Integrazione politica
Parliamo d'integrazione politica internazionale, generalmente, per descrivere il modo in cui alcuni Stati rinunciano in parte o in tutto alla loro sovranità per costituire insieme una diversa organizzazione statale. Il processo può essere brusco o graduale. Può investire contemporaneamente tutti i poteri degli Stati o alcuni fra essi. Può essere dettato da considerazioni economiche o militari. Può svilupparsi secondo il disegno dei fondatori o subire lungo la strada modifiche inattese. Alcuni studiosi hanno cercato di classificare le diverse integrazioni possibili. A noi, in questa sede, sembra più utile descrivere alcuni esempi storici per trarre da essi, se possibile, qualche indicazione d'ordine generale. Accenneremo quindi alla nascita degli Stati Uniti, alla Confederazione Elvetica, al Regno d'Italia, all'Impero tedesco, all'Unione Sovietica, alla Comunità Europea. Accenneremo poi al fenomeno opposto, quello della disintegrazione, con particolare riferimento al crollo degli imperi multinazionali dopo la prima guerra mondiale e alla sorte, recentemente, di tre Stati europei: l'Unione Sovietica, la Iugoslavia, la Cecoslovacchia. Ricorderemo infine, insieme al Commonwealth, la Società delle Nazioni e l'Organizzazione delle Nazioni Unite, vale a dire le due grandi istituzioni internazionali in cui molti videro il seme di una più vasta integrazione su scala mondiale.
Furono i contrasti economici con la madrepatria e gli scontri con le truppe inglesi dopo i moti di Boston del dicembre 1773 a indurre le tredici colonie americane a coordinare la loro azione e i loro sforzi. Ma non ebbero altro organo comune, per molto tempo, fuor che il Congresso continentale, a Filadelfia, dove si votava per Stati. Secondo la definizione di John Madison la Confederazione, proclamata nel novembre del 1777, ebbe il carattere di "un trattato di amicizia, commercio e alleanza fra Stati indipendenti e sovrani". L'unica integrazione, nei primi anni degli Stati Uniti, fu quella militare, imposta dalle imperiose esigenze della guerra e dalla grande autorità morale di George Washington. La pace, tuttavia, costrinse la Confederazione ad affrontare problemi per cui essa aveva strumenti inadeguati: l'esecuzione del trattato con l'Inghilterra, i rapporti con l'estero, il debito di guerra, l'espansione verso occidente. Nel febbraio del 1787, sotto la spinta delle categorie economiche a cui maggiormente premeva una politica unitaria, il Congresso invitò gli Stati a una 'Federal Convention' che si riunì a Filadelfia nel maggio dello stesso anno e approvò in settembre una nuova Costituzione, più volte emendata ma tuttora vigente: un presidente eletto dai cittadini dell'Unione e dotato di forti poteri, una Corte costituzionale e due Camere, di cui una rappresenta l'insieme dell'Unione, mentre l'altra, il Senato, è composta dagli Stati, ciascuno dei quali ha diritto a un egual numero di rappresentanti.
Le esigenze dello sviluppo economico, l'espansione territoriale, il confronto con le potenze europee e la necessità di creare strumenti comuni per meglio affrontare i problemi posti dalla convivenza, accentuarono col passare del tempo i poteri federali e diminuirono quelli dei singoli Stati. Fu necessario dotare l'Unione di una tariffa doganale, di una banca federale, di leggi comuni per disciplinare l'acquisto di terre al di là dei vecchi confini, la naturalizzazione degli stranieri e l'ingresso nella Federazione di Stati nuovi. Il ruolo degli uomini ebbe importanza determinante. Come George Washington marcò la presidenza degli Stati Uniti con i caratteri di una 'monarchia repubblicana', così John Marshall fece della Corte Suprema, dal 1801 al 1835, uno strumento per il primato dei poteri federali sui poteri degli Stati. Se potessimo percorrere l'intera storia degli Stati Uniti constateremmo che l'integrazione fu favorita, in ultima analisi, dalle guerre e dalle crisi. Fu la guerra di secessione, fra il 1861 e il 1865, che unificò il mercato del lavoro. Fu la grande crisi economica del 1929 che creò le condizioni per le istituzioni federali del New Deal dopo la vittoria di Franklin D. Roosevelt alle elezioni del 1932. E fu la seconda guerra mondiale, infine, che pose le basi per la parità razziale (desegregation) in tutti gli Stati dell'Unione.
