Insegne del potere e titoli ducali
Scrive il cronista Boncompagno da Signa che verso il 1173 il doge di Venezia aveva alcune insegne regali (quedam regalia insigniti) (1). Di queste insegne si sa molto poco. Fino alla metà del secolo XII possiamo disporre soltanto di due testimonianze utili, relative entrambe al cerimoniale di investitura. A dire il vero, il doge-cronista Andrea Dandolo riferisce che il primo duca veneziano, Paoluccio Anafesto, fu intronizzato "con le insegne ducali" (cum insignibus ducalibus) (2). Ma, a parte l'attendibilità della notizia e la dubbia storicità di Paoluccio, non precisa quali esse siano state. Per muoverci su un terreno più sicuro dobbiamo arrivare all'887, anno in cui Giovanni II Particiaco si ritirò dal potere cedendolo a Pietro I Candiano. Fino a quel momento si era divenuti dogi per due vie: a seguito della deposizione del predecessore o, in modo più tranquillo, attraverso il sistema della coreggenza. In forza di tale istituto, di matrice bizantina, il doge in carica si associava un collega, di norma un parente, il quale gli sarebbe automaticamente subentrato al governo.
Era consuetudine fin dai tempi più antichi, a Bisanzio, che il sovrano in carica si associasse uno o più colleghi formalmente di pari grado. Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall'altro dava l'avvio al costituirsi di dinastie più o meno durature. A Venezia la coreggenza fu introdotta da Maurizio Galbaio (764-787), che si associò il figlio, e venne conservata fino all'abolizione del 1032. Come a Bisanzio, portò un elemento di stabilità nella successione in contrasto con il movimentato quadro politico dei tempi. Essa tendeva a dare una caratterizzazione dinastica al dogato ma, non di meno, limitava almeno in parte i contrasti interni e le feroci lotte fra le fazioni rivali. La coreggenza, tuttavia, fu spesso messa in ombra dagli avvenimenti e, in ogni caso, non si ebbero più di tre dogi consecutivi in una famiglia e per di più in una sola occasione. Molti duces furono rimossi violentemente e sostituiti con esponenti di famiglie rivali. In questo caso li attendeva la morte, l'accecamento, l'esilio o la forzata assunzione degli ordini sacri.
Esistevano verosimilmente diverse forme di investitura a seconda del tipo di successione. L'associazione al potere comportava forse, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano. A Bisanzio, infatti, l'imperatore in carica rivestiva l'associato delle insegne primarie della regalità, che erano il manto di porpora e la corona. L'usanza, già attestata nel tardo antico, trova una precisa definizione protocollare nel Libro delle cerimonie di Costantino VII Porfirogenito. "L'imperatore, aiutato dai prepositi [scrive Costantino VII>, riveste della clamide il sovrano appena eletto; il patriarca fa quindi una preghiera sulle corone e incorona dapprima con le sue mani l'imperatore anziano. Dà quindi la corona all'imperatore anziano e questi incorona il sovrano neoeletto" (3). A Venezia l'investitura doveva aver luogo di fronte all'assemblea popolare che, a quanto sappiamo, era talvolta convocata per ratificare la scelta del coreggente. Ma, come si è detto, ci muoviamo in un terreno più sicuro soltanto al momento del trapasso dei poteri fra Giovanni II Particiaco e Pietro I Candiano. L'episodio è di un certo rilievo sotto il profilo costituzionale e, inoltre, ci offre la prima indicazione coerente sulle insegne dogali. Vediamo per maggior chiarezza di ripercorrere gli avvenimenti. Il doge, sentendosi infermo, si prese come collega il fratello Pietro, presentandolo per l'acclamazione all'assemblea popolare (populo adclamante). Ma Pietro di lì a poco morì e Giovanni si associò un altro fratello di nome Orso. Orso rinunciò e, a questo punto, i Veneziani provvidero direttamente a scegliere un nuovo duca. Fu eletto "in casa sua" (infra domum ipsius) il nobile eracleese Pietro Candiano: il vecchio doge lo convocò a Palazzo, gli consegnò le insegne del potere e si ritirò nella sua dimora privata. La vicenda ebbe poi un seguito. Pietro I Candiano morì qualche mese più tardi combattendo gli Slavi in prossimità di Zara e, a Venezia, fu richiamato temporaneamente al potere Giovanni II Particiaco. "Il duca Giovanni [scrive Giovanni diacono>, sebbene ancora malato, tornò a Palazzo su preghiera del popolo ma, non volendo rimanervi a lungo, diede licenza al popolo di eleggere il duca che volesse" (licentiam populo dedit ut constitueret sibi ducem quem vellet). La scelta cadde su Pietro Tribuno e, quando fu compiuta, il vecchio doge tornò di nuovo a casa propria, questa volta per restarvi fino alla morte (4).
Il rilievo costituzionale dell'avvenimento è dato dal nuovo ruolo che qui assume l'assemblea popolare nella successione dogale. Fino a quel momento l'assemblea, il populus veneziano, si era limitata al massimo a dare il proprio assenso a decisioni già prese, come nel caso della scelta di Pietro Particiaco. In questa occasione, al contrario, entrò in scena in prima persona dapprima anticipando le scelte del duca poi raccogliendo il suo invito per l'elezione di un successore. Da quel momento in poi, a quanto pare, il populus eserciterà regolarmente il diritto di intervenire nella designazione di un dux e non solo in questa, ma anche nelle deposizioni, nelle revoche di bandi o nella eventuale soppressione di usurpatori. Fino ad allora, al contrario, il ruolo dell'assemblea era stato notevolmente marginale. Il cronista Giovanni diacono, a dire il vero, già ricorda una procedura elettorale in piena regola per la scelta del primo doge di Venezia, quel Paulicio di cui si è detto: "Tutti i Venetici [egli afferma>, riuniti assieme al patriarca e ai vescovi, di comune accordo deliberarono che da allora in poi sarebbe stato più onorevole stare sottomessi a un solo duca anziché ai tribuni; e, dopo avere esaminato a lungo chi dovessero innalzare a tale dignità, alla fine scelsero un uomo molto esperto e illustre, di nome Paulicio, gli prestarono giuramento e lo nominarono duca in Eraclea" (5). Ma la moderna critica storica non presta credito a tale ricostruzione, che pare soltanto anticipare procedure in uso più tardi. L'affermazione dell'assemblea popolare, in ogni caso, non stabilizzò il sistema di successione. Continuarono a essere praticate sia la coreggenza che la deposizione del doge in carica. Quest'ultimo fenomeno andò attenuandosi soltanto a partire dalla metà del secolo XI, fino a divenire l'eccezione, in significativo parallelo alla perdita di potere da parte dei dogi. La riforma dell'887 non incise neppure sull'autorità del doge: il ducare continuò ancora per secoli a mantenere amplissimi poteri. La pienezza della sua giurisdizione, infatti, sarebbe stata svuotata dagli organismi costituzionali soltanto in relazione all'affermarsi del comune veneziano.
