Insediamenti e "populi"
Il territorio del ducato veneziano può essere ripartito in tre regioni, seguendo un procedimento già felicemente attuato da Lanfranchi e Zille (1).
La regione settentrionale si stende da Grado ad Equilo. Grado, insediamento della tarda età romana, ricca di reperti archeologici, è assai poco documentata. Difficile risulta conoscere la posizione precisa delle località vicine di Bibione e Caorle, ubicabili con approssimazione su isole litorali allo sbocco delle foci dei fiumi, rispettivamente del Tagliamento e del Limena-Livenza. Eraclea-Cittanova, sede del governo della "provincia" nei secoli VII-VIII, decadde in seguito per fenomeni naturali e per un probabile processo di spopolamento, come indica l'estensione delle superfici incolte, con zone paludive e boschive. All'inizio del secolo XI ampie aree, di proprietà della comunità locale e del duca, erano adibite alla pesca e alla caccia (2).
Nella palude eracleese era situata Fine, la cui ultima menzione appare in un documento del secolo XII, che ricorda anche la pieve locale di S. Maria (3).
La seconda regione si stende da Equilo a Portosecco, fra i corsi dei fiumi torrentizi Piave e Brenta. Ai fini di una maggiore comprensione storica e descrittiva, essa può essere ulteriormente suddivisa in tre aree lagunari: equilense, altinate-torcellana e reatina.
Concomitante con la decadenza di Cittanova dovette essere la crescita di Equilo, che divenne sede di una chiesa vescovile e si dotò di un porto, del quale abbiamo menzione alla fine del secolo X (4). Assai ampie erano le aree incolte, al cui sfruttamento concorrevano duca (5), vescovo e popolazione locale (6).
L'area altinate-torcellana comprendeva nella costa interna i territori di Altino e di Mestre. Aree coltivate si alternavano con estese zone paludive e boschive, che offrivano in abbondanza i prodotti della pesca e della caccia. Assai poco conosciamo di Altino, forse sdoppiata in Altino "Maiore" e "Pitulo". Certamente la crisi insediativa era già in atto fra IX e X secolo, quando l'abate di S. Servolo abbandonò la zona per Ammiana, in seguito alle devastazioni ungariche (7).
Le lagune torcellane erano separate dal mare da numerosi lidi, fra i quali sono ricordati prima del Mille (8) quelli di Boves o Maggiore, della Mercede poi detto di S. Erasmo, di fronte a Murano, e di Vignole. Il lido Maggiore era abitato intensamente, come mostra una documentazione ampia, proveniente dall'archivio della pieve di S. Lorenzo di Ammiana, concernente, fra l'altro, i canoni in polli riscossi per le superfici casalive (9). Nelle lagune torcellane si trovavano le isole maggiori di Torcello, Mazzorbo e Burano e i gruppi insulari di Costanziaco e Ammiana.
La terza area, quella realtina, va dai lidi di Olivolo o Rialto, di Albiola e di Malamocco alla terraferma di Tessera, Campalto, Mestre e al delta di S. Ilario. Fenomeni di grave degrado si verificarono nella zona di Malamocco (10) e nel delta ilariano (11).
Fra le isole interne figura il gruppo realtino, formato da Luprio e da Rialto, ai due lati del Canal Grande, nelle due rispettive anse. L'espansione di Luprio avvenne verso Dorsorduro, dalla quale la divideva una vasta palude, ancora esistente nel secolo XI. L'espansione di Rialto portò all'aggregamento delle isole di Gemine e di Olivolo, favorito dalla contiguità territoriale. Delle isole interne fa parte anche il grosso raggruppamento di Murano, incluso nella circoscrizione diocesana di Torcello.
Nella regione meridionale del ducato erano situati centri demici di rilievo: primo fra tutti quello di Chioggia, cui era variamente legata Pellestrina; seguivano quelli di Loreo e di Cavarzere, castelli a difesa dei confini rispettivamente verso la "Romania" e il Regno. Frequenti, gravose e lunghe erano le controversie: ricordiamo quelle relative ai territori denominati Fogolane (12). Avremo modo di soffermarci sulla organizzazione interna delle comunità, coinvolgenti anche la gestione del patrimonio collettivo, costituito in larga parte dall'incolto paludivo e boschivo; grosso rilievo economico rivestiva, soprattutto in Chioggia, l'industria salina, che, come una larga parte delle risorse agricole, era ampiamente controllata da famiglie ed enti ecclesiastici veneziani.
A Brondolo, che risentiva dell'influenza di Chioggia, aveva sede, forse dal secolo VIII, l'importante monastero di S. Michele e della SS. Trinità, beneficato da famiglie nobili del Regno (13).
Fino al secolo VIII assai poche, per non dire rare, sono le notizie concernenti il territorio della "provincia" ed in particolare le isole della laguna che ora conosciamo come Venezia.
Rinviando il lettore per notizie concernenti i primi secoli del medioevo ai contributi che nella presente Storia precedono il nostro, ricordiamo solo che negli atti del sinodo di Mantova dell'anno 827, un episodio della controversia, protrattasi per secoli, fra le chiese di Aquileia e di Grado, il cui esito fu sostanzialmente favorevole al presule di Aquileia, Grado viene definita quale "plebs" e "castrum" (14). La prima accezione, da poco tempo impiegata nella "Langobardia" (15), sottolinea l'organizzazione ecclesiastica della popolazione: essa, oltre ad indicare il popolo affidato alle cure ecclesiastiche del clero gradense, vuole, probabilmente, sottolineare che tale organizzazione si attua a livello di "plebs" intesa questa nella sua accezione 'tecnica' ovvero di chiesa rurale provvista delle maggiori funzioni, prevalente su tutte quella dell'amministrazione del battesimo, ma soggetta a una chiesa vescovile, nel caso specifico quella di Aquileia.
Se si eccettua pertanto l'aspetto dell'organizzazione ecclesiastica, che aveva fino al secolo VIII altri centri importanti nelle sedi vescovili di Torcello e Cittanova, eredi dei titoli rispettivi di Altino e Oderzo, poco altro possiamo conoscere dalla documentazione tradizionale, pubblica e privata, poiché essa è pressoché inesistente.
Notizie più ampie è possibile dedurre dalle fonti cronachistiche, particolarmente dalla cronaca che è conosciuta sotto il nome di Giovanni diacono (16); assai meno affidabili le altre, che possono essere assunte, per il periodo delle 'origini' e altomedioevale in genere, quali indizi per la persistenza del ricordo, nei secoli posteriori al Mille, di tradizioni, avvenimenti e conflitti antichi.
Sulla scorta appunto, oltre che dei rapporti tra sedi vescovili, cui testé abbiamo accennato, di tradizioni conservateci nelle cronache e dei riconoscimenti degli usi collettivi di sfruttamento delle risorse delle terre incolte nella terraferma, presenti nei patti stipulati dai duchi di Venezia con gli imperatori di Occidente a partire dalla prima metà del secolo IX, sono state individuate le aree di provenienza delle correnti immigratorie che, fuggendo di fronte all'occupazione longobarda iniziale e alle successive conquiste - ricordiamo almeno quella di Oderzo nella prima metà del secolo VII -, hanno rafforzato ed 'arricchito' la popolazione originaria delle lagune. A Grado e Caorle sarebbero confluiti abitanti dai territori di Aquileia e Concordia; a Cittanova ed Equilo da Oderzo; ad Olivolo, Torcello e Rialto da Altino e Treviso; a Malamocco ed Albiola da Treviso e forse da Padova; da quest'ultima anche a Chioggia e Brondolo (17).
Una conferma proviene dall'esplorazione linguistica: come conclude il Pellegrini, i "Venefici" immigrati nelle lagune continuavano "la tradizione originaria dell'area trevisana orientale" che aveva avuto il suo centro in Oderzo, la cui popolazione confluì nelle isole lagunari attraverso la mediazione di Eraclea-Cittanova (18).
Preziosi risultano gli elenchi dei maggiori centri abitati, che appaiono dalla metà del secolo IX all'inizio dell'XI, inclusi in privilegi imperiali o in fonti letterarie: fra i primi figurano gli elenchi degli anni 840, 967 e 983; fra i secondi la descrizione presente nella cronaca di Giovanni diacono, attribuibile all'inizio del secolo XI, e i due elenchi inclusi nell'opera di Costantino Porfirogenito.
Nel De administrando imperio del Porfirogenito, opera redatta nella prima metà del secolo X, ma basata su documentazione precedente di natura varia, è compresa una descrizione della "provincia" veneziana, composta da due elenchi di località (19), redatti con prospettive diverse e, probabilmente, in tempi diversi: mentre il primo descrive il litorale, fornendo il nome delle isole, che corrispondono prevalentemente ai lidi marittimi e sulle quali sorgono "castra", il secondo fornisce i nomi dei centri abitati verso la terraferma, chiamati anch'essi "castra". Rilevante è l'assenza dai due elenchi di Burano e quella, soprattutto, del castello di Olivolo, presenti entrambi, come vedremo, nei privilegi degli imperatori Lotario dell'84o e Ottone I del 967; se la prima può essere attribuita a una svista, difficile supporre che sia stata dimenticata Olivolo con il suo castello, tanto più che, se l'edificazione del castello fu coeva al trasferimento della sede ducale in Rialto all'inizio del secondo decennio del secolo IX, essa dovrebbe essere avvenuta con l'approvazione sostanziale dell'Impero, bizantino, che sostenne, come annoteremo (20), l'azione del duca Agnello nei suoi primi anni di governo. A un periodo non posteriore alla prima metà del secolo rinvierebbe la designazione del lido Marcense, che non ha ancora mutato il nome in lido di S. Erasmo (21).
Le diciotto località del primo elenco sono enumerate partendo dalla zona settentrionale del ducato - Grado, se va inteso, come avviene solitamente, il termine "Kogradon" per "castrum Gradum" - proseguendo verso sud-ovest e poi verso sud, fino a Loreo, un andamento descrittivo che è adottato anche dalla seconda parte dell'elenco. A Grado seguono Bibione, se accettiamo la corrispondenza proposta con "Ribalenses" (22), e numerosi lidi marittimi, non sempre identificabili, dei quali è possibile indicare anche il nome latino, quale appare nell'Origo, secondo le proposte del Dorigo (23): "Lulianon" o "Litus Lugnanum", che potrebbe essere identificato con l'isola di S. Giuliano di Grado (24); "Apsanon" o "Litus Ausanu"; "Romatina" o "Litus Romatine"; "Likentia" o "Litus Linguentie"; "Pinetai/Strobiloso" o "Litus Pineti"; "Biniola" o "Litus Vigniolas"; "Boes" o "Litus Boum" o "de Bovibus", corrispondente al lido Bovense o Maggiore; "Elitovalba" o "Litus Album"; "Litoumancherses" o "Litus Mercedis"/"Litomarcense"; "Bronion", che corrisponderebbe, secondo Lanfranchi (25), all'attuale lido di S. Nicolò a Malamocco. Seguono i centri di Malamocco, Albiola, Pellestrina, Chioggia, Brondolo, Fossone e Loreo.
Nel secondo elenco sono indicati otto "castra" verso la terraferma: Caorle, "Neokastron" ovvero "Civitas Nova", Fine, Equilo, Ammiana, Torcello, definito "grande emporio", Murano, Rialto e Cavarzere. Si tratta, come vedremo, di alcuni fra i maggiori centri abitati.
Tre elenchi sono inclusi in privilegi imperiali degli anni 840, 967 e 983: vi sono nominati in tutto diciannove località, rispettivamente diciotto nel primo, quindici nel secondo e nel terzo (26).
Nel "patto" di Lotario dell'anno 840 (27), dopo l'enumerazione delle popolazioni viciniori con le quali i Veneziani hanno rapporti commerciali (28), sono elencati gli "habitatores" che compongono il "populus Venetiarum" con il nome dei rispettivi centri demici. Questi sono Rialto, il castello di Olivolo, Murano, Malamocco, Albiola, Chioggia, Brondolo, Fosson, Loreo, Torcello, Ammiana, Burano, Cittanova, Fine, Equilo, corrispondente all'odierna Jesolo, Caorle, Grado, Cavarzere. Aprono l'elenco i centri più importanti, Rialto e Olivolo, con l'isola di Murano, che sembra quasi a essi annessa; segue il gruppo a sud-ovest, da Malamocco a Loreo, quest'ultima verso il Ferrarese, e poi un altro a nord-est, da Torcello a Grado, per chiudere bruscamente con Cavarzere, all'estremità sud-occidentale del ducato, nella terraferma verso il basso territorio padovano, sull'Adige.
Il confronto con gli elenchi del Porfirogenito (29) mostra con immediatezza come siano omessi nel privilegio lotariano le località costituite dalle "isole" ovvero i lidi marittimi. La ragione principale di tale 'omissione' consiste nel ruolo secondario che le loro popolazioni svolgono nell'ambito della vita sociale, economica e pubblica del ducato, già a partire dai secoli IX e X, il che apparirà evidente anche dal seguito della nostra trattazione.
Nel secondo elenco, compreso nel diploma di Ottone I del 967 per il "populus Venetiarum" (30), appaiono gli abitanti di sole quindici località: rispetto a quello dell'840 mancano Chioggia, Brondolo, Fossone, Fine; c'è in più Bibione. L'andamento descrittivo non si allontana di molto. L'assenza di Chioggia, Brondolo e Fossone potrebbe essere dovuta alla situazione politica del momento: come il privilegio ottoniano stesso suggerisce, Venezia si trova in una condizione di inferiorità rispetto all'Impero, che si riflette anche nelle pretese che quest'ultimo avanza verso alcune parti eccentriche del territorio del ducato, particolarmente verso quelle meridionali (31).
Nel terzo elenco, incluso nel diploma di Ottone II del 983 (32) ed indicante i quindici centri con il nome derivato degli abitanti - non "habitatores" in Rialto, ma "Rivoaltenses" e così via, mancano, rispetto al primo dell'840, Olivolo, Albiola, Fossone; rispetto al secondo del 967, mancano Olivolo, Albiola, Bibione e ci sono in più Chioggia, Brondolo e Fine, per cui il totale risulta sempre di quindici (33). Va sottolineata l'assenza di Olivolo, ormai considerata come un tutt'uno con Rialto.
Giovanni diacono, nella sua cronaca, dopo avere narrato la fuga delle popolazioni, "populi ", di fronte ai Longobardi e la fondazione di "civitates" e "castra" nelle isole della laguna, ricorda dodici insediamenti, sottolineando che metà di essi divennero sedi vescovili (34). Se è superfluo porre in luce l'appiattimento cronologico, va tuttavia posto in risalto che l'elenco riflette una situazione vicina nel tempo, se non coeva, all'età di stesura della cronaca, al periodo cioè fra X e XI secolo.
Gli insediamenti sono Grado, Bibione, Caorle, Eraclea ovvero Cittanova, Equilo, Torcello, Murano, Rialto, Malamocco, Poveglia, Chioggia Minore, che si ritiene possa essere localizzabile presso l'odierna Sottomarina, e Chioggia Maggiore; alla fine ne viene aggiunto un tredicesimo, il "castrum" di Cavarzere, all'estremità sud-occidentale del ducato, che sembra pertanto essere ritenuto quale estraneo o diverso rispetto ai precedenti. La descrizione segue un andamento regolare, da nord-est a sud-ovest.
