Innocenzo VIII
Giovan Battista Cibo nacque a Genova nel 1432 da Aronne - o Arano - e da Teodorina de' Mari.
La famiglia, imparentata con i Doria, apparteneva al patriziato genovese e militava nella fazione guelfa, allora guidata dai Fregoso. Durante le guerre per la successione al Regno di Napoli nella prima metà del sec. XV, Aronne Cibo fu attivamente coinvolto, in qualità di rappresentante diplomatico, nel sostegno che Genova fornì alla casa d'Angiò nella sua lotta contro gli Aragona. Quando questi ultimi prevalsero, il Cibo non ebbe tuttavia difficoltà ad inserirsi, in qualità di alto funzionario, nell'apparato di governo che Alfonso il Magnanimo allestì nel Regno di Napoli. Alla corte napoletana, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, visse per lungo tempo anche suo figlio Giovan Battista, che egli ebbe in età piuttosto avanzata.
Dopo avere seguito il padre nella sua carriera di ufficiale e di giusdicente in patria e in varie corti e città d'Italia, Giovan Battista fu inviato a studiare nelle Università di Padova e di Roma. Del suo periodo giovanile, assai poco documentato, si sa solo che ebbe almeno due figli naturali, Teodorina e Franceschetto, nati probabilmente durante il suo soggiorno alla corte napoletana. Li riconobbe e allevò pur senza sposare la loro madre, che ci rimane ignota. Non sembra che egli fosse da principio destinato a ricevere gli ordini sacri.
Nel 1457, Aronne Cibo morì; fu forse in seguito alla perdita del padre che Giovan Battista abbracciò lo stato clericale, trasferendosi ben presto nella Corte di Roma, dove prima dei trent'anni entrò al servizio del cardinal Filippo Calandrini, vescovo di Bologna, fratellastro del defunto Niccolò V. È possibile che il suo esordio come chierico e cortigiano romano sia avvenuto sotto gli auspici del pontefice Callisto III, che già aveva favorito suo padre Aronne, attribuendogli nel 1455 la carica di senatore di Roma.
Il passaggio allo stato ecclesiastico consentì al Cibo di risolvere onorevolmente il problema della propria sistemazione, come si può desumere dalla menzione di alcuni dei benefici che egli cumulò in questo periodo: un canonicato a Capua, il priorato di S. Maria di Albaro di Genova, e soprattutto la prepositura della cattedrale di Genova, che egli risultava detenere al momento della sua promozione a vescovo. Guadagnatosi la fiducia di papa Paolo II, il 5 novembre 1466 fu da questi promosso vescovo di Savona, quasi certamente contro il volere del duca di Milano, allora signore della Liguria. Fu probabilmente l'ostilità milanese a obbligare il Cibo, una volta morto Paolo II nel 1471 e succedutogli Sisto IV, amico degli Sforza, a cedere il vescovato savonese, scambiandolo con l'assai meno redditizia diocesi di Molfetta in Puglia, il 16 settembre 1472.
Fattore decisivo per il suo destino, l'inimicizia del duca di Milano dovette spingere il Cibo a cercare un influente protettore alla Corte di Roma nella persona di Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV e cardinale di S. Pietro in Vincoli (il futuro Giulio II). Di quest'ultimo, il Cibo condivideva i sentimenti di ostilità verso il dominio milanese sulla Liguria, loro patria comune, nonché la propensione a guardare alla Francia come alla potenza europea che avrebbe meglio tutelato la "libertà" di Genova e l'onore della Sede apostolica.
Il temperamento mite e affidabile, complemento ideale a una mentalità da funzionario di carriera che Giovan Battista aveva assimilato da suo padre, piacquero molto anche a Sisto IV. Questi avallò costantemente l'avanzamento del Cibo nei ranghi della Curia romana, che Giuliano della Rovere ricercò e patrocinò come cardine della propria strategia di costruzione di una fazione curiale a sé fedele. In questo contesto, Giovan Battista esercitò anche, in via provvisoria e congiuntamente a Francesco da Toledo, l'ufficio di datario pontificio, tra il 1471 e il 1473, in occasione delle assenze da Roma del titolare dell'ufficio Lorenzo Roverella; non risulta tuttavia provato che egli venisse investito stabilmente di quella mansione da Sisto IV, come si è talora affermato. A dimostrazione della sua lealtà di subalterno, è da dire che l'assunzione ai più grandi onori non cambiò mai il carattere di Giovan Battista, che rimase sempre improntato ad affabilità e a finezza di modi, diametralmente opposto al carattere protervo e impetuoso del cardinal nipote suo patrono.
Durante la prima parte del pontificato di Sisto IV, il cardinal nipote Giuliano della Rovere dovette subire la supremazia che alla Corte pontificia avevano stabilito i suoi cugini Riario, dai quali era diviso da un'accesa rivalità. Mentre il cardinal nipote Pietro Riario godeva dell'assoluta preminenza nel Sacro Collegio, suo fratello, il conte Girolamo Riario, fungeva, in qualità di nipote laico del papa, da ministro plenipotenziario di quest'ultimo negli affari temporali.
Obbedendo alla logica della spartizione bilanciata del potere tra le due fazioni contrapposte, Sisto IV per accontentare suo nipote Giuliano conferì, il 7 maggio 1473, la porpora cardinalizia a Giovan Battista Cibo, il quale confluì nel partito che nel Sacro Collegio faceva capo appunto a Giuliano della Rovere. La situazione di minorità in cui i seguaci di tale porporato si ritrovavano rispetto ai Riario fece sì che il Cibo non riuscisse a sollevarsi dalla condizione di "cardinale povero", dotato cioè di un reddito considerato assai inferiore alle necessità del suo rango. La sua indigenza economica venne tuttavia mantenuta anche dopo la rimonta di Giuliano della Rovere in seno al Collegio, in conseguenza della prematura scomparsa di Pietro Riario nel 1474. In tale condizione, che sottolineava la sua posizione clientelare rispetto al cardinale di S. Pietro in Vincoli, si sarebbe trovato ancora al momento della sua assunzione al soglio pontificio.
Come porporato, il Cibo non si distinse in modo particolare, se non per la fedeltà con cui si attenne alle direttive del suo patrono. Svolse con diligenza alcuni incarichi, quali la Legazione di Roma nell'estate del 1476, durante l'assenza di Sisto IV, che si era allontanato per paura della peste; e la Legazione in Toscana per procurare la pace tra Firenze e Siena, a seguito della guerra della congiura dei Pazzi. Venne anche destinato a una Legazione in Germania per procurare la pace tra l'imperatore Federico III e Mattia Corvino, re d'Ungheria, ma la missione venne poi sospesa.
La sua docilità gli valse la completa fiducia di Giuliano della Rovere nel momento in cui questi, conquistata la supremazia all'interno del Sacro Collegio durante la seconda parte del pontificato di Sisto IV, si accinse a porre un'ipoteca sulla futura successione al soglio pontificio. Non potendo pensare a conquistare la tiara per sé, a causa della troppo giovane età, Giuliano scelse il Cibo come proprio collaboratore in un'impresa ch'egli intendeva rimandare a una prossima occasione, ma comunque preparare in ogni modo possibile.
Il 12 agosto 1484 morì Sisto IV. L'immediato scoppio della rivolta dei Colonna contro il conte Girolamo Riario rese evidente che questi non aveva la possibilità, come invece aveva sperato, di mantenere il controllo militare di Roma e del territorio, onde influire sull'elezione del nuovo papa. Dovette perciò ritirarsi e restituire al Sacro Collegio la custodia di Castel S. Angelo, mentre i Colonna a loro volta evacuavano l'Urbe, persuasi dall'autorevole intervento del cardinale veneziano Marco Barbo. Troppo tardi arrivò dalla Lombardia un dispaccio, inviato congiuntamente dal duca di Milano e dal re di Napoli, con cui si assumevano la tutela degli interessi del Riario, prescrivendo agli ambasciatori e ai cardinali amici dei due Stati di impedire l'elezione a pontefice di uno dei candidati del partito di Giuliano della Rovere.
Il Barbo, cardinal nipote di Paolo II, fu il protagonista della fase iniziale del conclave, che si aprì il 26 agosto e vide la partecipazione di venticinque porporati: ventuno italiani, due spagnoli, un portoghese, un francese. I due capifazione che si contendevano l'elezione papale erano il vicecancelliere Rodrigo Borja, cardinal nipote di Callisto III, e Giuliano della Rovere; ma il primo soffriva il grave svantaggio di lavorare per se stesso, mentre il secondo aveva a disposizione una rosa di ben quattro favoriti, fra cui il prestigioso Barbo.
Il 28 agosto, dopo avere sottoscritto una capitolazione elettorale dai toni particolarmente corporativi, i cardinali procedettero al primo scrutinio. Della Rovere, che fu il grande dominatore del conclave, riversò dapprima i suoi voti su Barbo, che ottenne una decina e forse più di consensi. La portata di questa affermazione ebbe l'effetto di spaventare la fazione avversaria, che vide come inaspettatamente vicino il successo di un veneziano, nipote di un papa che non aveva lasciato buona memoria di sé fra i membri della triplice lega Milano-Firenze-Napoli. I cardinali-principi Sforza e Aragona, con un loro seguito, si dimostrarono quindi assai malleabili alle aperture di Giuliano della Rovere, quando questi, in seconda battuta e avanzando anche profferte simoniache, mise avanti Cibo quale alternativa al Barbo.
