore per gli scavi di Ercolano), o del mero valore commerciale, indussero il granduca di Toscana Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena a prelevare da villa Medici opere classiche come i Niobidi e l’Apollino (Maugeri, 2000, pp. 306 ss.), alla luce degli studi di Johan Joachim Winckelmann e dell’autorevole parere di Angelo Fabroni (Schröter, 1990, pp. 379 ss.). Pianificato l’accrescimento delle collezioni di antichità agli Uffizi, l’amministrazione lorenese si attivò per assumere un restauratore di scuola romana, all’avanguardia sotto il profilo teorico, soffermandosi su Spinazzi (scelta maturata senza dubbio dal granduca durante il soggiorno del 1769 nella capitale pontificia). Un motuproprio del 21 novembre 1769 assegnò tra l’altro all’artista lo stipendio annuo di 400 scudi romani, uno studio attrezzato e la carica di «Primo Scultore di Corte» (Capecchi, 2011, pp. 51 ss.), con la pertinente iscrizione all’Accademia del disegno di Firenze (Zangheri, 2000, pp. 304 s.). Indisponibile la residenza propria del rango (la casa laboratorio di Giambologna in borgo Pinti), una decorosa soluzione di alloggio venne allestita solo nel 1771 presso la Sapienza (il complesso mediceo per gli artisti), nell’attuale via Cesare Battisti.
In contrasto con i principi adottati nella pratica – analisi del canone stilistico, ricerca filologica dei materiali, studio dei punti di frattura, uso di modelli preparatori, accuratezza nell’innesto delle parti – alterna fu la capacità critica dell’artista. Nebuloso fu il suo parere in opere offerte alla Galleria, ridimensionate nel valore di stima – l’Onore calpesta il Vizio di Vincenzo Danti, già di proprietà di Sforza Almeni (1775), la collezione Guadagni (1775), il Torso di fauno Gaddi (1778), il bassorilievo di Desiderio da Settignano con S. Giovannino (1784) – o respinte, come i marmi antichi di sua proprietà su parere avverso di Pierre D’Harcarville (Firenze, Archivio Galleria degli Uffizi, 1771, ins. 27; Roani, 1975, pp. 60 ss.), un incerto Prigione di Michelangelo (1772), o la Temperanza di Francavilla appartenente ai Roffia (1773; Capecchi, 2011, pp. 70 ss.). Assunto come formatore Nicolas Kindermann (a Doccia nel 1747 per Carlo Ginori), Spinazzi fece condurre i Niobidi – giunti al porto fluviale del Pignone il 14 maggio 1770 – nello ‘stanzone delle commedie’ (Capecchi, 2008, pp. 47 ss.), visibile sul fianco sinistro di palazzo Pitti nella veduta di Giuseppe Zocchi (1744). Lavoro di esordio fu il Cavallo, rivelatosi poi avulso, al pari di altre opere (Mansuelli, 1958, pp. 121 ss., nn. 82-84, 87, 94-95), rispetto all’insieme originale (pp. 110 ss., nn. 70-71, 73-77, 80-81). Il restauro era in stadio avanzato nel 1771, tanto che l’artista propose un aggregato affine al Toro Farnese, respinto a favore di uno scenografico ‘tempio’ nel Giardino di Boboli (Capecchi, 2011, pp. 74 ss.), salvo poi allestire i marmi in Galleria nel 1779 (Roani, 2009, pp. 239 ss.), con integrazioni da villa Medici nel 1780 e nel 1787.