Pur tenendo presente il valore altamente simbolico del numero dodici, riteniamo che il cronista intendesse descrivere una situazione effettiva, non facilmente riducibile in schemi preconcetti, così che è costretto ad aggiungere, per non tralasciare un dato consistente, il "castrum" di Cavarzere. L'adesione alla realtà del tempo risulta anche dal confronto con gli elenchi presenti nei tre privilegi imperiali sopra esaminati. Rispetto al primo elenco sono tralasciati otto insediamenti: Olivolo, Albiola, Brondolo, Fossone, Loreo, Ammiana, Burano e Fine; vengono aggiunti quelli di Bibione, Poveglia e Chioggia Minore. Alcuni già mancavano negli altri due elenchi: Albiola nel 983, Fossone nel 967 e 983; Fine nel 967. Ammiana e Burano erano invece presenti in tutti e tre: la motivazione della loro assenza può essere ravvisata nel fatto che le due isole sono percepite, ad esempio in fonti cronachistiche più tarde (35), come appartenenti al gruppo insulare di Torcello, qualificate come "vici ".
Distrutta definitivamente Oderzo nel 667, la sede dell'amministrazione della provincia bizantina venne portata ad Eraclea o Cittanova. Un secolo dopo, la sede ducale fu trasferita a Malamocco (36). I duchi metamaucensi si interessarono attivamente dell'area realtina, che rimaneva pur sempre un centro notevole nell'ambito strategico: ne costituisce una prova l'istituzione della sede vescovile in Olivolo, segno in ogni caso di una accresciuta importanza anche sotto l'aspetto demico del gruppo realtino (37). Anche per la situazione idrografica esso si mostrava adatto a ospitare un centro demico importante: come è stato recentemente osservato (38), il nucleo realtino si trovava sulla grande ansa del Canal Grande, che in tale modo lo proteggeva su tre lati, una situazione favorevole che ricorda quelle analoghe di Verona sull'Adige e di Padova sul Brenta.
La 'fortuna' politica di Rialto coincise con la grave crisi dei rapporti tra Bizantini e Franchi nel primo decennio del secolo IX. All'iniziativa del duca Agnello, che intorno all'81 I trasferì la sede del governo in Rialto, non dovette essere estranea l'amministrazione imperiale: un messo bizantino, accompagnato da una forte squadra navale, aveva restaurato, in accordo con il duca Agnello, il controllo politico dell'Impero (39).
La costruzione del castello in Olivolo, l'istituzione della sede vescovile, il trasferimento, soprattutto, del governo ducale segnano tappe iniziali, ma fondamentali, del processo che condurrà il gruppo realtino a divenire la "civitas Rivoalti": a questo processo di crescita 'politica', che implicava crescita economica e sociale, si accompagnarono la progressiva estensione della superficie abitativa, facilitata dalla contiguità degli elementi componenti il gruppo insulare realtino e dalla possibilità di un loro ulteriore collegamento con le bonifiche, che presero avvio fra IX e X secolo (40), e la modifica, anch'essa progressiva, delle strutture dell'insediamento e del paesaggio. Rilevante fu l'iniziativa intrapresa, fra IX e X secolo, in relazione probabile con l'incursione ungarica, dal duca Pietro Tribuno, per la difesa di Rialto e dintorni: egli fece elevare un muro e porre una catena di ferro nell'acqua - continuazione evidente del muro - fra Rialto e il castello di Olivolo, contribuendo in questo modo, annota il cronista, all'edificazione di una "civitas" in Rialto (41).
Dalla cronaca di Giovanni diacono come dall'esame della situazione urbanistica (42) è possibile rinvenire notizie e tracce delle sistemazioni agrarie condotte sull'una e sull'altra sponda del "Rivoaltus", "de ultra" e "de citra", interessanti le zone di Dorsoduro e di Rialto.
Alcuni elementi strutturali offrono possibilità di comprendere il processo di formazione della morfologia urbana. Il "campus" associato costantemente alla chiesa e al "rivus" richiama da un lato la struttura agraria primitiva, dall'altra conferma le tappe dell'evoluzione insediativa, costituita da nuclei di colonizzazione spesso autonomi: i "campi" di superficie maggiore concernono per lo più gli insediamenti più antichi, mentre quelli più piccoli e quelli privi di "rivus" riguardano le colonizzazioni più tarde (43).
Osservazioni ancor più articolate, relative alla condizione sociale dei proprietari, oltre che, secondo il Dorigo (44), alle tappe e alla qualità delle emigrazioni, offre la considerazione delle corti. La corte è inizialmente connessa strettamente alla dimora padronale, della quale costituisce lo spazio interno, adibito a funzioni varie, fra le quali l'abitazione per i lavoratori legati alla famiglia. La maggior parte delle corti a forma quadrangolare è situata nella zona degli insediamenti altomedievali: Rialto, Luprio, Gemine. Quelle a struttura allungata e serializzata nelle zone tarde di bonifica in Olivolo, Dorsoduro, Cannaregio e Giudecca rinviano a una colonizzazione povera e lenta, non guidata dai "possessores" delle prime migrazioni.
Ancora nei secoli XI-XII la zona realtina, che dovrebbe costituire il territorio della "civitas", si presenta con caratteri poco urbani. Sono diffuse le aree occupate dall'acqua: "paludes, pantana, lacunae"; "piscinae" e "piscariae"; "aquae" e "lacus" con "fundamenta salinarum" o "molendina" (45); frequenti sono gli appezzamenti adibiti a colture orticole e viticole (46). Sussiste una concezione legata profondamente al mondo agricolo, che investe anche la superficie adibita ad abitazione: ancora alla fine del secolo XII nella concessione di un terreno per la casa (47) l'affittuario assume l'obbligo di togliere, dapprima, l'edificio esistente, di costruirvi poi un proprio edificio che dovrà anch'esso essere levato allo scadere del contratto.
L'edilizia abitativa si presenta assai povera: solo lentamente appaiono dimore di famiglie di rilievo sociale e politico, strutturate con una certa complessità, preludio degli sviluppi futuri, anche per la zona stessa in cui si trovano, quasi tutte "de citra" (48). Alla fine del secolo XII i soli palazzi esistenti sono quello, tradizionale, del duca e l'altro di S. Silvestro, sede del patriarca di Grado (49). Mancano parimenti tracce di strutture abitative private adibite a dimore fortificate, che possano essere paragonate, per l'altezza e per le tecniche e i materiali di costruzione, alle torri di tante città comunali italiane.
La zona realtina, anche in seguito al forte aumento di popolazione e di relativa concentrazione abitativa, inizia a essere suddivisa negli ultimi decenni del secolo XI in "confinia", che sono modellati sulle circoscrizioni parrocchiali (50), ma non sembra che siano serviti ai fini amministrativi. Per tali fini, invece, alla metà del secolo successivo sono attuate ripartizioni territoriali denominate "trentaciae", forse corrispondenti alle "contradae" (51), che disponevano, le seconde, di ufficiali preposti, "capita contradarum" (52). Un'ulteriore ripartizione amministrativa era rappresentata dai sestieri. "Trentaciae" e sestieri offrivano il supporto territoriale, certamente prima dell'inizio del secolo XIII (53), per l'elezione dei membri del Consiglio Maggiore e del Consiglio Minore.
Il solo documento pubblico che accenni all'esistenza dei "populi" nel ducato è la donazione del duca Agnello al monastero di S. Servolo dell'anno 819, sulla quale torneremo a soffermarci poco oltre. Riferimenti espliciti a "populi" appaiono nella cronaca di Giovanni diacono.
Nella cronaca il termine "populi" è impiegato in occasioni e situazioni differenti: in un caso esso è riferito in modo generico ai gruppi di abitanti che erano fuggiti di fronte ai Longobardi (54) e che popolavano Venezia (55); in un passo indica solo la popolazione complessiva abitante in una circoscrizione diocesana, in ispecie i "populi" della diocesi di Malamocco (56), "populi" pertanto distribuiti per singoli centri insediativi di modesta entità, quelli che nel Regno sarebbero definiti come "vici" e che tali occasionalmente sono qualificati anche nella documentazione veneziana (57). I "populi ", infine, avrebbero svolto un ruolo attivo nell'elezione del duca Pietro Orseolo (58): siamo in presenza, probabilmente, di una voluta amplificazione del ruolo che solitamente l'assemblea dei Veneziani, riunitasi in Rialto, svolgeva quando era convocata per l'elezione di un nuovo duca; nel caso specifico il cronista si propone di sottolineare un consenso 'universale' all'elezione di Pietro II Orseolo, il duca, si badi, al cui servizio operò lo stesso Giovanni diacono (59).
Il termine, come è facilmente arguibile dagli esempi illustrati, non ha un significato proprio né tantomeno costante. Non diversamente esso è impiegato in altre fonti cronachistiche: nell' Origo, ad esempio, appare in occasione della descrizione, idealizzata, dell'opera di riorganizzazione e pacificazione condotta dal duca Paulicio (60).
Una relazione diretta dei "populi" con "civitates" e "castra" è stabilita da Giovanni diacono quando afferma che i primi hanno edificato città e castelli, "civitates" e "castra", fornendo di seguito quell'elenco di tredici località, già da noi considerato nel paragrafo precedente e posto a confronto con gli altri elenchi, che ne riportano un numero più elevato. Ben difficile risulta pertanto - né vi sarebbe spazio per una trattazione eventuale - precisare l'identità e il numero complessivo dei "populi" in relazione ai centri demici maggiori, che variano appunto a seconda degli elenchi: ci limitiamo a segnalare nel paragrafo seguente, senza pretendere di esaurire l'argomento, esempi di 'autocoscienza' e organizzazione di "populi" o meglio di singole comunità, in connessione con aspetti specifici.
Ci sembra opportuno soffermarci a considerare, anche in questo caso in modo rapido, l'impiego dei termini "civitas" e "castrum" da parte del cronista, tanto più che il secondo rinvia immediatamente alla descrizione del Porfirogenito. La questione non è secondaria per i nostri fini, poiché, sulla scorta, per lo più, del termine "castrum", si è attribuito al ducato un "ordinamento castrense" (61).
Giovanni diacono è consapevole della stretta connessione che esiste tra la città e le sue mura, indipendentemente dalla funzione difensiva propria delle mura; oltre a definire in modo generico "civitates" e "castra" quali "munitissima", per alcuni centri egli insiste su tale aspetto: fra gli attributi di Grado sono poste in rilievo le "alta moenia", la "munitio" di Torcello è costituita dalle altre isole che la circondano, quella di Malamocco dal Lido. Particolarmente significativo, in quest'ottica, risulta il passo nel quale viene attribuita al duca Pietro Tribuno l'iniziativa di costruire una "civitas" in Rialto, munendola anzitutto di apparati fortificatori: un muro e una catena sull'acqua (62).
In obbedienza a un "topos" letterario assai diffuso, che esaltava la città anche attraverso le sue mura - è sufficiente ricordare le lodi in onore delle città di Milano e di Verona (63)-, si propone anch'egli di celebrare in tale modo 'tradizionale' le città della sua patria, ponendone in rilievo le difese eccellenti, non importa che queste fossero mura effettiveto o isole e lidi. Le città della Venezia potevano così reggere il confronto con le città del Regno Italico e di altre regioni, particolarmente di quelle affacciantisi sull'Adriatico (64). Non va certo attribuita a Giovanni diacono l'intenzione di porre in luce per il ducato l'attuazione di un processo analogo a quello diffuso nel Regno a partire dal secolo X e noto come 'incastellamento'.
Come le "civitates" e i "castra" di Giovanni diacono, così i "castra", assai numerosi, elencati dal Porfirogenito, stanno a indicare città o centri abitati maggiori, dotati in genere, come le città, di apparati fortificatori. Ché tale è il significato primo del termine "castron" quale appare nelle fonti di tradizione bizantina: ricordiamo le espressioni "civitates et castra", ripetute per tre volte, nel noto "placito di Risano" dell'anno 804, concernente la regione dell'Istria (65), e, soprattutto, l'impiego generalizzato del termine "castron" nel trattato del Porfirogenito per indicare le città e i centri demici maggiori (66), tanto più significativo in quanto nel medesimo trattato non viene assegnato ad alcun centro la qualifica di "civitas", tranne che alla "civitas" o meglio alla "polis" per eccellenza, Costantinopoli (67).
Appare con tutta evidenza come non sia possibile, sulla scorta della qualifica di "castra" attribuita ai centri demici veneziani, proporre analogie con l'evoluzione politica, istituzionale e sociale che avviene nel Regno Italico in età postcarolingia, come è accaduto di proporre al Cessi, il quale è giunto a paragonare la situazione delle popolazioni del ducato, sotto la potestà dei singoli tribuni, fra VIII e IX secolo, a quella delle comunità rurali di terraferma soggette ai signori di castello (68) - ma, precisiamo, non prima del secolo X e quasi sempre nei secoli XI e XII -. Proprio in relazione a questi aspetti, i più rilevanti, possiamo notare le differenze più radicali: nel Regno Italico i centri politici locali erano indubbiamente fra X e XI secolo le città e i castelli. Le prime erano la sede ordinaria dell'ufficio comitale, che, pur in decadenza e privato poi, in molti casi, del controllo effettivo della città, da essa continuava a denominare il suo ufficio e titolo; determinante per il carattere stesso di città era la presenza del vescovo, che si avviava a rivestire un ruolo sociale, economico e politico sempre più ampio. Conti, vescovi e rettori di chiese e monasteri maggiori detenevano, oltre le funzioni specifiche, grosse e numerose proprietà nei territori rispettivi e anche all'esterno di essi, sulle quali erano solitamente state innalzate fortificazioni che erano o si avviavano a divenire centri di signoria rurale e quindi di funzioni e azioni politiche in senso proprio (69).
Siamo giunti così al centro del problema del cosiddetto ordinamento castrense del ducato. Fossero anche esistiti nel secolo X insediamenti che si denominavano quali castelli - ricordiamo che, se prescindiamo dagli elenchi del Porfirogenito e di Giovanni diacono, nella documentazione, pubblica o privata, non compaiono castelli, a eccezione di quelli di Grado e di Olivolo nel secolo IX -, ciò che li distinguerebbe in ogni caso in modo radicale dagli insediamenti castrensi del Regno Italico è l'assenza di un sia pure minimo riferimento a strutture sociali e istituzionali paragonabili a quelle che i castelli sottintendevano. Non vi è necessità, speriamo, di dimostrare che nel ducato non esistono enti ecclesiastici, famiglie o singole persone che detengano in proprietà o in una qualsiasi forma di concessione castelli o villaggi delle isole o dei lidi del ducato, né esercitino la giurisdizione sulle comunità ivi abitanti (70).
Già il Besta (71) aveva sottolineato - ed è stato recentemente ribadito dallo Zordan (72) - che è assente nel territorio del ducato ogni elemento che suggerisca l'esistenza del "servaggio della gleba" ovvero delle condizioni di soggezione giurisdizionale per larga parte degli abitanti delle campagne, proprietari o meno, che caratterizzano le regioni di tradizione longobardo-franca. Nemmeno sono rintracciabili aspetti che denotino la soggezione dei coltivatori di terra altrui a poteri limitati di natura signorile, concernenti, ad esempio, le manifestazioni minori dell'esercizio della giustizia, quegli attributi che sono propri di quella che si definisce "signoria fondiaria " (73).
La situazione veneziana non solo non trova analogie con alcun'altra dell'Italia centro-settentrionale di tradizione longobardo-franca; ma nemmeno ne trova - aspetto di maggiore rilievo - con la situazione presente in un'altra regione di tradizione romanico-bizantina, la "Romania" comprendente Esarcato e Pentapoli. In quest'area, pur diffondendosi tardi e in misura limitata il fenomeno dell'incastellamento, si verificò quello della costituzione delle signorie territoriali, soprattutto sui domini della chiesa ravennate; fu presente in modo diffuso la signoria fondiaria, i cui diritti non furono propri solo degli enti ecclesiastici, ma anche di molti signori laici: essa derivava dalla imposizione, attraverso la stipulazione dei contratti di livello, dell'obbligo per i coltivatori liberi, "coloni", di sottostare alla potestà giudiziaria del proprietario per gli aspetti minori dell'esercizio della giustizia stessa (74).
