Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel XX secolo l’unità europea diviene, da progetto utopistico, concreto disegno politico, proposto per la prima volta dopo la prima guerra mondiale, poi, con maggiore organicità e convergenze, al termine della seconda, per superare definitivamente gli esiti distruttivi della contrapposizione tra potenze imperiali. L’elemento decisivo che determina la nascita del processo di integrazione europea è la contrapposizione tra democrazie liberali e comunismo sovietico sul continente, con l’esigenza di tenere saldamente unito il fronte dei Paesi europei occidentali. A partire da queste premesse, prende forma nel corso dei decenni un edificio istituzionale ibrido, né organizzazione internazionale né federazione o “superstato”, che proprio nella struttura elastica in continua evoluzione mantiene il suo baricentro. La fine della guerra fredda e le nuove contrapposizioni del mondo globalizzato hanno però incrinato sensibilmente le basi politiche dell’integrazione, costringendo i Paesi membri a ridiscutere i principi ispiratori dell’Europa unita e il suo ruolo internazionale.
Dall’utopia filosofica al progetto di una democrazia su scala continentale
L’idea dell’unità europea nel XX secolo si sviluppa, mutando nettamente natura rispetto ai progetti utopici concepiti dall’epoca illuministica in poi, a partire dal crollo del tradizionale sistema di equilibri conflittuali delle grandi potenze continentali segnato dalla prima guerra mondiale. Essa viene riformulata proprio come possibile prospettiva futura per un assetto internazionale del quale si percepisce ormai definitivamente smarrito il vecchio principio ispiratore. L’ideale dell’internazionalismo democratico come logica di governo del mondo alternativa a quella degli “imperi” multinazionali, nazionali e coloniali, proposto dal presidente statunitense Woodrow Wilson (1856-1924), ne costituisce, dunque, uno dei principali presupposti politico-culturali. Ma l’europeismo, soprattutto nella forma federalistica che ne rappresenta la prima, e culturalmente più rilevante, manifestazione, prende forma proprio dalla riflessione su quello che appariva il principale limite del wilsonismo: l’incapacità di superare il “dogma” della sovranità nazionale, e dunque la divisione tra le diverse “ragioni di Stato”, che avrebbe continuato costitutivamente a produrre una conflittualità incontrollabile. Non a caso possono ritenersi il primo esempio novecentesco di compiuta teorizzazione del federalismo europeo le lettere pubblicate a firma Junius da Luigi Einaudi (1874-1961) sul “Corriere della Sera” tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, che hanno come obiettivo polemico proprio il progetto della Società delle Nazioni, rispetto al quale si propugna invece una vera e propria unione politica tra gli Stati europei come unica strada praticabile per un futuro di stabile pace nel continente.
Negli anni Venti e Trenta non sono poche le proposte di unificazione politica, o quanto meno di confederazione, tra gli Stati europei come antidoto alla risorgente tensione internazionale, alla quale l’emergere dei regimi totalitari aveva aggiunto un ulteriore elemento di degenerazione. Dal progetto di unione elaborato dal movimento Paneuropa, fondato nel 1923 dal diplomatico ungherese Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972), a quello presentato dal primo ministro francese Aristide Briand (1862-1932) alla Società delle Nazioni (1929), a quello elaborato dall’organizzazione inglese Federal Union, fondata tra gli altri dall’economista Lionel Robbins (1898-1984) e da Barbara Wootton (1938), al progetto di federazione atlantica proposto dal giornalista americano Clarence Streit nel volume Union now alle soglie della seconda guerra mondiale (1939). Più in generale, si può dire che l’ideale europeistico negli anni Trenta diviene un riferimento comune, qualcosa che “si respira nell’aria” tanto nell’area politico-culturale liberaldemocratica, unita dalla lotta contro il fascismo e il nazismo, quanto in molti ambienti di sinistra, che declinano il superamento della sovranità nazionale in consonanza con l’internazionalismo socialista.