In Svizzera, dopo la fine del periodo napoleonico una Dieta, riunita a Zurigo, restaurò le vecchie autonomie cantonali e, in particolare, la preminenza dei cantoni più antichi. Ma i 22 cantoni si dimostrarono incapaci di accordarsi su una comune politica doganale e si divisero ben presto in 'liberali' e 'reazionari'. Furono prevalentemente economiche e politico-costituzionali quindi le ragioni che spaccarono lo Stato creando le premesse della guerra civile che scoppiò nel luglio del 1847 fra i cantoni liberali e i sette cantoni cattolici del Sonderbund. Come gli Stati Uniti vent'anni dopo, anche la Svizzera fu pericolosamente vicina alla scissione; e come negli Stati Uniti anche in Svizzera prevalse alla fine la componente liberale e modernizzatrice. Il risultato fu una nuova Costituzione, nel settembre del 1848, che prese a modello quella degli Stati Uniti: un Consiglio di Stato, in cui ogni cantone è presente con due membri, un Consiglio nazionale costituito secondo i criteri della proporzionalità, e un Consiglio federale eletto dalle due Camere, che è al tempo stesso potere esecutivo e vertice dello Stato.
Cominciò allora una fase di crescente integrazione nel corso della quale la Svizzera acquisì una tariffa doganale comune, unità di pesi e misure, un servizio postale federale e un unico sistema monetario. Fallì negli anni cinquanta il progetto per la creazione di una università federale, ma venne fondato, con il sostegno finanziario della Confederazione, il Politecnico di Zurigo. La guerra alle frontiere nel 1870 e i problemi che ne derivarono per la sicurezza dello Stato costrinsero gli Svizzeri ad accentuare il carattere unitario della loro Costituzione. Furono aumentate le attribuzioni del governo centrale, fu istituito un tribunale federale, fu disciplinata la responsabilità dei cantoni in materia di educazione elementare, fu estesa all'intero paese la polizia delle acque e delle foreste (1897), furono create le ferrovie federali (1898), fu promulgato un Codice civile unificato (1912). Senza abdicare ad alcune antiche prerogative, che garantivano tra l'altro la loro omogeneità linguistica, i cantoni hanno via via rinunciato ad aspetti importanti della loro sovranità. Alle origini di questo processo vi furono anche ragioni ideali. Come gli Americani avevano sviluppato nel corso dell'Ottocento il concetto di una polis comune fondata, tra l'altro, sui grandi principî illuministici del bill of rights, così gli Svizzeri elaborarono progressivamente durante gli stessi anni l'idea di una cittadinanza comune fondata sulle memorie della loro orgogliosa indipendenza e su una politica internazionale - la neutralità perpetua - che contribuiva a esaltare la loro peculiarità nazionale. L'integrazione fu possibile nei due paesi perché andò di pari passo con l'affermazione di comuni valori etico-politici.
I ricordi storici, il grande risveglio intellettuale del secolo precedente, i traumi e le umiliazioni delle guerre napoleoniche, le comuni esperienze militari dei popoli tedeschi durante la grande insurrezione del 1813 ebbero, soprattutto all'inizio, una parte importante nella storia della loro integrazione. Ma il Deutscher Bund, nato l'8 giugno 1815, creò un'assemblea, il Bundestag, che ricorda per molti aspetti, con una importante differenza, il Congresso delle repubbliche americane prima della Costituzione federale. La differenza è questa: che le colonie erano formalmente eguali, mentre il Bundestag era un'organizzazione gerarchica in cui l'Austria e la Prussia avevano una riconosciuta posizione egemonica. Questa fondamentale ineguaglianza fra gli Stati tedeschi ebbe un'influenza determinante sugli avvenimenti degli anni successivi. Quando un'Assemblea nazionale si riunì a Francoforte nel maggio del 1848 e cercò di accordarsi per dare agli Stati tedeschi una costituzione comune, la Prussia insistette per conservare la propria. Quando, nella primavera dell'anno seguente, l'Assemblea riconobbe il primato del re di Prussia e decise di conferirgli il potere imperiale, Federico Guglielmo IV non volle ammettere che la sua corona dipendesse da un mandato popolare. La Prussia e l'Austria erano troppo grandi per lasciare che l'integrazione si facesse contro i loro interessi, troppo divise e concorrenti per imporre la propria volontà.