Ribadiamo: nessuna traccia sussiste nei territori veneziani dell'esistenza di tali fenomeni, nemmeno dell'avvio del processo. E' vistosamente assente poi l'altro elemento costitutivo della signoria territoriale nel Regno, elemento che è materialmente e con immediatezza rappresentato dal castello. Mi riferisco, ovviamente, al potere militare, detenuto dal signore, esercitato, oltre che con la capacità di difesa e di offesa del castello stesso, mediante la disponibilità di ben armate schiere di guerrieri, i milites di professione ovvero i vassalli, al signore legati da un giuramento di fedeltà, rivolto precipuamente all'esplicazione di servizi militari. Di vincoli vassallatico-beneficiari come di rapporti feudali non c'è traccia nel ducato veneziano.
Centri insediativi, alcuni dei quali con un passato di vicende anche importanti - ci riferiamo soprattutto a quelli già sede del governo: Eraclea-Cittanova e Malamocco -, descritti nei vari elenchi, sedi, almeno una metà di questi centri, di una chiesa vescovile e quindi a capo di un territorio diocesano, e "populi", menzionati in modo generico o in relazione a "civitates" e "castra", sono gli unici elementi a nostra disposizione per trattare dei "populi" avanti il Mille.
Assai poco, invero, sia per accertare l'esistenza di "populi" identificabili con un nome collettivo e ancor più nella coscienza che essi avessero avuto di una loro identità, sia, il che è ancora più arduo, per poter conoscere gli aspetti interni di una loro eventuale organizzazione avanti il secolo XI.
I soli aspetti, che possiamo cogliere, in modi non certo approfonditi e limitati per quantità, concernono l'esistenza di territori con confini tendenzialmente stabili - l'esistenza di un territorio è, d'altronde, la prima condizione per l'identificazione della presenza eventuale di "populi" ovvero di popolazioni organizzate all'interno del ducato -, i diritti di proprietà sui beni comuni (75) e i diritti collettivi di sfruttamento di terre incolte che gli abitanti di alcuni centri hanno o pretendono di avere. Tali aspetti appaiono strettamente connessi fra loro, come mostra con immediatezza la scarsissima documentazione altomedioevale disponibile.
Un capitolo del cosiddetto patto di Lotario dell'840 ci informa che nella prima metà del secolo VIII, durante il regno del re longobardo Liutprando, si procedette, certamente dopo un periodo di conflitti e attriti, a una delimitazione sul terreno fra il territorio di Cittanova, già Eracliana, e quello del Regno (76), in particolare nelle zone verso Treviso e Belluno, come documenti posteriori indicheranno (77). L'accordo fu confermato dal re Astolfo nella forma di una "elargizione" ai " Civitatini Novi".
Un secondo capitolo (78) concerne, come altri che lo precedono e lo seguono, i diritti di sfruttamento delle superfici incolte: viene riconosciuto agli abitanti di Cittanova di pascolare i loro greggi sulle terre di "proprietà" loro, fino al segno di confine posto dal duca Paolo e dai "Civitatini Novi", secondo quanto era stato stabilito nell'accordo citato, "sicut in pacto legitur".
Altri capitoli del "patto di Lotario" concernono la conferma della facoltà di raccogliere legna - "habeant licentiam capulandi, sicut [...> habuerunt consuetudinem" - in territorio trevigiano per gli abitanti di Rialto, Olivolo, Murano, Malamocco, Albiola, Torcello (79); in territorio friulano per quelli di Caorle (80) e di Grado, "de Gradensi civitate" (81). Per gli abitanti di Equilo, che hanno anche la facoltà di pascolare i loro greggi, la concessione di raccogliere legna è accompagnata da disposizioni dettagliate.
L'antica questione dei confini fra Cittanova e i territori limitrofi del regno torna ad accendersi verso la fine del secolo X, in seguito all'attività espansionistica della chiesa vescovile di Belluno. In alcune sedute giudiziarie, che si svolgono in località della Marca Veronese (82), sotto la presidenza del duca della Marca, di messi imperiali o di messi del duca, viene fatto ripetutamente riferimento alla "terminatio" dell'epoca liutprandina. Orbene, a rappresentare i diritti degli abitanti di Cittanova sono le massime autorità locali: nel secolo VIII il "magister militum", alla fine del secolo X un avvocato del duca, Maurizio Morosini, membro di una famiglia veneziana di ceto elevato. Ai primi due placiti assistono personaggi veneziani, in numero variato, ma nessuno viene connotato attraverso un riferimento a Cittanova né alcuno sembra abitarvi. Anche della somma, stabilita dal banno, da pagarsi in caso di infrazione, mentre una metà va, secondo la consuetudine, alla camera imperiale, l'altra viene attribuita al duca e al suo ducato, non, come era consueto nel Regno, a coloro che avevano ricevuto il danno: in questo caso si sarebbe trattato degli abitanti di Cittanova danneggiati.
La soggezione diretta del "populus ", se così vogliamo chiamarlo, agli ufficiali detentori dei poteri connessi al governo della provincia prima - il "magister militum" -, del ducato poi, non viene meno a distanza di quasi tre secoli. Il 'silenzio' dei Civitatini appare tanto più significativo in quanto, dalla parte del Regno, l'avversario, rappresentato da un potentato locale, il vescovo di Belluno e la sua chiesa, anche se certamente non fra i maggiori della Marca (83), mostra di essere in possesso, non importa se per fini legalmente validi o meno - ancor più nel secondo caso -, di capacità di iniziativa, che, oltre agli interessi propri, coinvolge quelli di un "ducatus" esterno al Regno Italico e i patti, plurisecolari, che fra i due 'stati' erano intercorsi e intercorrevano; una iniziativa che possiamo pertanto definire latamente come 'politica'.
Nel secolo XII notevole autonomia di iniziativa in difesa dei confini del proprio territorio mostra la comunità di Chioggia. In numerose occasioni essa sostiene controversie contro i Padovani per la definizione dei confini verso occidente, lungo l'Argine Gastaldo (84). Non appaiono interventi dell'autorità ducale o di magistrati del comune veneziano, anche se in alcune occasioni i luoghi ove le testimonianze vengono rese, Rialto e Murano, sembrano suggerirne la possibilità.
Diritti collettivi e anche proprietà comuni sono testimoniati nel secolo XI attraverso documentazione di natura pubblica, quali i privilegi dei duchi elargiti per fissare, in modi certi, diritti e doveri degli abitanti, o attraverso la documentazione di natura privata, quali vendite o donazioni di beni comuni. Gli stessi documenti ci offrono la possibilità di conoscere, in alcuni casi, aspetti dell'organizzazione pubblica interna e delle procedure di esercizio della giustizia.
Con cautela possono essere presi in considerazione, anche se falsificati o fortemente sospetti, quelli che si presenterebbero come i documenti più antichi: il "patto" di Loreo dell'anno 1000 e i "patti" di Chioggia del 1023.
Nel primo (85) i Loretani tendono a farsi riconoscere i diritti sulle terre incolte - "palus", "canale", "tumba", "littus de mare", "silvae" - del loro territorio, già in proprietà, "possessio et dominium", del duca, che avrebbe promesso di rinunciarvi a loro profitto. In quelli di Chioggia (86) gli abitanti ricevono l'uso di porti, acque, saline.
Nel "patto" di Cittanova, non sospetto, anche se variamente datato (87), il duca concedeva l'uso di paludi e selve nel territorio eracleese. In quello di Loreo del 1094 viene concesso agli abitanti lo sfruttamento del bosco ducale ed è riservata a essi la peschiera.
Documentazione di natura privata, assai scarsa, parziale e discontinua, eccettuata quella relativa a Chioggia, testimonia, come accennavamo, l'esistenza di beni comuni in proprietà alle comunità.
Gli abitanti di Malamocco Vecchia, prima del loro trasferimento in Malamocco Nuova, godevano in comune dello sfruttamento di ampie distese di acque, che sembra si estendessero dalla zona dell'antico porto di Malamocco e di Poveglia (88) fino a S. Nicolò, non lungi dalla zona di Rialto, a nord (89): vi potevano pescare solo coloro che ne avevano ricevuto licenza dalla comunità (90).
In due occasioni il "populus" di Equilo dona beni comuni a un monastero (9') e alla sua chiesa vescovile (92).
Interessi comuni per lo sfruttamento delle acque sono propri degli abitanti della pieve di S. Lorenzo di Ammiana. In un primo tempo, fra XI e XII secolo, essi sostengono contro il monastero dei SS. Felice e Fortunato gli interessi del plebano della chiesa di S. Lorenzo "de plebatu Amianensium" (93): si noti il termine, non consueto nel ducato, che sottolinea la coincidenza fra il territorio soggetto alla circoscrizione plebana e i suoi abitanti. Alla fine del secolo pagano un censo in denaro al monastero benedettino femminile, ivi fondato nel 1185 (94), per lo sfruttamento di acque peschive (95); la maggior parte di queste acque, invero, era stata accaparrata dalle famiglie maggiori di Ammiana, "antiquiores et nobiliores" (96), che difendono con decisione i loro diritti (97).
All'estremo limite meridionale del ducato, a Loreo, nella prima metà del secolo XII il gastaldo e due giudici, con tutti i "vicini", concedono a un privato una terra "de ipso nostro communo", per volontà del "populus" e per il vantaggio della loro "patria": "propter honorem et proficuum eiusdem patrie" (98). Poco dopo gastaldo, giudici e "populus" di Loreo donano al monastero della SS. Trinità e di S. Michele di Brondolo una "posta" di molino su un loro canale; fra le clausole notiamo, da una parte, l'obbligo per l'abate di concedere alla "convicinancia" il libero accesso al canale, dall'altra la facoltà concessa al mugnaio o all'inviato dell'abate di sfruttare la zona come uno dei vicini: "intus debeat piscare, aucellare et caciare sicut unus ex nostris vicinis" (99).
In Pellestrina, una località a volte definita "vicus" (100), dotata di un proprio territorio, "confinium" (101) o "provincia" (102), territorio che a volte viene designato facendo ricorso alla circoscrizione della pieve locale (103), è accertabile l'esistenza di beni comuni a disposizione della comunità locale fin dalla prima metà del secolo XI. Anteriormente al 1037 si era svolta al cospetto del tribunale del duca una controversia per il possesso di una "palus" e un'"aqua" fra gli "homines de Pelestrina" e i Chioggiotti, che si era risolta con sentenza favorevole ai secondi (104). Nel secolo seguente il "populus", attraverso il suo gastaldo, dona terre a un Veneziano, Rigo Gradenigo, che ha acquisito benemerenze nei suoi confronti (105).
La documentazione più ampia e più antica per l'esistenza e la gestione dei beni comuni proviene dall'area di Chioggia; essa mostra nel contempo, se prescindiamo dai 'patti' sopra esaminati, l'erosione continua cui vanno soggetti questi beni.
Fin dal 1027/1028 (106) un foltissimo gruppo di abitanti di Chioggia Maggiore e Minore dona una "taliadicia" sul Brenta, scavata dai loro progenitori, al monastero della SS. Trinità e di S. Michele di Brondolo. Il fatto testimonia da una parte la capacità organizzativa della comunità, dall'altra la possibilità di intervento in un ambito tradizionalmente pubblico, come quello delle acque.
Nel 1049 oggetto di una controversia fra un Orseolo e i Chioggiotti è una vasta zona presso l'Argine Gastaldo, solcata da canali, sfruttata soprattutto per la pesca (107), controversia che si riaccende in seguito (108). Quattro anni dopo una terra di proprietà del "populus" viene venduta a un Chioggiotto (109).
Altre controversie si svolgono con il monastero di Brondolo (110): nel 1087 per un'"aqua" che, assegnata al monastero in seguito a una sentenza del duca e dei suoi giudici, viene da questo affidata al "populus" delle due Chiogge, previo pagamento di 300 lire e di 500 moggi di sale (111). Atti concernenti i beni comuni continuano per tutto il secolo seguente.
Non abbiamo notizie di organizzazione amministrativa dei "populi" e delle singole comunità locali fino al Mille. Nel secolo XI è possibile constatare la partecipazione attiva di larghe rappresentanze dirette dei "populi" alla gestione dei beni comuni e ad altri atti di rilievo che interessino la comunità, con o senza l'intervento di ufficiali locali, come negli atti compiuti dal "populus" di Equilo nel secolo XI.
Gli esempi più numerosi provengono, ancora una volta, da Chioggia. Di rilievo il primo (112): una donazione al monastero di Brondolo è sottoscritta da ben centoventicinque Chioggiotti, per i quali agisce Stefano Centraco, che non è connotato da alcuna qualifica pubblica. In un documento del 1049 (113) Stefano Centraco, definito gastaldo, è assistito da ventisei Chioggiotti, che poi sono segnati nell'escatocollo quali testi. L'anno seguente (114), accanto al medesimo gastaldo, appaiono ventisette Chioggiotti.
La partecipazione diretta di gruppi di abitanti cessa presto, pur continuando il gastaldo e gli altri ufficiali a dichiarare di agire con il consenso del "populus" particolarmente negli atti che concernono beni comuni e diritti collettivi (115).
La crescita della popolazione e il processo di differenziazione di condizioni economiche e sociali fra i centri del ducato, che vede vieppiù accentuato il ruolo commerciale, sociale e politico del centro realtino con alcuni altri a esso vicini - ne riparliamo -, porta da un lato alla necessità, per i centri maggiori, di darsi un'organizzazione interna stabile ai fini di una migliore gestione dei beni comuni: anzitutto, quei beni comuni che l'aumento della popolazione e l'espansione della proprietà degli enti ecclesiastici e delle famiglie veneziane, non più limitate alle poche antiche, tendevano a ridurre, compromettendo una grossa risorsa economica, nonché ai fini dell'amministrazione della giustizia; dall'altro, per il governo ducale, all'opportunità di non allentare in modo grave il controllo sulle comunità minori del ducato, particolarmente su quelle che erano situate alla periferia e che, per le loro stesse vicende storiche, potevano tornare ad aspirare a una pericolosa autonomia.
Il compromesso fra le diverse tendenze ed esigenze viene conseguito attraverso l'evoluzione dell'istituto gastaldale, per cui il gastaldo da ufficiale ducale con compiti fiscali, quale appare ancora nel secolo XI (116), diviene rettore di una comunità e tramite della stessa con il potere centrale: nel privilegio per Cittanova del 1024 è già prevista la possibilità che il gastaldo sia originario del luogo, mentre quella che sia di altra provenienza è posta in secondo piano (117).
Settant'anni dopo, nel privilegio per i Lauretani, il duca promette che non nominerà alcun gastaldo - come il plebano -, se non quello che essi gli avranno richiesto (118): un accordo che mostra, per via indiretta, come la nomina del gastaldo, il maggiore ufficiale pubblico a livello locale, spettasse ancora al governo ducale, la cui scelta tuttavia viene ora decisamente limitata, potremmo dire annullata, dalla facoltà di designazione concessa alla popolazione locale.
