Abstract
L’analisi muove dalla riflessione circa il ruolo attribuito all’incriminazione di cui all’art. 641 c.p. nel sistema dei delitti contro il patrimonio e si concentra sugli elementi costitutivi della fattispecie, soffermandosi in particolare sulla problematica relativa alla delimitazione dell’area di operatività della figura rispetto al delitto di truffa.
Esito di un lungo processo di gestazione, cominciato invero già negli anni precedenti il varo del Codice Zanardelli, nel quale la (per taluni versi assimilabile) figura così detta dell’“insolvenza dolosa del privato” non fu introdotta nonostante le reiterate proposte del Guardasigilli (rigettate dalle Commissioni di Camera e Senato, tendenti a negare che potesse essere riconosciuto uno spazio d’intervento penalistico tra la condotta artificiosa ex art. 640 c.p. e la semplice “immoralità” del debitore correlata alla fiducia mal riposta del creditore), la fattispecie di insolvenza fraudolenta viene alla luce col Codice Rocco del 1930. Essa è scandita dai tre momenti della “dissimulazione dello stato di insolvenza”, dell’“assunzione dell’obbligazione col proposito di non adempierla” e dell’“inadempimento” della medesima e si colloca tra i reati contro il patrimonio che necessitano della cooperazione della vittima.
Si comprende dunque come le ragioni alla base dello scontro scientifico e politico che precede, attraversa e, si direbbe, succede alla genesi della disposizione vigente, sono da individuarsi nei rapporti con il (più grave) delitto di truffa e in quelli con la disciplina civilistica secondo la prospettiva dell’extrema ratio (e correlativamente della frammentarietà). A tal proposito, la posizione espressa dallo stesso Rocco appare eloquente quanto alla fiducia riposta nella formula normativa di cui all’art. 641 c.p.: «l’insolvenza fraudolenta si chiama così perché è una forma di frode, non quella classica della truffa, in cui esistono gli artifizi o raggiri, ma una forma di menzogna o inganno che è necessaria perché si possa parlare di reato e che è contenuta nella frase “dissimulando il proprio stato”» e dunque «l’indicazione di questo mezzo … non solo designa il passaggio dalla semplice slealtà nelle contrattazioni al fatto criminoso» ma «distingue, altresì, questa ipotesi delittuosa dalla truffa, perché è evidente che, ove non si versasse in casi di semplice dissimulazione, ma di uso di veri e propri artifici o raggiri ricorrerebbe il delitto di truffa e non quello in esame» (Lavori Preparatori, II, Relazione del Guardasigilli, 461). La figura della dissimulazione dunque, negli intenti legislativi, segna il passaggio al “penalmente rilevante”e funge da “spartiacque” rispetto alla condotta artificiosa o raggirante tipizzata nella truffa. Nel rapporto con quest’ultima si coglie altresì la natura residuale riconosciuta alla fattispecie di insolvenza fraudolenta, il cui spazio di operatività è appunto ritagliato in basso ovvero in negativo rispetto agli artifici e raggiri. L’idea che si tratti pertanto di una forma minore di inganno non deve tuttavia indurre alla conclusione che il legislatore dell’epoca riponesse limitate aspettative nella disposizione di cui all’art. 641 c.p., basti riflettere sul dato per cui l’obiettivo preso di mira non era solo lo “scrocco”, bensì la tutela della «proprietà contro forme di attentati, che si insinuano nella pratica degli affari, per colpire la buona fede dei contraenti e sfruttarla disonestamente, pur non integrando l’attività dell’agente quella ipotesi di artifici e raggiri, che costituiscono il materiale della truffa»; in particolare: «Lo scrocco … è specialmente previsto nella disposizione, ma questa comprende ogni altro caso, nel quale chi versa in stato di insolvenza, dissimuli il proprio stato o contragga debiti con il proposito di non adempierli» (Lavori preparatori, II, Relazione del Guardasigilli, 461).
