Instabilità sociali
Il 21° sec. eredita le sue instabilità dalla storia recente e dalla storia passata. La storia è anche la fonte per definirle. L’instabilità, che l’osservazione ci consegna come documento più immediato, evoca nondimeno il suo contrario, la stabilità, come fatto e come valore, come dato e come progetto, come descrizione e prescrizione. Si scopre di conseguenza che l’agente fondamentale della stabilizzazione è proprio la società, che accoglie nella sua radice aggregativa la domanda di sicurezza dei membri al suo interno, come domanda, infine, di vita.
Le instabilità sociali possono essere distinte, a prima vista, in esterne e interne, nel senso che sono determinate o condizionate da fattori esterni al perimetro della società presa in considerazione, o sono originate da impulsi interni, provenienti da uno o più settori della vita associata. Il presupposto della socialità essenziale dell’instabilità e della stabilità non impedisce di distinguere e accentuare dimensioni caratteristiche utili per letture più specializzate, che sono d’altronde coerenti con testimonianze riscontrabili nelle concrete contingenze storiche. Dall’enorme repertorio storico si possono estrarre, con l’ausilio di procedimenti selettivi e interpretativi, le seguenti forme di instabilità: politiche; etniche; religiose; demografiche; economiche; associative; culturali (v. oltre: Tipologia).
Le svolte del 20° secolo
Tre sono gli eventi-processi eminentemente esplicativi e cruciali accaduti nel secolo scorso e che sono all’origine delle instabilità sociali del 21° sec.: la decolonizzazione; il crollo dei regimi socialisti in Europa; la globalizzazione. Trattando brevemente di questi argomenti, si dovrà ancora insistere sulla relazione esistente tra instabilità interne ed esterne. L’interconnessione tra sistemi sociopolitici diventerà sempre più condizionante tanto che nessuno di essi potrà esiliarsi da un contesto divenuto presenza e, entro certi limiti, cogenza. Il mondo dunque incombe fortemente sulle parti e ognuna di esse deve prevedere di integrare nell’equilibrio endogeno spinte esogene di varia portata.
Decolonizzazione
Dopo l’ultima guerra mondiale un gigantesco movimento di emancipazione nazionale prende avvio e porta alla nascita di Stati nuovi in numero assai rilevante. Stando a dati ufficiali internazionali, nell’anno 1900 gli Stati erano 65; nel 1921, 76; nel 1950, 88; nel 1980 diventavano 166; nel 1991 salivano a 190 e nel 2008, infine, a 201. Come si vede, il balzo più consistente si registra tra il 1950 e il 1980. È l’epoca della decolonizzazione, la quale è stata – e sotto certi aspetti continua a essere – una fonte assai fertile di instabilità. Eventi di estrema crudezza ripropongono conflitti locali di varia estensione, la maggior parte dei quali motivati da una difficile distribuzione della ricchezza e, di conseguenza, della povertà.
Contrasti etnici e tribali, lotte tra fazioni intersecano i problemi della sopravvivenza di intere popolazioni e chiamano in causa responsabilità storiche e capacità operative degli organismi internazionali. Gli Stati, complessivamente disegnati in astratto, hanno imposto frontiere anche laddove non esistevano; e una sovrastruttura è stata calata ‘dall’alto’ a sovrintendere i movimenti interni di regioni del mondo popolate da un’umanità dotata di altre e disparate forme organizzative.
La solitudine dei nuovi Stati è stata spesso e solo apparentemente attenuata dagli apparati della solidarietà internazionale o da interventi normalmente interessati di altri Stati più forti. D’altra parte, proprio la debolezza delle strutture statali e delle procedure ‘democratiche’ propagandate consentiva a gruppi meglio organizzati o semplicemente più abili, potenti o fortunati, di impossessarsene: così che la lotta per il potere e le consuete degenerazioni del potere costituivano uno spettacolo tanto triste quanto ripetitivo.
Per quanto lo Stato, in molte nazioni, sia debole o inconsistente, vi è un consenso trasversale a volerlo: in maniera tale che si opera come se esistesse, ai fini di assicurare un’interlocuzione che non necessariamente preveda reale efficacia bilaterale. Il potere rivendica l’universalismo della sua natura e gioca per il suo vantaggio sulle instabilità altrui che talvolta vengono opportunamente provocate.
La fine dei blocchi
La cosiddetta guerra fredda è durata quasi un cinquantennio in Europa e nel mondo. Viene eretta la cortina di ferro, con grandi difficoltà per tutti di varcarla. Il mondo è davvero diviso; e anche in altre regioni, dall’America all’Africa, è in atto la pratica della separazione e della diffidenza reciproca.
L’epoca della guerra fredda non è stata esente da innumerevoli ‘guerre calde’, amministrate, per così dire, da ciascun blocco al suo interno, con confronti periferici – ove proprio necessari, combattuti per interposti Paesi – eccidi e devastazioni.
Le vicende si prolungano, non senza successi spettacolari dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) soprattutto in campo aerospaziale; ma l’‘implosione’ del sistema socialista è solo mascherata e rinviata. L’elezione di Michail Gorbačëv, avvenuta nel 1985, alla carica di segretario del PCUS, non basta a porre freno a un processo troppo vasto e coinvolgente: il suo estremo tentativo, mediante inedite politiche di perestrojka (ristrutturazione) e di glasnost´ (trasparenza), di avviare una trasformazione radicale del sistema socialista senza tuttavia completamente abolirlo, portano allo scoperto tali e tante contraddizioni interne che l’URSS si disgrega, a cominciare dal centro dell’impero per poi irradiarsi con un movimento rapido e inarrestabile nelle periferie, europee e asiatiche. Nel 1991 l’URSS cessa di esistere; dalle sue ceneri riaffiorano ben 15 Stati: Federazione Russa, Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Moldova, Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan. Intanto dalla disgregazione della Federazione iugoslava nascevano altri piccoli Stati: Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Repubblica federale di Serbia e Montenegro. In quest’area, l’instabilità del tempo passato si estende al presente e proietta ombre sul futuro.
Globalizzazione
Con questo termine si intende qualcosa che ha ancora molti lati opachi, ma che allude alla mondializzazione dell’economia e della finanza, alla planetarizzazione della comunicazione e dei traffici, alla mobilità delle merci e degli uomini, alla generalizzazione delle tecnologie e dei ritrovati applicativi. È l’apologetica del network universale, che prevede un frammento di presenza mediatica per ognuno, permette moltiplicazioni esistenziali, libera vizi e virtù, crea illusioni per molti e ricchezze per pochi, costruisce spazi e tempi inediti. Mai il mondo è stato così reale e così virtuale insieme, così capace di ricomporre presenze e di renderle inattendibili, o, ancora, così in grado di proporre insieme memoria e rapidissima obsolescenza.