Otto von Bismarck, ministro presidente del Regno di Prussia dal 1862, tagliò risolutamente i due nodi che impedivano l'integrazione tedesca. Con la guerra del 1866 seppellì definitivamente il vecchio Bund ed escluse l'Austria dagli affari tedeschi; con la guerra del 1870 affermò concretamente, sul campo di battaglia, la supremazia della Prussia e il suo diritto di guidare il processo unitario. L'unione doganale (Zollverein), che la Prussia aveva instaurato nel 1833 con altri Stati germanici, ebbe minore importanza del ferro e del sangue con cui Bismarck creò il Reich nella seconda metà degli anni sessanta. I vecchi Stati sopravvissero con le loro corti, le loro competenze locali e in alcuni casi (il Regno di Baviera) con il proprio corpo diplomatico e il comando delle truppe in tempo di pace. Ma il cancelliere poté dedicarsi negli anni seguenti alla creazione di grandi organi e strumenti comuni: moneta, pesi e misure, poste, codici, legislazione sociale.Commetteremmo un errore tuttavia se non constatassimo che questa 'integrazione dall'alto', imposta dall'energico ministro della maggiore potenza tedesca, rispondeva a una diffusa richiesta di unità e contribuiva a rendere più forte, nei cittadini dei vecchi Stati, il sentimento della comune appartenenza a una grande nazione germanica. La prova della solidità dell'opera di Bismarck fu nella sconfitta del 1918. Morì l'Impero, ma non rinacquero sulle sue rovine i vecchi Stati del Deutscher Bund. I costituenti riuniti a Weimar nel 1919 adottarono una Costituzione che si ispirava contemporaneamente a quella degli Stati Uniti e a quella per cui i liberali tedeschi si erano battuti a Francoforte nel 1849. Due vittorie, fra il 1866 e il 1870, avevano integrato le Germanie; una sconfitta, paradossalmente, completò l'opera conferendo all'integrazione un carattere maggiormente paritario.
Anche in Italia, come in Germania, l'integrazione si fece 'dall'alto' grazie a due fattori: le ambizioni del Piemonte e la grande fragilità degli Stati preunitari. I plebisciti, con cui si volle sottolineare il carattere popolare dell'unità nazionale, ratificarono le conquiste: il loro risultato, nel vuoto lasciato dai regimi caduti, era largamente scontato. Non sorprende quindi che l'iniziativa e la responsabilità nella creazione di strutture integrate, fossero, soprattutto nei primi anni, prevalentemente piemontesi. Terminata la guerra del 1859-1860, la marina nazionale risultò dalla fusione tra le due flotte maggiori - quella sarda e quella napoletana - , ma l'esercito, benché costituito con corpi provenienti dagli Stati scomparsi e con 1.500 ufficiali delle formazioni garibaldine, fu per molto tempo il prolungamento dell'esercito sardo. La pubblica istruzione fu regolata dalla legge Casati del novembre 1859. L'unificazione legislativa fu facilitata dalla comune ascendenza - il Codice napoleonico - delle raccolte preunitarie, ma il nucleo centrale della nuova legislazione fu quasi sempre quello originale del Regno di Sardegna. Il Codice civile e quello di procedura civile vennero rivisti, fra il 1861 e il 1865, sulla base delle modifiche introdotte negli Stati preunitari, ma furono estesi automaticamente, nel 1866 e nel 1870, alle province venete e romane. Altrettanto accadde del Codice sardo di commercio che dal 1° gennaio 1866 divenne, con qualche adattamento, Codice di commercio del Regno d'Italia. Anche il Codice penale sardo venne esteso ai territori annessi, ma fu necessario tener conto di una peculiarità toscana: la mancanza della pena di morte nella legislazione del Granducato. L'unificazione 'penale' del paese ebbe luogo molto più tardi, con il Codice Zanardelli del 1° gennaio 1890.