Se dunque non v’è dubbio che il particolare disvalore penale della figura risieda nella condotta dissimulatrice, formalizzata con la locuzione «dissimulando il proprio stato di insolvenza», occorre tuttavia sottolineare come la modalità d’azione così selezionata presupponga alla base una condizione di insolvibilità, sicché nella ricerca del significato della disposizione non si può prescindere dal rilievo, sia pur ovvio, per cui siffatto “stato” è tipico solo dell’insolvibile. In merito si è notato: «Se è ben evidente che nessuno stipulerebbe un contratto con chi sa insolvente, l’unica possibilità concreta che di fatto ha l’insolvente per stipulare è quella di non rivelare la sua condizione; talché il solvibile può ben contrarre un’obbligazione col proposito di non adempierla e poi non adempierla senza rischio penale, mentre ciò non è concesso all’insolvibile che, nel caso, si vede minacciata una pena di due anni di reclusione» (Carmona, A., Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, in Cass. pen., 1998, 3433). Corollario di tale osservazione è che la linea di confine fra repressione penale e disciplina civilistica, ad uno sguardo più approfondito, non è segnata dalla nota di fraudolenza in sé (immanente alla dissimulazione e rinvenibile anche nel mero silenzio) determinata dall’insolvibilità di chi contrae, ma piuttosto dalla condizione di solvibilità. Ampliando i termini del ragionamento, onde cogliere la reale funzione della figura in esame nel disegno complessivo del Titolo XIII del Codice penale (sul tema del contrasto tra funzione apparente e reale del diritto penale in tale settore, si rinvia alla riflessione di Sgubbi, F., Uno studio sulla tutela penale del patrimonio. Libertà economica, difesa dei rapporti di proprietà e «reati contro il patrimonio», Milano, 1980, 126), si può ulteriormente rilevare come la dimensione “patologica” del fenomeno dell’assunzione di un’obbligazione e del suo sviluppo nella fase esecutiva, comunque estranea agli artifici e raggiri della truffa, possa trovare – se calibrata sul rapporto tra abbiente e non abbiente – la seguente, icastica descrizione: «… l’insolvibile (il povero) ha un obbligo di apparire com’è; obbligo la cui violazione, ricorrendo gli altri elementi di fattispecie, è sanzionata penalmente: se non puoi adempiere non puoi contrarre, se contrai (perché non hai fatto ostensione di te) sei punito; se puoi adempiere (ma non vuoi), puoi contrarre e se non adempi non sei punito»; detto altrimenti: «… il povero (o l’insolvibile) non deve sedersi al tavolo da gioco della società dello scambio e se lo fa, corre il rischio penale; rischio escluso, invece, per il solvibile che può sedersi al tavolo e barare, rimanendo la sua attività fraudolenta confinata nella disciplina del diritto civile» (Carmona, A, Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, cit., 3433). Emerge insomma una sorta di “lato oscuro” della disposizione introdotta nel 1930, che dunque risponderebbe all’esigenza di esercitare un controllo sociale sulle classi povere, salvo osservare, con l’intento di ridimensionare questa visione, come la norma penale, nella prospettiva della sussidiarietà degli strumenti sanzionatori, non si rivelerebbe “necessaria” in siffatte situazioni per i solvibili, stante comunque la possibilità per essi di risarcire il danno contrattuale, laddove invece si rivelerebbe tale in relazione agli insolvibili, attesa la loro incapacità di provvedere al risarcimento col proprio patrimonio.
La delimitazione dell’ambito delle obbligazioni rilevanti è condizionato dalla struttura della fattispecie e, in particolare, dagli elementi dello stato di insolvenza oggetto di dissimulazione e dal proposito di non adempiere. Così, richiedendosi che all’assunzione dell’obbligazione da parte dell’autore del reato corrisponda una controprestazione della persona offesa, non rileveranno le obbligazioni a titolo gratuito, dato che il relativo inadempimento non provoca la diminuzione dell’originario valore del patrimonio, ma solo il mancato incremento patrimoniale sperato (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, V ed., Bologna, 2007, 205).