La globalizzazione, per il suo carattere ancora in nuce e certamente in fieri, alimenta una grande letteratura intenzionata a sollevarne i veli e a decifrarla meglio. Zygmunt Bauman mette in rilievo l’avvento di un nuovo disordine mondiale che determina una polarizzazione tra élite ricca capace di passare da un luogo a un altro con disinvoltura inedita e masse povere tuttavia ancorate ai territori come in passato (Bauman 1998). Anthony Giddens (1990) parla di un processo di de-tradizionalizzazione in atto; la globalizzazio-ne incide sulle dimensioni strategiche della modernità – economia capitalistica mondiale, sistema degli Stati-nazione, ordinamento militare mondiale, divisione internazionale del lavoro – con trasformazioni e condizionamenti reciproci e conseguenze inedite sulla personalità, in particolare degli individui che risiedono nelle regioni più fortunate del mondo. David Held e Anthony McGrew (2000) discutono della nascita di una società civile globale, e di una riduzione della capacità politica degli Stati; Saskia Sassen (2007) indica nel concetto di de-nazionalizzazione la chiave di volta per un’analisi scientifica in grado di utilizzare nuove architetture concettuali intese a superare il nodo locale/globale e nazionale/globale; infine, Joseph E. Stiglitz (2006) invoca un nuovo contratto sociale globale per sottrarre la globalizzazione al dominio degli Stati Uniti e costituire un più equilibrato assetto di governance mondiale che possa garantire una distribuzione più ragionevole dei benefici di una globalizzazione virtuosa.
Ciò non significa che non vi siano movimenti decisi a contrastarla, a riformarla o a riorientarla. Fa parte della fenomenologia della globalizzazione anche tutto quel vasto insieme di azioni, reazioni, progetti, discussioni, narrazioni (v. Klein 2000) che oggi costellano un percorso – nel quale incrociano movimenti ecologisti, pacifisti, animalisti ecc. – sottoposto alle oscillanti consapevolezze di un’opinione pubblica comunque globalizzata.
Tipologia
La società è un’entità complessa dotata di un moto interno che coincide infine con la sua vitalità.
In questa prospettiva, tutte le società fronteggiano giorno per giorno il mutamento nella stessa logica in cui operano per il mantenimento delle istituzioni, ossia della loro stabilità. Le società sono, dunque, normalmente attraversate da una quantità imprevedibile di eventi, individuali e collettivi, con risonanze e implicazioni di varia provenienza e consistenza.
I movimenti che si manifestano nelle società, diventando eventualmente collettivi e di massa, acquisiscono per questo motivo maggiore forza e pertanto chiedono di essere adeguatamente e pubblicamente considerati nei loro propositi e nelle loro proposte. Un sistema sociale che abbia una sua collaudata solidità prova questa sua qualità nella capacità di ascolto e di risposta a tali movimenti, utilizzando i criteri e i metodi che la sua intelligenza di governo ha maturato nel tempo e che consentono di amministrare la dialettica politica e sociale. Tutto ciò non può essere compreso nella questione della instabilità sociale, trattandosi della normalità critica della dinamica sociale.
L’instabilità sociale interviene quando il sistema, per contingenze varie storicamente registrabili, è materialmente e idealmente debole; i movimenti collettivi godono di un consenso generale o comunque sono forti. In questi casi, si dà corso a situazioni che, nelle difficoltà inevitabili del caso, preludono a nuovi equilibri, da consolidare o da perfezionare nel tempo.
Salvo rinviare alla tipologia menzionata quanto ai fattori dell’instabilità sociale, si può accertare se l’instabilità di bassa intensità o settoriale rientri nella dinamica ‘normale’ di un sistema e pertanto possa essere acquisita alla continuità istituzionale, alla regolarità del mutamento nel quadro dell’evoluzione sistemica. Viceversa, sebbene altrettanto empiricamente, si può anche verificare se all’instabilità di alta e totale intensità segua un mutamento radicale, una discontinuità istituzionale che va sotto il nome di rivoluzione. Si tratta normalmente, purtroppo, di consapevolezze e certificazioni a posteriori.
Complicazioni ulteriori derivano da ciò che si può definire la questione degli effetti propagativi, a cui non è estranea la tematica comunicativa e mediatica, capace alternativamente di ingrandire o rimpiccolire i messaggi. Da un lato si constata il fatto, ricorrente nell’impervio panorama internazionale, che instabilità in atto richiamano altre instabilità in un micidiale crescendo verso una ‘ingovernabilità’ endemica dalla quale non si esce senza un tributo enorme di sciagure; viceversa, da un altro lato, si evidenzia la circostanza che stabilità invocano stabilità e le società che fanno esperienza di questa condizione perseguono come valore irrinunciabile la governabilità di tutte le problematiche di cui sono investite, secondo la convinzione che non esista nulla che non possa trovare terapie praticabili dall’interno.
È stato concettualmente importante escludere da questa trattazione sia, da un versante, la dinamica sociale ‘normale’ e ordinaria della quotidianità sistemica sia, dall’altro, il conflitto aperto, irriducibile e straordinario, che può assumere infine la fisionomia di una guerra civile. Tra questi due estremi, si situa l’intervallo della instabilità di bassa, media, alta intensità.
Ma a ciò segue un importante corollario: le instabilità istituzionalmente apprezzabili e giunte al livello del confronto intrasistemico non nascono dal nulla ed ex abrupto, ma lievitano da regioni sottostanti fertili di linfa e di semi, che preparano o già esibiscono inequivoche fioriture o acerbi frutti. L’analisi deve pertanto riguardare non solo ciò che è già manifesto, ma anche ciò che è latente; non solo ciò che già è emerso, ma anche ciò che staziona nella palude pronto a emergere. Ciò significa che al livello più basso è difficile stabilire una linea di demarcazione davvero nitida, trattandosi di un’area grigia, indefinita, di attesa e di elaborazione.
Al livello più elevato dell’instabilità è, analogamente, sufficientemente prevedibile una riduzione progressiva della tensione per insostenibilità di vario tenore, fino all’estremo limite auspicabile della ritrovata armonia sociale.
Instabilità politiche
Le instabilità politiche sono le forme di instabilità che investono l’organizzazione dello Stato, l’assetto del governo, le istituzioni del potere.
Salvo l’Oceania, nessun continente è esente da un tasso più o meno elevato di instabilità politica, che sembra essere dunque quella più frequente. È chiaro che sulla instabilità politica si riversano altre forme di instabilità come quelle che in seguito verranno prese in considerazione, tanto da apparire un’instabilità sintetica. Sta di fatto che, come si è detto, gli Stati sono aumentati di numero in maniera assai consistente. E ciò è avvenuto a seguito di inconciliabilità interne venute alla luce in Stati più grandi dai quali quelli di nuova costituzione si sono distaccati in maniera più o meno cruenta. Tra i pochi casi in cui è avvenuta una separazione pacifica fra due Stati vi è quello della Federazione Cecoslovacca (1° genn. 1993) che si è divisa in Repubblica Ceca, comprendente la Boemia e la Moravia, e Repubblica di Slovacchia.