Nel 1773 Spinazzi intervenne su quarantadue statue dal parco di Pratolino, destinate perlopiù agli Uffizi, come l’Ercolanese (Mansuelli, 1958, pp. 169 s., n. 146), oppure – ex multis l’Esculapio di Stoldo Lorenzi (1573 circa) – a Boboli, dove eseguì il restauro generale delle opere previa pulitura, peraltro estranea ai precetti di Cavaceppi (Capecchi, 2008, pp. 174 ss.). Nel 1775-76 fu inoltre uniformato l’ingresso est dell’Isola al suo simmetrico seicentesco (due coppie di colonne tuscaniche architravate), interpretando in forma di Arpie le fonti laterali – illeggibili ormai gli originari Tritoni – e riservandosi Spinazzi la figura a destra del varco di ponente. L’intervento interessò pure le sculture sommitali, ma, benché l’artista compisse due nuovi Capricorni, ora in collezione privata, si preferì il restauro degli originali e di un secondo gruppo, tratto dal Serraglio (Capecchi, 2011, pp. 13 ss.). Si aggiunsero i due Crateri grecizzanti (1777-79), ispirati a un vaso della collezione di Sir William Hamilton (d’Harcarville, 1766, pl. 34), per il varco tra Boboli e il nascente Museo di fisica, nonché gli ornati della ‘grotticina’ inferiore (Capecchi, 2011, pp. 91 ss.).
Per le sorelle Alamanni l’artista eseguì nel 1781 la Fede velata – dalla vestale Tuccia di Antonio Corradini (1743), studiata nel palazzo del cardinale Neri Maria Corsini, dov’era giunta per pubblica riffa (Chracas, 18 novembre 1747, 4731, pp. 4 ss.) – di cui il gesso in collezione privata e il bozzetto (Londra, Victoria & Albert Museum), posta nella chiesa di S. Maria Maddalena de’ Pazzi con la Penitenza (Roani, 1975, pp. 71 ss.). Nel 1794 replicò la figura velata come Religione per la tomba di Barbara Beloselskij a Torino, già nel dismesso cimitero di S. Lazzaro, quindi presso la chiesa di S. Pietro in Vincoli (1829), infine in Galleria d’arte moderna (2013). Per la basilica di S. Croce a Firenze realizzò il Giovanni Lami a figura intera, incluso nell’edicola classicista di Giovan Battista Nelli (1772-75), e l’ovale ad altorilievo di Angelo Tavanti (1783 circa), per la tomba su disegno di Giuseppe Salvetti (Repertorio della scultura fiorentina..., 1993, pp. 60 s.). Al sepolcro di Maria Sobieska in S. Pietro in Vaticano, opera di Pietro Bracci (1739-42), è vagamente ispirato quello di Niccolò Machiavelli, ove domina la figura della Politica con il medaglione dello statista e i simboli di Storia e Poesia (De Koomen, 1993). Al comitato promotore dell’opera aderì anche George Clavering-Cowper, devoto estimatore di Spinazzi. A tale committenza si devono i Busti marmorei (autografi e datati 1787) – l’uno a Bergamo, Accademia di Carrara, collezione Federico Zeri (Il conoscitore d’arte, 1989, pp. 64 s.), l’altro sul mercato antiquario (Mobili, arredi antichi..., 1994) – e le due Urne (ante 1784), con protomi leonine e bucrani, per le colonne noriche (ordine dedicato nel 1743 dall’architetto Markus Tuscher a Francesco Stefano di Lorena; Morolli, 1991, pp. 455 s.) poi erette nell’omonimo emiciclo di Boboli.
Per palazzo Pitti lo scultore eseguì nel 1770 il Busto di Pietro Leopoldo (Capecchi, 2011, p. 94 s.), e altresì la Fama e la Gloria (1783 circa), sovrapporta a stucco per la sala Bianca (pp. 45 s.).
