intelletto
D. usa questa parola in sensi diversi, sempre però legati al lessico filologico e teologico scolastico e al suo particolare carattere dottrinale e speculativo. Talvolta, infatti, come in Vn XXXIII 8 25, Cv II IV 11, V 17, VI 1 (2 volte), III Amor che ne la mente 23, VI 4 (2 volte) e 6, XIII 2, il termine i. indica chiaramente le intelligenze motrici o angeliche, o la loro facoltà d'intendere (cfr. INTELLIGENZA); altrove (Cv IV XXI 12) è invece riferito a uno dei sette doni dello Spirito Santo (E però ché da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina cantate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo. Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio). In Cv IV Le dolci rime 93 E vertute cotale / dà sempre altrui di sé vuono intelletto, i. sta evidentemente per " concetto ", " concepito ", " inteso ": in Cv I VII 11, III IX 3, IV III 2, vale per " senso " o " significato " di un discorso o di un costrutto; ancora (in Pg XXII 129 ch'a poetar mi davano intelletto; Pd XV 45 inver' lo segno del nostro intelletto, e Vn XIX 4 1 [cfr. § 2], Cv IV I 7, XX 9, Rime LXVII 18, LXXXVII 7, CVI 58) sembra piuttosto significare " intendimento " o " comprensione ".
La nozione d'intelletto in Dante. - Nel significato filosofico più specifico, i. è però usato da D. per indicare una " facoltà " o " parte " dell'anima deputata alle funzioni e capacità conoscitive, secondo la tradizionale' concezione peripatetica e scolastica.
Cfr. per questo uso Vn XXXIV 11 13, XLI 6 (2 volte); Cv II IV 14, 17, XIII 6, 19, XV 4, 5, 7; III Amor che ne la mente 4,11113 e 15, IV 2, 3, 4, 5, 9, 11, 12 (2 volte), 13, VIII 14 (2 volte), 15, XI 1, 13, XIII 2, 5, XIV 14; IV Le dolci rime 74, XI 9, XIV 2, XXI 6, XXII 13; Rime XLVIII 9, LXXXIII 44, 57, LXXXVI 9, XCIX 8; Rime dubbie XIV 11; in Cv IV XV 12 il termine ricorre in traduzione da Tommaso Cont. Gent. 15.
Nella canzone E' m'incresce di me sì duramente (Rime LXVII) si allude appunto all'i. come a quella virtù che ha più nobilitate (v. 74); in Cv III II 16, parlando della facoltà conoscitiva (o mente), il poeta propone questa definizione: ultima e nobilissima parte de l'anima (cfr. Cv IV XV 11 [2 volte] la nobile parte de l'anima nostra, che con uno vocabulo " mente " si può chiamare, e VE I III 1). E D. aggiunge altrove (Pd XIX 52-54), facendo proprio un concetto largamente accettato e sviluppato soprattutto dalla tradizione filosofica e teologica francescana, che il nostro i. è un ‛ raggio ' della mente divina; e che l'anima umana con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella (Cv III II 14).
Per questo la felicità umana non può essere raggiunta che mediante l'esercizio dell'i., facoltà suprema dell'anima umana (cum omnes vires eius [dell'uomo] ordinentur ad felicitatem, vis ipsa intellectualis est regulatrix et rectrix omnium aliarum; aliter ad felicitatem pervenire non potest, Mn I V 4), alla quale spetta, pertanto, di guidare e regolare tutte le altre tendenze e disposizioni degli uomini. Né, per D., si può porre in dubbio che il piacere della pura conoscenza intellettiva sia di gran lunga superiore a quello che nasce o deriva dall'esperienza sensibile (E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l'umana ragione ne vede ha più dilettazione che 'l molto e 'l certo de le cose de le quali si giudica [secondo lo senso], secondo la sentenza del Filosofo in quello de li Animali, Cv II III 2), o che la funzione conoscitiva sia superiore, in ogni caso, alla volontà e il sapere intellettivo costituisca la più alta operazione della mente umana.