Se non v’è dubbio sulla rilevanza ai nostri fini delle obbligazioni aventi ad oggetto un “dare”, attesa l’immediata riferibilità ad esse del presupposto dello stato di insolvenza, è controversa la riconducibilità all’art. 641 c.p. delle obbligazioni avente come contenuto un “facere”. Chi propende per la soluzione negativa sottolinea come in relazione a queste non sia configurabile la dissimulazione dello stato di insolvenza e, inoltre, come la diversa soluzione determinerebbe la surrettizia trasformazione del delitto in esame in strumento di tutela dell’interesse al soddisfacimento in forma specifica (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 204; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., 26.2.2010, n. 14674, che ha ritenuto non sussistere l’insolvenza fraudolenta in relazione all’inadempimento di un contratto preliminare di compravendita, figura che presuppone non un obbligo di dare, ma di facere, consistente appunto nel concludere il contratto di alienazione). I medesimi argomenti sono utilizzanti per escludere dal campo operativo dell’art. 641 c.p. le obbligazioni che consistono in un semplice “omettere” (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 205; contra Maccagno Benessia, C., Insolvenza fraudolenta, in Enc. giur. Treccani, 1990, 5, sul presupposto che il carattere patrimoniale è attribuito dall’art. 1174 c.c. a tutte le obbligazioni senza distinzione).
D’altra parte, si evidenzia la piena compatibilità delle obbligazioni di facere con lo stato di insolvenza (es.: chi non essendo pittore assume l’obbligo di dipingere un quadro versa in una condizione di incapacità di assolvere alle proprie obbligazioni) e con la necessità di rinvenire una lesione patrimoniale (es.: la vittima ha dato al reo, insolvibile, una somma di danaro in cambio di un facere; dunque, perché si rispetti lo schema descrittivo dell’incriminazione, almeno una delle due prestazioni deve assumere la forma di un “dare”) (Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, III ed., Padova, 2009, 211, 217). Quanto al non facere siffatto orientamento lo ritiene incompatibile col presupposto dello stato di insolvenza in quanto tale tipo di obbligazione è sempre adempibile (Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, cit., 211).
In merito alle obbligazioni aleatorie, nonostante la relativa indeterminatezza, prevale la tesi della rilevanza ex art. 641 c.p., dal momento che l’agente avrebbe pur sempre assunto un obbligo giuridico di adempiere (dissimulando il proprio stato di insolvenza e col proposito di non adempiere) laddove l’alea volga a suo svantaggio (cfr. Mantovani, F., Diritto penale, cit., 215).
Infine, l’obbligazione assunta deve essere valida e produttiva di effetti giuridici, diversamente non potrebbe nascere l’obbligo di adempimento. Pertanto, ricevono tutela le obbligazioni annullabili, ma non quelle invalide per causa illecita (cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 205; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 214).
È opportuno premettere che il contesto situazionale di riferimento, il campo entro cui cogliere i connotati del comportamento dissimulatorio, è quello delle relazioni commerciali a prestazioni corrispettive (differite). Trattasi di negozi giuridici verso cui convergono valutazioni circa i profili afferenti l’assunzione del rischio commerciale e l’affidamento delle parti sulla base delle consuetudini dei traffici. Con l’intento di tratteggiare su tale terreno la portata essenziale della condotta dissimulatrice, ci si può riferire a un fenomeno di alterazione della situazione di buona fede derivante dall’impossibilità per una delle due parti di cogliere la reale situazione economica dell’altra (cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 203).
Nel tentativo di “concretizzare” tale descrizione e di risolvere l’annoso problema relativo ai rapporti con la fattispecie di truffa, così delimitando l’area di operatività della condotta rispetto agli “artifici” o “raggiri” di cui all’art. 640 c.p., si deve immediatamente avvertire come non sia stato produttivo il metodo tradizionale, desumibile dalle richiamate indicazioni del Guardasigilli dell’epoca e dalla giurisprudenza degli anni ‘30 (Cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. II, 15.2.1933, Brunero, in Giust. pen. 1933, II, c. 1225, secondo cui la dissimulazione si dispiegherebbe per mezzo di «piccoli avvolgimenti psichici che non debbono confondersi con la menzogna, senza trapassare il reato di insolvenza in quello di truffa»). Esso era infatti teso a focalizzare l’attenzione sulla definizione del “mezzo” (ossia, e degradando per minore gravità, l’“artificio/raggiro” e la “dissimulazione”) piuttosto che sui relativi effetti. Non è però attraverso l’approccio semantico – basato sulla ricerca dei caratteri materiali della condotta e peraltro problematizzato dalle difficoltà inerenti alla stessa definizione del contenuto degli artifici e raggiri – che si giunge all’essenza della questione e, dunque, a individuare il discrimen tra i due reati.