Quando Pietro Candiano si presentò a Palazzo, dopo essere stato eletto, il predecessore gli consegnò le insegne del potere:
il duca Giovanni, convocandolo benevolmente a Palazzo, gli consegnò la spada, il bastone e il seggio e, costituendolo suo successore, tornò a casa propria (quem domnus Johannes dux clementer ad palatium convocans, spatam fustemque ac sellam ei contradidit, eumque sibi successorem constituens, ad domum suam reversus est) (6).
Così racconta Giovanni diacono e, tre secoli più tardi, il Dandolo conferma sostanzialmente quanto da lui affermato:
e, recandosi a Palazzo, fu accolto benevolmente dall'ex doge Giovanni e da lui ottenne le insegne della dignità (ad palacium accedens, a Iohane, olim duce, clementer susceptus est, et insignia dignitatis ab illo optinuit) (7).
Si ha dunque una cerimonia a Palazzo, apparentemente molto semplice e di carattere privato, durante la quale ha luogo il formale trapasso dei poteri. L'ex doge consegna al successore le insegne della dignità: la spada, il bastone o scettro e il seggio. Il doge, si ricordi, è già stato eletto in casa sua e la consegna delle insegne ha luogo separatamente dall'elezione. Tenuto conto che per la prima volta si ha un simile avvicendamento al potere, non possiamo dire ovviamente come siano andate le cose in precedenza. L'unica cosa che pare evidente da Giovanni diacono è che si tratta di insegne abitualmente in uso ai dogi. E chiaro, infatti, che in caso contrario avrebbe rilevato la novità eventualmente introdotta nel rituale di proclamazione. Una cerimonia del genere si ripeté probabilmente in casi analoghi, come l'elezione successiva di Pietro Tribuno o di Pietro II Candiano nel 932. Il primo subentrò a Giovanni II Particiaco nel modo in cui si è detto, mentre Pietro II Candiano fu eletto al posto di Orso II Particiaco che si ritirò volontariamente in monastero. Ma non sappiamo come siano andate le cose quando un doge subentrava al predecessore dopo la morte di questo.
Bisogna infatti andare molto avanti nel tempo per avere un altro resoconto sull'investitura di un doge. Si tratta questa volta dell'elezione di Domenico Selvo, nel 1071, che ci è raccontata con molti particolari dal chierico Domenico Tino testimone oculare dell'avvenimento. Dopo la morte di Domenico Contarini, racconta il Tino, gli abitanti di quasi tutto il ducato (totius fere Venetie populi innumerabilis multitudo) convennero con barche armate sulla spiaggia di S. Nicolò del Lido, come era usanza (solito more), per eleggere il nuovo doge. Nello stesso tempo i vescovi con il clero e i monaci di S. Niccolò si riunirono nella chiesa del monastero per implorare che fosse concesso un duca conveniente alla dignità e gradito a Dio e ai Veneziani. A un certo punto si levò un grande clamore fra la folla e tutti quasi a una sola voce ripeterono: "Domenico Selvo vogliamo e approviamo" (Dominicum Silvium volumus et laudamus). La richiesta fu ripetuta per qualche tempo e, non essendosi registrate opposizioni (nullo interdicente), molti nobili seguiti da un gran numero di persone lo accompagnarono a una barca tenendolo sulle spalle. Salito su questa, il nuovo doge ordinò che gli fossero tolti i calzari e così entrò più tardi in San Marco, in segno di umiltà, per ricevere l'investitura del ducato all'altare della basilica (et discalceatus humiliter ad beatissimi Marci ecclesiam incedit, ab cuius veneranda ara ducatus investituram suscepturus erat). Insieme al neo-eletto era salito sulla barca il chierico Tino, l'autore della relazione, e non appena questa si staccò dal lido egli iniziò a intonare il Te Deum laudamus. Il tripudio della folla era al culmine:
non vi è parola o scritto che possa riprodurre le voci che allora seguirono la mia e il clamore del popolo che ripeteva "Kyrie eleison" e rivolgeva le altre lodi allo stesso magnifico principe, quanto grande sia stata la gioia di tutti e quale sia stato il fragore dell'acqua mossa dai colpi dei remi di tante barche, quanto grande inoltre il suono delle campane in tale occasione.
Domenico Selvo arrivò alla riva di San Marco fra i festeggiamenti e di qui fu accompagnato dai nobili all'ingresso della chiesa. Alla porta fu accolto dai suoi cappellani e da numerosissimi altri ecclesiastici ordinati in processione. Essi lo accompagnarono in chiesa cantando così fragorosamente che molti ritennero si scuotessero le volte del tempio. Il doge entrò a piedi nudi e si prosternò rendendo grazie a Dio e a san Marco che lo aveva innalzato a tanta dignità. Prese quindi sull'altare il bastone dell'investitura (ob investituram ducatus baculum ab altari Sanctissimi Marci suscepit). Dopo di ciò si trasferì al palazzo ducale seguito da un grande corteo di popolo; qui ricevette il giuramento di fedeltà da parte di questo e dispose per i donativi (fidelitatis iuramenta a populo recepit, eisque dona dari precepit). Ordinò infine che fossero restaurate le porte, le sedie e le altre suppellettili del palazzo ducale distrutte o danneggiate dopo il decesso del Contarini (8).
L'interesse del racconto è di per sé evidente ma sono necessarie alcune parole di commento. L'elezione del nuovo doge si svolge nell'assemblea, o placito, di cui fan-no parte almeno teoricamente tutti gli abitanti del ducato, che si radunano in grandissimo numero. Questa assemblea era composta, oltre che dal populus o exercitus, dai vescovi suffraganei (di Olivolo, Malamocco, Torcello, Equilo, Eraclea e Caorle), dal clero e dagli abati dei vari monasteri. Mentre poi nell'887 la riunione aveva avuto luogo in casa di Pietro I Candiano, ora si è trasferita sulla spiaggia del Lido. Non sappiamo in quale occasione sia avvenuto il cambiamento, ma doveva ormai trattarsi di una prassi usuale, a giudicare da quanto scrive il Tino (cum [...> in littore Olivolensi solito more pro eligendo duce congregarentur). La consuetudine di riunirsi al Lido pare comunque posteriore al 976 quando l'assemblea ebbe luogo a S. Pietro di Castello per eleggere Pietro I Orseolo. Non è chiaro come esattamente si svolga l'elezione: il relatore la attribuisce a un moto spontaneo e anonimo della folla, che in ogni caso pare presupporre quanto meno l'esistenza di un proponente. Il nuovo doge viene poi acclamato con una formula precisa, di derivazione bizantina: "N.N. volumus et laudamus". Lungo il percorso sono intonati il Te Deum, il Kyrie eleison e le tradizionali laudes. Queste ultime erano cantate solennemente in onore del doge secondo formule precise. L'usanza pare aver origine verso il l000 in Dalmazia allorché i Dalmati e i loro vescovi promisero di cantare le laudi del doge e di inserirle dopo quelle degli imperatori bizantini. La fase successiva è segnata dalle cerimonie di intronizzazione che hanno luogo in San Marco. Domenico Selvo entra in chiesa e si prostra sul pavimento con una tipica proskynesis di matrice bizantina. La proskynesis o adoratio, in uso fin dai tempi più antichi alla corte di Costantinopoli, era infatti il gesto rituale di ossequio che i sudditi dovevano fare in presenza del loro sovrano. Variava dal semplice inchino alla prosternazione, a seconda del rango delle persone e delle circostanze. Lo stesso basileus eseguiva la proskynesis dinanzi al suo sovrano celeste allorché entrava a S. Sofia, così come in questa occasione fa il nuovo doge entrando in S. Marco. Una volta eseguita la proskynesis, il Selvo raggiunge l'altare e qui riceve simbolicamente l'investitura del santo assumendo il baculus dall'altare. Si reca quindi a Palazzo per il giuramento e fa distribuire denaro al popolo, seguendo anche in ciò un'usanza bizantina relativa al rituale di incoronazione.