L’ambizione dei popoli allo Stato continua a essere un argomento di tensione e dunque di instabilità. Ciò accade in Asia come in America. In Europa, la vicenda dell’Irlanda del Nord è forse appena sopita; i Baschi continuano la loro lotta; il Kosovo ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza, e il caso è ancora irrisolto; in Belgio, i Fiamminghi e i Valloni meditano di tanto in tanto una separazione consensuale; in Russia, molte rivendicazioni sono in corso, in particolare quelle del popolo ceceno.
In Canada, è spesso risorgente, anche per influenze esterne, la questione del Québec; in Asia, è aperta la questione Tamil; ed è esplosa la questione del Tibet. Senza contare la questione assai ardua dell’Irāq e dell’Afghānistān, dove si combattono guerre dall’esito non ancora del tutto prevedibile; e l’instabilità grave e duratura del conflitto israelo-palestinese.
Il 21° sec. dovrà fare inevitabilmente i conti con queste maggiori instabilità: che agenzie terroristiche mirano ad acutizzare, con tecniche intese sia a ‘comunicare politicamente’ la propria esistenza sia a provocare malessere generalizzato. Vi sono tuttavia anche istituzioni che lavorano per la riduzione delle instabilità. Una di queste, assai importante e certamente innovativa, è la Comunità europea, che, per effetto della sua miracolosa esistenza e della sua capacità inclusiva, ha costituito un organismo di fondamentale integrazione di nuovi e antichi Stati europei in un circuito unitario di dialogo, di interazione e di solidarietà. Le Nazioni Unite, d’altro canto, sebbene anch’esse sottoposte a una serie di tensioni destabilizzanti, costituiscono tuttora un organismo di moderazione e di intervento ‘compatibile’. Altri organismi internazionali, governativi e non governativi, di peace building, peacekeeping, peace enforcing, e di cooperazione sono all’opera con diversa fortuna: se fossero assenti, sarebbe certamente più impervia una mappa ancora pesantemente contrassegnata dal divario tra Paesi ricchi (e più stabili) e Paesi poveri (e più instabili).
La lotta per lo Stato e comunque per l’autonomia rappresenta una della fenomenologie più teoricamente e praticamente contraddittorie della globalizzazione, che tenderebbe a rendere empiricamente improbabile proprio quell’autonomia in virtù della potenza di attori che sono al di sopra gli Stati e impongono le loro prerogative al di là di tutti i possibili confini e di tutte le agognate investiture politiche.
In Italia, l’instabilità politica sembra essere evento quasi della quotidianità. Tuttavia il sistema ha assorbito le instabilità continue, anche quelle più insidiose. È argomento di interpretazione se questo assorbimento sia avvenuto per qualche latente virtù della società ‘civile’, per qualche miracolosa qualità reattiva, avvedutezza selettiva o resistenza vitale, oppure per altre prerogative non bene identificate.
Il laboratorio Italia continua a essere, sotto molti aspetti, un luogo, nel quale si ritrovano in speciali mescolanze abbondanti materiali sia di stabilità instabile sia di instabilità stabile: il che ripropone l’annoso problema della governabilità di un Paese con delle caratteristiche particolari.
Instabilità etniche
Le instabilità etniche hanno come fulcro di attenzione e di azione il tema dell’identità, declinato in maniera alquanto variabile, in base alla razza, alla tribù, alla nazione, alla lingua, alle radici, ai costumi, alle tradizioni e a una complessa serie di combinazioni tra questi e altri elementi più o meno consapevoli, reali o artificiali.
Anche in questo caso, tali questioni sono sempre esistite; ma hanno ottenuto formulazioni e risultati in relazione ai processi che abbiamo citato. Decolonizzazione, caduta dei blocchi e infine globalizzazione hanno indubbiamente offerto materiali per una rappresentazione più vigorosa dell’ethnos, senza tuttavia diradare incertezze originarie e strumentalizzazioni interessate. Così che l’identità diventa da un lato l’egida della giustezza di un riconoscimento, da un altro uno stendardo da sventolare per ottenere vantaggi di qualche tipo. Sistemicamente ambigua, e rischiosa, l’identità è corroborata dagli stessi processi di democratizzazione interna e internazionale, non esenti da valutazioni discontinue e concrete incongruenze. Come è stato detto (Latouche 2004), l’identità comunitaria è di sicuro un’aspirazione legittima, che esiste ‘in sé’ nei gruppi vivi; quando diventa ‘per sé’ è già segno di un ripiegamento di fronte a una minaccia e rischia di prendere la strada della chiusura o, addirittura, dell’impostura.
Tutti i continenti esibiscono questa problematica. L’Africa, in particolare l’Africa subsahariana, offre un campionario tra i più tragici di lotte etniche e tribali, con autentici genocidi e guerre civili di inaudita violenza. Nel Burundi, Hutu e Tutsi si sono combattuti senza esclusione di colpi; in Nigeria il conflitto etnico assume in diverse regioni caratteristiche differenti; lo stesso accade nella Repubblica democratica del Congo; nel Sudan è ancora tragicamente irrisolta la questione del Dārfūr; instabilità etniche permangono anche in Marocco, dove le popolazioni Saharawi rivendicano da un trentennio l’autonomia, e nella Repubblica Sudafricana, dove i conflitti razziali non sono ancora spenti.
In Asia la situazione è del pari problematica. Nell’Unione Indiana sono risorgenti le rivendicazioni dei nazionalisti Sikh del Panjāb; in Srī Laṅkā quelle delle popolazioni Tamil; in Pakistan delle popolazioni del Belucistan e Waziristan; in Turchia dei Curdi; nelle Filippine dei Papua; in Birmania delle non meno 35 minoranze etniche presenti sul territorio e combattenti sotto varie sigle. Ultimamente in Cina, tensioni anche etniche con alcune popolazioni – in particolare del Tibet – hanno posto un problema serio che quel Paese dovrà affrontare nei prossimi decenni, con la inevitabile crescita della consapevolezza dei diritti.
In America Latina – in Bolivia e in Messico in particolare – sono state sempre combattute lotte di carattere etnico tra le popolazioni indigene e quelle di provenienza europea. Negli Stati Uniti non vi so-no instabilità etniche: per quanto sia il Paese della diversità, sviluppa una forma speciale di integrazione all’insegna dell’american creed; i nativi americani continuano tuttavia a non ottenere se non sporadici riconoscimenti, talora solo folkloristici.