Invero, la chiave di volta per una corretta demarcazione dell’alveo operativo delle due fattispecie è data – secondo la dottrina prevalente, seguita dalla giurisprudenza dei nostri giorni – dall’attenzione al risultato delle condotte fraudolente. La dissimulazione, allora, è definibile come quel comportamento, positivo o negativo – si pensi anche al semplice “silenzio” (cfr. Cass. pen., S.U., 9.7.1997, dep. 31.07.1997, in Cass. pen., 1998, 3428; Cass. pen., 22.5.2009, n. 39890), la cui rilevanza dovrebbe presupporre l’obbligo giuridico di dire il vero, fondato secondo parte della dottrina nel dovere di buona fede contrattuale ex art. 1175 c.c. (Carmona, A., Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, cit., 3441) – capace nella situazione concreta di mantenere la controparte in uno stato di ignoranza (sulla situazione economica dell’agente); laddove l’artificio ovvero il raggiro è quel comportamento che nella situazione concreta determina nella vittima una condizione di errore (in ordine alla solvibilità dell’agente). Il mantenimento nello stato di ignoranza e l’induzione in errore sono dunque i due possibili “effetti” della condotta dell’agente su cui si incardinano rispettivamente le fattispecie di insolvenza fraudolenta e di truffa (Pedrazzi, C., Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, 260 ss.; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 211; in giurisprudenza, per tutte, Cass. pen., 18.3.2010, n. 17767, in Guida al dir., 2010, 104; Cass. pen., S.U., 9.7.1997, cit.).
Se dunque la distinzione tra errore (indotto) e ignoranza (preesistente, “mantenuta”) rappresenta il punto nodale per la risoluzione della questione, l’ulteriore e conclusivo passaggio del ragionamento deve attenere invero alla valutazione delle ricadute causali sulla decisione di fornire la prestazione: «lì dove questa sia il risultato di uno specifico collegamento con l’errore siamo nella truffa; quando sia indipendente da esso nell’insolvenza fraudolenta» (Carmona, A., Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, cit., 3441). In altri termini, quando l’atto di disposizione patrimoniale della vittima sia causalmente riconducibile all’errore indotto dall’agente dovrà ritenersi integrato il delitto di truffa, nella diversa ipotesi in cui tale legame causale non si rinviene, perché anche in assenza dell’errore la vittima avrebbe comunque fornito la propria prestazione (date le consuetudini dei traffici, significative dell’idea di affrontare, in quel genere di situazioni, un rischio commerciale sul piano statistico pur sempre economicamente vantaggioso), si configurerà la fattispecie di insolvenza fraudolenta. Ciò posto, si è osservato come l’esempio di scuola dell’avventore insolvibile che si reca normalmente vestito in un ristorante e mostri delle banconote false per accreditarsi presso l’oste e poi non paghi il pasto consumato non dovrebbe essere qualificato come truffa. Pur ammettendosi la sussistenza del mezzo artificioso e dell’induzione in errore, tuttavia è verosimile concludere che un pranzo al ristorante non viene servito sulla base del giudizio concreto sulla solvibilità del cliente, bensì sulla scorta di una previa scelta generale non condizionata dalla condotta ingannevole dell’agente: il pasto sarebbe stato servito a questo ultimo, anche se egli non avesse messo in evidenza le banconote false; vale a dire, l’atto di disposizione pare riconducibile solo alla preesistente ignoranza delle condizioni economiche del reo (Carmona, Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, cit., 3442). Se l’esempio riportato si arricchisse di un ulteriore elemento, si pensi a una certa indecisione dell’oste sorta al momento dell’ordinazione del pasto, allora in tal caso sarebbe ragionevolmente sostenibile che siffatta esitazione in concreto sia stata vinta dall’esibizione delle monete e che dunque la scelta di fornire la prestazione sia derivata causalmente dall’errore indotto dall’artificio, secondo la dinamica corrispondente al delitto di truffa (Carmona, A., Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, cit., 3442).