Non a caso, quindi, in Mn I XVI 4, viene riconosciuta e accettata la distinzione tra ‛ intellectus superior ' e ‛ intellectus inferior ' (O genus humanum, quantis procellis atque iacturis quantisque naufragiis agitari te necesse est dum, bellua multorum capitum factum, in diversa conaris! Intellectu aegrotas utroque, similiter et affectu: rationibus irrefragabilibus intellectum superiorem non curas, nec experientiae vultu inferiorem, sed nec affectum dulcedine divinae suasionis, cum per tubam Spiritus Sancti tibi affletur: ‛ Ecce quam bonum et quam iocundum, habitare fratres in unum '), corrispondente, in sostanza, a quella aristotelica tradizionale tra l'i. " speculativo r " e l'i. " pratico ". Non diversamente, in Cv III II 15, la diretta citazione di Aristotele serve a specificare che, se la prima è una vertù che si chiama scientifica, la seconda si chiama ragionativa, o vero consigliativa; e in Mn I III 9 (e cfr. II 4 ss.; Cv IV XXII 10 ss.) è ancora ribadita tale distinzione, pur sottolineando il vincolo di stretta connessione e sostanziale subordinazione che lega l'i. ‛ pratico ' a quello ‛ speculativo ' (Potentia etiam intellectiva, de qua loquor, non solum est ad formas universales, aut species, sed etiam per quandam extensionem ad particulares; unde solei dici quod intellectus speculativus extensione fit practicus, cuius finis est agere atque facere). Poi, quasi a specificare meglio le particolari finalità, disposizioni e ‛ modi di operare ' dei due i., D. aggiunge ancora che mentre l'i. ‛ speculativo ' contempla le forme universali ed eterne, l'i. ‛ pratico ' si muove invece nell'ambito dell' ‛ invenzione ' e del ‛ giudizio ', ha come ‛ organo ' la ‛ prudenza ' e l'‛ arte ' e si volge, in modo precipuo, verso le ‛ operazioni ' etiche e politiche che sono inferiori rispetto alla suprema finalità speculativa dell'anima umana (Quod dico propter agibilia, quae politica prudentia regulantur, et propter factibilia, quae regulantur arte: quae omnia speculationi ancillantur tanquam optimo ad quod humanum genus Prima Bonitas in esse produxit).
Lo stesso tema, espresso in parole non molto diverse, ritorna, ancora, in Mn I XIV 7 (quam quidem regulam rive legem particulares principes ab eo [l'imperatore] recipere debent, tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem, quae proprie sua est, assumit et particulariter ad operationem concludit), ove il rapporto di subordinazione tra l'‛ i. pratico ' e l'‛ i. speculativo ' è proposto come argomento analogico per confermare la sottomissione dei particulares principes all'unica, universale autorità dell'Imperium.
Il termine i. compare ancora nei testi danteschi, sempre in stretta connessione con l'idea della superiorità della funzione intellettiva e della sua naturale affinità con lo stesso atto divino inteso, aristotelicamente, come puro pensiero. In Pd VIII 101 (son in la mente ch'è da sé perfetta) è chiara l'allusione al concetto di Dio, come supremo e perfetto ‛ intelletto '; in If XI 100 si parla del divino 'ntelletto e di sua arte dai quali la natura lo suo corso prende (cfr. anche Vn XIX 7 15, Cv II IV 14, III XV 15) e che Dio sia eterna e perfettissima Intelligenza che tutto 'ntende e, insieme, somma sapienza e sommo amore e sommo atto è il tema essenziale di Cv III XII. Per la sua connaturalità con le sostanze separate, nel supremo atto della visione di Dio, l'i. si distacca dalle altre facoltà (cfr. Pd I 8 nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire).
D'altro canto, D. non perde l'occasione per porre in luce i limiti propri dell'i. umano, i turbamenti, passioni, sentimenti che possono oscurarlo o renderlo incapace di conoscere (cfr. Pg XXXIII 73 Ma perch'io veggio te ne lo 'ntelletto / fatto di pietra e, impetrato, tinto, / si che t'abbaglia il lume del mio detto), e la sua naturale ‛ debolezza ' (Cv III Amor che ne la mente 16 e 59). Non solo: l'i. degli uomini, nello svolgimento della sua funzione conoscitiva, può essere facilmente impedito dalla malizia della mente o dai difetti e deformità del corpo (Cv IV XV 11 ss. [due volte; il termine è anche ai §§ 10, e 17, al plurale]; cfr. I I 3 ss., III II 18); e, in ogni caso, esso è incapace di penetrare le supreme verità di fede, i misteri teologici, i segreti disegni divini (Pg III 34-36 Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone; Pd XIX 52-57 Dunque vostra veduta, che convene / essere alcun de' raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene, / non pò da sua natura esser possente / tanto, che suo principio non discerna / molto di là da quel che l'è parvente; Cv III XV 6 Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio, e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere). A queste considerazioni, che inseriscono un tipico risvolto teologico nel tessuto sostanzialmente e genericamente aristotelico della concezione dantesca delle facoltà e poteri conoscitivi umani, si debbono poi aggiungere gli accenni all'i. diabolico (Pg V 113 Giunse quel mal voler che pur mal chiede / con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento / per la virtù che sua natura diede) e ai poteri intellettivi (e precognitivi) dei dannati (If X 104 Quando s'appressano o son, tutto è vano / nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, / nulla sapem di vostro stato umano); accenni che, peraltro, non hanno particolare significato dottrinale.