Al contrario, in Oceania, si è posta in maniera manifesta la questione a lungo rimossa degli aborigeni australiani, con un seguito di legittimazioni tardive ed equiparazioni tendenziali dei diritti.
In Europa, le instabilità etniche non sono assenti, sebbene ambigue come in Belgio (Fiamminghi e Valloni) o in Spagna (Baschi).
Da questo quadro, emergono instabilità spesso inconciliabili. Alcuni Paesi contemplano nella loro Costituzione sia di fatto sia di diritto l’interazione di vari gruppi etnici: ciò accade in Svizzera come nel Regno Unito, in Canada o in alcune altre nazioni in cui il rispetto delle minoranze forma oggetto di precisi obblighi formali. Normalmente le instabilità etniche derivano dalla disparità di trattamento, vero o supposto, di etnie, le quali possono trovare buona eco in condizioni analoghe delle stesse etnie in altri Stati, adiacenti o vicini; così che si istituisce un ‘fronte’ di supporto o rivendicativo transnazionale (è il caso per esempio dei Curdi, dei Tamil, dei Sikh, e anche dei Baschi); mentre ottengono concreta difesa da Stati in cui quell’etnia è del tutto maggioritaria: è il caso, per es., degli albanesi del Kosovo, dei turchi di Cipro, degli ungheresi della Transilvania, dei cattolici dell’Ulster. Inversamente, accordi internazionali tra governi tendono a mitigare le tensioni e a migliorare i rapporti tra le comunità formatesi in alcuni Paesi e, appunto, i Paesi ospitanti.
Ultimamente in Italia, nel quadro di una lotta politica non priva di elementi demagogici, è stata evocata una memoria confusa di etnie remote allo scopo essenzialmente di ribadire ‘diversità’ vere o supposte e di ottenere vantaggi amministrativi. Non vi sono in Italia instabilità etniche, ma, in una visione opportunistica e di comodo, non è del tutto escluso che non possano essere agitate; in questo senso già la minaccia indica la pericolosità dell’argomento etnico, laddove, come accade, si tenda a naturalizzare l’identità, a recitarla come ‘conculcata’, a ritenerla ‘incomprimibile’ e infine ‘rivelata’ e ‘liberata’.
Instabilità religiose
Le instabilità religiose sono quelle forme di instabilità che hanno a che vedere con diverse fedi, credi, dogmi e, di conseguenza, diversi modi di pensare e agire la presenza nel mondo da parte degli adepti.
Negli ultimi anni si è assistito a un forte recupero di valori religiosi, che si intrecciano tuttavia con un insieme di altre circostanze e motivazioni. Ciò è accaduto un po’ dappertutto, in Oriente come in Occidente.
Il carisma della religione continua a essere di per sé elevato, tanto da coprire talvolta ragioni meno nobili e meno presentabili. Come tutti sanno, i contrasti sono storicamente acuiti dalla logica stessa del monoteismo, che assicura la ‘verità’ al proprio Dio e, al di là delle condizioni del dialogo ‘diplomatico’ imbastito dalle chiese, è alla radice di un assolutismo che non permette sul piano dei principi molte concessioni. D’altronde, l’impresa laica di molti Stati di ridurre le distanze, di smussare gli angoli, di rendere le cose compatibili urta contro gli assunti fondamentali e le definizioni dottrinali; e non elimina le discontinuità pratiche.
La letteratura mondiale si è occupata della difficoltà di conciliazione tra religione islamica, giudaismo, cristianesimo; ultimamente anche l’induismo si è aggiunto con un suo tratto di irriducibilità. Conflitti aperti ed estremamente dolorosi come quello israelo-palestinese continuano a essere interpretati come conflitti ‘anche’ religiosi o in primo luogo religiosi. E comunque la religione è immessa nelle difficili manovre di coesistenza umana.
Tutte le religioni si trovano ad affrontare con modalità nuove le grandi, controverse e incessanti tematiche della modernità; e si dovrebbe ammettere, con una dose di antica pietas, il disagio teologico di tutte le religioni. Ma il problema rimane: nel passaggio all’interpretazione dei libri sacri, ossia alle arti ermeneutiche, in cui storie e culture diverse si confrontano e si scontrano, si dà ampia possibilità di versioni, tanto moderate quanto radicali. E può accadere che, mentre i responsabili più autorevoli del potere ierocratico siano più miti e capaci di relazioni, i fedeli e il popolo siano più intransigenti e chiusi a ogni rapporto. I fondamentalismi chiamano in causa i dogmi, ma anche i dogmatici, che uniscono questo carattere a variabili intenzioni ‘mondane’.
Negli ultimi anni molti sono stati gli attentati ‘di matrice religiosa’, anche se tale matrice era fortemente intrisa di elementi di altro genere. In taluni casi (l’esempio è al-Qā‛ida), l’azione politica utilizza la religione, tecniche e tecnologie moderne per accedere al potere e costruire una società fondamentalmente antimoderna (Touraine 1997).
Passando in rassegna i vari continenti, si vedono comparire le instabilità religiose accanto ad altre instabilità. In ‛Irāq la guerra è anche una guerra di religione, nell’ambito della medesima religione islamica tra sciiti e sunniti, e, unitamente, contro i cristiani. In Pakistan, le tradizioni religiose spesso si confrontano in maniera sanguinosa; nell’Unione Indiana la questione del Kaśmīr è alimentata da forti moventi religiosi, e la guerriglia islamica chiede l’indipendenza della regione e semmai l’annessione al Pakistan. Lo stesso è accaduto in Indonesia, nelle isole Molucche e nella provincia di Sulawesi (Celebes), dove almeno fino a tre o quattro anni fa la maggioranza islamica e la minoranza cristiana si affrontavano con alterni eccidi. Nelle Filippine, gruppi fondamentalisti islamici dell’isola di Mindanao e dell’arcipelago di Sulu combattono battaglie separatiste. In Africa, l’Algeria è stata a lungo insanguinata da una guerra fratricida a sfondo religioso. In Angola, Uganda, Somalia, è un groviglio di motivi anche religiosi a provocare instabilità di ogni tipo fino a costruire situazioni in cui si può constatare la dissoluzione o comunque l’inesistenza dello Stato (Somalia).
In Europa, usciamo da una guerra anche di religione con annesse stragi (Bosnia) a seguito del sanguinoso tramonto della Federazione iugoslava; il conflitto nell’Irlanda del Nord risale a un contrasto religioso che affonda le radici nella lontananza dei tempi ed è, in Europa, l’unico a mantenere in auge una triste tradizione di lotte tra cristiani, in passato frequenti e cruente.