Tutti questi negoziati si svolsero, in tempi rapidissimi, la notte del 28 agosto; all'alba del 29 agosto Giuliano della Rovere disponeva già di diciotto voti in favore del Cibo, che alle nove del mattino venne pubblicamente acclamato sommo pontefice. Scelse il nome di Innocenzo, forse in ossequio al suo grande compatriota Innocenzo IV, riprendendo una successione rimasta in sospeso dai tempi del grande scisma. La solenne intronizzazione ebbe luogo il 12 settembre con una processione grandiosa, descritta da numerose fonti contemporanee, fra le quali il diario del Burcardo, maestro cerimoniere della Corte papale.
Il neoeletto pontefice aveva cinquantadue anni, era di corporatura regolare, paffuto in viso e di carnagione bianchissima. Soffriva di miopia e aveva salute molto cagionevole: durante il suo pontificato cadde continuamente vittima di violenti attacchi di febbre, e già nella primavera del 1485 lo si diede per morto. Fu salvato dalle cure dei suoi medici, Ludovico Podocataro e Giacomo da San Genesio; ma durante periodi anche lunghi dovette essere sostituito al governo della Chiesa da un cardinale reggente, che fu di solito il Barbo.
La salute malferma rafforzò ancor più la sua fama di personaggio fiacco e arrendevole. Uomo atto più a essere consigliato che a consigliare, lo giudicò l'ambasciatore fiorentino, che lo ritrasse come totalmente asservito a Giuliano della Rovere, del quale continuava ad atteggiarsi a creatura anche dopo l'esaltazione al soglio pontificio. In realtà, I. non era affatto privo di una propria visione delle cose, pur difettandogli certamente l'attitudine al comando. Era però del tutto sprovvisto di quei mezzi di cui un papa del suo tempo aveva bisogno per tradurre la propria sovranità in capacità effettiva di comando. All'inizio del suo pontificato, le risorse finanziarie a sua disposizione erano nulle e sulle casse papali gravava il debito di 250.000 ducati che Sisto IV gli aveva lasciato in eredità. Vittima di tali ristrettezze, il neoeletto pontefice non poteva in alcun modo pensare di arrivare a capo dei torbidi che stavano allora sconvolgendo Roma e il territorio circostante, scatenati dai precedenti interventi di Girolamo Riario nelle guerre di fazione tra Colonna e Orsini. I. non disponeva neppure di un proprio seguito all'interno del Sacro Collegio, dove della Rovere si diede a consolidare la propria egemonia, forte dell'obbligo di riconoscenza che il nuovo papa gli doveva.
"Egli è papa et plusquam papa", affermava l'ambasciatore fiorentino in quelle circostanze, riferendosi al cardinale savonese; ed è innegabile che, all'indomani dell'elezione di I., il clan della Rovere la fece da padrone. Giuliano si trasferì ad abitare al Palazzo Apostolico, dove avrebbe svolto le funzioni di grande consigliere del nuovo pontefice, soprattutto riguardo alla politica temporale della Sede apostolica. Suo fratello, Giovanni della Rovere, prefetto di Roma e signore di Senigallia, cumulò nel dicembre 1484 anche la carica di capitano generale della Chiesa. Un terzo fratello, Bartolomeo della Rovere, vescovo di Ferrara, ebbe la custodia di Castel S. Angelo. Per impulso di Giuliano della Rovere, I. cercò fin dall'esordio del suo pontificato di rendere più solida l'autorità della Sede apostolica in Italia, dopo che la cessazione improvvisa della guerra di Ferrara, avvenuta nell'agosto 1484 con la pace di Bagnolo, aveva inferto una grave lesione all'onore del papato, che non era neppure stato interpellato durante i colloqui preliminari.
Nel tentativo di ristabilire l'ordine nel Lazio, il papa cercò una riconciliazione tra i Colonna e gli Orsini, che mettesse fine ai loro continui scontri; ma invano. Un fallimento ancor più doloroso arrise all'iniziativa, che I. lanciò dopo solo due settimane dalla sua assunzione al soglio pontificio, di interporre l'autorità della Sede apostolica per procurare una cessazione della guerra in atto tra Firenze e Genova per il dominio su Sarzana. Attraverso l'arbitrato papale, egli intendeva arrivare a una composizione che lasciasse alla propria patria il possesso della città contesa; ma anche in questo caso, I. dovette constatare che la mediazione pontificia - che del resto non poteva certo dirsi imparziale, essendo stata sollecitata dai genovesi Doria, suoi parenti - non avrebbe mai potuto essere imposta d'autorità a una controparte fiorentina quanto mai recalcitrante.
Assolutamente disastrosa, e tale anzi da provocare il tracollo politico e finanziario della Sede apostolica, fu infine la linea dello scontro frontale che I. imboccò, sempre istigato dal della Rovere, nei rapporti con gli Stati italiani della triplice lega, in particolar modo con il Regno di Napoli.
Il 20 ottobre 1484, Alfonso d'Aragona, duca di Calabria, primogenito di re Ferrante di Napoli, si fermò a Roma, di ritorno dalla Lombardia al termine della guerra di Ferrara. Venne ricevuto assai onorevolmente da I. il 22 ottobre; ma quando presentò al papa la richiesta di investire nuovamente il re di Napoli delle città pontificie di Benevento, Terracina e Pontecorvo gli venne opposto un netto rifiuto. Sdegnato, il duca di Calabria persuase il padre a trattenere l'invio dell'ambasciata d'obbedienza al nuovo pontefice; da Napoli vennero inoltre inviate truppe ai confini con lo Stato pontificio, pronte a entrare in azione. Paventando un confronto militare per il quale non era ancora preparato, I. cercò di guadagnare tempo. Fece redigere la bolla di investitura delle tre città contese ma la depositò nelle mani di Giuliano della Rovere, aggiungendo a parte un atto notarile con cui veniva notificata l'invalidità della concessione. Restrinse intanto i rapporti con Venezia, sulla quale pendevano ancora le censure lanciate da Sisto IV durante la guerra di Ferrara; il 25 febbraio 1485 esse vennero revocate. Seguì, alcune settimane più tardi, l'invio a Roma dell'ambasciata veneziana d'obbedienza: in quel frangente, la Serenissima mise a disposizione del papa il suo reputatissimo capitano, Roberto Sanseverino, con la sua compagnia di ventura. I. non poteva più essere considerato un papa disarmato.
Fattosi forte del sostegno veneziano, I. affrontò con decisione il crescere della conflittualità con il re di Napoli, che nei primi mesi del 1485 moltiplicò le sfide all'autorità pontificia nello spirituale, imponendo di propria iniziativa gravami fiscali al clero del suo Regno e assegnando benefici ecclesiastici per denaro. L'acme della tensione fu raggiunto al principio dell'estate del 1485, quando Ferrante d'Aragona ricusò addirittura di pagare il censo dovuto al papato per l'investitura del suo Regno; venne così disconosciuta dal monarca aragonese la sovranità feudale che la Sede apostolica rivendicava sul Regno di Napoli da più di due secoli, e che la bolla di investitura di Pio II in favore dello stesso Ferrante aveva ribadito una volta di più.
Il 29 giugno 1485, giorno della festa dei ss. Pietro e Paolo, termine consueto per il pagamento, l'ambasciatore napoletano si presentò al papa conducendo soltanto la chinea bianca, senza portare le 8.000 once d'oro previste come censo annuo ricognitivo. Malgrado avesse addotto a giustificazione le spese sostenute dal suo re per la guerra contro i Turchi, fu rimandato indietro con minaccia di citazione al tribunale apostolico; al che, quello rispose sollevando una formale protesta. Si aprì così un contenzioso dalle conseguenze gravissime, che avrebbe potuto portare, in prosieguo di tempo, pure alla scomunica e alla deposizione del re aragonese.
La collisione fra il re di Napoli e il papa divenne irrimediabile con l'intromissione, che Giuliano della Rovere attivamente procurò, dell'autorità pontificia nelle agitazioni interne che in quei mesi serpeggiavano dappertutto nel Regno di Napoli. Esse furono il preludio di una rivolta generale, che esplose negli ultimi mesi del 1485, contro la permanenza al trono napoletano della casa d'Aragona.
Il motore della rivolta fu il partito angioino della nobiltà del Regno, che fece aggio sulla paura che incuteva in molta parte del baronaggio e dei ceti cittadini la prospettiva di un prossimo avvento al trono del duca di Calabria, principe da tutti odiato per i suoi modi sleali e sanguinari. La risposta preventiva che quest'ultimo escogitò fu all'altezza delle più funeste attese. Insospettito dai segnali provenienti dall'Aquila, nell'estate del 1485 egli attirò con un tranello a Chieti il governatore della città, Pietro Lalle Camponeschi conte di Montorio, e lo imprigionò, facendo occupare la fortezza dell'Aquila. Questa cattura non sedò affatto il malcontento degli Aquilani, che nell'autunno seguente cacciarono il presidio aragonese e si diedero in soggezione al papato. La rapida dedizione dell'Aquila alla Chiesa era stata resa possibile dagli accordi intercorsi durante l'estate precedente fra I. e i baroni ribelli, che avevano mandato a Roma propri agenti per richiedere la tutela della Sede apostolica in quanto supremo tribunale d'appello del Regno, che avrebbe dovuto vagliare le ragioni delle loro querele intorno ai comportamenti di re Ferrante e del duca Alfonso di Calabria. L'invocazione di protezione da parte dei baroni contro i soprusi di un re che giuridicamente risultava essere vassallo del papato trovò benevolo ascolto soprattutto da parte di Giuliano della Rovere. Questi era direttamente coinvolto nella vicenda per ragioni familiari, dato che suo fratello Giovanni, che nel Regno deteneva il Ducato di Sora, era imparentato attraverso la famiglia della moglie con i Sanseverino, principi di Salerno e di Bisignano: ossia con i capi del partito filofrancese del baronaggio, che nel 1487 avrebbero dovuto espatriare per salvarsi la vita, trovando ricetto alla corte di Francia. Pur di non restare a discrezione del duca di Calabria, del quale erano noti i propositi di ridurre drasticamente i poteri e i patrimoni della grande nobiltà regnicola, i congiurati si dissero pronti a chiamare i Turchi nell'Italia meridionale, offrendosi loro in soggezione.