Il passaggio da un tipo di investitura all'altra, fra 887 e 1071, è stato posto in relazione all'evoluzione politica del ducato veneziano. La trasmissione delle insegne a Palazzo con una cerimonia di "carattere quasi privato e unicamente civile" sarebbe cioè funzionale a non dare nell'occhio alla potenza franca e all'impero bizantino che, almeno formalmente, esercitava la propria sovranità sulle lagune. Al contrario la cerimonia solenne del 1071 rispecchierebbe i cambiamenti intervenuti nel ducato, che già dalla fine del secolo X si affranca da Bisanzio e nel secolo seguente si afferma decisamente come potenza autonoma. L'affrancamento da Bisanzio comportò inoltre la progressiva introduzione di usanze volte a sottolineare la nuova fisionomia del ducato attraverso il suo reggitore:
e ciò combacia [scrive Agostino Pertusi> con l'apparizione a Venezia di usi ("vexillum triumphale", "laudes", tributi e regalie, ecc.) che a poco a poco porteranno il doge a dirsi, prima "dux Veneticorum atque Dalmatianorum" o "Dei favente numine Veneticorum ac Dalmaticorum dux" (Pietro Orseolo I, l000-l006), poi con formula fissa "Dei gratia Venecie Dalmatieque dux" (Domenico Contarini, 1064), infine "Dei grafia Venetie, Dalmatie atque Chroacie dux" (Vitale I Michiel, 1100); a ricevere il giuramento di fedeltà da parte del popolo (959), ad assumere il "baculus", simbolo carismatico del potere, sull'altare della basilica di San Marco in una vera e propria cerimonia di carattere pubblico (seconda metà del sec. X) che sanciva anche religiosamente l'investitura (9).
Non possiamo dire con certezza quale sia stata l'origine delle insegne ducali fin qui esaminate, ma è probabile che provengano da Bisanzio e siano legate all'investitura a "console imperiale" dei primi dogi. Seggio e scettro erano d'altronde insegne consolari nel mondo antico e tali restano fino all'abolizione del consolato ordinario nel 541. Si definiva così la carica di console ricoperta dai privati cittadini, onore che continua a essere concesso sia in Occidente che a Costantinopoli fino al tempo di Giustiniano. Accanto a questo tipo di consolato esistevano poi il consolato imperiale e quello puramente onorario. Il primo si aveva allorché il sovrano diveniva console; l'altro consisteva nella semplice concessione del rango di consul senza l'effettivo esercizio della carica. Qualche cosa di più concreto possiamo dire semmai sulla cronologia e sul significato politico delle insegne ducali. Tutte le insegne esistenti al momento dell'investitura di Pietro I Candiano paiono anteriori all'887, come già si è osservato. Lo scettro, definito sia fustis che baculus, ricompare nell'investitura di Domenico Selvo e, ancora, al tempo di Ordelaffo Falier (1102) e, probabilmente, di Domenico Michiel (1118-1129). Con uno scettro nella mano destra è raffigurato lo stesso doge Falier nel noto smalto della Pala d'Oro, ammesso che di lui si tratti e non del semplice rimaneggiamento di un'originaria figura di un personaggio della corte bizantina. Nel primo caso sarebbe la più antica immagine di un doge veneziano giunta fino a noi. Il baculus è però scomparso al momento dell'elezione di Pietro Polani (1130), quando è stato sostituito con il "vexillum ducatus" o "vexillum S. Marci". Lo si ritrova comunque a Costantinopoli nel 1204, al momento cioè della costituzione dell'impero latino, in mano al doge di Venezia. La spata, da comprendere probabilmente fra i regalia insignia di cui scrive Boncompagno, è regolarmente in uso nei secoli XIII e XIV. Il seggio, infine, pare ugualmente da annoverare fra questi regalia insignia ed è poi attestato in uso nel secolo XIII come "faldistorio".
Il baculus era l'insegna più importante fra quelle esaminate e ad esso si attribuiva un valore quasi carismatico. Lo prova chiaramente il fatto che la parte più solenne della proclamazione di Domenico Selvo consiste nell'assunzione di questo sull'altare di S. Marco. E appunto il baculus, in quanto tale, va soggetto a una significativa evoluzione, che è stata correlata all'evolversi dei poteri del doge. Esaminiamo, per meglio chiarire quanto si afferma, un'altra cerimonia di investitura che, sebbene ci porti al di fuori dei limiti cronologici di questa indagine, consente di poter sviluppare in modo compiuto un'analisi delle insegne. Il racconto è molto più breve del precedente e concerne, a quanto pare, l'elezione di Sebastiano Ziani nel 1172. Ne è autore il piovano Antonio de Faustinis. Vi si legge che il doge
dopo aver reso grazie a Dio fu condotto all'altare di S. Marco e prestò giuramento di conservare la libertà di questa chiesa. E quindi, ricevendo l'investitura col vessillo da parte del primicerio di S. Marco, fu in seguito intronizzato a Palazzo (qui Deo gratiis exhibitis ad altare S. Marci delatus, de libertate dictae ecclesiae conservanda praestitit iuramentum, et postmodum a Primicerio cum vexillo investitionem accipiens in palatio praeterea tronizatus est).
Il giuramento, aggiunge l'autore, fu prestato sui Vangeli secondo il testo poi inserito nella promissione ducale prima di ricevere l'investitura con il vessillo del ducato (priusquam nec vexillum ducatus a Domino Primicerio vel maiore canonico investitionem accipiat) (10).