Sotto questo aspetto il 'patto' di Loreo può essere avvicinato a tanti altri 'patti' che iniziano ad apparire nella seconda metà del secolo XI nelle regioni settentrionali del Regno Italico, stipulati tra signori e comunità rurali, solitamente organizzate attorno a un castello: uno degli elementi ricorrenti nelle pattuizioni concerne appunto l'elezione dell'ufficiale locale, che non dovrà più essere solo il delegato del signore, ma anche il rappresentante degli interessi della comunità (119). Analogo, ma parziale, accostamento può essere fatto per gli obblighi di costruzione e difesa del castello. Un accostamento solo parziale, in quanto gli obblighi dei "castellani" di Loreo sono inseriti in una prospettiva di difesa più ampia e generale del ducato, come il duca stesso sottolinea con forza ed evidenza, non prive di efficacia oratoria: compito precipuo dei principi è provvedere all'edificazione di "munitiones ", "castra tuta" e "firmissimae civitates" per assicurare la propria potenza, mantenere la pace, incutere rispetto ai violenti.
Altra documentazione fra XI e XII secolo menziona gastaldi di Cittanova (120), Fine (121), Loreo (122), Pellestrina (123), lido "Bovensis" o Maggiore (124), Poveglia (125), Cavarzere (126).
Un caso a parte rappresenta il gastaldo di Dorsoduro, attestato nel 1140 (127). È con tutta probabilità da porre in relazione alla colonizzazione intrapresa nei secoli precedenti dai duchi (128) e dall'insediamento probabile (129) di "excusati" nell'isola, la cui persistenza è testimoniata nel secolo XIII, retti ancora da un gastaldo e soggetti a tributi in pesci per il doge (130).
La documentazione chioggiotta è la più ricca anche per la presenza di gastaldi. Il primo, Giovanni Centraco, appare nel 1049 (131). Egli appartiene a una famiglia di rilievo nella comunità locale: un suo consanguineo - non conosciamo il rapporto preciso di parentela - era alla testa, due decenni prima, di una foltissima rappresentanza di Chioggiotti in occasione di una donazione al monastero di Brondolo, ma non era contraddistinto da alcuna qualifica funzionale (132), il che potrebbe significare, secondo un'ipotesi che ci sembra plausibile, che la comunità non aveva ancora espresso dal suo interno un gastaldo quale suo rappresentante stabile, non negandosi perciò che potessero agire all'occorrenza ufficiali ducali denominati gastaldi. Gastaldi (133) che agiscono per il "populus" delle due Chiogge riappaiono nel 1067 (134), nel 1087 (135) e nel 1088 (136).
Con il secolo XII la struttura di governo locale diviene più complessa. Appaiono i giudici, che, ancor più che in Venezia, non erano esperti formatisi alle scuole di diritto: tanto poco preparati erano tecnicamente che alcuni di loro giungevano a dichiarare di non sapere scrivere (137). Nell'anno 1101 accanto al gastaldo Domenico Buffo sono due giudici, ancora in qualità di testimoni di atti privati (138). Nel 1137 il gastaldo Domenico Viti vende beni comuni: egli è assistito da cinque giudici e da quattro altre persone, in rappresentanza di tutto il popolo chioggiotto, che non ricompare menzionato nell'escatocollo (139). Nel 1142 il gastaldo Giovanni Bolli effettua una vendita di beni comuni, assistito da tre giudici e da tre "vocatores" (140).
I giudici di Chioggia pronunciano la sentenza che il gastaldo conferma: "Hec rationes nos [scil. tre giudici> audientes et videntes iudicavimus per legem et suprascriptus gastaldio confirmavit [...>" (141); "nostri iudices dixerunt per legem et iudicium et nostro gastaldio confirmavit" (142); "per legem iudicum nostrorum et per preceptum de [...> gastaldio" (143). Come ha notato il Roberti (144), procedura e costituzione della curia sono simili a quelle veneziane.
Parallelo è il processo di sparizione, come abbiamo notato sopra, di rappresentanze dirette del "populus", processo già in atto nella seconda metà del secolo precedente: un fenomeno che ricorda, anticipandolo, quello in atto a Venezia, assai più complesso.
Dopo la metà del secolo appare un'altra magistratura locale, il decano, ufficiale inferiore al gastaldo, incaricato di eseguire le sentenze del gastaldo stesso (145) o del duca (146); poco dopo, oltre agli "avocatores/vocatores", cui abbiamo accennato (147), sono presenti i "procuratores", rispettivamente tre e nove nel 1165 (148); mentre fra "iurati" e "procuratores" sono sedici nel 1166, oltre al gastaldo e ai giudici (149).
Per la maggiore complessità, relativamente agli altri centri minori, della sua organizzazione interna Chioggia si presenta nel secolo XII come il solo 'comune' del ducato (150), non paragonabile tuttavia al comune veneziano o ai comuni cittadini della terraferma.
Mentre a Venezia, ad esempio, comincia ad affermarsi "il concetto di personalità giuridica dello Stato" (151), la cui organizzazione, sempre più complessa e articolata, si basa su organismi rappresentativi stabili, che possono agire, per i fini generali, a volte anche contro l'interesse dei singoli cittadini, gli organismi delle comunità minori non possono difendere gli interessi delle loro comunità oltre certi limiti, non potendo, ad esempio, agire contro il governo centrale, che, se non li ha eletti, ne ha tuttavia approvato l'elezione e li ha investiti dei loro poteri, poteri limitati negli ambiti amministrativo e giudiziario, poiché sempre subordinati a quelli del governo ducale (152). La sovrapposizione all'attività giudiziaria locale da parte del governo centrale, ovvero del duca e dei suoi giudici, anche se di per sé il diritto di appello non è contemplato negli atti delle magistrature locali, è deducibile con immediatezza fin dai primi documenti sopra considerati, nei quali in più occasioni appaiono agire il duca e i suoi giudici o altri atti vengono eseguiti in forza di loro sentenze.
I gastaldi finora considerati sono presenti in centri con caratteri, già da tempo assunti o in via di assunzione, spiccatamente rurali, lontani anche spazialmente - tranne quello di Dorsoduro, forse a capo degli "excusati" - dalla "civitas" di Rialto o di Venezia. Si discosta da tale situazione la presenza di gastaldi in Torcello tra XI e XII secolo, quale appare, soprattutto, in un atto, un "breve recordacionis", che riporta l'"iter" complesso di una vicenda giudiziaria concernente una lite fra l'abate del monastero dei SS. Felice e Fortunato di Ammiana e il plebano della locale pieve di S. Lorenzo per una proprietà denominata "Cenegia" (153).
Bono Aurio di Costanziaco, "gastaldio Torcellensis", rievoca, in Torcello, le vicende degli ultimi anni relative alla lite accennata. Egli ricorda che, quando intorno al 1902, Pietro Marcello, gastaldo di Torcello, era stato inviato dal duca Vitale Falier a Costantinopoli (154) e il "gastaldatus Torcellensis" era stato affidato "ad regendum" al giudice Badovario Aurio di Burano, che aveva provveduto a definire la controversia fra i due enti ecclesiastici, che da parte loro avevano accettato la sentenza, impegnandosi reciprocamente all'osservanza, fideiussore degli atti fu Domenico Quirino. Il "breve", che ne venne redatto, fu sottoscritto in qualità di testimoni, oltre che dal giudice Badovario Aurio e da Domenico Quirino, dal gastaldo Pietro Marcello e da molti altri, non nominati espressamente.
Se ne deduce che Pietro Marcello, tornato a Costantinopoli, aveva riassunto l'ufficio di gastaldo, che aveva poi lasciato, per cui gli era successo Bono Aurio: il tutto era avvenuto avanti la redazione della testimonianza, "recordacio" di Bono Aurio gastaldo, che costituisce l'oggetto dell'atto del novembre Io96. Bono Aurio era forse parente del giudice Badovario Aurio. Tutti e tre gli ufficiali pubblici coinvolti abitano o abitavano in località della diocesi di Torcello: i due Aurio a Costanziaco e Burano; la famiglia di Marcello a Torcello (155).
L'ufficio gastaldiale sembra costituire una tappa di un "cursus honorum" che nel caso di Pietro Marcello si conclude con la designazione a giudice, quale egli appare negli anni 1099-1107 (156). Ciò rende ragione anche della possibilità di assunzione temporanea dell'ufficio da parte del giudice Badovario Aurio di Burano, che lo restituisce al legittimo detentore al momento del suo ritorno in patria; Pietro, proprio in forza della detenzione dell'ufficio gastaldiale, approva la sentenza assieme a molti "boni homines" della "parochia" ovvero della circoscrizione plebana di S. Lorenzo di Ammiana: lo si deduce non solo dall'averla egli sottoscritta con "plures homines", come ricorda nel 1096 il gastaldo Bono Aurio di Costanziaco, ma anche da un'altra fase della lunga vertenza. Fra i "breviaria", presentati nell'anno 131 (157), viene espressamente ricordata una "brevis cartula" credo si tratti non dell'atto del Io96, ma di altro consimile concernente la stessa questione -, nella quale erano riportati il giudizio del giudice Badovario Aurio e la conferma del gastaldo Pietro Marcello "cum multis hominibus illius parochie". Va rilevato l'impiego del termine tecnico "confirmare" in relazione all'approvazione del gastaldo: esso appare normalmente in relazione alle sentenze emesse dai giudici delle curie minori, per la cui esecuzione è necessaria la "confirmatio" del gastaldo - per esempio, a Chioggia (158). Lo stesso termine è impiegato per designare l'approvazione del duca alle sentenze emesse dai giudici della sua curia: un esempio immediato è costituito dal documento ora citato del 1131, che riprendiamo in considerazione.
In quest'anno il plebano di S. Lorenzo torna a convocare in giudizio, ora direttamente presso la curia ducale, l'abate del monastero dei SS. Felice e Fortunato di Ammiana, per lo stesso oggetto: i diritti di pesca su "terra et aqua Cenegia". Come abbiamo testé esposto, vengono presentati e letti numerosi atti anteriori relativi alla vertenza e con il medesimo esito sfavorevole.
Non c'è alcuna traccia, questa volta, della presenza di un gastaldo, mentre sono ricordati i "vicini" nel momento in cui il plebano presenta, assieme a loro, i propri "breviaria" alla curia. Né abbiamo rinvenuto menzione di altri gastaldi per Torcello nel secolo XII, come per lo stesso secolo non ne abbiamo rinvenuto per le località del gruppo realtino. Né può essere condivisa l'affermazione del Roberti circa la presenza nel 1131 di un giudice in Torcello (159): l'affermazione è imputabile a una svista dello studioso, il quale ha scambiato per un giudice del 1131 quel Badovario Aurio giudice dell'atto del 1096 che viene ricordato anche nel 1131.
L'ultima menzione, da noi rinvenuta, di un gastaldo in Torcello concerne ancora Bono Aurio di Costanziaco, "Torcellensis gastaldio". Questi nel 1105, essendo vacante la sede vescovile di Torcello del suo titolare (160), loca ai "consortes" di Littore Albo un "fundamentum" di saline.
Ciò che contraddistingue queste aree più 'urbanizzate' è la mancata affermazione dell'istituto gastaldale, quale espressione dell'amministrazione locale e della sua successiva strutturazione in un organismo di una certa complessità, come avviene, in gradi diversi, per le curie dei centri minori (161): ci riferiamo anzitutto a Chioggia, ma anche a Loreo e Pellestrina - gastaldo e giudici - e a Cavarzere - gastaldo, con soli e giudici -. La differenziazione, quale appare nel secolo XII, può essere la conseguenza di un controllo diretto da parte del governo ducale nelle prime aree, il che è ben ravvisabile anche nella vicenda dei gastaldi di Torcello, mentre sulle seconde il controllo viene attuato attraverso le magistrature locali.
Che tale controllo fosse da tempo in atto lo mostra anche la politica fiscale, che si realizza attraverso l'imposizione diretta sulle prime aree, come è documentato fra X e XI secolo: coloro che corrispondono la decima - ne trattiamo nel paragrafo seguente - abitano nel gruppo realtino, nell'antica capitale Malamocco, nel gruppo torcellano - Torcello, Murano, Costanziaco, Burano - e, assai pochi, quattro in tutto, in Equilo e in Grado; della regione settentrionale manca Cittanova; di quella meridionale mancano Pellestrina, Chioggia, Loreo e Cavarzere, per limitarci alle maggiori. Buona parte delle località assenti - Chioggia, Cittanova e Loreo - sono quelle alle quali vengono concessi dal duca nel secolo XI i privilegi, dei quali abbiamo trattato.
Un indizio ulteriore in questa direzione è fornito dalla considerazione delle famiglie i cui membri rivestono l'ufficio gastaldale. Mentre i gastaldi di Torcello partecipano, più o meno attivamente, essi stessi e membri delle loro famiglie, alla vita pubblica del ducato e si trasferiscono, prima o poi, nel centro realtino - sicuramente i Marcello, forse gli Aurio, se sono indentificabili, quelli di Burano con quelli della città -, i gastaldi delle altre località e le loro famiglie sono e rimarranno confinati nei rispettivi ambiti locali (162).
La constatazione che, anche dopo il trasferimento definitivo della sede ducale in Rialto e l'avvio del processo di immigrazione, famiglie di rilievo sociale e politico continuano a risiedere in altri centri del ducato, è stata e rimane occasionale, per il fatto, soprattutto, che i sottoscrittori agli atti ducali non sono connotati in genere da una specificazione territoriale. Né la scarsa documentazione privata ci è d'aiuto per i secoli IX e X; pochi indizi offre per il secolo XI; più ampi per il secolo XII, quando si generalizza l'uso della indicazione del luogo di residenza, a volte di provenienza, soprattutto nei documenti di carattere commerciale.
La sola documentazione pubblica, limitata e frammentaria, degli ultimi decenni del secolo X, che ci permette di trarre alcune scarse indicazioni circa la partecipazione delle loro famiglie alla vita pubblica del ducato e alcuni indizi circa eventuali processi di immigrazione in Rialto, è costituita dagli elenchi di coloro che furono sottoposti al pagamento della decima, un tributo sul patrimonio versato "pro salute patriae ".
Il primo documento, poco più che un frammento, concernente l'esazione delle decime (163) risale al ducato di Pietro I Orseolo - anni 976-978 - e reca solo cinque nominativi: un contribuente dichiara sotto giuramento di avere già versato durante il ducato del Candiano, mostrando così che il sistema contributivo era da tempo in atto. Fra i cinque nessuno è qualificato attraverso il nome di una località: nel confronto con la documentazione successiva, possiamo avanzare l'ipotesi che essi abitino nella zona realtina.
Durante il ducato di Vitale Candiano - anni 978-979 - i contribuenti, in tutto diciotto (164), provengono per un terzo da località non realtine: di essi cinque sono di Malamocco, uno di Albiola. Durante il ducato di Tribuno Memo - anni 979.991 (165) - il 26% dei settantatré contribuenti risiede in località fuori Rialto: due terzi provengono da Malamocco; altri da Equilo, Torcello, Costanziaco, Murano.
Delle decime esatte da oltre un centinaio di contribuenti durante il ducato di Pietro II Orseolo fra X e XI secolo (166) il 30% è corrisposto da abitanti di località fuori Rialto; di questi un terzo proviene da Malamocco; due terzi da altre località, fra le quali Grado, Iesolo, Albiola e, vicine a Rialto, Costanziaco, Torcello, Burano, Murano, Ammiana.
Diamo un rapido ragguaglio della presenza fra i contribuenti di persone appartenenti presumibilmente a famiglie risiedenti nel gruppo insulare realtino (167), i cui membri, in tutto quarantasei, appaiono in documenti pubblici della seconda metà del secolo X (168): Daneo, Magni, Dandolo, Bradan, Succogullo, Trodogio, Nimicani, Fumaria, Gradenigo, Barbadico, Bonoaldo, Marini, Bragadino, Greco, Bentanelli, Rosso, Saponario, Martini, Minio, Baio, Zopulo, da Molino, Cavallo, Zeno, Albini, Boiso, Paolo/Polo, Fuschelli, Orseolo.