Uno sguardo a parte meritano le vicende monetarie del paese. La creazione della lira nazionale risale al 24 agosto 1862, ma il ritiro delle vecchie monete durò molti anni e l'adozione del costo forzoso finì per rallentare l'unificazione degli istituti bancari che ancora conservavano il diritto di emettere carta moneta: la Banca Romana, la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Un consorzio costituito nel 1874 non riuscì a impedire che ogni istituto facesse la propria politica monetaria e che uno di essi in particolare, la Banca Romana, coprisse le proprie passività con carta stampata di frodo. Fu questo scandalo che rese possibile nel 1893 la costituzione della Banca d'Italia; ma furono necessari altri trentuno anni perché il suo ruolo e le sue competenze venissero definitivamente precisati.
La Costituzione dell'URSS fu proclamata il 6 luglio 1923, ma l'Unione era nata il 30 dicembre 1922. Le quattro repubbliche originali divennero sei nel 1924, sette nel 1929 e aumentarono progressivamente sino a diventare quindici nel secondo dopoguerra. La Costituzione dello Stato voluta da Stalin riconosceva la sovranità dei suoi membri e prevedeva che ciascuno di essi potesse separarsi dall'Unione. Sulla carta, quindi, l'URSS fu assai più confederale, per certi aspetti, degli Stati Uniti, dove il tentativo secessionista delle repubbliche meridionali aveva provocato una guerra civile. Ma nella realtà lo Stato sovietico fu fortemente centralizzato e unitario per due ragioni. In primo luogo perché le repubbliche federate erano state conquistate dall'Armata Rossa; in secondo luogo perché la prassi costituzionale sancì immediatamente il primato del partito e del suo leader sullo Stato e sui suoi organi. Esistevano nell'URSS numerose repubbliche, ma un solo partito comunista che garantiva l'unità dell'URSS con la propria ideologia, la propria capillare organizzazione e il proprio controllo degli organi repressivi. I 'consigli', nel cui nome era stata fatta la Rivoluzione d'ottobre, sopravvivevano nell'aggettivo 'sovietico' che ancora ornava il nome dello Stato, ma non avevano in realtà alcuna rilevanza politico-costituzionale.
I processi d'integrazione cui abbiamo fatto cenno sinora furono generalmente favoriti da una guerra. Altrettanto può dirsi, per certi aspetti, dell'integrazione europea. Ma il processo iniziò, per così dire, 'a freddo', quando la seconda guerra mondiale era ormai terminata da alcuni anni e nessuno Stato era in condizione d'imporre ad altri la propria concezione federale. Tralasciamo, in questa sede, il contesto politico, le motivazioni dei singoli governi e, in particolare, le ragioni che indussero la Francia a proporre nel 1950 la creazione di una Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA).
Limitiamoci piuttosto a constatare che la procedura adottata fu radicalmente diversa da quella che aveva permesso le integrazioni di cui abbiamo parlato sinora. Anziché attendere che l'integrazione derivasse gradualmente da organi politici comuni si preferì attribuire maggiore importanza alla creazione di 'funzioni' comuni, nella speranza che da esse scaturissero pragmaticamente le ragioni e le condizioni dell'unità. Fu determinante in questa prospettiva il lavoro fatto durante la prima guerra mondiale allorché gli alleati dell'Intesa impararono a coordinare il loro sforzo bellico nell'ambito di comitati che sovrintendevano alla distribuzione delle risorse materiali, finanziarie e umane fra i paesi in guerra. Jean Monnet, che aveva fatto a Londra in quegli anni una sorta di apprendistato negli organi della pianificazione alleata, cercò di applicare all'integrazione europea il risultato delle sue esperienze e persuase alcuni paesi - Belgio, Francia, Repubblica Federale di Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi - ad accordarsi per un'utilizzazione programmata e coordinata di alcune fondamentali risorse: il carbone, l'acciaio, l'uranio arricchito.