La cerimonia non è molto diversa da quella del 1071, a parte l'introduzione del giuramento. Ciò che varia è però il modo di investitura. Mentre infatti nel I107 questa ha luogo sempre all'altare ma con lo scettro, un secolo più tardi si svolge "per vexillum", cioè attraverso l'assunzione del vessillo del ducato. Al di là delle apparenze, il significato del cambiamento è profondo e si lega all'evoluzione dell'autorità ducale. Nel IX, X e anche XI secolo il doge era infatti come un monarca, con poteri pressoché illimitati. Ma questi poteri andarono progressivamente riducendosi e, come si è detto, vennero circoscritti dagli organismi consultivi. Ciò malgrado, il dux continuò a rimanere il simbolo dell'unità e dell'autorità governativa. L'inizio del processo tendente a circoscrivere i poteri del doge va colto all'indomani della rivoluzione che, nel 1032, rovesciò la dinastia degli Orseolo. Andò quindi accentuandosi in parallelo alla formazione del comune veneziano fino a giungere a compimento nel secolo XII. Possiamo anche seguirne, per maggiore chiarezza, le tappe fondamentali. Nel 1143 per la prima volta accanto al dux e ai suoi giudici (che già esistono dal IX secolo) apparve un consilium sapientium al quale il popolo veneziano era obbligato ad obbedire con giuramento. Si era al tempo di Pietro Polani (1130-1148) e questo consiglio fu istituito "per l'onore, l'utilità e la salvezza della patria" (pro honore et utilitate seu et salvatione nostre patrie). Si trattava di un organo consultivo che, unito ai giudici, aveva anche potere deliberativo e confermava inoltre l'elezione del doge. In coincidenza con l'apparizione del consilium sapientium le fonti iniziano a parlare in modo significativo di comune, a partire dall'atto di pace con Padova nel 1144. In seguito la riduzione dei poteri ducali andò avanti con celerità. Nel 1165 i bona comunis vennero sottratti alla libera disponibilità del dux, nel 1172 cominciarono a essere modificate le procedure di elezione e nel corso dello stesso secolo comparve anche la pro missione dogale, che vincolava il doge al rispetto di determinati impegni nell'esercizio delle sue funzioni. Come è noto, la prima promissio giunta fino a noi è quella di Enrico Dandolo, che risale verosimilmente al 1192. Ma già da qualche tempo, sicuramente, il doge si impegnava con un giuramento verso gli abitanti della laguna. Il primo dux a prestare la promissio fu comunque o Pietro Polani o il suo successore Domenico Morosini (1148 1156), entrambi al governo in significativa coincidenza con l'apparizione del comune a Venezia. Durante lo stesso secolo XII comparvero inoltre accanto al doge, oltre al consilium e ai giudici, gli avogadori e i camerari (1178 1179) e, nel 1185, il consilium minus a fronte del consilium maius. La stessa riforma della procedura di elezione, infine, contribuì notevolmente al contenimento dei poteri ducali. Questa riforma, si è detto, prese le mosse nel 1172. Dopo l'assassinio di Vitale II Michiel (1156 1172), infatti, venne per la prima volta istituito un collegio di undici elettori per la scelta del doge, sottratta in questo modo all'assemblea popolare cui rimase soltanto il diritto di ratifica. Da questo momento la nuova procedura subì una serie di aggiustamenti, restando però tale nella sostanza, fino al 1268 quando raggiunse la forma in cui si sarebbe mantenuta pressoché inalterata. Sul cadere del XII secolo, in conclusione, si avviava a compimento il processo di esautoramento dei poteri regalistici del doge.
La riforma dell'autorità ducale trova una significativa conferma nella nuova procedura di investitura. È infatti scomparso il baculus, da sempre emblema di potenza e di autorità e come tale connesso alla dignità regia, per essere sostituito con il vessillo del ducato. Non sappiamo con certezza quando il cambiamento sia avvenuto, ma vi è ragione di credere che abbia luogo con l'elezione di Pietro Polani nel 1130, in coincidenza ancora una volta con i nuovi assetti interni assunti dal ducato. Il vexillum ducatus si lega infatti simbolicamente alla comunità e non più, come il baculus, all'autorità personale del doge. Già agli inizi del XII secolo il vessillo con l'immagine di s. Marco dovette infatti assumere un significato particolare:
non significò più soltanto, come in origine, il patronato di s. Marco sul ducato o la potenza e la gloria del ducato, ma quasi con certezza fu considerato come il simbolo di quel concetto dell'"honor et profectum patrie" che è già una acquisizione al tempo del doge Domenico Michiel e che è l'immediato antecedente dell'altro concetto più impegnativo dell'"honor et profectum communis Venetiarum"; altrimenti non si comprende perché esso sia stato scelto, al posto del " baculus ", nell'investitura ducale (11).
La riforma della cerimonia di investitura mirava, in sostanza, a svuotare simbolicamente l'originaria autorità regalistica del doge. Si trattava quindi di un cambia mento rilevante sotto il profilo istituzionale, una sorta di rivoluzione pacifica, che noi possiamo valutare appieno in parallelo all'evoluzione degli ordinamenti interni del ducato. Il baculus, si è detto, non scomparve del tutto. Lo ritroviamo in mano al duca veneziano nel 1204, allorché Enrico Dandolo e il neo-eletto imperatore latino di Oriente, Baldovino di Fiandra, entrarono al palazzo imperiale: "tuti do [si legge in una tarda cronaca> portava la bacheta in man con le sue spade avanti chadauno de loro" (12). Non compare più a Venezia, però, se non in mano al giudice supremo del ducato come insegna della sua potestà di giudicare. Seggio e spada, al contrario, vennero conservati ma non ebbero più lo stesso valore simbolico. Comparvero tuttavia nel corso del tempo altre insegne, in misura inversamente proporzionale alla diminuzione dei poteri del duca. "Quanto più diminuiranno gli originari poteri regalistici del doge [scrive ancora il Pertusi>, a beneficio della comunità e dello stato, tanto più aumenteranno le insegne dello stesso doge, cioè di colui che impersonava il simbolo dello stato veneziano". Vediamo così comparire dapprima il circulus aureus in torno al berretto, di cui parla Boncompagno da Signa, "poi la corona preziosa attorno al corno ducale di broccato d'oro, poi il camauro, poi l'ombrello in tessuto d'oro, poi il vestito anch'esso tutto d'oro, le calze rosse, le scarpe nere punteggiate d'oro e di porpora, le trombe d'argento, gli stendardi, il bucintoro e via dicendo" (13). Così si mostrava ad esempio un doge del XIII secolo:
sappiate che messere il doge di Venezia porta corona e dovunque va si fa portare la spada, e gliela porta un gentiluomo; e nelle feste solenni messere il doge porta in capo una corona d'oro con pietre preziose e indossa una veste di drappo intessuto d'oro; e dov'egli va nelle feste solenni lo segue un giovinetto che porta un ombrello di drappo intessuto d'oro sopra il suo capo, e davanti a lui un giovinetto porta un bellissimo faldistorio e un altro giovinetto porta un cuscino ricoperto di un drappo intessuto d'oro: e lo segue sempre la spada, e gliela porta un gentiluomo (14).