In Europa, la presenza di una cultura cristiana egemone non ha ottenuto, sul piano politico, i riconoscimenti richiesti da più parti, ma ciò non ha costituito motivo di turbolenza nei diversi Paesi.
L’ispirazione religiosa di alcuni gruppi e partiti, e la forza della gerarchia ecclesiastica tengono tuttavia desta l’attenzione su alcuni temi di estrema rilevanza civile, come l’aborto, le unioni omosessuali, l’eutanasia, e altri evocati dai progressi della genetica. Per quanto si possa parlare di movimenti cattolici e cristiani presenti un po’ ovunque nel continente, questi non giungono se non in rare occasioni a suscitare vere e proprie instabilità religiose. L’Europa è ormai religiosamente stabile: mentre taluni vedono in ciò un complessivo indebolimento religioso, altri invece propendono a credere che i valori cristiani siano così culturalmente consolidati da formare il profilo dell’uomo europeo. In ogni caso, l’emigrazione produce effetti un po’ ovunque; e mentre alcuni paventano il pericolo di una islamizzazione del continente, altri si adoperano per un’integrazione almeno ai livelli minimi degli islamici che sono sovente insidiati da versetti, vignette, e citazioni non graditi ai fedeli di quella religione.
In Italia tutto ciò si manifesta con una sovrabbondanza di discussione su piccoli e grandi eventi; e la questione religiosa, sostenuta da un clero evidentemente agguerrito, sollecita prese di posizione, attacchi e difese, che formano un palinsesto talora ripetitivo a cui partecipano tutte le forze politiche in campo.
Instabilità demografiche
Le instabilità demografiche sono quelle che concernono i flussi migratori e l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza.
I dati in questo ambito non sono particolarmente precisi né abbondanti. Dall’ultimo rapporto (2007) OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) sulle prospettive delle migrazioni internazionali che riporta dati del 2005, si evince che gli emigranti permanenti sono aumentati tra il 2004 e il 2005 dell’11%, e che significativi movimenti di immigrazione temporanea sono stati registrati in Australia, Canada, Nuova Zelanda e Svizzera. I ricongiungimenti familiari continuano a essere motivi dominanti nelle emigrazioni permanenti, e alcuni Paesi come l’Austria, il Belgio, la Danimarca, la Germania, il Portogallo, la Svezia e il Regno Unito appaiono come Paesi di notevole richiamo per i migranti alla ricerca di lavoro. Le destinazioni sono normalmente determinate dalla prossimità geografica. Flussi migratori notevoli sono registrabili in Europa, dall’est all’ovest e con l’ingresso di nuovi Stati nella Comunità europea; in America, Oceania, Giappone e Corea sono prevalenti gli emigranti dall’Asia. In Europa, l’emigrazione dall’Africa del Nord è più rilevante di quella dall’Africa subsahariana; e un considerevole numero di africani, in particolare dai Paesi di lingua inglese (Kenia, Ghana, Nigeria), ha ottenuto negli Stati Uniti regolare permesso di ingresso (circa 85.00 africani nel 2005, in aumento di circa il 30% rispetto al passato). L’immigrazione illegale in Europa è pari all’1% della popolazione, mentre negli Stati Uniti tra il 2004 e il 2005 gli ingressi illegali sono stati 620.000 all’anno.
Lo stesso rapporto rileva come il tasso di disoccupazione tra gli emigranti è alto in molti Paesi; si evince inoltre che gli immigrati di seconda generazione hanno probabilità di impiego decisamente minori rispetto ai nativi e che inoltre le donne risultano ulteriormente svantaggiate.
Rilevando l’incidenza percentuale degli immigrati sul totale della popolazione, in base ai dati elaborati dalla Caritas migrantes nel 2007, nell’Unione Europea, salvo i casi particolari di Lussemburgo, Lettonia, Estonia, Cipro, il Paese di maggiore immigrazione risulta essere l’Austria (9,8% di immigrati), seguita da Spagna (9,1%), Germania (8,8%), Belgio (8,6%), Grecia (8,1%), Irlanda (7,4%), Francia (5,6%), Svezia (5,3%), Regno Unito (5,2%), Portogallo (4,1%) e Italia (3,9%). Quanto all’Italia, dati ulteriori dicono dell’aumento (oltre il 5%) della presenza straniera, che mostra le seguenti più rilevanti provenienze (anno 2006): Romania (130.000 domande), Marocco (50.000), Ucraina e Moldova (35.000), Albania (30.000), Cina (27.000), Bangla Desh (20.000). Le presenze regolari sono dovute per il 56,5% a motivi di lavoro, per il 35,6% familiari, per il 2,9% di studio (il restante 5% si ripartisce in un 1,9% per motivi religiosi, un 1,4% per residenza elettiva, e l’1,7% adduce altre motivazioni). Dal punto di vista religioso, gli immigrati in Italia sarebbero per circa la metà cristiani, per un terzo islamici, per il resto di altre religioni o non credenti.
Questo il panorama. La percezione del fenomeno dell’immigrazione nei vari Paesi è legata a circostanze locali. Ma anche in Europa e in Italia circolano stereotipi di vario genere, che non permettono rappresentazioni confrontabili. L’integrazione dello straniero, un po’ dappertutto, è un problema ancora da risolvere: particolare preoccupazione desta il fatto che anche gli immigrati di seconda e terza generazione, come rivelano i tumulti delle periferie parigine degli ultimi anni, mostrano di non disporre di pari opportunità rispetto ai nativi. In Germania e in altri Paesi, si formano comunità separate che vivono la loro condizione di tendenziale esilio, con economie proprie e distinte.
In Italia la situazione è varia e coerente con le disparità territoriali del Paese. Se non si può parlare di instabilità indotta dal fenomeno migratorio è perché esso, in Italia come altrove, è complessivamente modellato dal lavoro: e il lavoro è una forma basilare di legittimità sociale. Laddove non esista questo presupposto, tra gli stranieri e i cittadini italiani si sviluppano interazioni negative destinate ad alimentare dissensi, violenze estemporanee e ‘provvedimenti’ in nome della ‘sicurezza’; una ‘politica dell’immigrazione’ è ancora al di là da venire, anche perché comporta qualche sacrificio circa il ‘benessere’ conseguito, diventato irrinunciabile e ‘naturale’. Il problema religioso, ossia, sostanzialmente, il problema della relazione tra la religione cattolica e quella islamica, solleva valutazioni contrastanti che entrano direttamente nella dialettica politica, con varie astrazioni, generalizzazioni, preoccupazioni fondate e infondate. La Costituzione italiana prevede la libertà di culto; ma non sempre essa è praticamente assicurata per gli immigrati.