Mentre fingeva disponibilità a venire a patti con il baronaggio ribelle, solamente per creare un diversivo, re Ferrante adottò contro I., su consiglio di Lorenzo de' Medici, una strategia intimidatoria, il cui perno fu l'assunzione degli Orsini al proprio servizio in qualità di condottieri. Costoro avrebbero trasformato la loro guerra di fazione contro i Colonna, amici di Giuliano della Rovere, in una pianificata devastazione del territorio laziale, diretta a mettere in ginocchio Roma e a costringere il papa alla resa. Da parte papale si rispose con uguale inflessibilità. Un'ultima speranza di riconciliazione fu l'ambasceria al pontefice affidata da Ferrante al proprio figlio, il cardinal Giovanni d'Aragona, fra settembre e ottobre; ma il giovane porporato, non appena giunto a Roma, dove infuriava la peste, morì di contagio il 17 ottobre 1485. Avrebbe del resto potuto fare ben poco, perché la Corte pontificia risultava in quel momento totalmente nemica della sua casata, dominata com'era dalle fazioni filoveneziana, guidata dal cardinal Barbo, e filofrancese, guidata dal cardinal Balue.
La bolla con cui I. poneva ufficialmente L'Aquila e i baroni ribelli sotto la protezione della Sede apostolica porta la data del 14 ottobre 1485. Fu affissa alle porte di S. Pietro dieci giorni più tardi, mentre l'entusiasmo surriscaldava il mondo romano, dove prevaleva la convinzione che la caduta di re Ferrante fosse imminente. In quello stesso torno di tempo fu definita l'alleanza tra il papato e Genova; attraverso la compromissione nella congiura antiaragonese della Repubblica ligure, tradizionale scalo marittimo della potenza francese nella penisola, prese forma il piano mirante a organizzare la discesa nel Regno di Napoli di un principe della casa d'Angiò, dotato di forze e di diritti sufficienti a detronizzare gli Aragona.
Per accelerare i preparativi della spedizione pontificia nel Regno, che si sarebbe dovuta congiungere con le forze dei baroni ribelli onde isolare re Ferrante dentro Napoli, I. convocò a Roma in tutta fretta Roberto Sanseverino, che vi giunse il 10 novembre da solo, lasciando dietro di sé le proprie truppe. Il 30 novembre Roberto prestò giuramento, fu nominato gonfaloniere della Chiesa e, benché fornito di pochi effettivi, aprì le ostilità contro il nemico, che si era approssimato con inaspettata rapidità.
Con una marcia a tappe forzate alla testa di un piccolo esercito, Alfonso di Calabria era entrato nello Stato pontificio, dove a Vicovaro lo attendeva Virginio Orsini, che avrebbe aggregato i propri effettivi ai suoi, aumentandoli notevolmente. La manovra era stata ideata da Lorenzo de' Medici, che mediante il tempestivo intervento militare, finanziato da Firenze, salvò le sorti dell'incipiente conflitto, evitando che gli Aragona subissero un'invasione dagli effetti devastanti. L'avanzata del duca di Calabria procedette agevolmente fino a ponte Nomentano, dove Alfonso si attestò, in attesa di lanciare l'assalto all'Urbe; intanto, le truppe degli Orsini operavano scorrerie nelle campagne, dirette a tagliare i rifornimenti di viveri alla città. La situazione si fece di colpo insidiosa per I., che non poté più pensare a portare la guerra nel Regno, ma fu costretto a difendersi in casa propria.
Fra novembre e dicembre, il panico nel mondo romano crebbe a dismisura; solo la prontezza di spirito del cardinale Giuliano della Rovere poté evitare il tracollo del papato, che disponeva di forze molto inferiori. Avvalendosi dei partigiani colonnesi, il porporato guidò personalmente la resistenza, munendo la città ed effettuando colpi di mano contro gli Orsini, le cui case a Montegiordano vennero per suo ordine saccheggiate e arse. Il cerchio stretto attorno al papa venne spezzato il 24 dicembre, con l'arrivo a Roma delle milizie del Sanseverino. Questi sferrò subito il contrattacco, che nel gennaio 1486 fu coronato dalla riconquista del ponte Nomentano e dalla presa di Mentana, roccaforte degli Orsini. L'evento ebbe un notevole impatto sul morale dei nemici: il cardinale Battista Orsini si distaccò dal resto della famiglia, chiese perdono a I. e consegnò Monterotondo. Lo stesso duca di Calabria, impaurito, abbandonò il suo esercito e si rifugiò a Pitigliano, signoria degli Orsini.
La guerra intanto si allargava, chiamando in causa l'intervento di altre potenze, italiane ed europee. Oltre a Firenze, anche Milano intervenne a sostegno dell'alleato aragonese, benché debolmente, inviando non più di un centinaio di cavalieri e cinquecento fanti. Un più consistente soccorso provenne a Ferrante da suo genero Mattia Corvino, re d'Ungheria, che nella primavera del 1486 gli mandò un migliaio di cavalieri e alcune centinaia di fanti, promettendogli inoltre di seguirlo nel caso in cui, spostando la lotta contro il papato sul piano spirituale, avesse fatto appello al futuro concilio.
Inquietato dall'entrata in scena dell'Ungheria, I. chiamò in aiuto l'imperatore Federico III, che necessitava della collaborazione papale per ottenere il riconoscimento della nomina di suo figlio Massimiliano a re dei Romani, avvenuta nel febbraio 1486 ma pur sempre soggetta a disputa. Gli Asburgo non furono tuttavia in grado di far sentire la loro presenza sul suolo italiano. Prese di posizione più energiche giunsero da parte dei re di Spagna, Ferdinando e Isabella, che proprio in questo frangente cominciarono a intravedere la possibilità di ingerirsi a proprio vantaggio negli affari d'Italia. I tempi non erano però maturi, essendo i re cattolici ancora impegnati nella guerra contro il Regno di Granada; il loro intervento arbitrale, finalizzato a tutelare allo stesso tempo la permanenza al trono dei loro cugini napoletani e i diritti della Sede apostolica, si limitò alla sfera della diplomazia.
Tutte le speranze del papa e dei baroni ribelli erano concentrate sul re di Francia, Carlo VIII, e sull'appoggio militare e finanziario che questi avrebbe dovuto accordare a Renato II d'Angiò, duca di Lorena, per la spedizione alla riconquista di un Regno sul quale la sua casata vantava antichi diritti: Renato era figlio di Giovanni d'Angiò, ossia di colui che, poco più di vent'anni prima, ai tempi di papa Pio II, era stato sconfitto dallo stesso Ferrante d'Aragona nella guerra di successione napoletana.
La discesa nel Regno del nuovo pretendente angioino fu però mandata in fumo dall'indisponibilità a finanziarla dimostrata dal giovane re di Francia e dai suoi reggenti, i quali non furono smossi neppure dai reiterati appelli di I. a vendicare l'onore della Sede apostolica. Anche gli altri alleati del papato vennero meno alle attese: la delusione alla Corte di Roma fu massima nei confronti di Venezia, che, pur nemica del re di Napoli, non operò alcun gesto concreto a favore del papa. Anche Genova diede segni di voler rinunciare a contribuire alla progettata spedizione del duca di Lorena, tanto da costringere Giuliano della Rovere a partire precipitosamente, il 23 marzo 1486, alla volta della città ligure, per curare personalmente l'esecuzione dei piani. Sarebbe tornato a Roma solo il 12 settembre, quando ormai i destini della guerra avevano dimostrato l'infondatezza dei suoi calcoli.
La lunga assenza da Roma del principale artefice della linea bellicista del papato raffreddò alquanto I. nei suoi propositi guerreschi, man mano che si profilava la disfatta. Il mancato affondo di Roberto Sanseverino, condottiero avido e infido, contro il duca di Calabria e gli Orsini, diede a questi ultimi il tempo di riprendersi dalla sconfitta. Ingaggiata nuovamente la guerra in una condizione di superiorità numerica, Alfonso di Calabria batté il Sanseverino ai primi di maggio nella battaglia di Montorio, in seguito alla quale i piani della congiura antiaragonese andarono in fumo, poiché le truppe sanseverinesche non poterono più congiungersi alle forze del baronaggio ribelle nel Regno.