L'iconografia non ci è di grande aiuto per le più antiche insegne ducali. La più antica bolla dogale conservataci risale al tempo di Pietro Polani, sotto il quale doge peraltro pare iniziare l'uso del sigillo plumbeo. In questa bolla vediamo il vexillum, come anche probabilmente in quella del successore Domenico Morosini. Le monete non sono assolutamente utili allo scopo, almeno in questo contesto, perché la prima con immagine del doge risale al tempo di Enrico Dandolo (1192-1205). I mosaici marciani più antichi sono da collocare nel secolo XIII, tuttavia le insegne che in essi compaiono sono probabilmente identiche a quelle in uso in precedenza. Nell'arco superiore della cappella di S. Clemente, in S. Marco, si vede Giovanni Particiaco che con clero e popolo riceve a Venezia il corpo del santo. A fianco del doge si nota un personaggio riccamente vestito, con in mano una spada ricoperta dal fodero, secondo la consuetudine che poco più sopra si è visto essere propria del secolo XIII. Il ciclo della cappella di S. Isidoro, eseguito intorno alla metà del Trecento, ci mostra sia la spada che lo scettro. Nella prima scena è infatti rappresentato il doge Domenico Michiel (1118-1129) in atto di scendere dalla nave sull'isola di Chio. Fra le altre insegne egli porta un corto scettro appoggiato alla spalla destra con la parte superiore e che, in basso, presenta una parte ingrossata d'oro in contrasto con il colore scuro del resto. Alla sinistra del duca pende la spada, sostenuta da cinturone, sulla cui elsa egli appoggia la mano. La spata compare nuovamente nella seconda scena, in cui il Michiel viene raffigurato in atto di rimproverare il chierico Cerbano. La destra, in questo caso, è libera e sollevata in atteggiamento di rimprovero. Il ciclo comprende altre due scene ma in queste non figurano né spada né scettro. Non possiamo affermarlo con certezza, ma è probabile che le due insegne rispecchino abbastanza fedelmente gli originali in uso al doge Michiel nel XII secolo. In tal caso si avrebbe anche una testimonianza sul modo di portare sia la spada che lo scettro, quest'ultimo appoggiato alla spalla e con la parte più grossa e decorata rivolta verso il basso.
Le bolle citate e i mosaici più antichi ci mostrano anche i particolari dell'abito ducale, ma è difficile dire per questi ultimi se siano rappresentazioni realistiche o puramente idealizzate e, in ogni caso, a quale epoca vadano riferiti. Sono da ricordare in proposito l'apparizione delle spoglie di s. Marco e la celebrazione dello scoprimento di queste, nella parete del transetto sud di S. Marco, riferiti ad avvenimenti del 1094, con immagini del doge Vitale Falier. Nel primo si nota il dux in atteggiamento di preghiera preceduto da ecclesiastici e seguito da dignitari e nobildonne. Fra queste sicuramente la dogaressa, che tiene per mano il figlio con in capo la corona mentre un'altra nobildonna ha vicino a sé una bambina, che potrebbe essere la figlia del doge. Nel mosaico con la celebrazione dei riti per il rinvenimento del corpo, al contrario, doge clero e popolo sono effigiati in atteggiamento di proskynesis. Si tratta in questo caso di mosaici eseguiti verso la metà del Duecento, che paiono riprodurre il costume dogale in uso nella seconda metà del secolo precedente. Al costume della fine del Duecento sembra al contrario da riferire il mosaico della lunetta di S. Alipio, in S. Marco, con il doge e la dogaressa e i rispettivi seguiti che accolgono a Venezia il corpo del santo. Un caso a parte, in rapporto alle insegne, è rappresentato dallo smalto della Pala d'Oro di cui si è detto. L'iscrizione che qui si legge attribuisce l'immagine a Ordelaffo Falier (1102-1118) e, se così fosse, si tratterebbe della più antica raffigurazione di un doge veneziano. I particolari iconografici, tuttavia, fanno pensare che si tratti piuttosto di un'originaria figura di un membro della famiglia imperiale bizantina (forse Giovanni Comneno) in seguito rimaneggiata e attribuita al doge Falier. In caso contrario si avrebbe la più antica riproduzione di uno scettro dogale (databile al 1105 circa), dato che il Falier porta con la destra un lungo bastone che termina con una decorazione a tre lobi. Al di là di questo caso dubbio si hanno, in conclusione, testimonianze iconografiche su baculus e spata che, sia pure più tarde, son probabilmente riferibili alla prima metà del XII secolo. I mosaici della cappella di S. Isidoro ci attestano inoltre il modo in cui queste insegne venivano portate dal dux. L'usanza dello spatario che regge la spata ducale in S. Clemente, al contrario, ci riconduce al secolo seguente. Mancano infine immagini di ogni tipo sul seggio ducale.
Un'indagine sulle insegne ducali del periodo più antico non sarebbe completa senza un riferimento ai titoli aulici bizantini dei dogi veneziani. Non è questa la sede per ripercorrere la complessa vicenda dei rapporti fra Bisanzio e Venezia, dall'originaria dipendenza fino alla progressiva autonomia. In linea di massima sarà sufficiente ricordare che lo svincolamento da Bisanzio si ebbe in tempi lunghi, con un processo graduale che non comportò brusche rotture con l'impero ma tutt'al più occasionali periodi di raffreddamento nei rapporti. Se un'indipendenza da Bisanzio esiste già da tempo, infatti, bisogna arrivare alla fine del secolo X perché, da Bisanzio, sia riconosciuta anche un'indipendenza di diritto. Soltanto da questo periodo, in sostanza, sembra che si possa parlare di piena autonomia del ducato veneziano. Piena autonomia che non significa in alcun caso rottura, perché i buoni rapporti sarebbero stati mantenuti ancora per parecchio tempo. Fino al tempo di Alessio I Comneno (1081-1118) vi sarebbe stata anche convergenza di interessi e soltanto nel corso del secolo XII iniziarono i contrasti, che porteranno nel 1204 alla costituzione dell'impero latino di Costantinopoli. Gli stretti vincoli con Bisanzio fino a quasi il Mille risultano evidenti non solo dalla politica in genere seguita dal ducato, ma anche da varie consuetudini che andarono via via attenuandosi fino a perdersi. Fra queste, ad esempio, l'usanza di datare i documenti con il nome degli imperatori regnanti a Bisanzio, che venne conservata fino al termine del secolo X. Sul piano istituzionale, inoltre, la pratica della coreggenza derivata da Bisanzio e, in parallelo a questa, la consuetudine di inviare a Costantinopoli il coreggente per ottenere qui una sorta di legittimazione. A ciò si accompagnano anche i rapporti matrimoniali con la corte di Bisanzio, anche se, come si vedrà, non paiono essere stati molto frequenti. L'aspetto più appariscente in questa prospettiva consiste tuttavia nella quasi sistematica concessione di titoli nobiliari bizantini ai dogi, che sottolineavano in termini tangibili gli stretti legami con l'impero.