Si può essere convinti che, per una serie di circostanze, il problema dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati diverrà rilevante nei prossimi anni o decenni, con soluzioni a oggi non prevedibili per quanto umanamente auspicabili, semmai sulla base di un recupero di memoria dell’emigrazione italiana nel mondo tra Ottocento e Novecento.
Instabilità economiche
Hanno come oggetto di attenzione la distribuzione delle risorse e, in pratica, la questione della ricchezza e della povertà.
Tale forma di instabilità da alcune prospettive teorico-pratiche, che non sono necessariamente marxiste, verrebbe messa al primo posto. E in effetti si tratta di forme di instabilità assai importanti e talora decisive. Ma la scelta di questa elencazione non rappresenta però una graduatoria; e, anzi, si è assunto che nessuna delle forme di instabilità che sono state prese in esame si trovi nella realtà allo stato puro; ‘normalmente’ si tratta di combinazioni con prevalenze, così che solo empiricamente si può stabilire quale dimensione è maggioritaria o minoritaria.
Le instabilità economiche esibiscono dunque la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Secondo l’UNU-WIDER (United Nations University-World Institute for Development Economics Research, report 2005), la distribuzione della ricchezza mondiale è tuttora profondamente diseguale: il 10% della popolazione detiene l’85% della ricchezza totale. Il distacco tra Paesi ricchi e poveri non accenna a diminuire, per quanto alcuni grandi Paesi, in passato non tra i primi quanto a reddito pro capite, abbiano fatto passi da gigante (in particolare Cina, India, Brasile). Ma anche in questi casi, le medie nascondono fino a un certo punto gli squilibri e le sacche di estrema indigenza che purtuttavia costellano le loro sterminate aree territoriali. In Brasile, per es. – sempre secondo i dati dell’UNU-WIDER – sono quasi 54 milioni i poveri, metà dei quali indigenti; questi ultimi sono ancora svariati milioni in India e Cina, benché il tasso di sviluppo sia elevatissimo: fattori politici e religiosi, costumi e tradizioni, vegliano e attenuano, in questi giganteschi Paesi, attese e aspirazioni del tutto comprensibili. Ma la povertà non è sconosciuta neanche alle economie opulente come, per es., quella degli Stati Uniti, dove masse di indigenti ricorrono per il sostentamento ad aiuti statali e a filantropie di vario genere. E la minaccia si estende ad altre nazioni, nelle quali si accentua il divario sia quantitativo sia qualitativo tra ricchi e poveri.
La globalizzazione non ha prodotto in generale un miglioramento delle condizioni già difficili dei Paesi poveri, anzi, in alcuni casi ha contribuito a depauperarli ulteriormente; inoltre, ha permesso rimescolamenti delle carte in quelli in via di sviluppo, ma senza che complessivamente essi abbiano mutato la loro posizione nella divisione del lavoro internazionale. Gli aiuti internazionali non sono aumentati in maniera significativa e del resto neppure gli impegni solennemente presi in diverse circostanze autocelebrative sono stati mantenuti.
Dal canto loro, i Paesi in via di sviluppo, per quanto teorizzazioni siano state avanzate sulla self-reliance, hanno solo parzialmente provveduto, in una condizione di estrema deprivazione, a potenziare la loro organizzazione interna anche in funzione di una maggiore equità distributiva.
I flussi migratori appaiono pertanto inarrestabili. Come è noto, in particolare in Italia e Spagna, gli arrivi di diseredati sulle coste, dopo viaggi fortunosi e spesso fatali, documentano ampiamente della necessità che spinge soggetti che non hanno davvero nulla da perdere a forzare le frontiere e le barriere, per accedere ai minimi della sopravvivenza, in una clandestinità – come si afferma – sorretta ancora da qualche barlume di speranza. Politiche di prevenzione, di aiuto e di cooperazione possono probabilmente arginare il fenomeno, ma non eliminarlo: i Paesi poveri contengono un buon 70% della popolazione mondiale. Il mondo – ossia il mondo dei Paesi ‘avanzati’ – soffre pertanto, a causa dei suoi stessi squilibri, di una minaccia assai concreta e che nei prossimi decenni sarà anche più grave, se non saranno invertiti i trend attuali e non saranno avviate politiche di assistenza e di aiuto veramente incisive. Bisogna ammettere che, per coloro che vivono nei Paesi avanzati, queste preoccupazioni, sebbene spesso portate all’attenzione del grande pubblico, non ottengono seguito sufficientemente persuasivo e operativo, forse a causa di una invincibile autoreferenzialità ottica, condita di esorcismi dilatori. Al contrario, sono attentamente scrutati i passaggi economici e finanziari che abbiano immediate rilevanze ‘interne’.
Le destabilizzazioni dell’economia, infatti, stante il presupposto dell’interdipendenza delle economie mondiali, possono giungere da molte parti: dall’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) e dai prezzi oscillanti del petrolio, dagli Stati Uniti a causa della crisi dei mutui, dall’Argentina a causa di prestiti non coperti, dal Sud-Est asiatico per le turbolenze prodotte da quelle che fino a qualche tempo fa erano le ‘tigri asiatiche’; in Europa, dalle difficoltà delle varie ‘locomotive’ trainanti, dalle controversie sugli approvvigionamenti del gas e così via.
In questi casi, le instabilità possono colpire i Paesi nella loro generalità o alcune categorie specifiche, e determinare dunque instabilità di bassa, media, elevata intensità. Ultimamente si registrano riedizioni di antiche guerre per il pane (Haiti, Egitto), causate almeno in parte dalla conversione delle colture alla produzione di bioenergie.
Temi assai importanti di riflessione sono, nei Paesi avanzati, il decentramento produttivo, la deindustrializzazione e la flessibilità/precarietà. Le dinamiche dissociate del capitale e del lavoro alimentano nuove edizioni dell’antico contrasto strutturale. L’imperativo della produttività domina incontrastato e il liberalismo della concorrenza sfrenata – a tutto vantaggio, si dice, del ‘consumatore’ – produce tensioni ovunque, finanche nella classe imprenditoriale. Instabilità manifeste e latenti percorrono pertanto lo storico territorio del lavoro, dal quale la gran massa degli uomini continua ad attingere le risorse per la sopravvivenza e, possibilmente, per un’esistenza dignitosa.
In Italia, una delle economie mondiali più deboli tra quelle avanzate, le controversie sul lavoro non si placano; e le politiche sociali oscillano tra affermazioni e negazioni che alimentano incertezze sul presente e sul futuro. Se la precarietà del lavoro non ha mostrato, a oggi, tutti i suoi lati dirompenti è perché forme di compensazione familistiche, supplementi di impegno individuale, ricorsi al sommerso, illegalità ‘funzionali’ di massa e finanche assuefazioni e disinteresse hanno costruito una rete di vischiosa amministrazione del problema, la quale tuttavia corrode ogni fiducia e grandezza progettuale.