Il termine i. ricorre inoltre in If II 19, III 18, IX 61, XV 28, Pg IV 75, VI 45, XIV 23, XVIII 17 e 55, XXVIII 81, XXXIII 48, Pd I 120, II 109, IV 42 e 125, V 8, VIII 109, XIII 120, XXVI 37 e 46, XXVIII 108. In Cv III VII 3 libro... de lo Intelletto è il De Intellectu et intelligibili di Alberto Magno.
La nozione d'intelletto in Aristotele e nella tradizione greco-araba. - E chiaro, come risulta dalle precedenti citazioni, che l'uso dantesco del concetto e del vocabolo i. presuppone, da un lato, la precisa conoscenza delle idee del poeta a proposito del particolare processo della conoscenza umana ma, d'altra parte, anche un'analisi non superficiale della tradizione dottrinale e della concezione gnoseologica alla quale essa s'ispira. Perciò (riservando la trattazione della teoria dantesca della conoscenza alla voce INTELLETTO POSSIBILE: l'espressione ricorre in Pg XXV 65, Cv IV XXI 5, e cfr. § 7) ci limiteremo qui a indicare soltanto i presupposti e precedenti che devono esser tenuti presenti per chiarire il significato dei testi già citati.
Alle origini di tale tradizione sta, indubbiamente, un celebre e molto controverso passo di Aristotele (Anima III 4, 429a 18-20), continuamente commentato e chiosato dagl'interpreti ellenistici, bizantini, arabi e latini: " E necessario che, poiché pensa tutte le cose, l'intelletto sia senza mescolanza, come dice Anassagora, affinché domini, ossia conosca ". Il che significa che l'i. (νοῦς) svolge sempre una funzione ben distinta e caratterizzata e che costituisce una " parte " dell'anima dell'uomo, anzi la sua più alta e peculiare attività. E mentre l'anima, in quanto tale " non è corpo, ma qualcosa del corpo " e quindi presente nel corpo (Anima II 2, 414a), sembra che, per Aristotele, l'i., pur essendo una facoltà o parte dell'anima, sia invece " separato ". " E certo - egli scrive - che l'anima non è separata dal corpo, o almeno certe parti dell'anima se essa è divisibile... Ciò non toglie però che altre siano separate, perché esse non sono gli atti di alcun corpo ". A ciò si aggiunga che Aristotele vuole al tempo stesso affermare il carattere universale dell'i., che per sua natura deve pensare tutti gli enti, ma anche la sua connessione con la totalità del processo conoscitivo che ha origine dall'esperienza sensibile. Sicché l'i., se non è alcuna cosa in particolare (e, in questo senso, è appunto distinto dall'anima che è forma di un corpo o composto particolare), d'altro canto deve pur realizzarsi in conoscenze e intellezioni determinate. Critico della concezione platonica del " mondo delle idee " Aristotele vuole infatti che l'i. sia calato nella realtà e operante.
Ciò spiega le profonde e gravi difficoltà che la dottrina aristotelica dell'i. suscitò fin dalla sua prima diffusione tra gl'interpreti e commentatori. Già, del resto, lo stesso Aristotele si era posto alcune difficili domande, quando nel De Anima (III 4, 429b) si era chiesto come l'i. " semplice e impassibile " nella sua " separazione ", potesse conoscere e cioè " provare una certa passione ": " L'intelletto è, in certa maniera, tutti gl'intelligibili in potenza; ma non è nulla in atto prima di aver pensato; e questo deve avvenire nell'intelletto come in una tavoletta su cui non v'è nulla di scritto in atto ". Ma l'applicazione alla teoria dell'i. della distinzione metafisica generale tra potenza e atto non era sufficiente per spiegare come l'i., che è in atto solo quando pensa e non può subire l'azione di qualche altra cosa, potesse attuarsi; e Aristotele aveva dovuto ricorrere a un principio già in atto capace appunto, anche in questo caso, di far scattare il processo di passaggio dalla potenza all'atto. Naturalmente un simile principio non poteva essere un ente materiale e nemmeno un intelligibile puro estraneo, per definizione, all'i. umano legato ai sensi. Sicché doveva trattarsi di un'‛ attività ' di carattere intellettivo, capace di agire direttamente sull'i. già potenzialmente destinato a conoscere.