Gli imperatori di Costantinopoli concedevano normalmente dignità auliche a stranieri, a titolo di gratificazione, al fine di ribadire un vincolo di alleanza o di soggezione. I beneficiati, dal canto loro, potevano così rafforzare il proprio peso politico e il prestigio personale, dato che il titolo li inseriva nei vari gradi della gerarchia nobiliare dell'impero. La concessione di tali titoli, in Italia, fu condivisa dai duchi di Venezia, Napoli, Amalfi e Gaeta - tutti già dipendenti da Bisanzio - e andò anche al di là dell'esistenza di reali vincoli di subordinazione politica. A Venezia, in particolare, l'usanza ebbe inizio nel secolo VIII e proseguì sia pure in modo discontinuo fino al XII. Il più antico titolo dato da Bisanzio fu quello di Ypatos, cioè di "console imperiale" e il primo a fregiarsene fu il doge Orso (726-737), il terzo nella lista tradizionale. Dopo di lui fu dato a Gioviano, uno dei cinque magistri militum che si avvicendarono al governo nelle lagune, e al doge Maurizio Galbaio (764-787). rpatos fu ugualmente il doge Beato, che venne investito della dignità a Costantinopoli. Con questo avvenimento siamo nel pieno della contesa fra Bizantini e Franchi per il possesso della laguna di Venezia. Il dux filo-franco Obelerio rovesciò il predecessore associandosi poi al trono il fratello Beato. Ma nell'807 arrivò a Venezia l'ammiraglio imperiale Niceta, con una flotta, per ristabilire la supremazia di Bisanzio. Niceta portò con sé Beato rimandandolo dopo qualche tempo in patria. A Costantinopoli, precisa Giovanni diacono, egli fu investito dall'imperatore della dignità di ipato (ab imperatore honore ypati condecoratus est). Durante il soggiorno veneziano, volto a risollevare le sorti del partito imperiale, Niceta conferì inoltre a Obelerio il titolo di spatharios (per Nicetam patricium spatharii honorem accepit). Si tratta di un titolo diverso e più elevato del precedente, conferito evidentemente per delega imperiale dal patrizio Niceta, superiore in dignità allo spatario. L'usanza è attestata anche in seguito e trova riscontro nei rituali della corte bizantina del secolo X.
Qualche anno più tardi, forse nell'813, Agnello Particiaco (811-827) inviò il figlio Giustiniano a Costantinopoli e questo ebbe dall'imperatore la dignità di ypatos. Si tratta del primo caso, a quanto sappiamo, di un doge che invia a Bisanzio il proprio figlio. Pietro Tradonico (836-864) fu elevato dall'imperatore al rango di spatharios per mano del patrizio Teodosio. Teodosio raggiunse Venezia su ordine del sovrano per chiedere aiuto contro gli Arabi e vi si fermò per un anno. Siamo con questo avvenimento fra 840 e 841. Come già Niceta, il patrizio Teodosio portò il titolo da Bisanzio e conferì l'investitura al doge (spatharii honoris investituram Petro contulit duci).
Nell'879 Orso I Particiaco (864-881) ottenne da ambasciatori bizantini il rango di protospatharios accordatogli da Basilio il Macedone e, assieme a questo, ricevette ricchi doni (ab imperialibus internunciis protospatharius effectus est, donis amplissimis ditatus est). Orso I, a sua volta, inviò dodici campane a Costantinopoli, fino ad allora non usate dai Greci, che vennero collocate nella Nea, cioè la chiesa fatta edificare a Palazzo da Basilio I. Non è specificato in questa occasione il motivo del conferimento del titolo, che va genericamente correlato ai buoni rapporti al momento esistenti con Bisanzio. Va detto a questo proposito che Orso I sposò una nipote di Basilio I, che fu la prima dogaressa bizantina. Lo stesso titolo di protospatario fu poi concesso da Leone VI a Pietro Tribuno (888-912) fra 891 e 901 (protospatharii honorem sibi iniunxit), forse a seguito della vittoria sugli Ungari nel 900. Il successore Orso II Particiaco (912-932) non ebbe titoli aulici, ma il figlio Pietro ottenne nuovamente il rango di protospatario quando fu inviato dal padre a Costantinopoli subito dopo la sua ascesa al dogato. Pietro Particiaco non fu coreggente ma non di meno venne proclamato doge dopo l'immediato successore del padre, Pietro Candiano II (932-939). Pietro Candiano II, a sua volta, mandò appena eletto il figlio da Romano I e Costantino VII e ottenne per sé la dignità di protospatario (a quibus protospatharius effectus, cum maximis donis ad Veneciam rediit). Questo stesso doge in una lettera a Enrico I e ai prelati tedeschi nel 932 si definisce "imperialis consul et senator" mentre nel patto di Giustinopoli (Capodistria) risulta essere "protospatharius". Non è chiaro cosa significhi il titolo di senator, che non compare nella gerarchia aulica in quanto tale, ma potrebbe riferirsi al fatto che l'ypatos faceva parte delle dignità "senatoriali", i cui detentori appartenevano a una sorta di senato di apparato. Il consul-ypatos è comunque gerarchicamente inferiore al protospatario e si deve perciò pensare a un onore concesso in precedenza da Bisanzio.
Per parecchi anni, in seguito, non si ha notizia del conferimento di dignità imperiali. Questo fenomeno riguarda i dogi da Pietro III Candiano a Pietro II Orseolo e si estende pertanto nell'arco cronologico fra il 942 e il 1008. I rapporti con Bisanzio andavano evidentemente raffreddandosi. Si ha notizia per di più di occasionali momenti di tensione, come quando nel 971 il governo imperiale protestò per la fornitura di materiale bellico agli Arabi e per altre presunte complicità ai danni di Bisanzio. La situazione cambiò negli ultimi anni di Tribuno Memo (979-991), che mandò a Costantinopoli il figlio, e ancor più sotto Pietro Orseolo II, il conquistatore della Dalmazia (991-1008). Appena eletto l'Orseolo inviò un'ambasceria a Costantinopoli per rinnovare i rapporti di amicizia e ottenne da Basilio II e Costantino VIII una crisobolla favorevole al commercio veneziano. Qualche anno più tardi, nel 1004, la flotta veneziana andò in soccorso del governatore del catepanato d'Italia, assediato dai Saraceni a Bari, e ne provocò la liberazione. Per ricompensa gli imperatori invitarono a corte il figlio e coreggente del doge, Giovanni, al quale conferirono il titolo di patrikios facendolo sposare con una loro nipote di nome Maria. Narra Giovanni diacono che le nozze vennero celebrate dal patriarca di Costantinopoli alla presenza dei sovrani e furono seguite da tre giorni di festeggiamenti. Gli sposi presero quindi dimora in un palazzo della capitale e qui, per ordine di Basilio II, si trattennero finché egli tornò da una spedizione contro i Bulgari. Al ritorno infatti egli diede solennemente a Giovanni Orseolo il titolo di patrizio. L'Orseolo prese quindi la via di Venezia portando con sé la moglie. Qui però morì di peste poco più tardi assieme a lei e probabilmente anche al figlioletto Basilio. Il conferimento della dignità come in altri casi comportò la concessione di doni, che furono fatti al fratello minore Ottone, il futuro doge ([...> patriciatus officii dignitate eundem sublimavit ducem; Ottonem suum puerulum, qui aderat, fratrem muneribus tantum honoraoit). Ottone Orseolo non ebbe però dignità auliche e, dopo di lui, l'onore pare di nuovo concesso a Domenico Flabanico (1032-1042) che fu ordinato protospatario. Domenico Contarini (1043-1071) ebbe prima del 1049 i titoli di patrizio e anthypatos; poi, intorno al 1064, quello più elevato di magistros. Tali concessioni e quelle che si ebbero in seguito sono da mettere in relazione all'importanza di Venezia nella lotta contro i Normanni. Il successore del Contarini, Domenico Selvo, divenne protoproedros fra 1074 e 1076 e nel 1082 ebbe da Alessio I Comneno il titolo di protosebastos. Questa volta fu introdotta anche un'innovazione sostanziale nel conferimento della dignità. Con la nota crisobolla del 1082, infatti, Alessio accordò importanti privilegi commerciali ai Veneziani e conferì ai dogi il titolo ereditario di protosebasto assieme a uno stipendio o roga. Da occasionale, cioè, il privilegio diviene permanente e alla donazione ugualmente occasionale si sostituisce lo stipendio. Anche il Selvo sposò una bizantina, Teodora Ducas, figlia, presumibilmente, dell'imperatore Costantino. Questa donna, a quanto pare, diede scandalo a Venezia per il suo amore del lusso e fu severamente ripresa da s. Pier Damiani. Nel 1o84 Domenico Selvo fu deposto e il titolo, di conseguenza, passò al suo successore Vitale Falier (1084-1096). Il Selvo, che visse ancora qualche anno, continuò però a fregiarsi della dignità imperiale in alcuni documenti. In questo fatto seguiva comunque la consuetudine bizantina, in forza della quale i titoli conferiti non erano revocabili e si estinguevano solo con la morte del detentore. Le successive crisobolle del 1126 e 1147 assieme ai vantaggi commerciali riconfermarono ai dogi la dignità di protosebasto, ma, dopo Ordelaffo Falier (1102-1118), questi non usarono più i titoli bizantini. I rapporti di forza fra Bisanzio e Venezia si erano infatti alterati a vantaggio di quest'ultima e presto si sarebbe arrivati all'ostilità aperta (15).