Il contemporaneo attacco multiplo portato dagli alleati di Napoli a varie zone dello Stato pontificio mise di nuovo sotto scacco I., che non ebbe più i mezzi per difendersi. Ancona venne aggredita dalle truppe ungheresi; Osimo si ribellò all'autorità pontificia, divenendo Signoria del condottiero Boccolino Guzzoni; le città dell'Umbria, sobillate da Firenze, diedero segni di agitazione; Roma tornò ad essere preda di scorrerie da parte degli Orsini. Specialmente i disagi patiti dalla cittadinanza romana, vittima di carestia e di violenze, indussero il papa a pentirsi apertamente di essersi lasciato trascinare in un conflitto così pernicioso. Con l'arrivo dell'estate del 1486, I. si piegò dunque alla necessità della pace e scrisse al della Rovere e al duca di Lorena di sospendere i preparativi per la loro venuta, dando incarico al cardinal Michiel di intavolare i negoziati. Questi concluse in breve tempo l'accordo con Gian Giacomo Trivulzio e con Giovanni Pontano, rispettivamente capitano e segretario di re Ferrante, i quali sottoscrissero segretamente in Vaticano, la notte del 9 agosto, i preliminari del trattato di pace, il cui testo venne siglato ufficialmente l'11 agosto.
I capitoli di pace furono quanto mai onorevoli per il papato, poiché Ferrante, premuto dall'urgenza di estinguere la rivolta baronale e di stornare la minaccia francese, si dimostrò cedevole. Il re di Napoli si impegnò a riconoscere la sovranità feudale del papa, a cui avrebbe pagato il censo annuo più gli arretrati; tutti i benefici del Regno restavano di libera collazione della Sede apostolica; i baroni ribelli avrebbero avuto piena amnistia; L'Aquila avrebbe avuto libertà di passare alla soggezione alla Chiesa; Virginio Orsini avrebbe chiesto perdono al papa. Per garantire l'osservanza degli accordi, intervennero alla stipula del trattato anche i rappresentanti di Spagna, Milano e Firenze, che figurarono come mallevadori. Alla luce degli avvenimenti successivi, è legittimo supporre la malafede di Ferrante d'Aragona, che si sottopose a tutti questi obblighi con la precisa intenzione di trasgredirli non appena passato il pericolo.
Avuta certezza della pace, il 13 agosto 1486 Ferrante attirò con l'espediente di una festa in Castel Nuovo di Napoli la maggior parte dei baroni ribelli, ai quali aveva promesso il perdono, e li fece gettare in prigione, da dove molti di loro non sarebbero usciti vivi. Procedette poi a completare la vendetta catturando le loro mogli e i loro figli e confiscando i loro patrimoni. Nel settembre, il re di Napoli rioccupò L'Aquila, facendovi uccidere il vicario pontificio. Nel maggio 1487, dichiarò invalido il trattato di pace con il papato, mandandone notifica a Milano e a Firenze che, pur figurando come potenze garanti, non reagirono. Il culmine di tale catena di provocazioni fu raggiunto il 29 giugno 1487: arrivato il momento di versare il censo feudale a Roma, Ferrante ricusò nuovamente di rispettare l'impegno. Il nunzio apostolico inviato a Napoli nell'estate del 1487, Pietro Menzi vescovo di Cesena, venne maltrattato e schernito dal sovrano aragonese, che alle sue proteste rispose con l'appello al futuro concilio. Anche dei benefici del Regno Ferrante tornò a disporre a proprio arbitrio; e per deprimere totalmente un pontefice che aveva fama di pusillanimità, moltiplicò le avvisaglie di riapertura della guerra, ammassando truppe sui confini e fomentando disordini in varie regioni dello Stato pontificio.
Davanti all'emergere delle tragiche conseguenze dell'isolamento della Sede apostolica sul piano internazionale, che consentiva a re Ferrante di considerare il trattato di pace alla stregua di una beffa giocata ai propri nemici, I. si perse d'animo e scese a una serie di compromessi con le potenze italiane.
Nella seconda metà del 1486, sorvolando sulle recenti delusioni infertegli dalla Serenissima, I. strinse una formale quanto inutile alleanza con Venezia, che egli intendeva mantenere segreta ma che Giuliano della Rovere, che ne era stato il promotore, rese di dominio pubblico. Dato che il legame con i malfidi Veneziani non bastò a mettere un freno alle insidie del re di Napoli, I. fu costretto a cercare nuove intese sullo scacchiere italiano. A sorpresa, un papa considerato irresoluto e poco sagace trovò il proprio interlocutore privilegiato in colui che era reputato il più saggio governante d'Italia: Lorenzo de' Medici. Il Magnifico subentrò con successo a una serie di sfortunati tentativi di Ferrante, che aveva pensato di comporre per via matrimoniale la vertenza col papato, proponendo di maritare una propria nipote a Franceschetto Cibo, il figlio di I., che fino ad allora era stato da questi mantenuto nell'ombra. Respinte le proposte del re di Napoli, fu Lorenzo che riuscì a persuadere I. dell'opportunità di un'alleanza dinastica fra la sua discendenza e la casa dei Medici, attraverso la quale sarebbe stata assicurata al papato l'amicizia di Firenze.
Il matrimonio tra Franceschetto e Maddalena, figlia di Lorenzo de' Medici, fu deciso nel febbraio 1487 e celebrato il 20 gennaio 1488. Il 13 novembre 1487 giunse a Roma la sposa, che il 18 dello stesso mese partecipò nel Palazzo Apostolico a un banchetto offerto dal pontefice in onore degli sposi. Tale episodio, che contravvenne alla regola secondo cui non era permesso alle donne di intervenire ai pasti del pontefice in Vaticano, fu ripetuto nel novembre 1488, quando I. diede un convivio per le nozze di Peretta Usodimare, figlia di sua figlia Teodorina, con il marchese del Finale. Nell'uno e nell'altro caso, il papa trasgredì deliberatamente la consuetudine che imponeva ai prelati di tenere nascosti i propri figli naturali; con l'ostentare e festeggiare, sia pure in una sede domestica, la propria prole, I. si tirò addosso una reputazione negativa, che tuttora lo accompagna e che gli attribuisce un numero di figli illegittimi assai superiore a quello reale.
Il parentado con Lorenzo de' Medici ebbe, sulla lunga durata, l'effetto di ridimensionare l'autorità di Giuliano della Rovere, che venne in parte soppiantato dal fiorentino nel suo ruolo di grande consigliere del pontefice; in parte, questi prese adesso a governarsi da solo, senza lasciarsi più condizionare supinamente, come in passato.
Malgrado il suo indubbio ascendente sul papa e il suo atteggiarsi a curatore delle fortune di suo genero, Lorenzo de' Medici dovette fare fatica per convincere I. a elargire a Franceschetto sostanziose concessioni di signorie e di proprietà; solo nel febbraio 1491 il papa si decise a conferire al figlio l'investitura della Contea dell'Anguillara, presso Cerveteri, e di altri beni terrieri. Almeno in parte, la reticenza di I. si spiega con il fatto che Franceschetto era il primo figlio di un pontefice a beneficiare pubblicamente di investiture feudali di terre della Chiesa. Il carattere di Franceschetto, uomo fatuo e vizioso, già in là con gli anni, causò un matrimonio infelice alla giovanissima Maddalena. Dalla loro unione nacque un'illustre progenie: Innocenzo, che fu creato cardinale da suo zio, Leone X; Caterina, moglie di Giovanni Maria da Varano, signore di Camerino; e Lorenzo, che, sposando Ricciarda Malaspina, diede origine al ramo marchionale dei Cibo-Malaspina, signori di Massa.
La più importante conseguenza della congiunzione dinastica tra la famiglia del papa e quella del capo del governo fiorentino fu la creazione di un cardinale di casa Medici, nella persona del tredicenne Giovanni, figlio di Lorenzo: il futuro Leone X. Il clamoroso evento, avvenuto il 9 marzo 1489, fu la massima affermazione del prestigio goduto dal Medici al cospetto di un papa che usava dire in pubblico che "dormia con gli occhi di esso Magnifico Lorenzo". Si trattava di un gesto di favore finalizzato in primo luogo alla grandezza della casata medicea, che tuttavia poté essere presentato anche come un atto nepotistico, con cui I. mirava ad assicurare il destino della propria discendenza.
La nuova intesa con Lorenzo de' Medici produsse risultati positivi già nell'estate del 1487, quando l'intervento del consuocero fiorentino permise al papa di sbloccare positivamente la questione di Osimo. Grazie alla mediazione del Medici, Boccolino Guzzoni acconsentì a lasciare la città ritirandosi a Firenze, dopo che nei mesi precedenti l'assedio di Osimo era risultato del tutto inefficace, benché guidato da Giuliano della Rovere in persona, con la collaborazione di un valente condottiero come Gian Giacomo Trivulzio.
D'altro canto, il legame di sangue con i Medici avrebbe fatalmente ridotto I. alla subalternità a quella "politica dell'equilibrio" mediante cui il Magnifico puntava a potenziare il proprio ruolo di arbitro tra le potenze italiane, al fine di conservare lo status quo.
Sempre nel 1487, il papa inviò il proprio segretario Giacomo Gherardi da Volterra in missione a Firenze e a Milano, con l'incarico di combinare una lega tra i due Stati e Venezia contro il re di Napoli, sì da imporre a quest'ultimo il rispetto degli accordi di pace. La missione del Gherardi fallì per volere di Lorenzo de' Medici, che non era disposto a provocare la rovina della casa d'Aragona, pur lavorando sotterraneamente per limitarne lo strapotere. Al Medici non sfuggiva che sul capo di re Ferrante pesava un'incognita assai minacciosa, con l'istruzione di un processo per contumacia e fellonia che I. ordinò a suo carico dopo la dichiarazione di insolvenza del 29 giugno 1487. Il processo venne tenuto segreto; ma qualche notizia di esso trapelò nell'autunno successivo, quando si riseppe pure che, alla terza citazione consecutiva per lo stesso reato, che sarebbe caduta il 29 giugno 1489, il tribunale apostolico avrebbe potuto decretare la scomunica e la privazione del trono per il sovrano aragonese.