Instabilità associative
Si esprimono nelle tensioni intorno alle posizioni individuali, alla organizzazione e differenziazione del corpo sociale e ai riconoscimenti pubblici conseguenti.
Si è parlato di alcuni fenomeni: la precarietà del lavoro, le difficoltà economiche, la questione dell’integrazione degli immigrati; si potrebbero aggiungere le testimonianze di distacco dei cittadini dalle istituzioni, i fenomeni della devianza e altri.
Queste vicende hanno un denominatore comune: la connessione tra l’individuo e la ‘sua’ società.
In questi casi bisognerebbe partire dalle storie delle società in cui l’individuo conduce la sua esperienza, e analizzare le forme di socializzazione conseguite. Ciò che, per es., appare una situazione discretamente accettabile per i cittadini dei Paesi ‘arretrati’, può costituire un riprovevole stato di ‘emergenza’ per i cittadini dei Paesi ‘avanzati’. Nelle interpretazioni dei dati offerti dalle circostanze non ci sono solo ‘realtà’ ma anche ‘sogni’: e ciò popola il nostro paesaggio ‘empirico’ di aspettative circa una società possibile, che riceve impulsi tuttavia dall’esperienza. Le società ‘avanzate’ sono anche quelle più avvezze al pensiero di una società possibile, all’idea di un progresso sociale ‘necessario’. Il benessere, in altri termini, è anche ‘sapienza’ di altro benessere, tanto da sollecitarne la ricerca e comunque sostenerne l’aspettativa, sovente nel contesto di altre buone eminenze: quelle della equità, della giustizia, della efficienza, della razionalità e così via.
Tutte o quasi le società avanzate devono fronteggiare il problema della disoccupazione, massimamente quando si registrano crisi industriali. La disoccupazione di massa è quanto di più destabilizzante si possa ricordare, se si guarda alla storia e alla storia occidentale (e ciò riporta ancora il tema del lavoro in primo piano). Essa costituisce pertanto un argomento serio di tutte le politiche sociali. Oggi si aggiungono le politiche sociali intese a ridurre la precarietà: precarietà che rappresenterebbe una forma amletica di ‘essere e non essere’ del lavoro, ossia di occupazione e disoccupazione per la quale si esige un esercizio maggiore di capacità di comprensione individuale e di azione pubblica. Abituati al futuro, altrove abbreviato solo al domani, i cittadini dei Paesi avanzati vedono con estrema preoccupazione la regressione di questa fondamentale categoria della loro esistenza, e di quella dei loro figli. Le elaborazioni europee sulla cosiddetta flexicurity tenderebbero ad attenuare il rischio del futuro mediante provvedimenti atti a creare un’alleanza tra flessibilità e sicurezza. Nei presupposti di questa impostazione, vi è l’insieme delle incertezze della nostra epoca, indotte dai mutamenti economici ma anche dalla regressione della tradizione, dall’avanzata dei valori consumistici, dall’indebolimento dei vincoli sociali, e infine dai progressi della scienza e dal degrado ambientale.
Le crisi produttive hanno dappertutto costituito la base per modificazioni della stratificazione sociale. Mentre la mobilità sociale ascendente sembra essere la normalità, e in effetti ancora lo è, essa è stata fortemente condizionata da una mobilità discendente che ha prodotto scivolamenti (skidders). Il prototipo drammatico è la crisi del 1929 negli Stati Uniti; ma tra gli ultimi decenni del Novecento e l’inizio del 21° sec. non è stato affatto infrequente il fenomeno nei Paesi avanzati, dagli Stati Uniti, al Giappone, alla Germania.
I processi di ristrutturazione e riposizionamento delle aziende nel mondo creano ovunque turbolenze sociali di vario tipo. Nel liberalismo generalmente professato in nome della competizione universale tendono a diminuire le garanzie storicamente conquistate dal lavoro, che viene ideologicamente privatizzato e individualizzato, e tendenzialmente sottratto agli orizzonti pubblici e alle politiche sociali di welfare. D’altronde, anche le delocalizzazioni delle aziende in Paesi nei quali le tutele del lavoro – e dell’ambiente – siano inferiori rivela proprio a carico di chi vengono ‘colte’, come si dice eufemisticamente, le opportunità offerte dalla globalizzazione. E ciò si scontrerà a lungo andare con l’aumento della consapevolezza civile dei ‘diritti’ che si muove su Internet esattamente come si muovono molti prodotti di largo consumo. E, in questo caso, di speciale appeal, di silenziosa interiorizzazione, e di rinviati sviluppi.
I movimenti dell’economia mondiale non sono tuttavia omogenei e molto eterogenee sono le reazioni e le interazioni. Se è vero che i grandi conglomerati sovranazionali esprimono il loro peso ed esercitano, anche nelle maniere più subdole, il loro potere, è anche vero che non è sempre possibile decretare il successo a priori delle loro manovre. Si è parlato del lavoro e della massa di coloro che nel lavoro ripongono le speranze di vita e di buona vita. Ma le chances di mobilità nei sistemi sociali non sono allocate solo nel lavoro; anzi, quelle più vistose e vertiginose stanno in gran parte nelle maglie e negli interstizi della speculazione finanziaria; e in parte rilevante anche nell’innovazione tecnologica e nella creatività artistica. Sebbene normalmente si tratti di casi, in quanto tali non generalizzabili, tutto ciò continua a essere apologeticamente esaltato come il merito inequivocabile di una dinamica sociale vigente e promettente, capace peraltro di rafforzare, rispetto ad antiche visioni di classe o socialiste, la solidarietà del sistema in base all’energia costruttiva di figure esemplari e di élites più capaci. Fino ai prossimi disinganni di non prevedibile portata.
Instabilità culturali
Esse contemplano i valori, gli orientamenti, le infrastrutture della vita maturate nel tempo e costituiscono il patrimonio storico di un gruppo, anche senza una storia ‘ufficiale’. Instabilità di questo tipo potrebbero apparire delicate e sottili rispetto ad altre di maggiore ‘durezza’ e ‘concretezza’ che sono state esaminate. Ma non è così; se ne parla alla fine di questo percorso non perché siano meno importanti, ma perché impongono di cambiare registro; esse investono l’anima dei sistemi sociali, il principio che li fa essere, direbbe Montesquieu, appunto quelli che sono.
Guardando al teatro mondiale delle vicende umane, emerge una lotta tra culture che prevalgono in un’epoca, deperiscono in un’altra; ma tutte danno il loro contributo a quelle successive e riemergono in qualche misura sia nei loro luoghi originari sia in altri luoghi. Transiti e connessioni tra culture sono all’ordine del giorno del divenire umano.