La considerazione che si ebbe a Venezia dei titoli bizantini è chiaramente attestata da quanto capitò a Giovanni Particiaco. Allorché infatti il padre inviò a Costantinopoli il figlio maggiore Giustiniano associò al potere Giovanni, conferendogli in questo modo il diritto alla successione. Ma quando Giustiniano tornò da Bisanzio fregiato del titolo di ypatos, rifiutò di riconoscere il fatto compiuto e ruppe i rapporti con il padre finché questi non depose Giovanni sostituendolo con lui. E ancora, molto più tardi, la storiografia veneziana ricorda la crisobolla di Alessio Comneno esclusivamente per la concessione del rango di protosebasto al doge. Anche un doge deposto, si è visto, non rinunciò al pomposo titolo conferitogli dal sovrano di Costantinopoli. L'importanza di tali dignità variò tuttavia nel corso del tempo.
Il rango di ypatos, conferito dal 726 circa all'813 e poi di nuovo intorno al 932, si connette all'antica dignità di console. Dopo la sparizione del consolato ordinario, si è detto, sopravvissero il consolato imperiale e quello onorario. Si riteneva per una finzione giuridica che i consoli onorari, già attestati a partire dal V secolo, avessero realmente esercitato il consolato: di qui il titolo di consularis e il diritto di fregiarsi degli ornamenta o insignia consularia. Il consolato onorario conservò un notevole prestigio ma iniziò a decadere già all'inizio del VII secolo. Nei secoli VIII e IX l'ypatos era a Bisanzio un dignitario assai modesto. Il cronista Teofane ricorda due consoli al tempo di Teodosio III (715-717) che erano semplici funzionari provinciali, mentre la posteriore Vita di s. Filareto il Misericordioso è ancora più esplicita in tal senso. Vi si legge infatti che nel 788 il santo rifiutò di ricevere un titolo aulico elevato e si accontentò di quello più modesto di ypatos. La dignità inoltre scomparve nel corso del secolo X, con l'apparizione della carica omonima. Ciò malgrado il titolo fu accettato volentieri dai governanti stranieri fino al secolo X e, come dai dogi veneziani, venne portato in Italia dai principi di Napoli e di Gaeta. Non vi erano neppure difficoltà per ottenerlo. Sappiamo infatti dal placito di Risano dell'804 che qualsiasi tribuno poteva recarsi a Costantinopoli per averlo: "chi voleva un onore più importante di quello di tribuno si recava dall'imperatore, che lo ordinava ipato" (qui volebat meliorem honorem habere de tribuno ambulabat ad imperatorem, qui ordinabat illum ypato). Il problema era semmai di costi per le spese che comportava il viaggio, a cui si univano i diritti da pagare per l'ottenimento della dignità (16). Il titolo di spatharios, conferito nell'807 e di nuovo nell'840 o 841, è attestato a Bisanzio come dignità onorifica fin dal VII secolo e vi si conservò fino all'ultimo quarto del secolo XI quando sparì. Anche in questo caso non si tratta di una dignità elevatissima sebbene più elevata della precedente. Il protospatharios, di rango superiore, compare come semplice dignità nel 718 (o forse già nel 692) ed è considerato un titolo modesto all'inizio del secolo IX. In questo secolo viene largamente distribuito e va soggetto perciò a un forte svilimento, che si accentua nel secolo X. E appunto questo il periodo in cui è concesso ai dogi veneziani. Il titolo di patrikios, creato da Costantino I, è considerato ancora onorevole al tempo di Basilio II, anche se aveva perduto molto dell'originario splendore. Furono patrizi il catepano d'Italia Giovanni Amiropoulos, il governatore di Tessalonica David Arianites o, fra gli stranieri, alcuni capi che si sottomisero o resero importanti servigi a Bisanzio. Il rango di anthypatos (proconsole), conferito a Domenico Contarini verso il 1049, Si univa normalmente a quello di patrikios cui era superiore. Si tratta anche in questo caso di una dignità elevata. A Bisanzio, ad esempio, venne conferito da Michele IV al patrizio Costantino Dalasseno (nel 1034) per stringere buoni rapporti con lui. Fra gli stranieri vennero creati antipati l'emiro di Edessa che nel 1031 consegnò la città all'impero e il duca di Amalfi rifugiatosi a Costantinopoli verso il 1038 e in seguito tornato in patria. Pur importante, la dignità di anthypatos non era tuttavia straordinaria. Lo dimostra anche il fatto che, oltre al Dalasseno, era stata data a personaggi più oscuri come il giurista Kalokyros Sextos che visse sotto Costantino Monomaco (1042-1055). Anche il magistros, dignità più elevata della precedente, era andato incontro da tempo al processo di svalutazione che da sempre a Bisanzio investiva i gradi di nobiltà. Nel secolo X infatti il titolo era con-cesso ereditariamente a principi vassalli armeni e del Caucaso. Alla fine del secolo, inoltre, era già stato eclissato da quello di proedro. Una vera e propria "rivoluzione" nella concessione di onori ai dogi di Venezia si ha solo con il rango di protoproedros di Domenico Selvo. A fine XI, infatti, il protoproedro era un titolo assai considerevole che poteva essere attribuito solo a funzionari di rango elevato. Ma ancor più considerevole era quello di protosebastos, accordato nel 1082, che poneva il doge sullo stesso piano della famiglia imperiale. Alessio I Comneno, che ne fu l'inventore, lo aveva conferito al cognato Michele Taronita e al fratello Adriano.