L’europeismo come principio unificatore delle liberaldemocrazie nell’epoca della guerra fredda
Ma sarà soltanto con il nuovo conflitto mondiale, e successivamente con la contrapposizione totale tra comunismo sovietico e liberaldemocrazie occidentali, che l’unificazione politica europea diventerà un tema effettivo di discussione politica a livello internazionale. La sfida totale contro il nazismo aveva spinto già nel 1940 l’allora primo ministro britannico Winston Churchill (1874-1965) a proporre (proprio sotto la determinante influenza delle teorizzazioni di Federal Union, e in consonanza con il leader della resistenza francese Charles de Gaulle) il progetto di un’unione anglo-francese come nucleo di una futura federazione degli Stati europei democratici. E la riflessione sull’assetto del mondo dopo l’auspicata sconfitta di Hitler si era tradotta nel 1941 per Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, antifascisti italiani di estrazione liberale e socialista in confino sull’isola di Ventotene, nella redazione di un manifesto programmatico (poi noto appunto come Manifesto di Ventotene) “per un’Europa libera e unita”, e successivamente, nel 1943, nella fondazione a Milano, da parte di Spinelli, del Movimento Federalista Europeo (MFE).
Se, però, durante il conflitto l’unità europea appare quasi come un corollario dell’unità antifascista e democratica, con il dopoguerra e il profilarsi della “cortina di ferro” sull’Europa l’idea di un’unificazione politica del continente sotto istituzioni liberaldemocratiche assume una connotazione sostanzialmente nuova, in quanto si qualifica come soluzione rispetto a due elementi divenuti nel frattempo centrali: da un lato, l’esigenza di un ancoraggio democratico a livello continentale per la parte della Germania divisa che sarebbe presumibilmente rimasta nel campo occidentale, finalizzato a superare le annose dispute nazionalistiche che la oppongono soprattutto alla Francia e a integrarla il più possibile nelle nuove alleanze; dall’altro, su scala più ampia, la necessità da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati europei di trovare un baricentro ideale e una comune prospettiva di sviluppo politico-economico su cui fondare il nuovo schieramento politico-militare antisovietico, che proprio nel continente europeo trova il suo fronte più avanzato.
È, dunque, soltanto a partire dall’orizzonte della guerra fredda e dalla logica di coesione interna dell’alleanza occidentale che si può comprendere storicamente la genesi e lo sviluppo dei progetti comunitari. È in questo spirito che Churchill nel 1946 rilancia il progetto europeistico che aveva elaborato nel 1940, con l’appello a costituire una federazione degli Stati Uniti d’Europa. Ma quando la Gran Bretagna ben presto ne abbandona la leadership per concentrarsi sui problemi della ridefinizione della propria identità internazionale al tramonto del proprio impero coloniale, sono le nuove classi politiche dei Paesi democratici dell’Europa continentale, usciti dalla sconfitta o da profondi traumi nazionali (in particolare Francia, Italia e, successivamente, la neonata Repubblica Federale Tedesca) a riprenderne l’elaborazione in forme nuove e peculiari. In ciò incoraggiati dall’amministrazione e da gran parte della classe politica statunitense, oltre che da associazioni politico-culturali come il già citato MFE di Spinelli e il Movimento Europeo, sorto nel 1948.
Il piano elaborato dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman (1886-1963) nel 1950, nato soprattutto dall’ispirazione del suo consigliere Jean Monnet (1888-1979) e dall’intesa con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer (1876-1967), è il primo concreto risultato di questa elaborazione, baricentrata soprattutto sugli ambienti politici cattolico-moderati e liberali che nei principali Paesi partecipavano in quell’epoca agli esecutivi da posizioni chiave, godevano generalmente di rapporti privilegiati con gli Stati Uniti (dove prevaleva ormai la convinzione che il popolarismo moderato fosse l’argine principale a disposizione in Europa contro il comunismo) e riversano nel progetto europeistico il retaggio culturale e politico del loro ecumenismo e della loro opposizione di lungo periodo ai nazionalismi.