Nella primavera del 1488, lo scoppio inatteso di una crisi in Romagna, seguita nell'autunno da un tumulto a Perugia, diedero ben chiara la misura dell'impotenza di I., papa senza denaro e senza alleati, a regolare le dinamiche dei conflitti interni allo Stato della Chiesa.
Il 14 aprile, il conte Girolamo Riario venne trucidato da un gruppo di congiurati che invocarono subito il passaggio di Forlì al dominio diretto della Sede apostolica. I. si dimostrò intenzionato ad accettare la dedizione dei Forlivesi; ma fu dissuaso dal concorrente intervento di un forte esercito milanese, mandato dagli Sforza a tutelare la signoria dei Riario, loro parenti. Ripiegando su una soluzione che affermasse almeno indirettamente la sovranità della Chiesa su Imola e Forlì, I. vi inviò in legazione il cardinal Riario, nipote del defunto signore, con l'incarico di salvaguardare i diritti della Sede apostolica sopra uno Stato rimasto vacante. Lungi dall'esaudire i desideri di I., Riario lavorò a consolidare la posizione di suo nipote Ottaviano, primogenito del conte Girolamo, al quale il papa, anche dietro le insistenze di Lorenzo de' Medici, fu indotto, il 18 luglio, a concedere l'investitura vicariale.
Nel frattempo, il 31 maggio, era caduto vittima di una congiura anche il signore di Faenza, Galeotto Manfredi. Nel susseguente scatenarsi della competizione tra Firenze e Milano per il protettorato sulla cittadina romagnola, il pontefice ebbe un ruolo del tutto secondario, che peraltro Lorenzo de' Medici strumentalizzò abilmente, al fine di risolvere la vertenza a favore della propria città.
Un altro smacco bruciante fu inflitto a I. nell'aprile 1488 da Mattia Corvino, che riuscì ad acquisire per alcuni mesi la signoria sulla città di Ancona, dove le bandiere pontificie vennero ammainate e sostituite con quelle ungheresi. Benché l'episodio - che è da ascrivere a conseguenza delle rivalità commerciali fra Ancona e Venezia, allora in lega con il papato - avesse corta durata, esso provocò grande costernazione nel papa, data la facilità con cui vide andare perduto il principale porto pontificio nell'Adriatico.
Conseguenze più durature ebbe l'affermazione delle tendenze autonomiste del Comune di Perugia, studiatamente fomentate dai Baglioni, che erano spalleggiati da Firenze. Fin dal 1487, la lotta tra le fazioni perugine aveva preso una piega decisamente lesiva dell'autorità papale sulla città umbra. Per sedare pacificamente tali turbolenze, nel dicembre di quell'anno I. inviò a Perugia, in qualità di governatore, suo fratello Maurizio, uomo assai capace, che però non raggiunse l'obiettivo della sua missione; né vi riuscì Franceschetto Cibo, inviato a Perugia nel luglio 1488. Resi arroganti dalle profferte di aiuti militari che il re di Napoli aveva loro rivolto, i Baglioni cercavano l'occasione propizia per un colpo di stato, che arrivò nella seconda metà di ottobre 1488. Una lite ereditaria con gli Oddi, i loro principali rivali, scatenò il dilagare della violenza urbana, che sfociò nella cacciata degli Oddi da Perugia e nell'instaurazione di un regime oligarchico indipendentista, guidato dai Baglioni.
La sottrazione di Perugia al dominio della Sede apostolica divenne a questo punto un rischio reale. Per rimediarvi, venne inviato in legazione, nel novembre 1488, il cardinale di Siena, Francesco Tedeschini-Piccolomini (il futuro Pio III), prelato di grande autorevolezza. Questi riuscì a difendere il dominio eminente del papato sulla città, temperando le velleità di indipendenza dei Baglioni, di cui però dovette accettare la preminenza quasi signorile nelle strutture del governo cittadino.
Nella primavera del 1489, i re di Spagna tentarono, senza successo, di interporsi nella controversia tra il re di Napoli, loro cugino, e la Sede apostolica per i censi e il rispetto del trattato di pace del 1486. Le continue prepotenze di Ferrante ai danni della sovranità temporale della Chiesa romana, se da un lato avevano ridotto I. alla paralisi politico-militare, dall'altro stavano immettendo il re napoletano in una strada pericolosa.
Con l'approssimarsi della terza citazione di Ferrante d'Aragona al tribunale apostolico per contumacia e insolvenza, I. dimostrò un'energica intransigenza, fino ad allora mai notata in lui, nel procedere al castigo previsto dalla legge canonica. Nel maggio 1489, notificò di essere pronto a fulminare le censure maggiori contro Ferrante, nel caso in cui questi, a tempo debito, non avesse rispettato i suoi obblighi. Quando ciò si verificò, il 29 giugno, il pontefice lasciò decorrere un'ulteriore proroga e poi si preparò a comminare le opportune sanzioni.
L'11 settembre 1489, I. radunò un Concistoro pubblico, nel corso del quale riassunse la lunga serie di infrazioni commesse dal re di Napoli ai suoi danni; poi cedette la parola al notaio della Camera apostolica, che lesse la sentenza con cui Ferrante veniva privato della Corona napoletana, la quale era da ritenersi devoluta alla Sede apostolica. L'ambasciatore napoletano replicò prontamente, iterando l'appello che il suo re aveva già rivolto al concilio.
Più che al tribunale papale, il verdetto intorno al destino della dinastia aragonese sembrava competere soprattutto alle armi. In previsione di nuovi scontri, I. aveva già condotto ai propri stipendi, in giugno, il conte Niccolò Orsini di Pitigliano, famoso capitano; le sue maggiori speranze riposavano però, una volta di più, sulla Francia. Senza ripetere l'errore di invocare la discesa in Italia di un debole principe della casa d'Angiò, stavolta il pontefice si rivolse direttamente a Carlo VIII.
Nel luglio 1489, il re di Francia stipulò a Francoforte la pace con Massimiliano d'Asburgo, evento che lo rese più libero di intervenire in Italia. Speculando precisamente su tale fattore, nel settembre, poco prima di emettere la sentenza di privazione contro Ferrante, I. gli fece pervenire un appello che lo esortava a imitare le gesta dei suoi antenati, scendendo nella penisola a riconquistare il Regno di Napoli, onde toglierlo dalle mani dei nemici della Chiesa. Alla corte francese, i baroni napoletani fuoriusciti soffiavano intanto sul fuoco, allettando il sovrano col presentargli come facilissima l'impresa. Ma il re di Francia tradì una seconda volta le aspettative di I. e non si mosse, trattenuto da una serie di considerazioni: le guerre con il duca di Bretagna; la paura di una coalizione tra Spagna, Impero e Inghilterra che lo attaccasse alle spalle; il timore che un accordo improvviso tra il papato e la casa d'Aragona chiudesse gli spazi per la conquista francese del Regno.
È assai interessante notare che, sullo scenario italiano, la situazione non precipitò a sfavore del papato in conseguenza del disimpegno di Carlo VIII. Benché si ritrovasse inerme a scontare le conseguenze della sfida lanciata a re Ferrante per via giudiziaria, I. non subì aggressioni dirette da parte del sovrano aragonese, eventualità che lo avrebbe forse spinto a cercare soluzioni estreme. Colui che seppe tenere a freno i contendenti fu Lorenzo de' Medici, il quale impedì, con le arti della diplomazia, che il duello si trasformasse in guerra guerreggiata: un'ipotesi che sulle prime avrebbe certo riservato gravi umiliazioni al papa, ma che alla lunga avrebbe forse finito per scalzare gli Aragona dal trono napoletano.
Nello stesso periodo, il papato registrò una positiva affermazione nell'annosa questione della crociata contro i Turchi, alla quale I., distolto dal conflitto con il re di Napoli, non aveva potuto fino a quel momento dedicarsi con tutto l'impegno che la gravità del problema avrebbe richiesto.
Proprio al tempo dell'elezione di I., il sultano turco Bajazet II aveva invaso la Moldavia. Conscio dell'urgenza di una reazione da parte della cristianità, il papa cercò di convocare, nell'inverno 1484-1485, una Dieta a Roma per organizzare la crociata: un passo che avrebbe comportato, quale condizione preliminare, una lega fra tutti gli Stati italiani per concertare una controffensiva comune in Adriatico. L'iniziativa fallì, fra l'altro per l'indisponibilità di Firenze, che non intendeva concedere diversivi alla riconquista di Sarzana. Il papa, di conseguenza, provvide per proprio conto a fortificare le coste marchigiane, particolarmente esposte agli assalti turchi.