Questo non significa che altri nel frattempo non cercasse di perseguire la via classica dell'integrazione politica. Ritroviamo così, all'inizio degli anni cinquanta, i due grandi orientamenti che furono presenti in America e in Svizzera negli anni che precedettero le Costituzioni del 1787 e del 1848. Mentre molti inglesi avrebbero preferito un libero sodalizio fra Stati indipendenti, sul modello della prima Costituzione americana, alcuni governi dell'Europa continentale cercarono di percorrere una strada più decisamente federale. I firmatari della CECA si accordarono per la creazione di una Comunità Europea di Difesa (CED) e decisero di affidare a un'assemblea parlamentare europea, composta di deputati designati dai rispettivi parlamenti, la redazione di un progetto di comunità politica. Ma il Parlamento francese rifiutò di ratificare il trattato istitutivo della CED e costrinse i sei governi ad accantonare per il momento i loro ambiziosi progetti d'integrazione politico-militare. Il risultato di quel fallimento furono il rilancio dell'integrazione economica attraverso una Comunità Economica Europea e una Comunità Europea per l'Energia Atomica, costituite con i Trattati di Roma del 1957. Utilizzando il modello della CECA furono creati organi nuovi: una Commissione supernazionale, a cui furono affidati compiti di propulsione ed esecuzione, un Consiglio dei ministri in cui tutti gli Stati erano rappresentati paritariamente, un'Assemblea di secondo grado, una Corte di giustizia per valutare la concordanza fra le legislazioni nazionali e le direttive comunitarie.
L'integrazione europea entrava così in una fase nuova, distinta al tempo stesso da elementi di 'funzionalità' e federalismo. Da allora questo processo è stato più volte rallentato da ostacoli, incidenti di percorso e problemi di difficile soluzione: le regole sulla concorrenza, la mobilità della mano d'opera, la necessità di una politica agricola comune, il voto a maggioranza in seno al Consiglio dei ministri, la creazione di un fondo sociale per ridurre la distanza tra il grado di sviluppo dei paesi membri, l'adesione di nuovi soci, l'istituzione di un sistema monetario per collegare fra di loro le diverse valute, l'elezione diretta di un Parlamento europeo. Ma alla fine questi problemi vennero risolti e la loro soluzione schiuse la strada verso obiettivi ancora più ambiziosi. Riprese forza all'inizio degli anni ottanta, dopo la prima elezione diretta del Parlamento europeo, il progetto federalista. Grazie ad Altiero Spinelli - autore con Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, durante la guerra, di una proposta federalista nota come 'Manifesto di Ventotene' - l'Assemblea parlamentare di Strasburgo istituì una commissione costituzionale di cui fu relatore lo stesso Spinelli. Venne adottato un progetto di Unione Europea così organizzata: un 'capo dello Stato' rappresentato dai capi di Stato e di governo dei paesi membri; un potere legislativo, costituito dal rapporto dialettico e complementare fra il Consiglio dell'Unione, designato dai governi, e il Parlamento, eletto dai popoli; un potere esecutivo, la Commissione; un potere giudiziario, la Corte di giustizia. I governi non lo adottarono, ma firmarono un Atto Unico in cui venivano indicati alcuni dei grandi obiettivi che la Comunità intendeva realizzare o approfondire negli anni seguenti. Anche grazie a questo forte impulso federalista la Comunità ha raggiunto all'inizio degli anni novanta due traguardi fondamentali al di là dei quali è possibile intravedere, se altri ostacoli non sorgeranno lungo la strada, le grandi linee di uno Stato federale europeo: un mercato unico (gennaio 1993) e la creazione di una Unione economico-monetaria (febbraio 1992). Restano ancora sostanzialmente irrisolti, tuttavia, i problemi dell'integrazione politica e militare.
La storia conosce anche il processo opposto, quello della disintegrazione. Mentre alcuni Stati rinunciano gradualmente a una parte della loro sovranità per trasferirla a organi comuni, altri si dividono dando luogo alla nascita di Stati vecchi o nuovi. Accadde dopo la prima guerra mondiale allorché dal crollo di tre grandi entità multinazionali - l'Impero austroungarico, quello russo e quello ottomano - sorsero, o risorsero, una miriade di Stati, alcuni dei quali vennero più tardi riassorbiti nelle strutture pseudofederali dello Stato sovietico. È accaduto più recentemente dopo la grande crisi dell'URSS e la fine della guerra fredda. Fra il 1991 e il 1992 tre Stati europei - l'Unione Sovietica, la Iugoslavia e la Cecoslovacchia - hanno cessato di esistere. Lo spazio dell'URSS è occupato dalle tre repubbliche del Baltico (Estonia, Lettonia, Lituania) e dalla Comunità degli Stati Indipendenti di cui fanno parte, con la Russia, altre dieci Repubbliche della vecchia Unione. I legami politici che uniscono i membri della CSI ricordano quelli che univano le colonie americane e i cantoni svizzeri prima delle due costituzioni federali. Lo spazio della Iugoslavia è occupato, quanto meno sulla carta, da Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia e da una nuova Iugoslavia che comprende Serbia e Montenegro. Lo spazio della Cecoslovacchia, infine, è occupato da due Stati indipendenti: la Repubblica ceca e la Repubblica slovacca.