Oggetto della dissimulazione è lo stato di insolvenza dell’agente, presupposto della condotta che deve esistere al momento della nascita dell’obbligazione e che viene definito come incapacità di adempiere l’obbligazione assunta (cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 204). Più in particolare, la giurisprudenza concepisce il requisito in esame non come incapacità del patrimonio dell’agente a garantire, comunque, il soddisfacimento del credito – ciò che ai fini della tutela penale richiederebbe al creditore la verifica di tale effettiva “impossibilità” mediante l’inutile ricorso all’esecuzione forzata ed alle azioni nei confronti del debitore – bensì come impossibilità economico-finanziaria di far fronte specificamente all’obbligo assunto, ossia come mancanza attuale, totale o parziale, della possibilità di pagare, la cui prova è possibile ricavare anche attraverso il riferimento al comportamento precedente e successivo dell’imputato (per tutte, Cass. pen., S.U., 9.7.1997, dep. 31.7.1997, cit.; Cass. pen., 20.11.1986, Locorotondo). Tale tesi troverebbe conferma nella previsione di cui al capoverso dell’art. 641 c.p. (secondo cui l’adempimento prima della condanna estingue il reato), dalla quale si dovrebbe evincere che il legislatore ha concepito come rilevante l’impossibilità attuale di soddisfare l’obbligazione: «Diversamente opinando l’avvenuto, successivo, pagamento, conseguendo, di regola, ad una ritrovata condizione di liquidità del preesistente patrimonio, da parte del creditore, non doveva, almeno in tale ipotesi, rappresentare causa estintiva del reato, considerato perciò, perfetto nelle sue componenti soggettive e oggettive, ma circostanza idonea ad escludere l’antigiuridicità del fatto» (Cass. pen., S.U., 9.7.1997, dep. 31.7.1997, cit.).
Merita infine un cenno la problematica relativa al caso specifico dell’omesso pagamento del pedaggio autostradale, che la giurisprudenza (per una rassegna completa si rinvia a Vasciaveo, M.T.-Della Bella, A. (agg. III ed.), Art. 641 c.p., in Marinucci, G.-Dolcini, E., Codice penale commentato, Milano, 2011, 6450), sul presupposto della sussidiarietà del corrispondente illecito amministrativo rispetto alle fattispecie penali e della natura di controprestazione (e non di tributo) della tariffa autostradale, ha ricondotto talvolta alla figura dell’insolvenza fraudolenta (per tutte, Cass. pen., S.U., 9.7.1997, dep. 31.7.1997, cit.; Cass. pen., 6.3.2008, Petruzzellis, n. 11734, CED Cass. 239750, in Cass. pen., 2008, 3278), talaltra alla truffa (per tutte, Cass. pen., 3.3.2010, n. 10948; Cass. pen., 17.2.2009, n. 666, in Riv. pen., 2010, 261). Non essendo possibile in tale sede soffermarsi sulle specificità dei vari casi posti all’attenzione dei giudici, ci si limita a evidenziare taluni generali profili di criticità rinvenibili nella tesi che ritiene il fatto (di colui che transita a bordo della sua autovettura in autostrada senza pagare all’ “uscita” il relativo pedaggio) penalmente rilevante. Appare innanzitutto non agevole l’accertamento dello stato di insolvenza dell’automobilista, salvo aderire alla lettura sopra ricordata che pone l’accento sulla mancanza attuale della possibilità di pagare, con il sottolineato rischio però di confondere lo stato di insolvenza con la semplice, deliberata scelta di non pagare operata da un soggetto che dispone di un patrimonio in grado di soddisfare le obbligazioni assunte (Fanelli, A., L’illiceità dell’omesso pagamento, reiterato e volontario, del pedaggio autostradale – Osservazioni, in Cass. pen., 2008, 3281; Gioffrè, I., Insolvenza fraudolenta e omesso pagamento del pedaggio autostradale: i primi chiarimenti delle Sezioni unite, in Cass. pen., 1998, 437). Si deve inoltre rilevare come l’automatizzazione dei caselli autostradali sembri risultare ostativa al riscontro della “dissimulazione” (così come dell’ “induzione in errore” propria della truffa), condotta impossibile da porre in essere nei confronti di un distributore automatico (Gioffrè, I, Insolvenza fraudolenta e omesso pagamento del pedaggio autostradale, cit., 436; Fanelli, A., in Foro it., 1997, 754).