Lo scoppio della guerra dei baroni napoletani fece passare in second'ordine il problema turco, benché esso rappresentasse una delle ragioni di fondo della rivolta antiaragonese nel Regno, che era sopraggiunta anche a seguito della debolezza dimostrata dalla casa regnante davanti all'insidia turca. La chiamata in causa della Francia, decisa da I., legò ancor più strettamente la questione della successione napoletana all'organizzazione di una controffensiva generale nel Mediterraneo, che solo una grande potenza europea avrebbe potuto promuovere. Non è infine da dimenticare che la minaccia turca incombente sulla penisola era resa ancor più grave dalla tendenza, propria dei governanti italiani del Rinascimento, a usarla come arma della disperazione: si sapeva infatti che lo stesso re di Napoli, quale estremo rimedio davanti alla rovina, non avrebbe esitato a chiamare in Italia i Turchi contro il papa, così come cercò di fare anche Boccolino Guzzoni durante la rivolta di Osimo nel 1487.
Fra il 1486 e il 1487, I. sembrò trovare un'intesa con i due Asburgo, l'imperatore Federico III e suo figlio Massimiliano. Costoro erano quanto mai bisognosi del sostegno papale al loro disegno di assicurare alla famiglia la continuità nel possesso del titolo imperiale; per questo motivo, oltre che per rivalità con Mattia Corvino, che si atteggiava a campione della resistenza antiturca nell'Europa centrorientale, essi avallarono le iniziative di I., dirette ad allestire una crociata con i fondi tedeschi.
Ne seguì l'imposizione di una decima papale sui beni del clero in Germania, che venne affidata al collettore Raimondo Peraudi. Quest'atto scatenò però l'opposizione dei principi, laici ed ecclesiastici, dell'Impero, che fra la primavera e l'estate del 1487 sollevarono proteste e appelli al papa. La Germania non fu dunque disposta a trainare la crociata, come I. aveva sperato, contando sull'amicizia degli Asburgo.
Venne allora ricercato il concorso della Francia, dove nel novembre 1487 furono inviati i due nunzi apostolici Lionello Chieregato, vescovo di Traù, e Antonio Flores. Lo scopo della loro missione non era soltanto quello di raccogliere adesioni e sussidi per la guerra santa, bensì anche quello di ottenere la consegna al papa del principe turco Djem, fratello minore del sultano Bajazet II.
Rifugiatosi a Rodi nel 1482 in seguito a scontri con il fratello per la successione al trono, Djem venne trattenuto come ostaggio da Pierre d'Aubusson, gran maestro dei Cavalieri di S. Giovanni. Il sultano Bajazet II, desideroso di tenere lontano dalla patria il fratello, che contava gran seguito fra i sudditi e fra i giannizzeri dell'esercito, addivenne a una convenzione con l'Aubusson. In base ad essa, Bajazet II avrebbe versato 45.000 ducati all'anno all'Ordine gerosolimitano, che avrebbe provveduto alla custodia di Djem in luogo sicuro. Il principe fuggiasco venne così trasferito in un priorato dei Cavalieri di Rodi in Alvernia; ma l'Aubusson cominciò a subire le pressioni dei re di Francia, d'Ungheria, di Napoli, nonché di Venezia e del papato: tutti volevano avere nelle proprie mani quel preziosissimo ostaggio, che garantiva al possessore una potente arma di ricatto contro il sultano turco.
Nel 1488, I. riuscì a prevalere nella competizione, grazie a un'ampia serie di concessioni: il cappello cardinalizio per l'Aubusson; nuovi privilegi e franchigie per l'Ordine gerosolimitano; la nomina di un cardinale di gradimento del re di Francia, nella persona dell'Espinay, arcivescovo di Bordeaux; la collaborazione del papa nella risoluzione della vertenza matrimoniale di Anna di Bretagna in un senso favorevole a Carlo VIII.
Il 13 marzo 1489 Djem arrivò a Roma, accolto da una gran folla di curiosi. Al principe turco vennero tributati tutti gli onori spettanti a un sovrano, a cui egli rispose impassibilmente, con aria superba e feroce, appena immalinconita dalla prigionia. Venne ospitato al Palazzo Apostolico nell'appartamento riservato ai principi, dove il papa gli consentì ogni genere di svaghi, spendendo ben 15.000 ducati l'anno per il suo mantenimento. La sua sorveglianza venne affidata a un drappello di Cavalieri di Rodi, che non dovette mai abbassare la guardia, se è vero che, a un anno dal suo arrivo, venne sventato un complotto, ordito da Bajazet II, per avvelenare le fontane del Vaticano e uccidere così in un colpo solo I. e Djem.
L'acquisizione dell'ostaggio turco fu una delle vittorie più celebrate del papato innocenziano, che poté così rilanciare il proprio impegno a favore della crociata. Assai meno fortunata fu la missione di Chieregato e Flores sotto il profilo dei rapporti fra la Sede apostolica e la Chiesa gallicana, dato anche lo schieramento di I. a favore degli Asburgo nella questione della successione imperiale: elemento che interferiva con il proposito di Carlo VIII di mettere le mani sull'eredità borgognona, sottraendola a Massimiliano.
Un altro degli obiettivi della Legazione apostolica presso Carlo VIII era l'abolizione di quei provvedimenti lesivi della giurisdizione papale sugli affari della Chiesa francese, che Luigi XI, seguito poi dal figlio Carlo VIII, aveva emanato quale riasserzione dello spirito della Prammatica Sanzione di Bourges. La stessa Prammatica Sanzione, formalmente abrogata ai tempi di Pio II, figurava come tuttora in vigore, a causa della perdurante opposizione dei Parlamenti e del clero di Francia ad approvare la sua revoca, decretata in via strumentale da Luigi XI.
Il partito antiromano in Francia ebbe buon gioco nel respingere le richieste di I., speculando sul risentimento di Carlo VIII, contrariato dal sostegno del pontefice alle pretese della casa d'Asburgo alla successione imperiale. Le inclinazioni filoasburgiche del papato divennero particolarmente evidenti con la rivolta di Bruges (1° febbraio 1488), quando Massimiliano venne imprigionato dagli abitanti della città fiamminga, suoi sudditi. Accogliendo le preghiere di Federico III, il pontefice prescrisse all'arcivescovo di Colonia di lanciare l'interdetto su Bruges; ma il re di Francia si intromise, rivendicando la sovranità sulle Fiandre e giustificando i cittadini ribelli, con conseguente dichiarazione di invalidità delle censure papali.
La vertenza trovò una soluzione definitiva solo alla Dieta di Francoforte (6 luglio 1489), quando fu conclusa fra Carlo VIII e Massimiliano una pace che lasciava la Borgogna al primo e le Fiandre al secondo. Nella stessa circostanza, I. richiamò l'imperatore al dovere di impegnarsi per la crociata; quanto al re di Francia, il papa contava di spingerlo alla conquista di Napoli, evento che di per sé avrebbe messo Carlo VIII in prima linea davanti all'aggressione dei Turchi.
Favorito dall'essersi nel frattempo assicurato la custodia di Djem, l'8 maggio 1489 I. indisse, per la primavera dell'anno successivo, una Dieta papale a Roma, con la partecipazione degli ambasciatori di tutte le potenze cristiane, al fine di programmare una spedizione crociata.
Il 3 giugno 1490 fu inaugurata l'assemblea, con un discorso in cui il papa presentò il panorama politico come assai favorevole alla controffensiva cristiana, che sarebbe stata facilitata dalla concomitante liberazione di Djem e da un attacco del sultano d'Egitto contro Bajazet II. Prospettò pertanto l'indizione della guerra santa, per cinque anziché per tre anni, con la partecipazione complessiva di quindicimila cavalieri e ottantamila fanti cristiani, più una flotta adeguata.
Gli ambasciatori presenti sembrarono accogliere positivamente le proposte di I.; ma ogni decisione venne da loro rinviata al benestare dei rispettivi sovrani. Costoro temporeggiarono, così che il congresso venne sciolto il 30 giugno, con l'impegno di riaprirlo non appena fossero pervenuti concreti segnali di adesione alla crociata. Tali segnali non pervennero e del progetto non si fece più nulla.
Il fronte antiturco era stato nel frattempo fortemente debilitato dall'improvvisa morte di Mattia Corvino, sopraggiunta per apoplessia il 6 aprile 1490, all'età di quarantasette anni. Lo scoppio di nuove dispute fra il suo successore, Ladislao, e gli Asburgo, antichi pretendenti alla Corona ungherese, escluse qualsiasi ipotesi di mobilitazione delle potenze europee centrorientali per la crociata. Pur ritrovatosi solo, I. proseguì nella sua linea e condusse con grande vigore la partita contro Bajazet II, speculando sul timore che in quello incuteva l'idea di una comparsa di Djem al fianco di un esercito cristiano.
Volendo premunirsi contro simili colpi di mano, il sultano turco inviò al papa un'ambasceria, che arrivò a Roma il 30 novembre 1490. Fu questa la prima volta che il canone annuo per il mantenimento di Djem venne versato al papa e non al gran maestro dei Cavalieri di Rodi; Bajazet II ne approfittò per offrire a I. la tranquillità delle coste dell'Adriatico, in cambio della promessa di non liberare il fratello. Il pontefice non accettò tale scambio, intendendo mantenere il sultano turco sulla corda; ma non gli fu neppure possibile entrare in aperto conflitto con lui, data l'inaffidabilità di cui i principi cristiani avevano dato prova con il disertare la Dieta per la crociata.