Sarà sulla base del piano Schuman che nel 1951 verrà fondata la prima istituzione comunitaria: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). In apparenza ispirata a una concezione prevalentemente economicistica, e incentrata su un settore specifico dell’economia come quello minerario e siderurgico, la CECA in realtà è già culturalmente figlia di un grande progetto politico: il superamento definitivo del più antico motivo di conflitto tra le due principali potenze europee-continentali, Francia e Germania, e cioè lo sfruttamento delle risorse delle regioni di confine a cavallo del Reno. Che non si trattasse di un obiettivo di basso profilo, è confermato dal fatto che, immediatamente dopo, il dibattito sull’integrazione si va già concentrando su un tema a proposito della cui essenza prettamente politica, indissolubilmente connessa alla sovranità e alla ragion di Stato, non può esserci alcun dubbio: la creazione di istituzioni per la difesa comune. Gli Stati Uniti spingono in questa direzione, sperando di essere sollevati, almeno in parte, degli oneri connessi alla protezione dell’Europa occidentale dalla minaccia sovietica. Nello stesso senso si esprimono i sostenitori di una soluzione federalista, persuasi che, se si intendono creare istituzioni comunitarie coese e stabili, gli elementi fondamentali del governo politico vadano anteposti alla gestione delle risorse economiche. Su tali basi, nel 1952, viene approvato dagli Stati membri della CECA il progetto costitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED). Ma proprio la connotazione decisamente “costituente” del nuovo progetto suscita l’aggregazione di alleanze trasversali tra burocrazie nazionali e partiti di destra e di sinistra in opposizione a esso, che in Francia, complice l’instabilità della Quarta Repubblica, riescono a impedire la ratifica della CED da parte dell’Assemblea Nazionale, affossando la nuova istituzione (1954).
La mancata ratifica francese della CED, insieme alle più generali divisioni strategiche di politica internazionale in campo occidentale nella fase di transizione del confronto con l’URSS iniziata dopo la morte di Stalin (1879-1953), provoca una fase di prolungato stallo nello sviluppo dell’integrazione europea, che sembra per un certo periodo preludere addirittura a una sostanziale archiviazione della stessa. Ma i governi riprendono il dialogo, sulla scorta di elementi politico-economici di lungo periodo e sotto il prevalente influsso di un’impostazione non più tout court federalista come quella di Spinelli, ma piuttosto “funzionalista” come quella proposta da Monnet: fondata cioè sulla progressiva messa in comune di ambiti sempre più vasti delle risorse economiche, allo scopo di favorire una crescente compatibilità tra società e istituzioni dei diversi Paesi. Questo approccio più cauto riesce a dare un nuovo impulso all’elaborazione progettuale, che trova una tappa importante nella conferenza di Messina (1955), e che sfocia nella firma dei trattati di Roma (1957). Con essi viene fondata la Comunità Economica Europea, alla quale aderiscono gli stessi sei Paesi che già facevano parte della CECA, e insieme nascono il Mercato Comune Europeo (MEC) e l’Euratom.
La CEE: un modello inedito di organizzazione politico-giuridica
La struttura istituzionale creata dai trattati di Roma rappresenta una ulteriore, evidente dimostrazione di quanto la concezione che sta alla base della costruzione comunitaria europea nel secondo dopoguerra sia ben lontana dall’esaurirsi in quella di uno spazio economico comune, ma abbia una natura profondamente politica; ma anche di quanto, nel contempo, la Comunità rappresenti un tipo di costruzione politica non riconducibile ai modelli dello Stato e del costituzionalismo moderni. Gli organismi fondamentali istituiti a Roma sono il Consiglio, la Commissione, l’Assemblea parlamentare (poi Parlamento europeo) e la Corte di giustizia. Da una parte, la loro esistenza pone all’interno dell’edificio istituzionale europeo la questione della sovranità e dell’equilibrio tra i poteri; dall’altro, essi non rispondono a quella questione in un senso chiaramente definibile nel linguaggio del diritto pubblico proprio degli Stati sovrani. Infatti tanto il Consiglio, formato dai ministri degli esecutivi dei vari Paesi contraenti, quanto la Commissione, composta da membri nominati dagli stessi governi, sono in parte espressione di una logica di accordo intergovernativo tra Paesi che rimangono depositari della propria sovranità, ma per altri versi la trascendono, in quanto detengono un potere gerarchicamente superiore sulle questioni di loro competenza. Dal punto di vista, poi, dell’organizzazione “orizzontale” dei poteri, Consiglio e Commissione confondono ancor più le idee di chi guardi a essi con gli occhiali del diritto pubblico statuale, in quanto entrambi partecipano di alcuni aspetti sia del potere esecutivo che di quello legislativo, ma nessuno dei due si può definire propriamente nei termini dell’uno o dell’altro. A complicare ulteriormente le cose, essi hanno come controparte un Parlamento europeo (i cui membri sono inizialmente nominati dai parlamenti nazionali, ma dal 1979 vengono eletti direttamente dai cittadini degli Stati aderenti in apposite elezioni) che richiama immediatamente per analogia l’organo del potere legislativo nei regimi liberaldemocratici, ma che non detiene potere di iniziativa legislativa, bensì soltanto una funzione consultiva, e la facoltà di presentare emendamenti alle proposte di Commissione e Consiglio o interrogazioni alla Commissione.
