Integrazione
Il termine integrazione indica genericamente il fatto di rendere pieno, perfetto, ciò che è incompleto o insufficiente. Viene impiegato in ambiti diversi e con differente significato in discipline che si occupano di aspetti della crescita e dello sviluppo, sia personale sia sociale. Alcuni autori vedono l'integrazione come processo attraverso cui l'individuo (il bambino) entra a far parte del mondo sociale, altri come momento fondamentale dell'individuazione, ossia dell'assunzione di un'identità autonoma, in un dato contesto, da parte dell'individuo. Anche questa seconda accezione peraltro sconfina, per qualche aspetto, con l'integrazione intesa come processo di socializzazione, di pertinenza delle scienze sociali.
La vita di un individuo ha inizio dall'unione di due cellule e determina un'unità. Questa unità implica la naturale tendenza evolutiva e il possibile raggiungimento, in un individuo sano e in un ambiente idoneo, di una condizione attraverso la quale egli diventa un intero. La naturale tendenza all'integrazione viene facilitata da due tipi di esperienze: il primo consiste in un apporto che viene dal di fuori, cioè dal mondo esterno, e riguarda le cure materne, nel cui ambito il neonato (0-30 giorni di vita) è mantenuto al caldo, lavato, cullato, accudito, guardato negli occhi, chiamato per nome dalla madre che gli parla, gli canta e gli presenta gli oggetti; il secondo tipo di esperienze riguarda gli istinti innati, le cui acute sensazioni di tensione e di eccitamento tendono a favorire dall'interno, attraverso gli elementi sparsi che entreranno a far parte della personalità, un movimento di integrazione.
Molti bambini hanno già aperta la loro strada verso l'integrazione nelle prime 24 ore di vita. Per altri il processo è più lento e tardivo; può presentare arresti e anche andare incontro a contrattempi per via di inibizioni che possono avere avuto luogo nei primi tempi. Ci sono periodi nei quali al bambino, anche molto piccolo, non sembra importare di essere costituito di frammenti, o di non essere più dentro al corpo materno e, in seguito, di non potere più 'agganciare' il proprio sguardo con quello della madre, o di potersi specchiare nel suo volto, purché abbia goduto di questo beneficio in passato e possa elaborare le sensazioni perdute di essere un tutt'uno con lei. Il volto, lo sguardo, il tipo di cure, i suoni, gli odori, tutte queste esperienze sensoriali che appartengono al mondo esterno, ma che sono, al tempo stesso, vissute da un bambino di un mese come attinenti al proprio corpo, vengono progressivamente messe insieme e permettono di formare un essere che si chiama madre. Attenzioni adeguate alla nascita e durante il periodo neonatale sembrano essere i naturali catalizzatori del processo che viene indicato come integrazione. Esso sarà tanto più precoce, incruento e ottimale, quanto più sarà stata rispettata la continuità prenatale e neonatale, con le esperienze sensoriali e di alimentazione che essa richiede. Alla luce di queste considerazioni, che mettono in evidenza il complesso sistema di interazioni, in base al quale si svolge l'intera organizzazione del comportamento dell'individuo, appare evidente che tutti coloro che sono professionalmente impegnati nell'assistenza, a cominciare dalle prime cure (ostetrici, neonatologi ecc.), possono collaborare al fine di contribuire, ognuno con la propria esperienza e con il proprio sapere, a favorire la crescita fisica contemporaneamente a quella emozionale, purché tengano conto della specificità dei bisogni del neonato.