Non è possibile trarre indicazioni definitive da un processo che non si è ancora concluso. Non sappiamo ad esempio come i nuovi Stati si accorderanno di fatto per la spartizione del patrimonio comune e per la soluzione dei molti problemi derivanti dalla loro lunga convivenza. Le disintegrazioni degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale furono paradossalmente facilitate dalla sconfitta degli imperi, dal caos amministrativo, dalla crisi economica e dal vuoto politico. Quelle dei primi anni novanta sono avvenute 'a freddo', in condizioni che costringono le parti a una dissoluzione concordata delle vecchie strutture unitarie. È possibile che quanto è accaduto fra il 1991 e il 1992 risulti in ultima analisi transitorio ed effimero. Ma da questi avvenimenti possiamo trarre sin d'ora una lezione che permette di meglio comprendere anche i processi di cui abbiamo parlato sopra. L'URSS, la Iugoslavia e la Cecoslovacchia si sono disintegrate perché si è dissolto l'ingrediente essenziale di ogni processo d'integrazione: il sentimento dell'appartenenza a una pólis comune, la fede in uno stesso destino e la convinzione che il sacrificio dell'indipendenza sia largamente compensato da vantaggi economici, culturali e sociali. È facile osservare che i regimi comunisti avevano imposto i loro ideali con la forza e si erano dimostrati da tempo incapaci di perseguirli. Ma la 'fede', con la sua retorica e i suoi riti, costituiva pur sempre una ideologia ufficiale a cui la grande maggioranza passivamente aderiva. Come le grandi integrazioni tra Settecento e Ottocento furono accompagnate dallo sviluppo del sentimento di una cittadinanza comune, così le grandi disintegrazioni dei primi anni novanta di questo secolo sono state caratterizzate dal fenomeno opposto. Questa constatazione non ci aiuta a fare previsioni per il futuro, ma ci ricorda che ogni integrazione riuscita contiene in sé, al di là delle sue necessarie componenti economiche e giuridiche, una forte motivazione etico-politica.
Una tale motivazione sembra essere presente, agli inizi, anche nel Commonwealth britannico. 'Commonwealth' è una parola ambigua con cui i popoli di lingua inglese possono designare realtà politicamente diverse: il governo inglese dall'abolizione della monarchia all'instaurazione del protettorato di Cromwell, una federazione di antiche colonie (l'Australia), uno degli Stati della federazione americana (Kentucky, Massachusetts, Pennsylvania, Virginia), un territorio autonomo (Puerto Rico), uno Stato retto con principî democratici e repubblicani, un sodalizio di persone unite da interessi comuni. La nascita del Commonwealth dell'Impero britannico può farsi risalire al 1917, allorché il governo di Londra accolse le richieste dei dominion e assicurò che sarebbero divenuti, alla fine del conflitto, 'nazioni autonome'. Dietro la decisione, motivata in gran parte dalle esigenze della guerra, vi erano il desiderio di evitare la traumatica esperienza americana e la convinzione che il vecchio rapporto imperiale potesse trasformarsi gradualmente sino a permettere la creazione di un grande 'impero democratico' in cui Londra avrebbe regnato sulle vecchie colonie con l'autorità politica e morale di un monarca costituzionale. Si pensò addirittura a una costituzione scritta, ma prevalse il concetto di una organizzazione pragmatica e flessibile, capace di adattarsi alle esigenze dei suoi membri. Le regole della convivenza furono definite in occasione della conferenza imperiale che si tenne a Londra fra l'ottobre e il novembre del 1926. Il Commonwealth divenne una libera associazione fra Stati sovrani, uniti da una comune lealtà alla corona britannica, ma fu deciso che la Gran Bretagna avrebbe continuato a esercitare le maggiori responsabilità in materia di politica estera e di politica militare.Come la prima guerra mondiale aveva fortemente stimolato le ambizioni autonomiste dei dominion, così la seconda