È questa l'origine della distinzione tra " intelletto possibile " (δυνατός) e " intelletto agente " (ποιητικός) posta da Aristotele nel De Anima (III 5, 430a 10 ss.). Secondo questa dottrina vi sono, dunque, due i.: l'uno " che è tale perché diviene tutto ", l'altro invece, " che è tale perché realizza tutto "; e questo i. è appunto un " abito " simile alla luce, perché svolge una funzione analoga a quella compiuta dalla luce quando fa divenire in atto i colori che prima di essere illuminati sono tali soltanto in potenza.
Aristotele afferma poi recisamente che questo secondo i. è assolutamente separato, impassibile e privo di ogni mescolanza, atto essenziale, la cui " dignità " è superiore a quella del " paziente ", ossia dell'i. possibile. Aggiunge anche che l'i. agente, in quanto è del tutto separato, è immortale ed eterno, laddove invece l'i. passivo (παθητικός) è corruttibile e mortale. Non basta: per Aristotele l'i. in potenza o possibile (νοῦς δυνάμει) non è identico e non coincide con l'i. passivo; perché (cfr. Anima III 4, 429a 18) mentre l'i. in potenza è puro e impassibile, l'i. passivo, inteso come soggetto all'influsso dell'esperienza sensibile e delle percezioni corporee segue, naturalmente, le sorti del corpo.
La complessità di queste dottrine e l'insistenza di Aristotele nell'identificare le diverse funzioni e processi conoscitivi in diversi tipi d'i. suscitarono ben presto gravi e lunghe polemiche e dissensi inconciliabili tra gl'interpreti. Già Teofrasto affermò che l'i. è senz'altro più eccellente e divino delle altre parti dell'anima, mentre Eudemo tendeva piuttosto a identificare l'i. agente con Dio. Però la prima interpretazione classica della dottrina aristotelica dell'i. risale piuttosto ad Alessandro di Afrodisia (I-II sec. d.C.). Nel suo commento al De Anima (ediz. I. Bruns, in " Supplementum aristotelicum " II 1, Berlino 1887) egli accentuò la stretta connessione tra l'anima e il corpo e ritenne che fosse corruttibile e, insieme a essa, anche l'i. " possibile " o " materiale ". Al contrario, l'i. " agente " era per lui assolutamente puro e separato, anzi era l'i. in atto per eccellenza, l'atto puro, il νοῦς di Aristotele. Del tutto opposta a quella di Alessandro fu' invece l'interpretazione di Temistio (c. 317-388 d.C.). Nella In libros Aristotelis de anima paraphrasis (ediz. R. Heinze, in " Comment. in Arist. gr. " V 3, Berlino 1889; della trad. latina di Guglielmo di Moerbeke cfr. l'ediz. G. Verbeke, Lovanio-Parigi 1957) negò che l'i. agente, così come lo aveva pensato Aristotele, potesse essere considerato un ente diverso e assolutamente separato dal nostro essere. Non solo: egli affermò che anche l'i. " possibile " doveva essere separato e incorporeo come " agente ", e quindi sostanzialmente unico. Molteplice e distinto restava invece il cosidetto " i. comune " (νοῦς κοινός) che costituirebbe una forma d'intelligenza inferiore, legata ai sensi e comune anche all'anima degli animali.
Queste interpretazioni ebbero larga influenza sulla cultura filosofica ellenistica e contribuirono a fissare la problematica dell'i, nei termini che furono poi comuni alla letteratura medievale araba, ebraica e occidentale. Non a caso larghe tracce della dottrina di Alessandro sono facilmente individuabili in un altro testo ellenistico, la cosiddetta Theologia Aristotelis (che non è affatto dovuto ad Aristotele, bensì piuttosto il frutto di una cultura profondamente pervasa di motivi neoplatonici), secondo la quale l'i. agente è un'essenza divina. Ma l'autore di quest'opera non ha però difficoltà ad affermare che anche l'i. in potenza è " separato " e che, pertanto, le due intelligenze si congiungono, in una virtù di un reciproco " amore ", nell'anima razionale dell'individuo. E questa unione è l'unico titolo per cui si possa attribuire al singolo uomo una certa sorta d'immortalità personale.