La naturale tendenza all'integrazione stabilisce presto un rapporto con il tempo. Lo stato che precede l'integrazione, nel quale l'individuo si trova alla nascita e, comunque, prima che abbia avuto luogo quel susseguirsi di eventi che tende a raccogliere insieme i frammenti originari e a formare con essi un intero, viene da alcuni (Winnicott 1965) indicato come 'non-integrazione'. In situazioni patologiche, lo stesso termine può anche essere usato per descrivere uno stato clinicamente associato con la regressione, in cui il bambino sembra non sentire il bisogno di integrarsi o di eccitarsi, come se fosse appagato dalla funzione di sostegno svolta dalla madre. F. Tustin (1991) attribuisce questo stato a una mancanza di connessione normale con la madre, tipica dei bambini autistici; questa mancanza li conduce a un''unità adesiva' o a un''equazione figlio-madre', a uno stato di immersione e confusione in un 'unico flusso straripante di sensazioni' che caratterizza il bambino autistico. In tale condizione morbosa non c'è integrazione tra eventi interni ed eventi esterni, non si comincia mai a legare quelle sensazioni che vanno insieme tra loro, così da farne una modalità di essere. Il bambino autistico non arriva mai a dire "Io sono" e ad avere il senso di essere un intero. D.W. Winnicott usa il concetto di integrazione anche per indicare la psiche che entra a far parte del soma nel momento in cui, nel bambino, viene raggiunto lo stadio dell'"Io sono" (ossia di un individuo con un 'dentro' e un 'fuori'), che si riferisce simultaneamente alla psiche e al soma (Psiche-soma per Winnicott). Tutti gli insuccessi che possono produrre un'angoscia 'impensabile' (in quanto non si è ancora sviluppata la funzione del pensiero) determinano nel bambino una reazione che interferisce con il suo 'continuare a esistere': "Se tale reazione distruttiva si ripete più volte, mette in funzione un modello di frammentazione dell'essere. L'infante che ha un modello di frammentazione della linea di continuità dell'esistenza si trova di fronte ad un compito evolutivo che è, quasi fin dall'inizio, gravato in senso psicopatologico. È quindi possibile che un fattore molto precoce (che risale ai primi giorni od ore di vita) sia presente nell'eziologia dell'irrequietezza, dell'ipercinesia e del deficit di attenzione" (Winnicott 1965, trad. it., p. 73). Il termine 'disintegrazione' indica il venir meno, il crollo dell'integrazione ed è usato per descrivere un'elaborata difesa, consistente in una produzione attiva di caos come reazione alla non-integrazione verificatasi in assenza di un adeguato sostegno materno nello stadio della dipendenza assoluta; una difesa quindi, secondo Winnicott (p. 74), contro l'angoscia che da tutto ciò deriva. La disintegrazione atterrisce, anche se è una difesa prodotta dal bambino, non imputabile all'ambiente; è manifestazione di un atteggiamento psichico di onnipotenza, e come tale è analizzabile.
La non-integrazione non atterrisce in quanto implica un ritiro o una regressione, ma è meno riparabile della disintegrazione. Non tutti gli autori vedono però il processo di integrazione in chiave così precoce, cioè come un processo che si attua già nei primissimi giorni di vita. E. Gaddini (1985), per es., pur ammettendo uno stato di non-integrazione originario, tende a vederlo più in rapporto con la nascita psicologica (5-6 mesi) che non con l'età neonatale: al momento della nascita psicologica già ci sarà stata la formazione nell'individuo di un Sé infantile, cioè, di un'organizzazione di base che promuove la differenziazione e l'intero processo di separazione-individuazione; e ciò implica, per il bambino, la possibilità di entrare in rapporto con un oggetto esterno a sé. Riassumendo: se, per Winnicott, il termine integrazione descrive la tendenza evolutiva e l'acquisizione delle condizioni per diventare un intero, acquistando così una dimensione temporale, per Gaddini tali processi cominciano nell'organizzazione mentale di base, in un'organizzazione frammentaria, cioè, non integrata - si potrebbe dire eterogenea - la quale dovrebbe andare incontro, normalmente, ai processi di integrazione. Quest'ultima quindi è un insieme di processi che cominciano nel Sé infantile, o meglio nell'organizzazione primitiva del Sé dopo la separazione, e che vanno verso la costituzione di un Sé unitario e sufficientemente integrato, allorché ha inizio la differenziazione della struttura e la possibilità di entrare in rapporto con un oggetto esterno.