Insomma, la Comunità Economica Europea si configura fin dalla sua origine come una forma istituzionale particolarmente complessa. Essa è in parte un organismo internazionale concordato tra Stati sovrani, in parte una sorta di superorganismo amministrativo, in parte il luogo di un delicato equilibrio tra istituzioni di governo intergovernative e sovranazionali. Soprattutto, essa trae la sua assoluta peculiarità nella storia costituzionale occidentale moderna dal fatto di non avere, dal punto di vista del fondamento “costituzionale” e dell’assetto normativo, una struttura prestabilita e statica, ma di assumere una forma che si evolve secondo l’impulso proveniente da diverse fonti, e in particolare dai trattati man mano siglati dagli Stati membri, dalle direttive della Commissione e del Consiglio, dalla giurisprudenza della Corte.
Il quadro della CEE come organismo in continua ridefinizione, ma ancorato a una necessaria “ambiguità” tra sovranità e intergovernatività, dimensione sovranazionale e nazionale, statuale e associativa, viene sostanzialmente confermato dalle vicende dei decenni successivi. Gli anni Sessanta e Settanta vedono sostanzialmente una stasi del dibattito su un approdo istituzionale compiutamente sovranazionale (soprattutto a causa della linea tenacemente nazionalistica del presidente francese de Gaulle) e viceversa il prevalere di un lungo, tenace confronto sugli spazi di compatibilità tra gli interessi politici, ma innanzitutto economici, tra i vari Stati: sono i decenni in cui si perfezionano la politica agricola comune, l’armonizzazione fiscale, la valorizzazione della dimensione regionalistica, e soprattutto la creazione di un sistema monetario europeo (1972, poi rilanciato nel 1978-1979). Nel complesso, il risultato del lungo dibattito è il consolidamento di un’area economico-sociale, amministrativa e giuridica, in un orizzonte “consociativo” bilanciato dai benefici di spazi di mercato, iniziativa e programmazione economica aperti al di là delle ancora strette maglie dei confini nazionali. Dall’inizio degli anni Settanta il “modello” comunitario comincia a esercitare una rilevante forza di attrazione su molti Paesi dell’Europa occidentale rimasti fino ad allora fuori dal processo: in primo luogo la Gran Bretagna, che entra nella CEE nel 1973 insieme a Danimarca e Irlanda, in un secondo momento i Paesi dell’area mediterranea che escono da regimi autoritari di estrema destra e vedono nell’approdo comunitario un saldo ancoraggio alla liberaldemocrazia e una concreta prospettiva economica, come Grecia, Spagna e Portogallo (la prima entra nel 1981, i secondi nel 1986). A questi si aggiungeranno poi nel 1995 Svezia, Finlandia e Austria.
Ma il baricentro del progetto europeistico rimane, anche in questi sviluppi, nelle due condizioni di fondo che ne hanno determinato la nascita: il rafforzamento dell’area di democrazia occidentale nel contesto della guerra fredda, e la stabilizzazione politica dell’Europa a impedire il ripetersi dell’autodistruttiva implosione nazionalistico-imperialista culminata nella “guerra civile europea” della prima metà del XX secolo.