Meno numerosi, perché anche tali in assoluto, sono i membri di famiglie risiedenti in altre località del ducato, che pure appaiono nella documentazione pubblica dello stesso periodo: operiamo una distinzione tra le presenze che trovano rispondenza nel secolo X e quelle che appaiono solo tardi, dalla fine del secolo XI al secolo XII, anche avanzato.
I nominativi di famiglie che trovano rispondenza nel primo periodo sono di Malamocco: Eliadi; "Zenonis"; Buzario; Franco; Marinesco; Memmo; Barbani.
Appaiono solo in periodo più tardo i seguenti nominativi di famiglia: Serzem di Malamocco, che richiama i Serzi; Barbaromani di Malamocco; Domenico Georgio Gambasirica di Costanziaco accostabile ai Dongeorgio Gambasirica; Diesenove di Murano (169); Mingolo di Malamocco; Businiaco di Malamocco; Pentani di Murano; Georgio di Malamocco; Dondi di Ammiana.
Considerando le persone qualificate da nomi di famiglia, non equivoci, per le zone non realtine, con indicazione cioè della località, appaiono quarantuno persone. Di queste compaiono nei documenti pubblici i nomi di famiglia di diciassette persone, meno della metà: otto a partire dalla seconda metà del secolo X; nove nel secolo XII.
Le persone senza indicazione di località e da noi attribuite, con errori inevitabili, alla zona realtina, sono centoventuno. Compaiono nella documentazione pubblica le famiglie di settantuno persone, più della metà: quarantuno sono presenti in documentazione della seconda metà del secolo X e del successivo; trenta solo nella documentazione più tarda.
Nonostante la diseguaglianza delle presenze delle due zone rispetto al totale - quarantuno e centovetinove rispetto a centosettanta, cioè di un quarto e di tre quarti -, la differenza rispetto alla partecipazione agli atti pubblici non è grande, pur essendo più consistente per la zona realtina.
La considerazione che, complessivamente, la metà del totale, ottantadue su centosessantadue, delle persone connotate dal nome di famiglia, non appare nel periodo coevo né in quello posteriore nella documentazione pubblica fino al secolo XII, conferma che larga parte della popolazione veneziana, pur non indigente - agli indigenti non venne richiesto probabilmente il pagamento della decima -, non partecipava nemmeno in modo passivo agli atti della vita pubblica. Né è dato scorgere una differenziazione rilevante fra abitanti delle isole del gruppo realtino e quelli delle altre zone del ducato. Ciò indica che i due processi di inurbamento e di restringimento 'geografico' all'area realtina della partecipazione alla vita pubblica e, ancor più, di quella politica in senso proprio, non sono ancora avviati in modo ampio, come sarà invece per l'età precomunale e, soprattutto, la prima età comunale. Alcune esemplificazioni possono essere portate anche dal confronto tra la documentazione sulla decima e quella posteriore, per lo più di natura privata.
Da Malamocco si sarebbero trasferiti in Venezia Serzem(170); Mingolo(171); Barbani(172); Businiaco(173); Georgio(174); Vittore(175). Le nostre supposizioni sono basate in prevalenza sull'identità delle famiglie, ma sappiamo che l'omonimia frequente può trarre in inganno. Per superare questa grave difficoltà, non rimane altra via che constatare, attraverso altri indizi, il trasferimento effettivo di singole persone identificate con certezza ed, eventualmente, dei loro gruppi familiari dai centri minori a quello realtino; ma ciò sarà possibile solo quando potremo disporre di una documentazione che offra indizi più sicuri, il che ci conduce a un periodo ancora più tardo, verso il pieno secolo XII.
Una prima indicazione circa la struttura delle società dei centri minori è fornita dalle espressioni generiche, ma non semplicemente di formulario, come subito vedremo, che segnalano la composizione del "populus" presente agli atti più importanti, specificandola in "maiores", "mediocres" e "minores", espressioni usuali per il periodo, anche nella Venezia dei secoli X-XI (176). Che esse indichino una stratificazione sociale effettiva è provato indirettamente dal ritrovarle applicate solo per gli abitanti di tre centri fra i più popolosi del ducato: Equilo, Murano e Chioggia.
I documenti che qualificano il "populus" delle due Chiogge da maggiore a minore sono numerosi nel secolo XI (177), spariscono nel successivo: l'ultimo da noi rinvenuto è del 1137 (178). Anche per quest'aspetto la situazione di Chioggia si mostra vicina a quella di Venezia.
Non riteniamo necessario soffermarci con ampiezza sull'individuazione delle famiglie maggiori, alle quali appartengono gastaldi e giudici. Nonostante le frequenti omonimie con famiglie veneziane, non sembra che le famiglie di Chioggia siano state attive nella vita pubblica di Venezia né che ivi si siano trasferite nei secoli XI-XII: non abbiamo rinvenuto nella documentazione da noi utilizzata nessun "habitator" nei "confinia" di Venezia che si dichiari già abitante in Chioggia, come accade per abitanti di altre località (179). Parimenti non ci risulta che alcun abitante abbia partecipato, in modo diretto o indiretto, alle attività commerciali, né tantomeno che si sia recato in Oriente.
Il "populus" di Equilo nel 1075 viene distinto dal suo vescovo in "maiores" e "mediocres" (180). Conosciamo da altri documenti alcuni di loro, senza per questo poterli inserire in una delle categorie ora menzionate: potrebbero rientrare forse nella prima, quella cioè dei "maiores", famiglie che sembrano partecipare alla vita pubblica del ducato, ma quasi sicuramente si tratta solo di omonimie o di abitanti del gruppo realtino. Ad esempio, nel 1067 (181) il vescovo concede saline a numerosi consorti, fra i quali scegliamo, per ora, Minio e Pascaligo.
I Minio si mostrano legati particolarmente ad Equilo: tre di loro ne divengono vescovi (182); compaiono anche sporadicamente in documenti pubblici veneziani dalla fine del secolo X. Solo di uno, Giovanni, sappiamo, per un periodo tardo, che abita in Venezia, nel confinio di S. Angelo (183). Potrebbero essere abitanti di Equilo come Veneziani interessati alla zona per il solo fatto di possedervi beni.
I Pascaligo invece appaiono fin dal secolo IX quali tribuni di Equilo (184), accanto ad altri tribuni del luogo, a significare l'importanza che il centro rivestiva nel ducato. I Pascaligo ricompaiono nel secolo XII (185): Domenico è presente a un atto pubblico del 1107. Nel 1164 un Pascaligo è vescovo di Equilo (186). Per nessuno di loro abbiamo constatato una residenza dichiarata in Venezia.
I Pascaligo non costituirebbero il solo caso di 'lunga durata' per Equilo. Alcuni indizi, per quanto assai frammentari, suggeriscono una continuità analoga per la famiglia dei Becegani/Betegani. La moglie e la figlia di un Betegani di Equilo sono menzionate nel testamento del duca Giustiniano dell'829 (187). Se si eccettua la presenza di un Domenico Betegani, al solito senza indicazione di residenza, a un atto pubblico del 1024 (188), essi ricompaiono dopo un lunghissimo periodo di oltre tre secoli: nel 1165 (189) un Giovanni Becegani di Equilo è nominato in relazione a una transazione familiare tra Pietro Todaldo, di Equilo appunto, e il figlio Domenico, che è nipote di Vitale Senatori. Un Domenico Todaldo compare in un atto pubblico poco dopo la metà del secolo XII. Più ampie le notizie relative alla famiglia dei Senatori, che sono dichiarati di Equilo in atti privati (190). Essi presenziano in varie occasioni ad atti pubblici a partire dal primo decennio del secolo XII; uno di loro verso la fine del secolo risulta essersi trasferito in Venezia, nel confinio di S. Vitale (191).
La scarsità della documentazione relativa a Malamocco per il secolo XII, che contrasta con la situazione presentata dai contribuenti della decima alla fine del secolo X, oltre che riflettere condizioni diffuse per le terre minori del ducato, è forse imputabile anche alle calamità naturali che determinarono lo spostamento del centro all'inizio del secolo XII, nel periodo che vide anche il trasferimento della sede episcopale a Chioggia e del monastero di S. Cipriano a Murano (192). Le vicende degli abitanti di Malamocco sono ricordate anche da numerose testimonianze presenti in documenti della metà del secolo XII, raccolti in una sentenza della fine del secolo XIII relativa allo sfruttamento nella zona di acque in proprietà della chiesa metamaucense di S. Maria (193).
Un probabile e precoce caso di inurbamento potrebbe essere costituito dalla famiglia Tiepolo. Nel 1088 Domenico figlio di Domenico Tiepolo di Malamocco dichiara in Costantinopoli a due suoi "consanguinei", Domenico e Orso figli di Orso Tiepolo del confinio di S. Agostino, che agiscono anche per il fratello Vitale, di avere ricevuto quietanza di una colleganza per commerciare in Schiavonia (194). I documenti non pongono più in relazione i Tiepolo con Malamocco. Membri della famiglia iniziano a partecipare alla vita pubblica all'inizio del secolo XII.
L'inurbamento della famiglia dei Daibolo o "de Aibole" ci è meglio noto. Di uno di loro, Filippo, possiamo seguire il trasferimento a Venezia: in due documenti del 1161 egli è detto semplicemente di Malamocco (195); nel 1191 è detto "habitator" nel confinio di S. Maria Assunta (196); l'anno seguente si dice solo che egli è di quel confinio (197). I Daibolo sono presenti agli atti pubblici nell'ultimo quarto del secolo (198).
In un periodo precoce è documentato l'inurbamento di un Sambatino di Poveglia, che va ad abitare "in rivo S. Hermare" di Luprio (199): un Sambatino appare in un documento pubblico del 1122.
Particolarmente denso di centri demici popolosi, la cui società, come subito constatiamo, è in rapporti intensi con quella della capitale politica, si presenta il gruppo insulare torcellano: i suoi insediamenti principali, oltre alla sede episcopale di Torcello, coincidono sostanzialmente con le pievi della diocesi torcellana, menzionate già in un privilegio pontificio del 1064. Le elenchiamo, procedendo, secondo l'ordine della trattazione che segue, da nord-est verso sud-ovest: Ammiana, Costanziaco, Burano, Mazzorbo, Murano e, sui lidi, la pieve del lido Bovense o lido Maggiore (200). Ma ci soffermeremo, per ragioni di spazio, solo su Ammiana e Torcello.
In Ammiana una documentazione, pur tardiva, della fine del secolo XII - ma, al solito, il contenuto delle testimonianze risale addietro nel tempo, alla metà e anche oltre del secolo -, permette di individuare alcune famiglie di "antiquiores et nobiliores" del luogo nel corso di un processo causato da una lite per sfruttamento di acque.
Tra i "nobiliores" vennero ricordati quelli "de domo" Willari, Memmo, Dondi, Gimarco e Superancio/Soranzo (201). Pur essendo da noi conosciuti in modi discontinui, è possibile constatare fra loro diversità non indifferenti, in relazione anzitutto con famiglie omonime o imparentate di Venezia o anche di altri centri minori.
Conclusa nel tempo appare la vicenda dei Willari. Membri della famiglia sono presenti ad atti pubblici alla fine del secolo XI e alla metà del successivo; non più in seguito. Dalla documentazione ammianense non provengono altre indicazioni, né ci risulta che la famiglia si sia trasferita in Venezia.
I Gimarco, presenti solo a un atto pubblico dopo la metà del secolo XII, risultano essersi trasferiti verso la metà del secolo XII in Venezia, nel confinio di S. Paterniano (202).
Più incerte le situazioni delle altre famiglie di "antiquiores et nobiliores": i Dondi, poco presenti negli atti pubblici dalla fine del secolo XI a poco dopo la metà, non appaiono in Venezia, mentre essi, o loro omonimi, sono presenti in Murano, oltre che in Ammiana (203). Non risulta che i Memo/Memmo di Ammiana siano una famiglia imparentata con quella veneziana più illustre, ben nota, se non altro per avere espresso un duca nella seconda metà del secolo X, i cui membri continuano a essere presenti con una certa frequenza nella documentazione pubblica. Non abbiamo rinvenuto documentazione che colleghi direttamente ad Ammiana i Superanzo/Soranzo, pur citati fra gli "antiquiores et nobiliores". Avevano probabilmente possessi ed interessi nella zona. Quando appare la designazione del luogo, essi sono indicati come abitanti in Venezia (204). Numerosi sono i Superanzo presenti nella documentazione pubblica dalla seconda metà del secolo XI.
La menzione delle cinque famiglie nella testimonianza della fine del secolo XII che nomina "antiquiores et nobiliores" è esemplificativa: vengono omessi, come il teste stesso dichiara, "alii nobiliores de illo loco".
Fra quelli non nominati potrebbero essere posti i Sisinulo, non inferiori per sostanze e per posizione sociale a buona parte di quelli nominati: la famiglia risulta inurbata nella seconda metà del XII (205). E presente nella documentazione pubblica alla fine del secolo X e poi nella seconda metà del secolo XII. Un'altra famiglia di origine ammianense, inurbatasi, è quella dei Voltani, in relazioni di affari e anche di parentela con i Sisinulo. È possibile ricostruire i trasferimenti di un suo membro, Vitale, da Ammiana a Venezia e qui in 'confinia' successivamente diversi (206).
Alcuni membri di una famiglia di rilievo, Stornato, cui appartiene Stefano Stornato, diacono e cardinale di Santa Romana Chiesa, sono collegati con Torcello e ancor più con Ammiana, della quale sono forse originari (207). Numerosi Stornato appaiono nella documentazione pubblica dal penultimo decennio del secolo X.
A Burano si riconnette la famiglia degli Aurio, parte di essa o, eventualmente, una famiglia omonima di quella presente in Rialto e che dona sue botteghe al pubblico (208): originario di Burano è con certezza il giudice Badovario Aurio, cui fu assegnato temporaneamente l'ufficio di gastaldo di Torcello. Era forse suo parente, come abbiamo supposto, Bono Aurio di Costanziaco, che nel 1096 è gastaldo di Torcello (209).
Di una sola famiglia di Mazzorbo, quella dei Capello (210), conosciamo la partecipazione agli atti pubblici, dal secolo X al XII.
Il gruppo insulare di Murano, oltre a essere attestato fin dal secolo IX nei privilegi imperiali, mostra, per vari indizi - si vedano le considerazioni relative alla decima -, di essere stato precocemente sede di una densa popolazione. La sua pieve, documentata dal 999 (211), venne eretta in episcopato dal pontefice Alessandro II (212), provvedimento da lui revocato, con la motivazione di essere stato suggestionato da pressioni altrui, facilmente individuabili in iniziative di forze locali particolarmente influenti (213).
La presenza di persone e famiglie ragguardevoli, che potessero esercitare azioni di tale influenza, è confermata anche dalla documentazione addotta in giudizio in una lite che si svolse alla metà del secolo XII fra il plebano di S. Maria e il vicario della chiesa di S. Stefano protomartire, protrattasi a lungo, con l'intervento anche di delegati papali e dei pontefici stessi (214).
L'esistenza di una ripartizione tradizionale della società in maggiori e minori e la coscienza di questa stessa ripartizione è presente e diffusa in Murano. In un processo della metà del secolo XII il pievano di S. Maria di Murano reca in giudizio due "cartulae promissionis" degli anni 1063 e 1109 (215), nelle quali, secondo gli estratti riportati, leggiamo che tutti i "vicini" della pieve, costituiti dal clero e dal popolo, nelle loro sommarie ripartizioni sociali di "maiores, mediocres et minores", avevano approvato quanto i vicari della chiesa di S. Stefano avevano promesso circa l'obbedienza alla pieve, impegnandosi ogni "vicinus" della pieve, per quanto fosse venuto a conoscenza e gli fosse possibile, a difendere i diritti, "iustitia", della chiesa plebana.