Si deve in ogni caso operare una distinzione che ha alla sua base l’implicita duplicazione del termine cultura e che permette di chiarire alcuni punti importanti della questione.
Nel senso antropologico, ogni popolo ha la sua cultura fatta di tutte quelle arti che, come è stato detto, servono per vivere e per morire e comprendono quanto «resta in noi di tutto ciò che gli altri ci hanno dato» (Costanzo 2006); nel senso latamente umanistico, la cultura indica una qualità speciale di alcuni rispetto ad altri, e in qualche modo un’aristocrazia della conoscenza più o meno aperta rispetto alla massa.
Nel quadro della prima dimensione, l’autonomo esaurimento di alcune culture è un caso raro, rispetto alla frequenza dello spegnimento più o meno violento di culture operato da fattori e forze esterne ed egemoni. Così è accaduto degli Incas e dei Maya nell’America Latina; dei nativi degli Stati Uniti d’America, degli aborigeni australiani e in innumerevoli altri casi che la storia documenta.
La lotta, normalmente impari, si svolge sotto i nostri occhi ancora oggi. Culture di gruppi umani e nazioni vengono soggiogate in America come in Africa, in Oceania come in Asia. In questi casi, gli Stati più recenti, meno solidi e tendenzialmente autoritari sono inclini a imporre visioni del mondo coerenti con le fazioni al potere, intendendo come una diretta minaccia o una insidia secessionista la diversità di idee e costumi. In altri Stati, laddove regni una normativa più evoluta, le maggioranze al governo normalmente espongono la tutela delle minoranze come un’abitudine che non prevede eccezioni. Ciò non significa tuttavia che l’armonia sia raggiunta; le circostanze per contrasti e recriminazioni si ritrovano nella cronaca quotidiana, anche perché sottoposte alle molte versioni dei fatti nel loro accadere.
In molti casi, un popolo dotato della sua cultura trova nella conquista di una soggettività politica forte, normalmente nella configurazione di uno Stato, una capacità di difesa maggiore, anche perché viene riconosciuta internazionalmente, ossia nel consesso delle nazioni, e perciò gode del privilegio di uno status giuridico formale. È evidente qui la connessione tra nazione e Stato, laddove la ‘nazione’ evoca proprio un’entità ‘culturale’ di base.
Occorre ritornare su un punto assai importante, che rivela ancora una volta la contraddittoria fertilità della globalizzazione. Essa infatti veicola sia consistenti fattori di omologazione culturale sia robusti impulsi alla rivendicazione di autonomia da parte di culture ‘oppresse’, contribuendo alla loro visibilità e alla loro legittimazione. Ciò è accaduto per molte culture ‘dimenticate’ in tutti i continenti, anche in Europa. La questione dei genocidi culturali comincia a essere meglio tematizzata e sotto questo aspetto è prevedibile che revisioni storiche e nuove consapevolezze mobiliteranno le agende di Stati e governi in un futuro più o meno prossimo. D’altra parte non sono pensabili solo ‘separazioni’ e dissidenze; ma anche nuove forme di connessione, strategie di inclusione, ibridazioni e combinazioni positive. Multiculturalismo e relativismo culturale sono concetti molto controversi che alludono tuttavia a processi di interazione tra culture, tanto difficili quanto inevitabili.
Una diversa problematica evoca l’altra dimensione della cultura. Una formazione adeguata alla sfida dei tempi costituisce una preoccupazione di tutti i sistemi, massimamente quelli avanzati, intenzionati a non perdere il loro vantaggio competitivo rispetto a vecchi e nuovi concorrenti. Come si apprende dal rapporto del 2008 di Global R&D, gli investimenti mondiali in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico sono aumentati di circa il 7% rispetto al 2006 e corrispondono ormai al 2% della ricchezza mondiale (1.124 milioni di dollari). Ritorna in auge il vecchio aforisma baconiano, scientia est potentia, che riceve peraltro conferme sotto tutte le latitudini.
Non sono del tutto chiare le linee direttrici verso le quali muovere; l’Unione Europea cerca, in questo come in altri campi, di provvedere a fornire indicazioni utili e programmatiche. Ne è un esempio l’obiettivo strategico rilanciato in occasione del Consiglio europeo di Lisbona del 2000: fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. Propositi confermati e rafforzati nei successivi Consigli europei di Stoccolma, Barcellona e Bruxelles, dal 2001 al 2007: ai quali purtroppo non corrispondono azioni di rilancio veramente convincenti. I dati Eurostat del 2008, contenuti nel rapporto, Scienza, tecnologia e innovazione in Europa, riferiscono che nel 2006 (ultimo dato disponibile) gli investimenti in ricerca e sviluppo corrispondono all’1,86 % del PIL, la stessa percentuale dell’anno precedente.
La crisi dei sistemi formativi avanza parallelamente alla ricerca delle metodiche più efficaci per contrastarla. Dappertutto i sistemi scolastici rivelano limiti e debolezze; la knowledge society, che fa leva sugli investimenti nella conoscenza e sul capitale umano in vista del mantenimento e della promozione di alti standard di sviluppo, crea al suo interno le sue contraddizioni; e la rincorsa, contemplata dal long life learning, alla formazione continua, fatta di aggiornamenti quasi quotidiani, sviluppa una tensione nei soggetti e nei contesti sociali che rafforza l’incertezza del sapere e l’incertezza esistenziale. Come è stato osservato (Giddens 1990; trad. it. 1994, p. 47), «la modernità è formata da e tramite un sapere applicato riflessivamente, ma l’equazione sapere uguale certezza si è rivelata male impostata».
La questione culturale, specie nei Paesi avanzati, è destinata ad avere un ruolo sotterraneo e non secondario nel senso di modellare i contesti e fornire alimento a instabilità di molti tipi e di varia incidenza. Come si sa, sono altre le instabilità che massimamente gravano sui Paesi ‘arretrati’.
Stando all’Italia, mentre si riproducono antiche e nuove separazioni culturali di un Paese caratterizzato da una modernizzazione difficile, il problema scolastico è forse più drammatico che altrove: ma la società civile e quella politica sembrano essere associate nelle sottovalutazioni della sua gravità, a causa di una lunga consuetudine di scarsa attenzione al settore dell’istruzione e della ricerca che non tarderà a rivelare, soprattutto nelle asperità delle congiunture economiche, la sua deleteria evidenza. I dati riportati dall’indagine PISA (Programme for International Student Assessment, 2006) promossa dall’OECD continuano ulteriormente a evidenziare la crisi della scuola italiana. Le indagini del 2000 e del 2003 avevano rivelato lo scarso rendimento degli studenti in italiano e matematica; l’ultima indagine – del 2006 – denuncia anche la scarsa competenza nelle scienze e un ulteriore scivolamento di ben nove posizioni rispetto alle precedenti graduatorie.
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