Il tramonto della guerra fredda: rilancio e crisi dell’integrazione europea
La più lampante dimostrazione storica di questa continuità sta nel fatto che il nuovo punto di svolta nel dibattito sulla natura delle istituzioni comunitarie si può collocare nei primi anni Ottanta, in corrispondenza diretta con il nuovo irrigidimento nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con l’emergere sempre più netto del dissenso politico antisovietico nei Paesi “satelliti” dell’Europa dell’Est, e infine soprattutto con i primi segni del disfacimento della stessa Unione Sovietica sotto i colpi del fallimento economico e delle rivendicazioni di liberalizzazione politica. Il dibattito sul destino della CEE, in altri termini, in quegli anni tende naturalmente a rispondere all’esigenza di prefigurare un modello di Europa unita, al di là della cortina di ferro, dagli ordinamenti liberaldemocratici, e alla necessità di dare uno sbocco di stabilizzazione all’ondata di mutamenti profondi che stava per investire tutta la parte orientale del continente. Non è un caso se proprio in quel periodo l’anziano Altiero Spinelli, che nel frattempo era stato nominato e poi eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano (altra grande e storica svolta per un partito che, come peraltro gran parte della sinistra europea, era stato a lungo attestato su posizioni di intransigente antieuropeismo), riprende con entusiasmo la sua predicazione federalistica, e coagula nell’assise continentale un vasto consenso intorno a un progetto di trattato che istituisce l’Unione Europea (1984). Né è un caso se, anche per effetto delle pressioni di gruppi e opinioni pubbliche che di nuovo vedevano nel federalismo uno sbocco politico possibile ai dilemmi della politica internazionale, gli Stati membri metteranno in cantiere – a partire dall’Atto unico di Lussemburgo del 1985 – il completamento di un effettivo spazio di mercato unico continentale, inaugurato nel 1992. Sarà poi nel contesto dell’ormai avvenuta dissoluzione dell’impero comunista sovietico, nel 1991, che con il trattato di Maastricht prenderà forma l’ancor più ambizioso progetto dell’unità monetaria europea, imperniato sull’omogeneizzazione preventiva dei parametri della finanza pubblica tra gli Stati che puntassero all’adesione.
Con il trattato di Maastricht la CEE diviene Unione Europea (UE). Il mutamento di denominazione indica ovviamente una maggiore sottolineatura dell’impalcatura propriamente politica delle istituzioni comunitarie: ma, per le ragioni esposte sopra, non si tratta di un mutamento di sostanza, bensì del tentativo di un rafforzamento e coordinamento degli ordinamenti risultanti dai trattati di Roma allo scopo di fare fronte alla sempre più accresciuta e crescente “domanda di Europa”, e creare una struttura istituzionale in grado di reggere sia la necessaria presenza di un soggetto europeo sulla scena della politica “globalizzata” del dopo-guerra fredda, sia il gigantesco processo di allargamento messo in moto dal crollo del comunismo. L’Unione, seguendo ancora sostanzialmente la logica del funzionalismo di Monnet, somma gli organismi comunitari già esistenti a nuove forme di cooperazione nei settori della politica estera e della difesa (in una logica ben diversa da quella che stava alla base del progetto CED) e con la prospettiva di una compiuta unificazione monetaria. I “parametri” di Maastricht e l’adesione alla moneta comune (perfezionata solo da undici tra i Paesi membri, esclusi Gran Bretagna, Svezia, Danimarca e Grecia) rappresentano dunque nel corso degli anni Novanta il crinale fondamentale nella creazione di un “nocciolo duro” intorno al quale quel soggetto politico e quel polo di attrazione potessero stabilizzarsi.
Ma tanto la creazione della moneta unica europea, quanto il processo di allargamento che porta nel 2004 gli Stati aderenti all’Unione da 15 a 25 (includendo gran parte dei Paesi ex comunisti dell’Europa orientale) produrranno un effetto ambivalente: da una parte consolideranno l’edificio comunitario, dall’altro costituiranno però il presupposto di nuovi motivi di conflitto e di divisione. L’entrata in vigore della nuova valuta, l’euro, nel 2002 avverrà infatti in una situazione economica e politica internazionale estremamente critica: la rigidità dei parametri finanziari imposti dal progetto, sommata all’effetto inflattivo prodotto dalla nuova valuta in molti Paesi, farà sì che esso sia percepito da settori cospicui delle opinioni pubbliche come un’imposizione da parte delle “oligarchie” comunitarie, e un pesante freno alla ripresa economica. L’ingente allargamento, d’altra parte, produrrà oggettivi problemi di funzionamento delle istituzioni comunitarie, alterando irrimediabilmente il delicato equilibrio tra dimensione intergovernativa e sovranazionale, che era stato concepito per un numero limitato di paesi, e imponendo una ridiscussione complessiva dell’assetto dei poteri dell’Unione. Ma, soprattutto, esso scardinerà decisamente il complesso compromesso tra economia di mercato e protezione di settori nazionali privilegiati che costituiva l’ossatura della stabilizzazione continentale postbellica, e che è stato definito “asse franco-tedesco”, dai due Paesi che ne rappresentavano il nodo cruciale. La nuova Unione si presenta ora come un conglomerato di interessi, culture politiche, alleanze strategiche estremamente variegato e quasi irriducibile ormai a una prospettiva unitaria.