In Murano aveva interessi assai ampi all'epoca la famiglia Mauro. Fra i documenti recati in giudizio nel 1153 figura anche un atto del 1068, relativo a un'altra lite, svoltasi sotto la presidenza del patriarca di Grado, assistito dal vescovo di Torcello e da altri vescovi, fra il plebano di S. Maria di Murano, con tutto il clero e il popolo "eiusdem loci", e Domenico Mauro, giudice di Murano, circa l'"obsequium" che la chiesa di S. Salvatore, fatta edificare dal secondo "pro anima sua", doveva alla chiesa plebana. Fu ribadito che l'"obsequium" corrisposto da S. Salvatore doveva essere uguale a quello stabilito pochi anni prima per le altre chiese di Murano nei confronti della pieve (216). Nello stesso periodo è attestato un giudice Domenico Mauro (217), uno dei primi fra i giudici veneziani noti: difficile ipotizzare un caso di omonimia. Anche se la maggioranza dei Mauro risulta nel secolo XII risiedere in confini di Venezia (218), persistono tracce posteriori dei Mauro di Murano, assai significativamente in collegamento con la chiesa locale di S. Salvatore (219), forse discendenti da un ramo familiare rimasto sul luogo. La partecipazione, intensa e attiva alla vita pubblica, le funzioni di giudice, la fondazione di una chiesa, gli uffici ecclesiastici, come la cattedra vescovile di Torcello (220), pongono i gruppi familiari dei Mauro fra quelli di maggior rilievo nella società veneziana dei secoli X-XII.
I Naizo di Murano (221) sono presenti nella documentazione pubblica del sesto e settimo decennio del secolo XII. I Nanni del lido Bovense o Maggiore, uno dei quali è anche gastaldo (222), partecipano agli atti pubblici fra XI e XII secolo.
Ampia parte della documentazione concernente le località, principali o no, della diocesi torcellana è redatta in Torcello, poiché essa costituisce un punto di riferimento per l'area coincidente grosso modo con la diocesi, pur non detenendo le funzioni e pertanto non svolgendo il ruolo di un centro politico effettivo, ruolo riservato alla città di Rialto; ma non è documentato nemmeno quello di centro amministrativo, se non per breve periodo tra la fine del secolo XI e l'inizio del successivo, quando sono presenti in Torcello gastaldi locali, deputati alla risoluzione di controversie. Di gastaldi, tuttavia, e di un'eventuale amministrazione locale non abbiamo rinvenuto tracce ulteriori nel secolo XII (223).
La centralità di Torcello, pertanto, è dovuta, oltre che alle vicende storiche, alla persistenza in essa di una importante sede episcopale, la sola che, secondo Daniela Rando, si avvicina per complessità di strutture ai vescovati del Regno (224), e al convergervi degli interessi economici e sociali delle famiglie del territorio, che nei fatti coincide con la diocesi. Né è altrimenti definibile: non sussiste traccia dell'esistenza di un territorio torcellano civilmente circoscrivibile, nemmeno ai fini dell'ubicazione delle località minori, nonostante che la documentazione edita, da noi esplorata, sia la più ampia rispetto alle altre regioni del ducato, eccettuata, ovviamente, quella che concerne il gruppo realtino.
Una buona parte delle famiglie individuabili ha in comune il nome con altre veneziane: di alcune possiamo affermare una probabile origine torcellana; di altre l'origine torcellana è certa solo per gruppi o individui singoli.
A Torcello erano presenti sicuramente gli Aurio: nel 1204 Giovanni Aurio, nel sottoscrivere un atto pubblico (225), dichiara la sua provenienza da Torcello, contro la consuetudine generalizzata di non apporre tale indicazione nelle sottoscrizioni agli atti pubblici. Degli Aurio di Burano già abbiamo trattato (226): ricordiamo solo che il giudice Badovario Aurio assume, in via temporanea, l'ufficio di gastaldo di Torcello. Proprio per la consuetudine di non connotare i sottoscrittori degli atti pubblici attraverso una località, risulta difficile conoscere le località specifiche di residenza degli Aurio che dal penultimo decennio del secolo X partecipano alla vita pubblica: molti abitavano in Rialto, come è il caso certo di quegli Aurio, i più noti fra loro, che alla fine del secolo XI donarono le loro "stationes" al "populus" veneziano (227).
La famiglia dei Marcello è ampiamente presente nella documentazione pubblica. Oltre a Pietro Marcello, gastaldo di Torcello e giudice fra XI e XII secolo, sul quale ci siamo soffermati, ricordiamo almeno Vitale, insignito del titolo aulico bizantino di "imperialis protonobilissimus" (228). Il trasferimento dei Marcello in Venezia è attestato nella seconda metà del secolo XII (229). Nella prima metà del secolo XII un Querini, con un Barozzi e un Gausoni, definiti tutti di Torcello, acquista beni confiscati ad uno Zusto (230). Poco dopo si rinviene la testimonianza diretta di un Querini residente in Venezia (231). I Querini appaiono nella documentazione pubblica alla fine del secolo XI e, numerosi, dalla metà del seguente. Analoga la posizione dei Barozzi e Gausoni, che si trasferiscono anch'essi in Venezia (232).
Il fenomeno immigratorio, quale risulta dalla documentazione da noi esaminata, si concentra nella seconda metà del secolo XII, il periodo che coincide con la prima età comunale in Venezia. Esso si presenta con caratteri simili a un processo di inurbamento. Tale preferiamo classificarlo, così da porre l'accento sugli aspetti e sulle funzioni di città che Rialto ha già assunto e va sviluppando, una città che si pone nei confronti del resto del ducato, per gli aspetti politici, sociali ed economici, in condizioni analoghe, se mai più precoci e decise, a quelle dei comuni cittadini maggiori dell'Italia centro-settentrionale nei confronti dei rispettivi contadi.
Ricapitoliamo i dati relativi all'intensità e alla qualità della presenza e partecipazione eventuali alla vita pubblica e politica dei membri delle famiglie che al momento sembrano essersi con certezza inurbate, prima e dopo il loro trasferimento, come abbiamo potuto dedurre dapprima dall'elenco dei contribuenti della decima della fine del secolo X, poi dalla documentazione privata dei secoli XI e XII (233).
Pochi i nominativi nel primo caso e non sempre certi: la maggior parte da Malamocco, quali le famiglie dei Barbani, Serzem/Serzi, Vitturi, Mengolo, Busignago; Georgi o Zorzi. Seguono i Dondi di Ammiana e i Diesenove di Murano. Nessuna famiglia sembra svolgere un ruolo di rilievo nell'ambito politico.
Per quanto concerne il secondo aspetto, ribadiamo i limiti delle possibilità di accertamento, per i secoli X-XII, di una partecipazione alla vita pubblica ed eventualmente a quella politica in senso proprio - ci riferiamo, ad esempio, all'assunzione di magistrature, fondamentale quella di giudice, o allo svolgimento di missioni diplomatiche - delle famiglie abitanti nei centri minori del ducato, limiti dovuti in primo luogo allo stato della documentazione, in secondo luogo alla difficoltà di individuare la residenza dei partecipanti agli atti pubblici come e ancor più di coloro che rivestono magistrature o incarichi politici, dal momento che le persone presenti agli atti pubblici non vengono, in generale, qualificate dalla località di residenza o di provenienza, ragion per cui dobbiamo ricorrere, appunto, agli atti privati.
Ricordiamo alcuni gruppi familiari di un certo rilievo. I Senatori di Equilo presenziano agli atti pubblici dall'inizio del secolo fino al 1164. I Tiepolo, probabilmente di Malamocco, sono presenti nella vita pubblica a iniziare dal 1112; Filippo e Domenico Daibolo di Malamocco, che risultano inurbati alla fine del secolo, vi partecipano più o meno marginalmente.
Dalla maggior parte dei centri dell'area torcellana, pur avendo appurato il fenomeno dell'inurbamento, non abbiamo tratto alcuna indicazione in merito al tema specifico, se non da Ammiana e, soprattutto, da Torcello.
I Sisinulo di Ammiana, trasferitisi in Venezia alla metà del secolo XII, appaiono nella documentazione pubblica alla fine del secolo X, per poi riapparire nel secolo XII. I Gimarco si trasferiscono in Venezia nello stesso periodo.
Per Torcello ricordiamo anzitutto la famiglia dei Marcello, il cui trasferimento in Venezia è attestato nella seconda metà del secolo XII. La loro presenza nella documentazione pubblica inizia nel 982; un ruolo di rilievo svolge il giudice Pietro, qualificato come tale dal 1099 al 1107. La presenza dei Querini nell'ambito pubblico, dopo una comparsa alla fine del secolo XI, diviene frequente a partire dal 1152, dopo il loro inurbamento, avvenuto, certamente per uno di loro, avanti il 1155. Analoga la vicenda dei Barozzi, che si trasferiscono in Venezia forse un po' dopo la metà del secolo. I Gausoni, attestati in Venezia anch'essi nella seconda metà del secolo XII, appaiono nella documentazione pubblica con frequenza nello stesso periodo.
Immediata emerge la considerazione che una partecipazione attiva, non solo intesa genericamente nei confronti della vita pubblica, ma in modo specifico nell'ambito politico è, nella pratica, solo delle cospicue famiglie inurbatesi da Torcello (234).
Rimangono da considerare le famiglie che riteniamo siano rimaste nei centri minori, poiché non abbiamo rintracciato prove né indizi relativi a un loro eventuale trasferimento in Venezia.
Dei Pascaligo di Equilo, antica famiglia tribunizia, solo Domenico presenzia a un atto pubblico del 1107; parimenti, della famiglia, anch'essa antica, dei Becegani solo un Giovanni sottoscrive il privilegio per Cittanova del 1024: la loro assenza dagli atti pubblici non è dovuta a estinzione, poiché entrambe le famiglie sono documentate nella seconda metà del secolo XII.
Degli "antiquiores et nobiliores" di Ammiana, Willari e Dondi non si trasferiscono in Venezia. I Willari sono presenti con una certa frequenza negli atti pubblici dalla fine del secolo XI alla metà del seguente. Nello stesso periodo vi partecipano i Dondi, che sono anche in Murano. Limitata nel tempo la partecipazione dei Naizo di Murano e dei Nanni del Lido Bovense o Maggiore.
Per Mazzorbo conosciamo una famiglia di un certo rilievo, i Capello: essi appaiono nella documentazione pubblica fin dal primo documento che ci fornisca un numero congruo di sottoscrizioni, dal 960 in poi, continuando a essere presenti, senza essere per questo numerosi, anche nei due secoli successivi. A Burano risiedeva il giudice Badovario Aurio.
Per Torcello possiamo affermare che tutte le famiglie, presenti nella documentazione pubblica, si inurbano: Marcello, Querini, Barozzi, Gausoni. Di esclusivamente locali non ne compaiono.
Le conclusioni sono presto tratte. Le famiglie dei centri minori presenti agli atti della vita pubblica fra XI e XII secolo, a volte anche dalla seconda metà del secolo X, tendono a sparirvi a partire dalla metà secolo XII, particolarmente dopo l'atto del 1152, che vede una presenza assai ampia di sottoscrittori. In questa prospettiva particolarmente significativa appare la vicenda dell'antica famiglia tribunizia dei Pascaligo di Equilo, assenti dalla documentazione pubblica, se si eccettua un documento del 1107, pur mantenendo un certo rilievo locale, se nella seconda metà del secolo XII uno di loro diviene vescovo di Equilo.
La causa prima va ricercata nell'intenso processo di evoluzione politica, economica e sociale, che è correlato a quello di urbanizzazione, in atto a Venezia da lungo tempo, che escluderà di fatto dalla partecipazione alla vita pubblica e soprattutto politica chi non vi abita. Il processo di 'democratizzazione' politica della prima età comunale si risolve nella partecipazione attiva di più ampia parte della popolazione, costituita, però, da cittadini, non da abitanti del territorio: ciò è confermato ulteriormente dall'attività pubblica e soprattutto da quella politica dei membri delle famiglie torcellane inurbate, famiglie, sembra superfluo sottolinearlo, che erano state sì presenti nel periodo anteriore, ma dovevano la più intensa partecipazione nella prima età comunale non tanto alle condizioni di preminenza acquisite in ambito locale, quanto al fatto di essersi inurbate (235). Sotto questo aspetto i rapporti fra società e politica a Venezia si allineano, anzi precedono quelli esistenti nei comuni cittadini del Regno Italico.
1. Luigi Lanfranchi - Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano dall' VIII al XII secolo, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, pp. 1-65, seguito da Wladimiro D0rig0, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: I, p. 307, che ne riproduce le cartine delle tre regioni.
2. Doc. citato avanti, alla n. 87.
3. Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, I, Torino 1940, nr. 74, 1139 ottobre.
4. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 156, anno 1000.
5. Luigi Lanfranchi, Documenti dei sec. XI e XII, relativi all'episcopato equilense, "Atti del r. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 104, 2, 1944-1945, p. 897, nr. 3, 1032 (?) luglio.
6. Ibid., nr. 6, 1075 aprile
7. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I-II, Padova 1942: II, nr. 25, 900 febbraio.
8. Cf. avanti, testo corrispondente alle nn. 23-25.
9. S. Lorenzo di Ammiana, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1969, nr. 2, 1148 settembre, e nr. 14, 1166 settembre.
10. Cf. avanti, testo corrispondente alle nn. 107-108.
11 Roberto Cessi, La diversione del Brenta ed il delta ilariano nel secolo XII, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 80, 1920-21, pp. 1225-1243, ora in Id., Padova medioevale. Studi e documenti, I-II, Padova 1985: I, pp. 55-70.
12. Melchiorre Roberti, Informazioni storiche intorno ai beni della Fogolana dal 944 al 1391, Padova 1908.
13. Nel 954 il marchese Almerico e la moglie Franca donano al monastero di Brondolo la "curtis" di Bagnoli: SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo. II. Documenti 800-1199, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1981, nr. 2, 954 gennaio 30. Indicazioni sulla documentazione relativa ai due coniugi, sulla bibliografia e sulla attendibilità della documentazione si leggono in Andrea Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel medioevo. Circoscrizioni ecclesiastiche e civili nella "Langobardia" e nella "Romania", Bologna 1982, pp. 170-171.
14. Documenti relativi, I, nr. 50, 827 giugno 6.
15. A. Castagnetti, L'organizzazione, pp. 58-66.
16. Giovanni Diacono, Cronaca.
17. Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 52 ss.; Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, 2, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, p. 361 (pp. 339-438).
18. Giovan Battista Pellegrini, Venezia, la laguna e il litorale nell'interpretazione toponomastica, in AA.VV., La "Venetia" dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, p. 34 (pp. 21-24).
19. Constantinus Porphirogenitus, De administrando imperio, a cura di Gyula Moravcsik, Washington 1967, pp. 116-119. Per la datazione dei due elenchi elementi sono forniti da L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, p. 9, e, da ultimo, da W. Dorigo, Venezia Origini, I, pp. 308-309.
20. Sotto, testo corrispondente alla n. 39.
21. L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, p. 9.
22. Ibid., p. 10.
23. W. Dorigo, Venezia Origini, I, pp. 31 I -3 12.
24. L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, p. 9.
25. Ibid., p. 10.
26. Tralasciamo elenchi che compaiono in altri privilegi imperiali, quando sono uguali a quelli esaminati nel testo. Cf. Antonio Carile, La formazione del ducato veneziano, in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 202-203.
27. M.G.H., Legum sectio II, Capitularia regum Francorum, a cura di Alfred Boretius, I-II, 1883-1897: II, nr. 223, 840 febbraio 23; Documenti relativi, I, nr. 55.