Agli occhi di Bisanzio, dunque, l'importanza dei dogi cresceva in proporzione ai vantaggi che poteva ricavare. Fino al Mille, in sostanza, vengono elargiti titoli ordinari, considerati evidentemente nell'ottica di un rapporto di sudditanza. La prima svolta si ha con Giovanni Orseolo, a motivo dell'aiuto prestato per liberare Bari. Da questo momento si va in crescendo: dopo una fase intermedia con Domenico Contarini, si passa decisamente a dignità più elevate. La correlazione con gli avvenimenti esterni è anche in questo caso evidente, dato il peso di Venezia nella lotta condotta dall'impero contro i Normanni.
I titoli aulici bizantini comportavano la trasmissione di insegne, di cui si fregiarono sicuramente i duchi veneziani. Conosciamo molto bene la gerarchia imperiale di fine IX secolo dal Kletorologion di Filoteo, dell'899, un trattato sui banchetti di corte. Filoteo distingue fra "dignità per insegne" (διὰ βϱαβείων) e "dignità conferite a voce" (διὰ λόγου). Le prime erano titoli di nobiltà puri e semplici che non comporta vano alcun servizio se non di carattere palatino; le altre al contrario implicavano funzioni effettive di comando nel servizio pubblico. Esistevano inoltre dignità per insegne o a voce differenti per gli eunuchi e gli "uomini barbuti", cioè i non eunuchi. È noto infatti quale importanza abbiano avuto gli eunuchi a Bisanzio, tant'è che nel corso dei secoli si arrivò all'istituzione di una gerarchia particolare a questi riservata. I dignitari dell'altra categoria, e in genere tutti i Bizantini, portavano la barba, donde la denominazione di "barbuti". I titoli per barbuti erano diciotto e le cariche sessanta, suddivise in sette classi.
La prima dignità concessa ai dogi veneziani, l'ypatos, occupava il settimo gradino della gerarchia in ordine ascendente. L'insegna consisteva in un diploma consegnato personalmente dall'imperatore. Lo spatharios si trovava all'ottavo posto e a questo il sovrano consegnava di persona, come insegna, una spada chrysokanos (dall'elsa d'oro?). Il protospatharios, all'undicesimo posto, riceveva ugualmente dall'imperatore un collare in oro ornato da pietre preziose. Sopra di lui, come dodicesimo titolo, veniva il patrikios insignito di dittici d'avorio con codicilli, cioè un rescritto di nomina. L'anthypatos, tredicesimo della serie, otteneva direttamente dalle mani del sovrano codicilli scritti con inchiostro color porpora, mentre il suo immediato superiore aveva un'insegna più elaborata. Il magistros otteneva infatti dal sovrano una tunica bianca ricamata d'oro, un pallio con riquadro dorato e una cintura di cuoio rosso ornato di pietre preziose. Al di sopra del magistros si trovavano le dignità di patrizia con cintura, curopalate, nobilissimo e cesare, di cui le tre ultime erano riservate ai membri della famiglia imperiale (17).
La gerarchia illustrata da Filoteo non vale naturalmente per qualsiasi epoca. I titoli tendevano infatti a svalutarsi con rapidità nel momento in cui venivano accordati con grande larghezza. Per questo motivo un magistros del secolo XI come il Contarini non equivale a uno dei tempi di Filoteo, pur essendo la sua considerata una dignità superiore. Il processo di svalutazione portò anche alla creazione di nuovi gradi di nobiltà. Nel 963, ad esempio, Niceforo II Foca istituì il proedros per gratificare l'eunuco Basilio che lo aiutò a salire al trono. Il proedros, unico in origine, divenne la più alta dignità dell'ordine senatoriale ed eclissò il patriziato. Nel 1025 vennero però creati tre proedri eunuchi e la dignità iniziò a perdere prestigio. Verso la metà del secolo XI fu aperta anche ai barbuti e, nello stesso periodo, comparve il protoproedros come dignità superiore. Alessio I Comneno rivoluzionò la gerarchia nobiliare, creando titoli nuovi come il protosebastos attribuito al doge veneziano. "Mio padre [scrive Anna Comnena> inventò di persona questi nuovi titoli, componendo nomi nel modo in cui si è detto e facendo di altri un uso diverso". Il protosebastos ebbe infatti origine dall'ampliamento del titolo di sebastos, che già Alessio aveva conferito a suo fratello (18). Alla morte di Alessio I, nel l118, la gerarchia si era stabilizzata in modo affatto diverso dal tempo di Filoteo. Al primo posto si trovava il sebastokrator; venivano poi, in ordine discendente, il cesare, il panhypersebastos, il sebastohypertatos e quindi il protosebastos come il doge di Venezia.
1. Liber de obsidione Anconae, a cura di Giulio Zimolo, in R.I.S.2, VI, 3, 1937, p. 14: "illius civitatis dux aureum circulum in vertice defert, et propter aquarum dignitatem quedam regalia insignia obtinere videtur".
2. Andrea Dandolo, Chronica, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, - 1938-1958, p. 106.
3. Constantin VII Porphyrogénète, Le livre des cérémonies, a cura di Albert Vogt, I, Paris 1939, p. 3. (I, 47).
4. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, I, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 127-130 (pp. 59-187)
5. Ibid., p. 91 (trad. di Mario De Biasi, La cronaca veneziana di G. D., Venezia 1986, p. 73).
6. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 128.
7. Andrea Dandolo, Chronica, p. 163.
8. Agostino Pertusi, Q,uedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 67-68 (pp. 3-123).
9. Ibid., pp. 114-115.
10. Ibid., p. 72.
11. Ibid., p. 116.
12. Ibid., p. 82.
13. Ibid., p. 121.
14. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 6-9 (trad. del curatore).
15. Vittorio Lazzlarini, I titoli dei dogi di Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 2, 5, 1903, pp. 271 -313 [ = Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 1969, pp. 195-226> (i passi citati sono di Giovanni diacono); Silvano Borsari, Il crisobullo di Alessio I per Venezia, "Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici", 2, 1969-1970, p. 125 (pp. 111-131); "honoravit autem et nobilem ducem eorum venerabilissima protosebasti dignitate, cum roga etiam sua plenissima. Non in persona vero ipsius determinavit honorem, sed indesinentem esse atque perpetuum et per successiones iis qui secundum diem fuerint ducibus transmitti definitivis" (trad. lat. della conferma di Manuele Comneno nel 1147).
16. Antonio Carile, La presenza bizantina nell'alto Adriatico fra VII e IX secolo, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, p. 120 (pp. 107-129).
17. Nicolas Oikonomidès, Les listes de préséance byzantines des IXe et Xe siècles, Paris 1972, pp. 91-99.
18. Anna Comnena, Alexiade, a cura di Bernard Leib, Paris 1967, III, 4, 2, p. 114.