A queste difficoltà si aggiunge poi un ulteriore, importante motivo di divisione: dopo l’11 settembre 2001, il profilarsi della nuova politica estera dell’amministrazione statunitense di Bush jr, volta a una forte iniziativa politica e militare in Medio Oriente per ristabilire un controllo occidentale sull’area e contrastare l’espandersi del progetto di potenza dell’integralismo islamico guidato da Al Qaeda, provoca tra i Paesi dell’Unione Europea una drammatica spaccatura tra quanti si associano alla strategia statunitense (Gran Bretagna, Spagna, Italia, e la gran parte dei nuovi membri dell’Europa orientale) e quanti si oppongono a essa con strenua decisione (soprattutto Francia e Germania). Si tratta di un dissidio che coinvolge la stessa concezione del ruolo di un soggetto politico europeo nel nuovo ordine internazionale, e che quindi contribuisce ad accrescere decisamente le diffidenze e a pregiudicare le convergenze tra i grandi Stati sul consolidamento degli organismi sovranazionali, riportando a un profilo schiettamente nazionale le loro strategie e alleanze di politica estera.
Di conseguenza, il dibattito su una nuova riforma delle istituzioni comunitarie, impostato al vertice di Nizza nel 2000 e sfociato nel 2001 nella nomina di una Convenzione incaricata di redigere un documento che valesse da vera e propria Costituzione dell’UE, era destinato a polarizzare su di sé le tensioni nuove che si accumulavano sui principi ispiratori dello stesso progetto europeista.
La Costituzione dell’Unione, approvata nel 2003 da un’apposita conferenza intergovernativa, non apporta, ancora una volta, variazioni sostanziali alla logica degli ordinamenti esistenti. A parte il Preambolo, in cui vengono richiamate come origine del processo comunitario ”le eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa” (ma senza menzionare esplicitamente l’ebraismo e il cristianesimo, il che ha provocato molte polemiche e contestazioni, a partire da quelle della Chiesa cattolica), gli aspetti di maggiore interesse della Carta, che per gran parte è una redazione sistematizzata dei trattati in vigore tra gli Stati membri, sono la presenza di una Carta dei diritti (alquanto pletorica), il nuovo ordinamento della Commissione (25 membri, uno per Paese, da ridurre in seguito a 17 a rotazione, votazioni a maggioranza qualificata in base al numero di Paesi e alla loro popolazione), il prolungamento del mandato del presidente di turno dell’Unione e la nomina di un ministro degli Esteri dell’UE. Non sono tuttavia le opposizioni rispetto a questi singoli punti, quanto piuttosto un fenomeno generalizzato di avversione e di rifiuto nei confronti della costruzione europea in quanto tale, per motivi svariati e opposti (troppa burocrazia, troppa o troppo poca economia di mercato) a fare sì che quando il documento viene sottoposto a referendum di ratifica in molti degli Stati membri, in due tra i più importanti e originari tra essi, la Francia e i Paesi Bassi, esso viene nettamente respinto dall’elettorato. Il voto contrario francese e olandese provoca così ufficialmente uno stallo nel processo di ridisegno comunitario, sancito dal rinvio del referendum in Gran Bretagna, ma soprattutto dal riaccendersi delle polemiche sull’impostazione dell’assetto istituzionale dell’UE: uno stallo dal quale, attualmente, non si scorgono facilmente le possibili vie d’uscita.