insonnia
Difficoltà di addormentamento o di mantenimento del sonno, con conseguenze negative sul benessere dell’individuo durante la veglia. Circa un terzo della popolazione generale, con una prevalenza tra le donne, lamenta episodi di insonnia. Spesso secondaria a disordini medici, psichiatrici o dei ritmi circadiani (l’i. secondaria persiste per mesi o per anni), può anche presentarsi come i. primaria.
L’i. primaria si verifica per periodi brevi, della durata di giorni o al massimo di poche settimane, ed è attribuibile a cambiamenti nelle normali abitudini del soggetto o a esperienze particolarmente stressanti. Anche quando i fattori che hanno causato l’i. si risolvono, spesso il disturbo persiste, come nel disturbo del sonno conseguente al jet lag, nel quale il soggetto, per affrontare la situazione di malessere, attiva una serie di strategie che rischiano di trasformare lo stato transitorio in una condizione cronica. Esempi di tali condotte possono essere il ricorso ad abbondanti quantità di caffeina per contrastare la stanchezza durante il giorno, oppure l’eccesso di preoccupazione per la ridotta quantità di sonno. Le variazioni dei turni di lavoro (soprattutto in caso di turni di notte) rappresentano un’altra causa frequente dell’i. primaria. In realtà i soggetti con turni che ruotano regolarmente non avrebbero problemi ad adattarsi agli orari imposti se i turni fossero prolungati tenendo conto del tempo necessario per l’assestamento del ritmo sonno-veglia e se i soggetti non introducessero misure compensative (per es., brevi episodi di sonno pomeridiano). Le condotte compensative tendono infatti a mantenere il disturbo oltre il tempo di risoluzione della situazione responsabile dell’i. primaria, ritardando il momento in cui il ripristino delle condizioni premorbose consentirebbe un veloce recupero del sonno normale.
Numerosi processi biologici sono sincronizzati con i cicli sonno-veglia e lucebuio. La temperatura corporea, la produzione ormonale e il metabolismo cerebrale, per es., hanno ritmi approssimativamente di 24 ore (circadiani). Se avviene un’alterazione del periodo sonno-veglia, i ritmi a esso associati cambiano per accordarsi con il nuovo ciclo. Poiché tali modifiche non trovano un parallelo nelle variazioni del ciclo luce-buio che resta costante, non risultano adattative. Un ciclo sonno-veglia di circa 24 ore, con associate numerose funzioni biologiche, è osservabile nella maggior parte dei mammiferi (negli uomini il ciclo è di 24,1÷24,7 ore). Il ritmo è endogeno e geneticamente determinato, infatti persiste anche se gli indizi temporali esterni (la luce è il principale stimolo sincronizzante) sono resi inaccessibili. Disturbi cronici del ritmo circadiano sono presumibilmente associati al malfunzionamento dei marcatempo endogeni. L’i. disturba le fasi del sonno provocando incapacità di addormentamento e risveglio a orari convenzionali. L’inizio del sonno può subire uno spostamento in avanti, fino alle prime ore del mattino, con conseguente ritardo del risveglio che in questi casi avviene ca. tra le 11 e le 14. Questa situazione (sindrome della fase del sonno ritardata), se cronica, è caratterizzata dal fatto che i soggetti non riescono ad addormentarsi agli orari desiderati, pur senza presentare problemi di mantenimento del sonno.
Se costretti a svegliarsi la mattina presto, i soggetti hanno notevoli difficoltà a contrastare la sonnolenza diurna, e il perdurare di tale condizione provoca una marcata riduzione del totale delle ore di sonno. Per molti pazienti tale situazione si protrae anche per anni ed è solitamente resistente all’uso di sonniferi. Elliot Weitzman (1981) ha dimostrato che la sindrome è causata dal malfunzionamento dei meccanismi che regolano l’addormentamento e ha scoperto che i sintomi della sindrome possono essere contrastati tramite un intervento comportamentale che consiste nell’allungare artificialmente la durata del giorno a 27 ore per 6 giorni consecutivi. È noto che siamo maggiormente inclini ad adattare il sonno a giornate di 27 ore piuttosto che a giornate di 21 ore. Infatti è molto più facile adattarsi al cambiamento di orario spostandosi da est verso ovest (allungando quindi la durata del giorno) che viceversa. Il ricorso a giornate di 27 ore porterebbe i soggetti ad andare a dormire progressivamente sempre più tardi (ore 5, 8, 11, 14, 17, 20, 23) e in 6 giorni essi si troverebbero ad andare a letto alle 23; da questo momento in avanti sarebbe sufficiente che i soggetti continuassero a mantenere tale orario per giungere alla risoluzione del problema. Il reciproco di questo disturbo si verifica quando i soggetti si addormentano nelle prime ore serali (ore 20÷21) e si svegliano spontaneamente tra le 3 e le 5 della mattina. Se tale condizione diviene stabile, i tentativi di ripristinare il corretto ciclo solitamente falliscono e, nonostante il soggetto riesca a ritardare il momento dell’addormentamento, non è in grado di prevenire il risveglio anticipato. Un simile pattern di sonno, patologico in gioventù, è tipico degli anziani, in cui si verificano anche spostamenti dei ritmi circadiani della temperatura e del cortisolo. Dallo studio di animali anziani è emerso un depauperamento cellulare dei neuroni del nucleo soprachiasmatico (l’orologio biologico che controlla l’andamento circadiano di molte funzioni neuronali, endocrine e comportamentali) dovuto all’età, suggerendo che tale condizione possa essere responsabile anche del cambiamento delle fasi del sonno. Lesioni parziali del nucleo soprachiasmatico possono determinare condizioni simili alla sindrome del ritardo della fase del sonno e una riduzione della forza dei ritmi circadiani.