La dottrina prevalente concepisce l’inadempimento dell’obbligazione come elemento costitutivo del reato (per tutti, Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 205 ss.; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 215 ss.); così anche la giurisprudenza (per tutte, Cass. pen., S.U., 9.7.1997, dep. 31.7.1997, cit.). Si è sostenuto, in particolare in passato, che l’inadempimento dell’obbligazione integrasse invece una condizione obiettiva di punibilità (cfr. per una rassegna delle posizioni, Vasciaveo, M.T.-Della Bella, A. (agg. III ed.), Art. 641 c.p., 6448). Tale lettura, fondata soprattutto sul tenore dell’espressione usata per descrivere il requisito («qualora l’obbligazione non sia adempiuta») e sull’interpretatio abrogans del carattere specifico del dolo che si avrebbe aderendo alla diversa tesi (cfr. Maccagno Benessia, C., Insolvenza fraudolenta, cit., 6), deve ritenersi ormai superata.
Com’è noto, non è la formula linguistica adoperata a poter rivestire carattere risolutivo nella distinzione tra evento-condizione obiettiva di punibilità ed evento-elemento costitutivo del reato, né la definizione dell’elemento soggettivo del reato che, metodologicamente, deve seguire l’esatta qualificazione dell’evento senza condizionarla precedendola. Invero, l’approccio interpretativo corretto si fonda sul criterio sostanziale/funzionale e si caratterizza per individuare nell’estraneità alla fenomenologia offensiva del reato il discrimen imprescindibile onde distinguere tra condizione obiettiva di punibilità ed elemento costitutivo del reato. Pertanto, può agevolmente concludersi che l’accadimento in esame integra un elemento costitutivo del reato: esso, infatti, partecipa alla fenomenologia offensiva del reato, incentrando in sé l’offensività patrimoniale del fatto.
Il verificarsi dell’adempimento, dunque, anche ad opera di un terzo, impedisce la configurazione del reato. Controverso è il perfezionamento nell’ipotesi di inadempimento dell’obbligazione per causa sopravvenuta non imputabile al soggetto: si pensi al caso del soggetto che, assunta l’obbligazione dissimulando il proprio stato di insolvenza e col proposito di non adempierla, abbia successivamente ritrovato la capacità di adempierla e decida di farlo, ma non vi riesca per cause ulteriori a lui non imputabili. Chi propende per la soluzione negativa (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 206) pone l’accento sul rischio di affermare, aderendo all’opposta tesi, una forma di responsabilità oggettiva e si chiede se l’impossibilità sopravvenuta di adempiere non dia luogo ad una causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l’evento escludente il nesso di causalità (contra Mantovani, F., Diritto penale, cit., 216) e inoltre se in una tale ipotesi sia davvero ravvisabile il dolo.
È evidente come l’individuazione della natura giuridica dell’inadempimento dell’obbligazione condizioni la qualificazione dell’elemento soggettivo del reato.
In particolare, può ravvisarsi un dolo specifico (“proposito di non adempiere”) solo riconducendo l’inadempimento alla figura di cui all’art. 44 c.p. Diversamente, si parlerà solo di un dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di contrarre l’obbligazione col proposito di non adempiere e dissimulando lo stato di insolvenza. Il riferimento all’intenzione di non adempiere esclude la rilevanza del dolo eventuale (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 207; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 207).