Le conseguenze peggiori del mancato sostegno dei principi cristiani ai progetti di I. emersero frattanto nel contesto della politica italiana del papato: fra la seconda metà del 1489 e la prima metà del 1491, la frequenza delle ritorsioni decretate da Ferrante ai danni della Sede apostolica raggiunse punte preoccupanti. Dopo avere fomentato la sollevazione di vassalli papali, quali i Colonna e il signore di Camerino, e di città dello Stato pontificio, come Benevento, nel 1490 il re di Napoli mandò a dire a I. di essere pronto a occupare Roma e a comparire davanti a lui con la lancia in resta, se solo fosse stato provocato. Una volta di più, il papa chiese soccorso ai potentati italiani con cui intratteneva rapporti di amicizia: Venezia, Firenze e Milano; e davanti alla loro indisponibilità a intervenire, reagì formulando un disegno che provocò non poco sconcerto nei suoi interlocutori.
Non intendendo lasciare impuniti gli oltraggi del re di Napoli, I. dichiarò di volere spingere fino in fondo la lotta contro di lui sul piano spirituale, scomunicandolo come eretico e lanciando l'interdetto sul suo Regno. Se poi quello lo avesse attaccato, egli sarebbe scappato da Roma, rifugiandosi ad Avignone: i signori d'Italia si dimostravano infatti del tutto indegni di ospitare la Sede apostolica. A sostegno del suo progetto, I. addusse non solo le ragioni del diritto, ma anche quelle della storia, interpretata in chiave provvidenzialista: altri pontefici, in passato, avevano abbandonato Roma per salvaguardare l'onore e la libertà del papato, che infine aveva sempre trionfato sui suoi nemici.
Fra l'autunno e l'inverno del 1490-1491, il crollo delle condizioni di salute di I., che in più di un'occasione venne dato per spacciato, lasciò per sempre in sospeso tale disegno. Con il sopraggiungere dell'estate del 1491 i soprusi di Ferrante ai danni del pontefice si fecero intollerabili: il 29 giugno si ripeté il consueto invio della chinea senza il denaro, mentre in varie zone dello Stato della Chiesa aumentavano i segnali di cedimento dell'autorità pontificia.
Nell'intento di scompaginare le strutture del dominio papale in una regione difficilmente controllabile come le Marche, il re di Napoli sobillò ripetutamente gli abitanti di Ascoli nelle loro controversie di confine con le città di Fermo e di Offida. Nell'estate del 1491 le violenze degli Ascolani degenerarono in guerra, con l'assalto a Offida e l'uccisione di un funzionario pontificio; ma I. non poté pensare in alcun modo a castigarli, perché quando diede ordine al conte di Pitigliano di effettuare una spedizione punitiva contro di loro il re di Napoli mandò in difesa di Ascoli un contingente di truppe, al comando di Virginio Orsini.
Nessuna delle potenze italiane chiamate a soccorso dal pontefice si mosse; particolarmente ambigua e deludente per lui risultò la condotta di Lorenzo de' Medici. In breve, apparve chiaro che i potentati italiani avevano tutto l'interesse a mantenere aperto il conflitto tra il papato e il Regno di Napoli: fattore che permetteva loro di tenere Ferrante sotto scacco e impediva a I. di nuocere agli Stati confinanti.
L'atteggiamento dei governanti italiani nell'affare di Ascoli fu la prova definitiva della loro estraneità agli interessi temporali della Sede apostolica: elemento che convinse I., nella seconda metà del 1491, a rovesciare le coordinate della politica fin lì seguita.
Fu quanto mai agevole per il pontefice trovare un'intesa diretta con Ferrante d'Aragona, data la grande convenienza che questi aveva ad accattivarselo, per scongiurare altri suoi ricorsi alla Francia. Artefice del révirement aragonese fu il segretario umanista di Ferrante, Giovanni Pontano, convinto assertore di una pacifica convivenza con il papato quale chiave per la conservazione del trono napoletano ai suoi sovrani. Su sollecitazione del Pontano, Ferrante si dimostrò accomodante verso il papa, dopo averlo lungamente conculcato, riducendolo allo stremo: il sovrano aragonese offrì una somma forfettaria di 36.000 ducati quale rimborso degli arretrati del censo ricognitivo, ottenendo in cambio di commutare per il futuro il versamento in denaro con il mantenimento di un contingente di truppe e di navi che avrebbe messo a disposizione della Sede apostolica.
Tutto quanto il negoziato fu condotto dal Pontano in deliberato antagonismo con la funzione arbitrale fino ad allora rivestita da Lorenzo de' Medici, che si vide estromesso da ogni mediazione nei rapporti tra il papato e gli Aragona. Alcuni mesi dopo, l'8 aprile 1492, il Medici morì; scomparve con lui ogni residua speranza di mantenere bilanciato il rapporto di forze nel panorama italiano, fattore che avrebbe impedito il ricorso a soluzioni di forza nel regolare i rapporti fra gli Stati. Spaventato dal rafforzamento del Regno aragonese dopo l'accordo con il papato, Ludovico il Moro stava già intensificando i suoi rapporti di aderenza alla Francia, che presto avrebbero assunto la forma di una collaborazione al progetto di discesa di Carlo VIII a Napoli.
Già abbozzato nel dicembre 1491, il trattato sostitutivo della pace dell'agosto 1486 fu siglato per conto di re Ferrante dal Pontano a Roma, dove venne annunziato nel Concistoro del 27 gennaio 1492 e ratificato il 7 febbraio. Esso non fu che il primo passo verso un ulteriore e più fondamentale accordo, finalizzato a legittimare la futura successione al trono napoletano di Alfonso d'Aragona, ponendola anzi sotto l'egida pontificia. Sarebbero state così rimosse quelle irregolarità sul piano giuridico che, pochi anni prima, avevano giustificato la rivolta del partito baronale filoangioino e l'appello alla Francia.
Perno della seconda fase degli accordi pontificio-aragonesi fu il matrimonio che Ferrante combinò tra un suo nipote, don Luigi d'Aragona, marchese di Gerace, e Battistina Usodimare, nipote del papa. Già stipulate il 7 febbraio, in occasione della firma del trattato di pace, le nozze ebbero luogo in Vaticano il 3 giugno 1492. In quell'occasione giunse a Roma don Ferdinando, principe di Capua, primogenito di Alfonso d'Aragona e futuro erede al trono, con l'incarico di procurare la solenne investitura pontificia del Regno in favore della discendenza di re Ferrante. La manovra dei sovrani aragonesi fu contrastata dal re di Francia, che in quella stessa primavera inviò al papa un suo scudiero, Perron de Baschi, incaricato di richiedere la sospensione di un atto che avrebbe leso i diritti della casa di Francia su Napoli. Ma I., che aveva appena esaudito Carlo VIII nell'imbarazzante questione delle dispense matrimoniali necessarie al suo matrimonio con Anna di Bretagna, si rifiutò di assecondare le pretese del sovrano francese su una vertenza dalla quale dipendeva la sicurezza della Sede apostolica e l'integrità dello Stato pontificio. La bolla di investitura del Regno di Napoli in favore dei discendenti maschi legittimi di re Ferrante venne letta in Concistoro il 4 giugno 1492 e poi consegnata all'ambasciatore napoletano, che avrebbe dovuto curare il versamento al papa dei 50.000 ducati pattuiti quale tributo da parte del futuro re Alfonso II. L'ambasciatore francese non poté neppure interporre una protesta formale, perché gli venne negato l'accesso al Concistoro.
A seguito della composizione del conflitto con la casa d'Aragona, si aprì per I. anche una fase di rimonta nei rapporti con la potenza turca, aperta, sul piano simbolico, dall'epocale trionfo rappresentato per la cristianità dalla caduta di Granada, il 2 gennaio 1492.
Il coronamento della "Reconquista", impresa portata a termine dai re cattolici con la fondamentale collaborazione del papato, venne celebrato a Roma con straordinari festeggiamenti: una processione papale a S. Giacomo degli Spagnoli in piazza Navona, sfilate, fuochi e spettacoli, fra cui una rappresentazione della presa di Granada e una corrida di tori. La caduta di Granada ebbe fra l'altro la conseguenza di accelerare la conclusione degli accordi fra il papato e Ferrante di Napoli, inquietato dall'idea di una rinnovata e più incisiva ingerenza che i sovrani spagnoli, suoi cugini ma anche suoi rivali, sarebbero stati ora in grado di esercitare negli affari italiani. Tra gli obiettivi della nuova alleanza vi fu quello di concertare una risposta comune alle aggressioni turche.
Bajazet II rispose moltiplicando i segnali di distensione verso la Sede apostolica. Fra questi, ebbe grandissima risonanza il dono propiziatorio che il sultano turco fece al papa della santa lancia, insigne reliquia custodita nel palazzo imperiale di Costantinopoli. Il 31 maggio 1492, il cimelio, costituito dalla punta della lancia con cui, secondo la tradizione, s. Longino trapassò il costato di Gesù Cristo, giunse a Roma; I. volle che fosse conservato al Palazzo Apostolico, dove lo tenne come oggetto della sua devozione privata. Malgrado l'arrivo di un dono tanto apprezzato, il pontefice non recedette dalla sua linea di fermezza verso il sultano: il 14 giugno annunciò all'ambasciatore turco che, nel caso in cui Bajazet II avesse dato l'assalto a qualche Stato cristiano, egli si sarebbe servito di Djem per scatenargli contro la rivolta dei sudditi.