finì per accentuare il sentimento della loro identità e indipendenza. Alla fine del conflitto il mondo era ormai caratterizzato da nuovi rapporti di forza. Al declino della Gran Bretagna come potenza mondiale corrispondevano l'avvento di nuove potenze 'imperiali' - gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica - e una maggiore responsabilità internazionale dei singoli dominion nelle loro rispettive aree geografiche. Canada, Australia e Nuova Zelanda, in particolare, dovettero orientarsi verso Washington e creare con gli Stati Uniti i rapporti politico-militari che avevano avuto, tradizionalmente, con Londra. Questo non impedì che una larga parte dell'opinione britannica continuasse a vedere nel Commonwealth il mezzo migliore per assicurare, sotto altra veste, la continuità dell'Impero e dell'influenza inglese nel mondo. I fatti, per qualche tempo, sembrarono confermare queste speranze. Il graduale smantellamento dell'Impero coloniale andò di pari passo con un progressivo allargamento del Commonwealth, e persino la proclamazione della repubblica a New Delhi il 26 gennaio 1950 non fu considerata incompatibile con la presenza dell'India nell'istituzione. Tuttavia, col passare del tempo il sodalizio andò acquistando sempre di più il carattere di una società fra eguali in cui ciascuno dei membri aveva posizioni e interessi propri, talora alquanto diversi da quelli degli altri (si pensi alle profonde divergenze sulla politica di apartheid del governo sudafricano), ma accettava di sedere con i 'soci' allo stesso tavolo per discutere liberamente e senza impegno i maggiori problemi del momento. Quando la Gran Bretagna decise di aderire alla Comunità Europea fu chiaro che anche lo Stato leader aveva smesso di credere nelle prospettive federali o confederali a cui si erano ispirati molti uomini di Stato, soprattutto in Gran Bretagna, prima e dopo la seconda guerra mondiale.
La Società delle Nazioni è il risultato di riflessioni e dibattiti che si svilupparono per buona parte dell'Ottocento e giunsero a maturazione nel clima morale della prima guerra mondiale. Fortemente desiderata da Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, e adombrata nell'ultimo dei suoi 'quattordici punti', la Società fu creata con un patto che divenne parte integrante del Trattato di Versailles, e tenne la sua prima riunione a Parigi il 16 gennaio 1920. Era composta dall'Assemblea degli Stati membri - in una prima fase i vincitori e i neutrali -, da un Consiglio in cui sedettero, dopo la rinuncia degli Stati Uniti, quattro membri permanenti e quattro membri non permanenti, e, infine, da un Segretariato che fu diretto per molti anni da un diplomatico inglese, sir Eric Drummond. Essa era certamente destinata, nelle intenzioni dei suoi 'ideologi', a divenire il nucleo di una società internazionale in cui gli Stati avrebbero progressivamente delegato a organi comuni la soluzione delle loro divergenze. Le principali questioni che essa dovette affrontare dopo la sua costituzione furono quindi il disarmo, la sicurezza collettiva, l'arbitrato internazionale. Risale al 1924 il 'Protocollo di Ginevra' per il regolamento pacifico delle divergenze internazionali in cui fu introdotto il concetto di 'arbitrato obbligatorio'. Lo Stato che avesse rifiutato di piegarsi alle esigenze dell'arbitrato o ne avesse ignorato le decisioni sarebbe stato considerato aggressore e colpito da sanzioni finanziarie, economiche, militari. Il Protocollo godette in una prima fase di larghi consensi e venne firmato da dieci Stati. Ma dopo la vittoria dei conservatori alle elezioni inglesi del novembre 1924, la Gran Bretagna avanzò obiezioni e riserve che erano suggerite in parte dagli stessi dominion. Gli Inglesi temevano di perdere la loro libertà d'azione e i membri del Commonwealth, dal canto loro, erano preoccupati dalla possibilità d'essere coinvolti in questioni lontane a cui erano solo marginalmente interessati.