28. Gina Fasoli, Navigazione fluviale - Porti e navi sul Po, in AA.VV., La navigazione mediterranea nell'alto medioevo, I-II, Spoleto 1978: II, pp. 593 ss. (pp. 565-607), che sottolinea la larga presenza di interessi nel traffico fluviale, oltre che in quello marittimo; si veda anche A. Carile, La formazione, p. 200.
29. Tabelle di confronto tra gli elenchi sono elaborate in W. Dorigo, Venezia Origini, I, pp. 310-311.
30. M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, a cura di Theodor Sickel, 1879-1884, nr. 350, 967 dicembre 2; Documenti relativi, II, nr. 47.
31. Carlo Guido Mor, L'età feudale, I-II, Milano 1952: I, pp. 328-329; W. Dorigo, Venezia Origini, I, p. 309.
32. M.G.H., Diplomata regum et imperatorum, II/1, a cura di Theodor Sickel, 1888, nr. 300, 983 giugno 7; Documenti relativi, II, nr. 62.
33. Il privilegio di Enrico V nomina altri tre centri, Bebe, Mazzorbo e Costanziaco: M.G.H., Legum sectio IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, a cura di Ludwig Weiland, I, 1983, nr. 102, 1111 maggio 22.
34. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 63-66.
35. Si veda, ad esempio, Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), pp. 30-31: "vici" di Burano, Ammiana, Mazzorbo e Costanziaco. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, I, p. 76.
36. Per l'inquadramento storico ci limitiamo a rinviare alle opere di R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 155 ss.; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 367 ss.
37. Giorgio Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella "Venetia maritima", in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 383-385.
38. Luciano Bosio - Guido Rosada, Le presenze insediatine nell'arco dell'Alto Adriatico dall'epoca romana alla nascita di Venezia, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, p. 553 (pp. 509-576)
39. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 153-154; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 380-382.
40. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 126.
41. Ibid., p. 131.
42. W. Dorigo, Venezia Origini, II, pp. 492-502.
43. Ibid., pp. 502-507.
44. Ibid., pp. 512-519.
45. Ibid., pp. 507-511. Efficace rappresentazione in Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 3-7.
46. W. Dorigo, Venezia Origini, II, p. 514.
47. S. Maria Formosa, a cura di Maurizio Rosada, Venezia 1972, nr. 21, 1188 luglio; cf. W. Dorigo, Venezia Origini, II, p. 514.
48. W. Dorigo, Venezia Origini, II, p. 520.
49. Ibid., p. 514.
50. R. Cessi, Venezia ducale, II, Commune Venetiarum, Venezia 1965, p. 131, che segnala documentazione a partire dal I084; ma di "confinium" si parla già in un documento anteriore: Codice diplomatico padovano dal secolo VI a tutto l'undecimo, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1877 ( = I); Codice diplomatico padovano dall'anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), I-II, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1879-1881 (= II e III), I, nr. 197, 1067 aprile 2.
51. Le vite dei dogi di Marin Sanudo, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, p. 235, n. 2, docc. 1152 giugno e agosto: "trentaciae" e "contratae".
52. Documenti del commercio, I, nr. 365, 1188 gennaio.
53. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950, p. 263, doc. A, 1207 aprile.
54. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 63.
55. Ibid., p. 59.
56. Ibid., p. 65.
57. Cf. sopra, testo corrispondente alla n. 35.
58. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 148.
59. Ibid., Introduzione, pp. XXXI-XXXV.
6o. Origo civitatum, pp. 79 e 165; cf. Roberto Cessi, Venezia ducale, II, p. 6.
61. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 107-108; L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, p. 40 per Pellestrina; cauto A. Carile, La formazione, p. 205; più complesso l'atteggiamento di G. Cracco in Lellia Cracco Ruggini - Giorgio Cracco, Changing Fortunes of the Italian City from Late Antiquity to Early Middle Ages, "Rivista di filologia e di istruzione classica", 105, 1977, pp. 473-474 (pp. 448-475), sul quale ci soffermeremo in altra sede.
62. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131.
63. Giovanni Battista Pighi, Versus de Verona. Versum de Mediolano civitate, Bologna 1960, pp. 145-146 e 149 per Milano; pp. 152 e 158 per Verona; cf. Gina Fasoli, La coscienza civica nelle "Laudes civitatum", in AA.VV., La coscienza civica nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972, pp. 21-24.
64. Si veda, ad esempio, la descrizione dei "castra" o città della Dalmazia in Constantinus Porphirogenitus, De administrando imperio, pp. 123 ss.
65. Documenti relativi, I, nr. 40, anno 804 = I placiti del "Regnum Italiae", a cura di Cesare Manaresi, I-III, Roma 1955-1960 (Fonti per la storia d'Italia, 92, 96, 97): I, nr. 17.
66. Constantinus Porphirogenitus, De administrando imperio, cf. Glossary, s.v. "castron", p. 322.
67. Ibid., voce "polis", p. 327.
68. Cf. sopra, n. 61.
69. Sia sufficiente il confronto con la situazione della contigua Marca Veronese, ove chiese vescovili, capitoli dei canonici e monasteri maggiori detengono già nel secolo X numerosi castelli, nuclei delle successive signorie rurali: Andrea Castagnetti, La Marca Veronese- Trevigiana (secoli XI XIV, Torino 1986, pp. 8-15; per i castelli detenuti già nel secolo X da laici, ibid., pp. 6-8, 2I-27.
70. Tali aspetti non emergono dalla documentazione pubblica superstite, quali i privilegi ducali elargiti agli enti ecclesiastici, che non concedono diritti immunitari al di fuori degli ambiti fiscali né tantomeno diritti propriamente giurisdizionali, politici in senso proprio. Non sussistono documenti attestanti l'esercizio della giustizia da parte di signori, ecclesiastici o laici, quali sono i placiti signorili nel Regno. È stata notata (Carlo Guido Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo, in AA.VV., Le origini di Venezia, Firenze 1964, p. 138 [pp. 121-140>) la presenza, già nei primi decenni del secolo IX, di una terminologia germanica - il termine gastaldo e altri -, importata presumibilmente dal Regno Italico. A questa possiamo aggiungere, aspetto finora non rilevato, che nella donazione dell'819 da parte del duca Agnello al monastero di S. Servolo (Documenti relativi, I, nr. 44, 819 maggio, riedito in SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi e Bianca Strina, Venezia 1965, nr. I) la concessione dell'esenzione fiscale è direttamente ispirata dalla formula di esenzione franca, anzi giungeremmo ad affermare che ne è una riproduzione fedele. Appare ancor più estesa se paragonata a quella presente nel testamento dello stesso duca, posteriore di un solo decennio (Documenti relativi, I, nr. 53, riedito in SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, 828 dicembre 25-829 agosto 31), che esenta i monasteri di S. Zaccaria e di S. Ilario dalla corresponsione della "scuxia publica" e delle "angariae": ancora terminologia di importazione. La sostanza tuttavia non ci sembra di molto variata. La seconda formulazione, per così dire, ridotta torna anche nel testamento del vescovo di Olivolo dell'anno 853 (Documenti relativi, I, nr. 60, 853 febbraio, p. 114, riedito in S. Lorenzo, a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nr. 1). In entrambe le formulazioni non appare alcun cenno a gastaldi e messi ducali. L'imitazione dell'istituto franco dell'immunità fiscale non va oltre l'episodio segnalato: chiese, anche maggiori, e monasteri veneziani non conseguono nell'ambito del territorio del ducato immunità ulteriori, soprattutto non conseguono la facoltà di detenere diritti pubblici, di esercitare attività giudiziaria, di possedere centri militari di potere, in altre parole non divengono soggetti dell'azione politica in senso proprio, come invece avviene nel Regno Italico. Né possiamo affermare che questi aspetti fossero ignoti: sui grandi possedimenti di terraferma gli enti ecclesiastici veneziani vantavano l'esenzione, oltre che dai gravami fiscali, anche dalla giurisdizione ordinaria (è sufficiente il riferimento a Giorgio Zordan, Le persone nella storia del diritto veneziano prestatutario, Padova 1973, pp. 373-374).
7 I. Enrico Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900, p. 129.
72. G. Zordan, Le persone, pp. 150 ss.
73. Nessun indizio, parimenti, emerge dalla considerazione dei contratti di fitto, che iniziano timidamente ad apparire nella seconda metà del secolo X: essi si presentano nelle forme, più o meno tradizionali, del livello, ma non includono clausole di esercizio 'privato' della giustizia da parte del proprietario, né alcuna facoltà similare, né obblighi corrispondenti assunti dagli affittuari delle terre. Contadini, salinari, marinai, per quanto ne sappiamo, furono nella maggioranza liberi nella persona (G. Zordan, Le persone, pp. 167-168) e nelle condizioni effettive di lavoro, tralasciando ovviamente gli aspetti, di per sé a volte anche gravosi, della dipendenza economica e tralasciando le persone di effettiva condizione servile, che non paiono in ogni caso adibite alla coltivazione della terra.
74. Andrea Castagnetti, Arimanni in "Romania" fra conti e signori, Verona 1988, pp. 11-21.
75. G. Zordan, Le persone, p. 361, sottolinea come "fra gli abitanti delle singole comunità sussistessero interessi, fini, beni comuni atti a caratterizzarli rispetto alle popolazioni di altri centri e a farli apparire come un 'quid unicum', dotato di propria individualità".
76. Par. 26, doc. citato sopra, n. 27. Protagonisti dell'accordo furono il duca Paulicio e il "magister militum" Maurizio, l'ufficiale bizantino probabilmente preposto al governo della "provincia" venetica. Poco importa ora entrare nella querelle su chi era il duca Paulicio, se longobardo o bizantino: si vedano in merito R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 94-97, e Carlo Guido Mor, Sulla "terminatio" per Cittanova-Eracliana, "Studi medievali", ser. III, 10, 1969 (AA.VV., A Giuseppe Ermini), pp. 465-482.
77. Documenti citati avanti, n. 82.
78. Par. 28, doc. citato sopra, n. 27.
79. Ibid., par. 24; Documenti relativi, II, nr. 21, 888 maggio 27, par. 24, aggiunge anche "Amianenses ", che rimangono nel privilegio ottoniano del 967 (citato sopra, n. 30), par. 18.
80. Par. 29, doc. citato sopra, n. 27.
81. Ibid., par. 30.
82. Documenti relativi, II, nr. 74, 996 marzo 25, e nr. 84, 998 luglio 18, Verona; nr. 82, 998 maggio 21-31, comitato di Ceneda; nr. 85, 998 luglio 22, Bassano, comitato di Treviso; i placiti sono riediti in I placiti, II/1, nrr. 224, 238, 240, 241.
83. Possibilità di comparare la potenza delle chiese vescovili venete sono offerte da A. Castagnetti, La Marca, pp. 9-15.
84. Codice diplomatico padovano, II, nr. 327, 1137 novembre, Chioggia; nr. 587, 1153 marzo, Chioggia e Rialto; III, nr. 762, 1161 giugno, Murano.
85. Documenti relativi, II, nr. 88, 1000 maggio.
86. Ibid., app. nrr. III e IV, anno 1023, soprattutto il secondo.
87. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1853-1861: I, nr. 17, pp. 388-390: per la datazione si veda la discussione in Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, p. 32, n. 27. Per Loreo v. sotto, la n. 118.
88. Codex publicorum (Codice del Piovego), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, I, Venezia 1985, p. 39, doc. 1180 luglio.
89. Ibid., p. 35, doc. 1158 marzo, e p. 39.
90. Ibid., p. 37, doc. 1158 giugno.
91. L. Lanfranchi, Documenti, nr. 4, 1045 febbraio, ove è ricordata la donazione anteriore al monastero di S. Giorgio di "Littore Pineto", posto "non longe a civitate qui nuncupatur Equilo" già deserto e ora in via di ricostruzione.
92. Ibid., nr. 6, 1075 aprile: viene ricordata una donazione degli abitanti di Equilo.
93. Documenti citati avanti, nn. 153 ss.
94. S. Lorenzo di Ammiana, Introduzione, p. VII.
95. Ibid., docc. nr. 78, 1195 maggio 15, e nr. 86, 1197 maggio.
96. Ibid., nr. 87, 1196-1197, p. 97.
97. Ibid., p. 104.
98. SS. Trinità, nr. 78, 1133 marzo.
99. Ibid., nr. 80, 1133 agosto.
100. S. Giorgio Maggiore, II, Documenti 982-1159, e III, Documenti 1160-1199 e notizie di documenti, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968: II, nr. 84, 1099
gennaio.
101. SS. Secondo ed Erasmo, a cura di Eva Malipiero Ucropina, Venezia 1958, nr. 26, 1170 novembre 29.
102. S. Giorgio, III, nr. 325, 1170 agosto.
103. S. Maria Formosa, nr. 13, 1168 giugno; S. Giorgio, III, nr. 330, 1171 febbraio.
104. Codice diplomatico veneziano, a cura di Luigi Lanfranchi, dattiloscritto, Archivio di Stato di Venezia, 1037 giugno.
105. S. Giovanni Evangelista di Torcello, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948, nr. 39, 1164 giugno.
106. SS. Trinità, nr. 8, 1027/1028 maggio.
107. Codice diplomatico padovano, III, nr. 1449, 1049 novembre 10.
108. Ibid., I, nr. 197, 1067 aprile 2.
109. SS. Trinità, nrr. 16 e 17, 1053 marzo.
110. Ad esempio, Codice diplomatico padovano, I, nr. 257 e nr. 260, 1079 settembre, per le Fogolane.
111. SS. Trinità, nr. 32, 1087 settembre.
112. Ibid., nr. 8, anni 1027/1028.
113. Doc. citato sopra, n. 107.
114. SS. Trinità, nr. 12, 1050 novembre.
115. Ibid., nrr. 16 e 17, 1053 marzo; Codice diplomatico padovano, I, nr. 197, 1067 aprile 2; SS. Trinità, nr. 32, 1087 settembre; S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 6, 1088 dicembre; ecc.
116. Documenti relativi, II, nr. 89, 1000 settembre 22: il vescovo di Treviso, nel concedere al duca la terza parte dei diritti di ripatico e teloneo spettanti al porto della sua chiesa, concede anche che il duca possa inviarvi un suo gastaldo per "distringere" i suoi uomini, cioè i Veneziani. Per un gastaldo, investito di poteri di controllo, certamente di carattere fiscale, sulle prestazioni di artigiani si veda un documento della prima metà del secolo XI in Cronache veneziane antichissime, pp. 175-176.
117. Documento citato sopra, n. 87.
118. S. Romanin, Storia documentata, I, nr. 19, pp. 392-395.
119. Andrea Castagnetti, Le comunità rurali dalla soggezione signorile alla giurisdizione del comune cittadino, Verona 1983, pp. 23-32.
120. S. Giorgio, II, nr. 92, 1106 marzo.
12I. Le vite dei dogi, pp. 195-216, doc. 1122 maggio, p. 128.
122. Nel 1133 agisce un gastaldo "per iussionem populi nostre patrie", con l'assistenza di due giudici e il consenso dei vicini: SS. Trinità, nr. 78, 1133 marzo, e nr. 80, 1133 agosto.
123. SS. Trinità, n. 203, 1142 ottobre; donazione a un veneziano per la benevolenza dimostrata al "populus" di Pellestrina: S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 39, 1164 giugno; ecc.