Anche l’individuazione dell’elemento consumativo del reato è condizionata dalla qualificazione dell’inadempimento dell’obbligazione. E così, il reato si perfezionerà nel momento e nel luogo in cui l’agente contrae l’obbligazione per chi aderisce alla tesi della condizione obiettiva di punibilità (così Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed., Milano, 2008, 390) oppure nel momento e nel luogo dell’adempimento per chi segue la tesi prevalente secondo cui l’inadempimento è elemento costitutivo del reato.
Nel caso di pagamenti rateali, l’inadempimento si realizza a decorrere dall’inutile scadenza dell’ultima rata (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 207; Mantovani, F., Diritto penale, cit., 217; in giurisprudenza, tra le altre, Cass. pen., 18.1.1986, n. 5196, in Riv. pen., 1987, 365).
Si concorda nell’escludere la configurabilità del tentativo, dal momento che tentare di non adempiere, e poi non adempiere, già perfeziona il reato; mentre tentare di non adempiere e poi adempiere tardivamente configura quanto previsto dal capoverso dell’art. 641 c.p.
L’art. 641, co. 2, c.p. stabilisce che il reato si estingue qualora, prima della condanna, l’obbligazione venga adempiuta. Il tempo utile per adempiere, determinando in tal modo l’effetto estintivo, perdura dunque fino al momento in cui la sentenza passa in giudicato (Cass. pen., 13.12.1996, n. 2318).
Con tale previsione, che pone la condotta di post-fatto su un piano omogeneo rispetto agli interessi tutelati e mira alla rimozione del danno patrimoniale arrecato alla vittima, si intende invero salvaguardare il bene de quo fin dove possibile e cioè fino al momento precedente alla condanna (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 208).
In merito alla natura giuridica della figura in esame, si è osservato come nonostante la norma parli di “estinzione”, in realtà configuri una “causa sopravvenuta di non punibilità”, atteso il carattere premiale della previsione (indirizzata a chi abbia commesso un fatto antigiuridico e colpevole): «prospettando il premio dell’impunità, la legge incentiva l’agente a reintegrare ex post il patrimonio della vittima, offeso nel momento in cui è spirato il termine per l’adempimento dell’obbligazione» (Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2009, 355).
Il reato è punibile, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o la multa fino a 516 euro.
Il termine per la presentazione della querela decorre non dalla data in cui si realizza l’inadempimento, ma da quella in cui il creditore acquisisce la certezza che il debitore aveva contratto l’obbligazione col proposito di non adempierla (Cass. pen., 18.9.1997, n. 9552, in Cass. pen., 1998, 2013, nel caso di specie è stato ritenuto come termine iniziale quello del tentativo di esecuzione forzata esperito dal debitore).
Art. 641 c.p.
Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed., Milano, 2008; Carmona, A., Cent’anni e più di (utile?) dibattito sulla rilevanza penale dell’insolvenza dolosa, in Cass. pen., 1998, 3428; Fanelli, A., L’illiceità dell’omesso pagamento, reiterato e volontario, del pedaggio autostradale – Osservazioni, in Cass. pen., 2008, 3280; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, V ed., Bologna, 2007; Gioffrè, I., Insolvenza fraudolenta e omesso pagamento del pedaggio autostradale: i primi chiarimenti delle Sezioni unite, in Cass. pen., 1998, 429; Maccagno Benessia, C., Insolvenza fraudolenta, in Enc. giur. Treccani, 1990; Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, III ed., Padova, 2009; Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2009; Pedrazzi, C., Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955; Sgubbi, F., Uno studio sulla tutela penale del patrimonio. Libertà economica, difesa dei rapporti di proprietà e «reati contro il patrimonio», Milano, 1980; Vasciaveo, M.T.-Della Bella, A. (agg. III ed.), Art. 641 c.p., in Marinucci, G.-Dolcini, E., Codice penale commentato, Milano, 2011, 6443.