Il fallimento del Protocollo segnò l'evoluzione della Società negli anni seguenti. Quando le truppe giapponesi invasero la Manciuria nella notte fra il 18 e il 19 settembre 1931, il Consiglio della Società delle Nazioni ne chiese più volte il ritiro, ma si limitò in ultima analisi all'invio di una commissione d'inchiesta presieduta da lord Lytton. Quando Hitler, nell'ottobre del 1933, decise di abbandonare la Conferenza per il disarmo e qualche giorno dopo la stessa Società delle Nazioni, Ginevra dovette rinunciare di fatto alla speranza d'indurre i membri ad accettare una graduale riduzione degli armamenti. Quando l'Italia invase l'Etiopia nell'ottobre del 1935, le sanzioni economiche decretate dalla Società nei giorni seguenti si rivelarono insufficienti e inefficaci. Quando il governo finlandese, nel dicembre del 1939, protestò a Ginevra contro l'aggressione sovietica, la Società non poté che ricorrere a un gesto simbolico e velleitario: l'espulsione dell'URSS.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite, che i vincitori della seconda guerra mondiale crearono a San Francisco nell'aprile del 1945, è al tempo stesso più realistica e più ambiziosa. È più realistica perché fondata sull'attribuzione ai vincitori - USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina - di responsabilità preminenti nel governo della comunità internazionale. Concedendo a ciascuno di essi un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza e il diritto di veto, la Carta riconosce implicitamente che l'organizzazione non può essere retta su basi democratiche e incoraggia i 'grandi' ad accordarsi per costituire un direttorio mondiale. L'Assemblea, dal canto suo, elegge i membri non permanenti dei diversi organi dell'ONU, ma ha funzioni prevalentemente consultive. Nelle intenzioni dei fondatori, quindi, è il Consiglio di sicurezza che detiene il potere esecutivo di un nascente Stato della comunità internazionale.
Al tempo stesso, tuttavia, l'ONU è più ambiziosa della Società delle Nazioni. Accanto al Consiglio e all'Assemblea vi è un 'potere giudiziario' (la Corte internazionale di giustizia), un 'ministero economico' (il Consiglio economico e sociale) e un 'ministero della decolonizzazione' (il Consiglio per le amministrazioni di tutela). Dal Consiglio economico e sociale inoltre dipendono numerose istituzioni specializzate fra cui il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, l'Organizzazione per l'Aviazione Civile, l'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione (FAO), l'Organizzazione Internazionale dei Rifugiati, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (fondata con altro nome all'epoca della Società delle Nazioni), l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura. L'ONU dispone quindi, in linea di principio, degli strumenti per diventare un governo mondiale. Può dirimere controversie, imporre la pace, promuovere l'educazione e lo sviluppo, assistere i soci meno favoriti dalla sorte, incoraggiare l'uniformità delle legislazioni nazionali sulle questioni di maggiore importanza.
Per realizzare tale ambizioso obiettivo i paesi vincitori, tuttavia, avrebbero dovuto esercitare congiuntamente il potere previsto dalla Carta. Le loro divergenze, la guerra fredda e la questione cinese (la rappresentanza della Cina in Consiglio fu, sino al 1971, del governo nazionalista di Taiwan anziché del governo comunista di Pechino) impedirono che l'ONU sviluppasse le proprie potenzialità e la costrinsero ad applicare soltanto le poche decisioni su cui i vecchi vincitori riuscivano ad accordarsi. Quando la Corea del Nord invase la Corea del Sud, il 25 giugno 1950, l'intervento militare degli Americani sotto la bandiera dell'ONU fu possibile soltanto perché il delegato sovietico aveva polemicamente disertato le riunioni del Consiglio e non poté bloccare con il proprio veto la risoluzione presentata dagli Stati Uniti.La fine della guerra fredda ha modificato la situazione e ha schiuso nuove prospettive all'azione dell'ONU: lo dimostra, tra l'altro, il suo ruolo dopo l'invasione irakena del Kuwait nell'agosto 1990. In un documento apparso nel giugno del 1992, Agenda per la pace, il segretario generale, Boutros-Ghali, ha indicato gli strumenti militari di cui l'organizzazione ha bisogno per rispondere con maggiore tempestività ed efficacia ai suoi compiti fondamentali: prevenire i conflitti, preservare e restaurare la pace (peace keeping e peace making). In una fase caratterizzata in Europa, Asia e Africa da crisi e conflitti che stanno mettendo a dura prova la capacità dell'Organizzazione e il consenso internazionale di cui essa ha bisogno per allargare il suo raggio d'azione, dobbiamo limitarci a registrare queste tendenze e a constatare quanto sia ancora lunga, per la comunità internazionale, la strada dell'integrazione.
(V. anche Comunità Europea; Federalismo; Federazione; Internazionalismo; Relazioni internazionali).
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