Qualora la separazione sia stata troppo precoce e repentina rispetto all'organizzazione di base raggiunta, essa viene vissuta come una catastrofe. Può insorgere allora nel Sé l'angoscia di 'perdita di Sé', che costituisce la prima difesa dopo la catastrofe ed è volta a evitarne la ripetizione. Essa si palesa in due forme: angoscia di non-integrazione e angoscia di integrazione. L'angoscia di non-integrazione corrisponde al vissuto di precarietà e vulnerabilità dello stato di non-integrazione e all'urgenza di ripristinare un confine, quando quello offerto dapprima dalle pareti uterine e poi dalle cure materne non è più assimilabile al Sé, dunque non è più fonte di sicurezza. In tal senso l'angoscia di non-integrazione sollecita l'integrazione; dà impulso all'organizzazione mentale di base e al suo compito di formare 'una prima immagine del Sé corporeo'; consente l'instaurarsi della dimensione del tempo e prepara l'emergenza pulsionale e, quindi, il formarsi della struttura psichica. Purché non sia troppo intensa e paralizzante (ossia se il processo di separazione è avvenuto in modo adeguato), è dunque preziosa per il compimento della formazione e per la strutturazione dell'Io in fieri. Assai pericolosa è invece la seconda variante dell'angoscia di perdita di Sé: l'angoscia di integrazione. Essa si oppone tenacemente all'integrazione e tende a preservare difensivamente lo stato di non-integrazione. Una manovra protettiva caratteristica, dettata dall'angoscia di integrazione, consiste nell'imitazione dell'integrazione; quest'ultima viene trasformata in un'esperienza magica e ripetitiva, ottenibile attraverso il contatto. Anche il funzionamento della struttura, i conflitti pulsionali, il rapporto oggettuale, possono venire imitati, per impulso dell'angoscia di integrazione, allo scopo di essere evitati. Le funzioni dell'Io, nella misura in cui riescono a svilupparsi, sono allora asservite ai bisogni dello stato di non-integrazione e alla salvaguardia dell'identità imitativa.
Nello studio della questione corpo/mente, e non solo sul piano clinico, i concetti di integrazione e non-integrazione sono fondamentali. Bisogna dire che ancora molto rimane da capire a proposito della relazionalità che precede l'integrazione, indicata come relazionalità pre-oggettuale (Kumin 1996), che ha cioè luogo prima che l'individuo possa avvertire un altro-da-sé. Tuttavia è proprio in quest'area, in cui non esiste ancora un 'oggetto' rispetto al 'soggetto', che ha origine l'integrazione e, quando le cose non vanno bene dal punto di vista ambientale, ha luogo la non-integrazione, con le sue varie forme di patologia grave. Quando si osserva il lattante che nei primi giorni si aggrappa al seno, si ha l'impressione che egli cerchi disperatamente qualcosa di cui 'sa' e che gli è venuto a mancare. Quando poi lo si osserva dopo che ha succhiato, si nota in lui un senso di appagamento che gli permette di rilassarsi come per una meta raggiunta. È verosimile che nell'aggrapparsi al seno il lattante ricerchi quel senso di essere-tutt'uno-con che gli è venuto meno con il nascere. In questa sua disperata ricerca di integrazione può trovare, quando non è disponibile il seno, un suo surrogato (dito, succhiotto, lingua o simili). Questa ricerca può iniziare già nell'utero (Piontelli 1992). Osservazioni ecografiche indicano infatti che, a volte, già negli ultimi mesi di vita prenatale, il bambino può portarsi alla bocca il dito, non è chiaro se casualmente o perché le sensazioni che gli derivano dalle pareti uterine non sono state sufficienti a dargli quel senso di interezza che fa parte della protezione totale caratteristica di tale stadio.
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