Circa una settimana dopo questa decisa presa di posizione, le condizioni di salute di I., costantemente malaticcio negli ultimi anni, presero a declinare, benché ci volessero ancora diverse settimane prima che la sua fibra cedesse del tutto. Consunto lentamente dai suoi molti malanni, nel clima torrido dell'estate romana, il sessantenne pontefice si spense il 25 luglio 1492, confortato dai sacramenti e da un contegno lucido e dignitoso davanti alla morte.
Fu sepolto in S. Pietro, dove il nipote Lorenzo Cibo commissionò per lui uno splendido monumento funebre in bronzo, opera di Antonio Pollaiolo. A causa della sua grande bellezza, quello di I. è uno dei pochi sepolcri papali sopravvissuti alla ricostruzione della vecchia basilica vaticana e trasportati nella nuova; attualmente lo si può ammirare nella navata laterale sinistra, a un'altezza assai superiore a quella per cui fu originariamente ideato.
Oltre che giacente, I. vi è rappresentato assiso sul soglio pontificio, in posizione benedicente con la mano destra, mentre con la sinistra regge la santa lancia. Non corrisponde alla cronologia l'iscrizione che vi fu apposta posteriormente, dove si menziona la scoperta dell'America: la partenza di Cristoforo Colombo avvenne infatti una settimana dopo il decesso del papa suo concittadino.
Il sepolcro ci appare oggi come l'unica memoria tangibile del mecenatismo di un papa che commissionò diverse opere di alto livello artistico, le quali furono in seguito distrutte o radicalmente modificate. Con la ricostruzione della basilica vaticana fu abbattuto il sacello che I. aveva eretto per l'ostensione della santa lancia, decorato dal Pinturicchio. L'aspetto originario della sua villa preferita, alla Magliana, che venne ricostruita da lui e ampliata da Leone X, è oggi difficilmente leggibile. Alterata dai cambiamenti successivi ci appare anche la villa che egli fece costruire dall'architetto Iacopo da Pietrasanta sul colle del Belvedere (attualmente sede del Museo Vaticano delle statue antiche): con le ristrutturazioni del XVIII secolo, andarono perduti i meravigliosi affreschi che la decoravano, opera assai lodata del Mantegna e del Pinturicchio.
Del raffinatissimo gusto di I. in fatto di musica è indice eloquente il fatto che, sotto di lui, la Cappella papale annoverò compositori sommi quali Josquin Des Prèz e Heinrich Ysaac. Intrattenne anche buoni rapporti con i letterati, fra cui il Poliziano e i membri dell'Accademia romana; ma non parve molto portato a favorire gli "studia humanitatis". Preferì piuttosto promuovere operazioni culturali quali la revisione del Pontificale Romanum, che venne affidata ad Agostino Patrizi Piccolomini, vescovo di Pienza e maestro cerimoniere della Corte papale. Il testo, che venne approntato con l'intenzione di diffonderlo nelle varie diocesi della cristianità, fu successivamente dato alle stampe.
La tendenza di I. al tradizionalismo fu evidente anche nel campo teologico e spirituale, come dimostrano i due episodi per cui il suo pontificato risulta investito di un particolare significato nella storia della cultura europea.
Il primo fu la condanna per eresia delle novecento tesi di Giovanni Pico della Mirandola, atto che impedì lo svolgimento della disputa universale che il principe filosofo aveva indetto per la primavera del 1487 a Roma. L'incidente, che stette a dimostrare la refrattarietà dell'ambiente curiale alle innovazioni in materia di pensiero, non venne chiuso con la ritrattazione del Pico; anzi, nonostante le pressioni del re di Francia e di Lorenzo il Magnifico, I. non accondiscese mai a concedergli l'assoluzione, che venne impartita al Mirandolano soltanto da Alessandro VI.
Il secondo episodio è la celebre bolla Summis desiderantes del 5 dicembre 1484, che indirettamente convalidava un complesso di credenze magico-folcloriche allora ben vive in Germania. Mediante tale bolla, che era diretta esclusivamente all'area tedesca, il papa delegò piena facoltà di intervenire per reprimere la stregoneria ai due celebri inquisitori Heinrich Institor e Jacob Sprenger, gli autori del Malleus maleficarum. Il contenuto del provvedimento papale era di natura disciplinare e non dogmatica; mediante esso, si intendeva anzitutto stabilire le competenze delle gerarchie ecclesiastiche in terra tedesca intorno a un problema su cui vigeva una notevole confusione giurisdizionale. È indubbio però che con quest'atto la Chiesa romana diede il suo avallo al fenomeno della caccia alle streghe, destinato ad assumere proporzioni considerevoli in periodi successivi. Si ricorderà infine un altro motivo che ha conferito al pontificato di I. un particolare rilievo storico: l'incremento che sotto di lui ebbe il principio della venalità degli uffici curiali, con la rifondazione di due preesistenti corporazioni di ufficiali di Curia, che vennero trasformate in Collegi di uffici venali. Il duplice provvedimento venne suggerito quale estremo rimedio davanti alle ristrettezze finanziarie in cui il papato precipitò durante la guerra dei baroni napoletani, dopo che già I. aveva dovuto dare in pegno ai banchieri la tiara e il bottone papali, per un prestito di 100.000 ducati.
Il primo Collegio ad essere ristrutturato al fine di creare nuovi "vacabilia" fu quello dei "Collectores taxae plumbi", o piombatori, i cui posti nel 1486 vennero portati a cinquantadue e messi in vendita a 500 ducati l'uno, con un introito immediato per le casse papali di 26.000 ducati. Seguì, alla fine del 1487, la riforma dell'ufficio dei segretari apostolici. Questo prestigioso Collegio, formato fino ad allora di sei membri, solitamente nominati dal papa per motivi di eccellenza culturale, venne portato a trenta membri, con la creazione di altri ventiquattro posti "vacabili", che vennero venduti, e l'imposizione ai sei segretari precedenti di una tassa, atto che fra l'altro rendeva il loro ufficio commerciabile. L'intera operazione, che fruttò alle casse papali ben 62.400 ducati, si collocò sulla scia dell'espansione degli uffici venali inaugurata da Sisto IV, aprendo definitivamente il mondo curiale alle speculazioni del grande capitale finanziario attivo in Corte di Roma.
Fonti e Bibliografia
G. Vian, Memorie della famiglia Cybo, Pisa 1808.
F. Serdonati, Vita e fatti d'Innocenzo VIII, Milano 1829 (biografia risalente al tardo Cinquecento).
S. de' Conti da Foligno, Le storie de' suoi tempi dal 1475 al 1510, I-II, Roma 1883.
E. Nunziante, Alcune lettere di Joviano Pontano, "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 11, 1886, pp. 518-53.
S. Infessura, Diario della città di Roma, a cura di O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti per la Storia d'Italia, 5).
G. Pontano, Lettere inedite, a cura di F. Gabotto, Bologna 1893.
E. Percopo, Lettere di Giovanni Pontano a principi ed amici, Napoli 1907.
I. Burchardi Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, in R.I.S.², XXXII, 1, a cura di E. Celani, 1907-10, 1911-42.
L. Staffetti, Il libro di ricordi della famiglia Cybo, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", 38, 1908.
Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi, nunzio pontificio a Firenze e Milano (11 settembre 1487-10 ottobre 1490), a cura di E. Carusi, Città del Vaticano 1909.
Regis Ferdinandi primi instructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916.
P. Paschini, Il carteggio fra il card. Marco Barbo e Giovanni Lorenzi (1481-1490), Città del Vaticano 1948.
E. Nunziante, Il concistoro d'Innocenzo VIII per la chiamata di Renato duca di Lorena contro il Regno (marzo 1486), "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 11, 1886, pp. 751-66.
R. Zanelli, Roberto di Sanseverino e le trattative di pace tra Innocenzo VIII ed il re di Napoli, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 19, 1896, pp. 177-88.
P. Fedele, La pace del 1486 tra Ferdinando d'Aragona ed Innocenzo VIII, "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 30, 1905, pp. 481-503.
L. Celier, Les Dataires du XVe siècle, Paris 1910.
L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma 1912, pp. 169-274.
W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden vom Schisma bis zur Reformation, I-II, ivi 1914.
G. Paladino, Per la storia della congiura dei baroni. Documenti inediti dall'Archivio estense: 1485-1487, "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 44, 1919, pp. 336-67.
G.B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928 (rist. anast. Roma 1981).
R. Palmarocchi, La politica italiana di Lorenzo de' Medici. Firenze nella guerra contro Innocenzo VIII, Firenze 1933.
P. Paschini, Leonello Chieregato, nunzio d'Innocenzo VIII e di Alessandro VI, Roma 1935.
P. Luc, Un appel du pape Innocent VIII au roi de France (1489), "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 56, 1939, pp. 332-55.
E. Pontieri, L'atteggiamento di Venezia nel conflitto tra papa Innocenzo VIII e Ferrante I d'Aragona (1485-1492). Documenti dell'Archivio di Stato di Venezia, "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 81, 1963, pp. 197-324; 84-5, 1966-67, pp. 175-309.
M. Dykmans, L'oeuvre de Patrizi Piccolomini, ou le cérémonial papal de la première Renaissance, I-II, Città del Vaticano 1980.
P. Partner, The Pope's Men. The Papal Civil Service in the Renaissance, Oxford 1990.
C. Shaw, Giulio II, Torino 1995.
M. Pellegrini, Congiure di Romagna. Lorenzo de' Medici e il duplice tirannicidio a Forlì e a Faenza nel 1488, Firenze 1999.