Nel 1778 venne presentato il suo gruppo «consistente in un Leone alato e due Putti», recanti il primo una corona sopra il simbolo dell’Evangelista e il secondo un festone, per l’ingresso alla basilica di S. Marco a Firenze (Gazzetta toscana, 1778, n. 46, pp. 182 s.). Nel 1788 l’Opera del duomo di Firenze commissionò a Spinazzi la versione marmorea dell’Angelo per il Battesimo di Cristo – opera di Andrea Sansovino con integrazioni di Vincenzo Danti, apposta sopra la porta del paradiso nel battistero – e da eseguire sul modello in terracotta esistente, ritenuto tuttavia modesto (Roani, 1986, pp. 153 ss.). Approvato il bozzetto dell’artista da una commissione accademica (Follini - Rastrelli, 1791, pp. 31 s.), la statua fu scolpita tra il 1790 e il 1792. Per il ciclo degli Apostoli ancora in battistero Spinazzi aveva realizzato negli anni 1785-90 il S. Simone (tratto da una cartapesta di Bartolomeo Ammannati), distrutto nel 1870 (Roani, 1975, pp. 75 s.). Opera minore è il Giovan Francesco Pagnini nella basilica della Ss. Annunziata (1789), tomba a parete all’ingresso del chiostro dei morti (Repertorio della scultura fiorentina..., 1993, pp. 103 s.). Diversamente dalle prime ipotesi cronologiche (Roani, 2005), sono da porre intorno al 1795 il Diogene e il cosiddetto Dioniso, autografi e rispettivamente ripresi dal busto omonimo nei Musei Capitolini e da una riduzione in erma del Sardanapalo vaticano (The sculptures of the Museo Capitolino, 1912) – da cui i gessi nell’Accademia di belle arti a Firenze – e ora a Dubrovnik, Palazzo del rettore (Gjukić-Bender, 2008-2009).
Riformatasi l’Accademia del disegno, nel 1784 Spinazzi vi fu nominato maestro per la classe di scultura.
Dopo lunga malattia l’artista morì il 19 novembre 1798 (Bellesi, 2016, pp. 28 s.).
Dal fascicolo personale presso l’amministrazione lorenese si desume la dimensione del nucleo familiare, formato nel 1786 dalla moglie Maria Franceschini, da undici figli in vita, alcuni nati a Firenze – Ottavia (1771), Antonio (1772), Maria Luisa (1774), Pietro Leopoldo (1775), Giovan Battista (1776), Foresta (1778) – nonché due defunti e tra essi Paolo (1761-1785), anch’egli scultore (Zani, 1823). Al giovane fu conferito postumo il «Premio di II Classe nella Scultura» per una copia del «celebre Gladiator moribondo» (Giornale delle belle arti..., 1786), come tale nei fondi dell’Accademia, ma in realtà il Galata morente dei Musei Capitolini, e in merito alla sua attività romana si veda il Busto del cardinale Romualdo Braschi Onesti (post 1786), riassegnato ad Agostino Penna (Il Museo di Roma..., 2002, pp. 31 s.).
Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca apostolica Vaticana, S. Maria in via Lata, Libro dei battezzati, 3, 1660-1769, cc. 89rv, n. 782; P.F.H. D’Hancarville, Antiquités étrusques, greques et romaines tirées du cabinet de M. Hamilton, I, Napoli 1766, pl. 34; Giornale delle belle arti e della incisione, antiquaria, musica, e poesia per l’anno MDCCLXXXV, 1786, n. 40, p. 315 s.; V. Follini - M. Rastrelli, Firenze antica e moderna, III, Firenze 1791, pp. 31 s.; P. Zani, Enciclopedia metodica, critica-ragionata delle Belle Arti, XVII, Parma 1823, pp. 365 s.; G.G. de Rossi, Lettera sopra il restauro di una antica statua di Antinoo e sopra il restauro degli antichi marmi nei tre secoli precedenti al nostro, in Nuovo Giornale de’ letterati, XIII (1826), pp. 23-38; J.T. Gilbert, The manuscripts and correspondence of James, first earl of Charlemont, I, London 1891, pp. 227, 238, 250; The sculptures of the Museo Capitolino, a cura di H. Stuart Jones, I, Oxford 1912, p. 228, n. 21; V. Golzio, Le terracotte dell’Accademia di S. Luca, in Atti e memorie della R. Accademia di S. Luca dal 1914 al 1931, Roma 1933, pp. 17 s.; H. Honour, English patrons and Italian sculptors in the first half of the eighteenth century, in The connoisseur, 1958, vol. 141, pp. 220-226; G.A. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, I, Roma 1958, ad ind.; C. Faccioli, Di I. S. scultore romano (1726-1798), in L’Urbe, XXX (1967), 6, pp. 16-25; R. Roani, I. S. e l’ambiente fiorentino nella seconda metà del Settecento, in Paragone, XXVI (1975), 309, pp. 53-85; Ead., Due opere di I. S. e la decorazione della cappella della Beata Vergine in S. Carlo al Corso a Roma, ibid., XXXI (1980), 359-361, pp. 60-69; O. Rossi Pinelli, Artisti, falsari o filologhi? Da Cavaceppi a Canova, il restauro della scultura tra arte e scienza, in Ricerche di storia dell’arte, 1981, nn. 13-14, pp. 41-56; R. Roani, Angelo del Battesimo di Cristo, in OPD. Restauro, 1986, n. 1, pp. 153-156; Il conoscitore d’arte. Sculture dal XV al XIX secolo dalla collezione di Federico Zeri, a cura di A. Bacchi, Milano 1989, pp. 64 s.; E. Schröter, Antiken der Villa Medici in der Betrachtung von Johann Joachim Winckelmann, Anton Raphael Mengs und Johannes Wiedewelt. Neue Quellen, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XXXIV (1990), pp. 379-412; G. Morolli, «Benché Vitruvio nol dica». Caduta e resurrezione dell’ordine architettonico nel giardino di Boboli, in Boboli 90, a cura di C. Acidini Luchinat - E. Garbero Zorzi, II, Firenze 1991, pp. 441-479; A. De Koomen, L’età dei lumi e il sublime. I monumenti a Niccolò Machiavelli e a Vittorio Alfieri, in Il Pantheon di Santa Croce a Firenze, a cura di L. Berti, Firenze 1993, pp. 183-220; J. Montagu, Giovanni Battista Maini’s role in two sculptural projects. The evidence of the drawings, in Master drawings, XXXI (1993), pp. 454-463; Repertorio della scultura fiorentina del Seicento e Settecento, a cura di G. Pratesi, I, Torino 1993, pp. 60 s., 103 s.; Mobili, arredi antichi, ceramiche e figure da un Presepe napoletano (catal., Roma), Milano 1994, p. 49, n. 99; M. Maugeri, Il trasferimento a Firenze della collezione antiquaria di Villa Medici in epoca Leopoldina, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XLIV (2000), pp. 306-334; L. Zangheri, Gli Accademici del disegno. Elenco alfabetico, Firenze 2000, p. 304; R. Carloni, Una società tra scultori romani del Settecento: gessi, bozzetti, frammenti di I. S. nella bottega in comune con Gioacchino Falcioni, in Sculture romane del Settecento: la professione dello scultore, a cura di E. Debenedetti, I, Roma 2001, pp. 95-121; Ead., Scultori e finanzieri in ‘società’ nella Roma di fine Settecento. Gli esempi di Giacchino Falcioni e Ferdinando Lisandroni, di Giovanni Antonio Berté e Gaspare Santini, ibid., II, Roma 2002, pp. 191-232; Il Museo di Roma racconta la città (catal.), a cura di R. Leone - F. Pirani, Roma 2002, p. 31 s.; R. Roani, Aggiunta a I. S., in Ead., Restauri in Toscana tra Settecento e Ottocento, Firenze 2005, pp. 23-26; J. Montagu, Maini, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, LXVII, Roma 2006, pp. 199-201; G. Capecchi, Cosimo II e le arti di Boboli. Committenza, iconografia e scultura, Firenze 2008, pp. 47 ss., 174 ss.; V. Gjukić-Bender, Sculptor I. S., creator and copyst, in Anali Galerije Antuna Augustinĉića, 2008-2009, nn. 28-29, pp. 53-65; R. Roani, Il restauro di I. S. al gruppo della ‘Niobe’, in Il teatro di Niobe. La rinascita agli Uffizi d’una sala regia, a cura di A. Natali - A. Romualdi, Firenze 2009, pp. 239-265; G. Capecchi, I capricorni di Pietro Leopoldo. I. S. e le sculture di Boboli in età neoclassica, Firenze 2011; S. Bellesi, Scultura e scultori all’Accademia di belle arti di Firenze in età lorenese: normative, insegnamenti, collezioni d’arte, concorsi, commissioni, restauri e altro, in Accademia di belle arti di Firenze. Scultura, 1784-1915, a cura di S. Bellesi, Pisa 2016, pp. 21-85.