124. S. Lorenzo di Ammiana, nr. II, 1164 dicembre.
125. Codex publicorum, pp. 100-101, due documenti del marzo 1163.
126. Codice diplomatico padovano, III, nr. 1304, 1178 luglio 2; SS. Trinità, nr. 209, 1181 giugno.
127. SS. Ilario e Benedetto, nr. 21, 1140 novembre.
128. Sulle bonifiche si veda sopra, testo corrispondente alla n. 40.
129. Vittorio Lazzarini, Escusati del Dogado Veneziano, "Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali e lettere", 105, 2, 1946-1947, pp. 75-76 (pp. 75-85).
130. Ibid., p. 77.
131. Doc. 1049, citato sopra, n. 107.
132. Doc. cit. sopra, n. 106.
133. Gastaldi in atti privati: SS. Trinità, nr. 12, 1050 novembre; nrr. 16 e 17, 1053 marzo.
134. Codice diplomatico padovano, I, nr. 197, 1067 aprile 2.
135. SS. Trinità, nr. 32, 1087 settembre.
136. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 6, 1088 dicembre.
137. Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I, Padova 1906, p. 99, n. 8; un esempio in SS. Trinità, nr. 231, 1185 settembre, per due giudici, uno di Chioggia Maggiore e uno di Chioggia Minore.
138. S. Giorgio, I, nr. 86, 101l giugno; anche ibid., nr. 176, 1134 aprile; SS. Trinità, nr. 86, 1135 novembre.
139. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 14, 1137 giugno.
140. SS. Trinità, nr. 99, 1142 ottobre.
141. M. Roberti, Le magistrature, p. 157, nr. 15, 1159 novembre.
142. SS. Trinità, nr. 201, 1179 giugno.
143. Ibid., nr. 216, 1183 febbraio 11-28.
144. M. Roberti, Le magistrature, p. 98; anche G. Zordan, Le persone, p. 358.
145. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 38, 1163 giugno; doc. citato sopra, n. 143.
146. Ibid., nr. 30, 1157 dicembre.
147. Doc. citato sopra, n. 140.
148. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 47, 1165 maggio (seguono numerosi documenti analoghi); SS. Secondo ed Erasmo, nr. 23, 1166 dicembre e ivi documenti seguenti.
149. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 49, 1165 maggio; si veda anche SS. Trinità, nr. 155, 1169 aprile e ivi documenti seguenti.
150. G. Zordan, Le persone, p. 359, che restringe poi tale ammissione (ibid., p. 368).
151. Ibid., p. 360.
152. Ibid., pp. 361 e ss.
153. M. Roberti, Le magistrature, pp. 148-149, nr. 4, 1096 novembre.
154. R. Cessi, Venezia ducale, II, pp. 161-162.
155. Sui Marcello si veda avanti, testo corrispondente alle nn. 228-229.
156. Si vedano i documenti pubblici per gli anni relativi, citati in Andrea Castagnetti, Famiglie e affermazione politica, infra, appendice.
157. M. Roberti, Le magistrature, pp. 152-153, nr. 9, II 31 luglio.
158. Cf. sopra, testo corrispondente alle nn. 141-144.
159. M. Roberti, Le magistrature, p. 99, n. 3.
160. Codice diplomatico veneziano, doc. 1105 luglio.
161. Sull'argomento si vedano M. Roberti, Le magistrature, pp. 94-103, e G. Zordan, Le persone, pp. 358-359, che riprende sinteticamente le osservazioni di Roberti.
162. Sopra, § 6.
163. Documenti relativi, II, nr. 57, ante 31 agosto 978.
164. Ibid., nr. 58, anni 978-979, 31 agosto.
165. Ibid., nr. 59, anni 979-991.
166. Ibid., nr. 70, anni 994-1008.
167. Di quelli che non sono accompagnati dalla designazione della località supponiamo con G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 419, che essi risiedessero nella "civitas" di Rialto; ma una eccezione certa è costituita dai Marcello: avanti, testo corrispondente alle nn. 228-229.
168. L'elenco nel testo è dato seguendo l'ordine dei documenti concernenti le decime; abbiamo omesso due contribuenti di Gemine e uno di Castello, perché facenti parte del gruppo realtino. Non è possibile, in questa sede, fornire i confronti puntuali per ogni persona e famiglia tra la presenza negli elenchi delle decime e quella nei singoli documenti pubblici, a partire dalla seconda metà del secolo X fino al secolo XII, per la cui indicazione rinviamo all'appendice al secondo contributo.
169. "Diesenove" richiama, nella sua forma volgarizzata, il nome "Decemetnovem" di una famiglia presente nella documentazione pubblica in documenti alla fine del secolo XI e alla metà del successivo. Non abbiamo rinvenuto elementi circa un loro eventuale inurbamento.
170. I Serzi risultano abitare in vari "confinia" della città: Documenti del commercio, I, nr. 24, 1095 luglio; nrr. 43 e 44, 1120 febbraio; nr. 47, 1125 settembre; nr. 50, 1127 settembre; nr. 77, 1141 agosto; ecc.
171. Richiamano i Mengolo di Venezia: ibid., nr. 77, 1141 agosto; nr. 357, 1185 giugno.
172. Ibid., nr. 284, 1177 giugno 9; nr. 303, 1179 marzo.
173. SS. Ilario e Benedetto, nr. 48, 1198 settembre 15.
174. Documenti del commercio, I, nr. 225, 1170 giugno; nr. 333, 1182 luglio.
175. I Vittore potrebbero rinviare ai Vitturi: ibid., nr. 78, 1142 maggio; Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Venezia 1953, nr. 15, 1158 febbraio.
176. Gina Fasoli, Comune Veneciarum (1965), poi in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di Francesca Bocchi - Antonio Carile - Antonio Ivan Pini, Bologna 1974, pp. 480 ss. (pp. 473-497); G. Zordan, Le persone, p. 150.
177. SS. Trinità, nr. 8, anni 1027/1028; Codice diplomatico padovano, III, nr. 1499, 1049 novembre lo; SS. Trinità, nr. 12, 1050 novembre; ibid., nrr. 16 e 17, 1053 marzo; Codice diplomatico padovano, I, nr. 197, 1067 aprile 2; SS. Trinità, nr. 32, 1087 settembre.
178. S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 14, 1137 giugno.
179. Per il significato di "habitator" si veda sotto, n. 198.
180. Doc. dell'anno 1075, citato sopra, n. 92.
181. L. Lanfranchi, Documenti, nr. 5, 1067 giugno.
182. Ibid., nrr. II, 15, 17, 22, 23, ecc.
183. Gino Luzzatto, I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-X V). Introduzione storica e documenti, Padova 1929, nr. 2, 1187 maggio.
184. Sui tribuni, fra i quali appaiono i Pascaligo, si veda A. Castagnetti, Famiglie, § 3.
185. Dalla metà del secolo alcuni compaiono in Oriente: Nuovi documenti, nr. 10, 1150 dicembre; nr. 12, 1151 dicembre; Documenti del commercio, I, nr. 173, 1166 ottobre; nr. 234, 1170 ottobre.
186. SS. Ilario e Benedetto, nr. 26, 1164 giugno.
187. Doc. citato sopra, n. 70.
188. Doc. citato sopra, n. 87.
189. SS. Secondo ed Erasmo, nr. 21, 1165 aprile, Equilo. Un Simone Senatori si sottoscrive nel documento quale testimone.
190. Nuovi documenti, nr. II, 1151 ottobre; Documenti del commercio, I, nr. 206, 1168 maggio; nr. 233, 1170 ottobre.
191. Ibid., I, nr. 380, 1190 aprile; nr. 418, 1193 luglio.
192. R. Cessi, Venezia ducale, II, pp. 191-192.
193. Codex publicorum, sent. I, documenti del marzo e del giugno 1158, pp. 35 e 37.
194. Documenti del commercio, I, nr. 17, 1088 marzo.
195. Ibid., nr. 148, 1161 marzo; nr. 150, 1161 giugno.
196. Ibid., nr. 402, 1191 ottobre: Filippo, attivo in Oriente, viene multato dal duca poiché non aveva ottemperato a un ordine di rientro in patria impartito nel 1188.
197. Ibid., nr. 409, 1192 luglio. Un altro Daibolo, Domenico del confinio di S. Maria Formosa, opera in Oriente (ibid., nr. 258, 1174 settembre) e svolge commerci nell'Adriatico (ibid., nr. 450, 1200 agosto).
198. Mezzo secolo prima (ibid., nr. 54, 1129 luglio) un altro abitante di Malamocco, Pietro Foscari -non crediamo fosse imparentato con la più nota omonima famiglia veneziana -, presente a Costantinopoli, ove si divide da una compagnia, è detto "modo habitator" nel confinio di S. Maria di Zobenigo. La vicenda di Filippo e la designazione di Pietro suggeriscono l'ipotesi - ma essa va verificata con documentazione più ampia - che la qualifica di "habitator" potesse essere applicata nei confronti di recenti inurbati.
199. S. Giorgio, nr. 28, 1069 aprile. Altri Sambatino, omonimi o parenti non è possibile saperlo -, sono presenti in Chioggia fin dal secolo XI: ad esempio, un Sambatino è gastaldo (SS. Trinità, nr. 12, 1050 novembre; S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 6, 1088 dicembre).
200. Paul F. Kehr, Italia pontificia. VII. Venetia et Histria, II, Berlin 1925, p. 90, nr. 9, 1064 giugno 30, e nr. 16, 1106 ottobre 21.
201. S. Lorenzo di Ammiana, nr. 87, 1196-1197, p. 97. Solo in questa deposizione, per quanto ci risulta dai documenti editi consultati, viene impiegato il termine "domus" per indicare un gruppo familiare, termine invece già in uso nei comuni cittadini del Regno Italico all'interno dei ceti dominanti: si veda per Verona Andrea Castagnetti, La società veronese nel medioevo. II. Ceti e famiglie dominanti nella prima età comunale, Verona 1987, pp. 74-80.
202. Documenti del commercio, I, nr. 218, 1169 dicembre; nrr. 282 e 283, 1177 maggio; nr. 339, 1183 giugno.
203. Ibid., nr. 164, 1164 dicembre; nr. 179, 1167 febbraio; ma altri documenti nominano Dondi di Ammiana: ibid., nr. 295, 1178 agosto.
204. Ibid., nr. 67, I135 novembre, confinio di S. Fosca; S. Giorgio, II, nr. 153, 1128 marzo, confinio di S. Cassiano.
205. Documenti del commercio, I, nr. 273, 1176 marzo; nr. 305, 1179 aprile. Alcuni Sisinulo sono dichiarati già di Ammiana e ora "habitatores" in "confinia" di Venezia: ibid., nr. 305, 1179 aprile; nr. 129, 1157 agosto. I Sisinulo mantengono interessi in Ammiana: San Lorenzo di Ammiana, nr. 21, 1176 gennaio; nr. 79, 1195 ottobre; nr. 87, pp. 103 e 104.
206. Vitale Voltani di Ammiana nel confinio di S. Maria Formosa: Documenti del commercio, I, nr. 129, 1157 agosto; poi in altri "confrnia": ibid., nr. 166, 1165 maggio; nr. 199, 1168 febbraio; nr. 234, 1170 ottobre; nr. 305, 1179 aprile; nr. 308, 1179 agosto. Non sempre è certo, ma in alcuni casi appare indubbio che dello stesso Vitale si tratti, come provano, oltre ai riferimenti ad Ammiana, i rapporti di affari e di parentela con i Sisinulo.
207. Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae, I-XIV, Venezia 1749: X/1, nr. 67, 1001 marzo; Antonio Baracchi, Le carte del mille e del millecento che si conservano nel r. Archivio di Venezia, Venezia 1882, nr. II, 1137 giugno; P. F. Kehr, Italia Pontificia, p. 101, nr. 1: in nota il Kehr fornisce altre indicazioni documentarie del cardinale Stefano, rela tive a sue presenze in Torcello nel 1127, in Carinzia nel 1136 e ad Aquileia nel 1138.
208. R. Cessi, Venezia ducale, II, p. 145.
209. Sopra, testo citato alla n. 176. Sembra che uno degli Auri di Burano si sia inurbato: Documenti del commercio, I, nr. 90, 1147 maggio, e nr. 180, 1167 marzo.
210. A. Baracchi, Le carte del mille, nr. 31, anno 1160.
211. Documenti relativi, II, nr. 87, 999 febbraio: la pieve è la prima ad apparire nella documentazione fra quelle della laguna, se si eccettua la chiesa di Grado così definita nell'827 (sopra, n. 14).
212. P. F. Kehr, Italia Pontificia, p. 104, nr. 2.
213. Ibid., p. 57, nr. 96, anno 1065.
214. Riferimenti ibid., pp. 104-105, nr. 3, anni 1145-1151; nr. 4, anno 1151; nr. 5, anno 1172; nr. 7, anno 1189; nr. 8, anno 1189.
215. Ferdinando Ughelli, Italia sacra, I-X, Venezia 1717-17222: V, col. 1374, doc. 1068 aprile.
216. Ibid., coll. 1374-1375.
217. SS. Trinità, nr. 26, 1065 giugno.
218. Confinio di S. Marina: Documenti del commercio, I, nr. 42, 1120 gennaio; nr. 75, 1139 novembre; S. Maria Formosa: Famiglia Zusto, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955, nr. 19, 1147 aprile; S. Stefano: P. F. Kehr, Italia Pontificia, p. 187, nr. 4, anno 1165.
219. Codex publicorum, p. 207, doc. 1171 febbraio, Murano.
220. G. Cracco, Venezia, p. 35.
221. A. Baracchi, Le carte del mille, nr. 117, 1197 luglio.
222. Sui Nanni di lido "Bovensis" o lido Maggiore sussistono documenti numerosi in S. Lorenzo di Ammiana: nr. II, 1164 dicembre (Giovanni gastaldo di "Litore Bovensis"); nr. 21, 1176 gennaio; e ancora nrr. 37, 57, 64, 90, 93.
223. Sopra, § 6. Solo con il secolo XIII sarà dato avvio all'istituzione di podestà locali, uno dei quali risiederà in Torcello: Codex publicorum, nr. 33, 1247 marzo 14.
224. Daniela Rando, Le strutture della chiesa locale, infra, testo corrispondente alle nn. 78 ss.
225. Doc. citato sopra, n. 87.
226. Sopra, § 6.
227. Sopra, n. 208.
228. Famiglia Zusto, nr. 6, 1111 settembre.
229. Documenti del commercio, I, nr. 323, 1180 ottobre; nr. 401, 1191 ottobre; nr. 404, 1192 aprile. I Marcello mantengono interessi in Torcello: S. Giovanni Evangelista di Torcello, nr. 31, 1159 settembre; nr. 40, 1164 dicembre; nr. 58, 1171 maggio.
230. Famiglia Zusto, nr. 8, II2I novembre; nr. 21, I152 giugno.
231. Documenti del commercio, I, nr. 118, 1155 dicembre; nr. 140, 1159 ottobre.
232. Barozzi: ibid., nr. 209, 1168 agosto; Gausoni: ibid., nr. 363, 1186 marzo.
233. Poiché la maggior parte delle indicazioni sul fenomeno dell'inurbamento, se così possiamo definirlo, in Rialto provengono da una documentazione della seconda metà del secolo XII, siamo stati costretti a superare con frequenza i 'limiti' cronologici del volume in cui il presente contributo è compreso.
234. A esse può essere aggiunta la famiglia dei Tiepolo, se accettiamo l'ipotesi del loro inurbamento già nella seconda metà del secolo XI.
235. Constatazioni analoghe emergono dalla considerazione degli aspetti commerciali: sono accertabili correlazioni significative tra la frequenza del fenomeno dell'inurbamento e la presenza delle famiglie di inurbati nell'ambito commerciale, oltre che in quello pubblico; mentre rimane scarsa la presenza nelle attività commerciali degli abitanti dei centri minori.