Tuttavia il tentativo di risolvere compiutamente il concetto aristotelico dell'i. nell'ambito di una totale visione metafisica di schietta natura neoplatonica si deve piuttosto a Plotino. Egli infatti concepì l'i. come la prima generazione dell'Uno (Enn. V I 6), meno perfetto del suo " genitore " ma, in ogni caso, superiore a tutte le altre emanazioni. L'i., che da un lato contempla l'Uno e dall'altro conosce e riflette sé stesso, è, per Plotino, il tramite tra il mondo ideale e le cose sensibili, tra l'unità assoluta e la molteplicità degli enti generati. Perciò esso può essere identificato con il " demiurgo " platonico e, insieme, con il " mondo delle idee ", a seconda della sua duplice funzione sia di modello ideale che d'intermediario " formatore " tra l'unità delle essenze e la molteplicità degl'individui. Per quanto concerne poi il rapporto tra questo i. universale e gl'i. singoli, Plotino afferma che l'i. universale, illuminando ciascun i. individuale, li " abbraccia " come in un unico complesso. Comprende però che una simile concezione lascia insoluto il problema di fondo dell'individualità e caratterizzazione particolare dei singoli i.; e per questo torna a sottolineare che l'i. universale e quelli singoli non sono la " stessa cosa " e che sussiste tra loro una distinzione e diversità reale (cfr. Enn. VI VII 17).
Sarebbe troppo lungo ed estraneo ai fini di questa enciclopedia, analizzare particolarmente le singole dottrine elaborate dalla filosofia neoplatonica, sotto l'influenza congiunta di Plotino e dei commentatori già citati. Basterà quindi ricordare soltanto che Simplicio (filosofo neoplatonico del VI sec.) nel suo commento al De Anima (ediz. Hayduck, in " Comment. in Arist. gr. " IX, Berlino 1882) affermò recisamente che l'i., così come lo definisce Aristotele nel De Anima, non può essere identificato con il νοῦς, nel senso metafisico e ipostatico che questo concetto aveva assunto nelle dottrine neoplatoniche (op. cit., p. 220). In realtà l'i. " in potenza " è soltanto una parte dell'anima; e ad essa appartiene, sia pure con funzioni e dignità superiore, anche " agente " che Aristotele, non a caso, ha paragonato alla luce e non al sole, fonte e principio della luce. Nondimeno, anche Simplicio sottolineava che l'anima, nella sua attività di pensiero, tende ad avvicinarsi e unirsi al νοῦς; e l'aspirazione a questa unione è, in certa misura, il segno di un'origine comune. Sicché la morte dell'i. passivo segna il ritorno dell'i. agente a sé stesso, attraverso la sua separazione dall'anima individuale e la sua identificazione con il νοῦς originario.
Le dottrine peripatetiche e neoplatoniche ellenistiche furono accolte e rielaborate dalla cultura filosofica araba che contribuì, in larga misura, anche alla loro fortuna tra gli scolastici latini. Già nel IX secolo Alkindi, nel suo De Intellectu (ediz. del testo latino a cura di A. Nagy, in " Beiträge " II, 5, Münster 1897) scrive che l'anima, la quale possiede soltanto l'i, in potenza, si trasforma in i. acquisito sotto l'azione dell'i. attivo che le fornisce le forme intelligibili. Un secolo dopo Alfarabi, autore del De Intellectu et intelligibili (Sul significato della parola intelletto, trad. tedesca di F. Dieterich, Leida 1892, trad. latina con trad. francese di É. Gilson, in " Archives d'hist. doctr. et littér. du Moyen Age " 1929, 108-142, 151-158), distingue, con assai maggior chiarezza, gl'i. " in potenza ", " in atto ", e " creatore " o " attivo "; e si serve di tale distinzione per separare l'i. " attivo ", che esiste in sé e per sé, dall'i. " in atto ", il quale invece si realizza nell'anima umana sotto l'influenza dell'altro. Alfarabi, come risulta dall'impostazione generale del suo pensiero tende, insomma, ad assicurare la " separazione " e trascendenza del " primo i. ", fonte degl'intelligibili, come tale, irriducibile al ricettacolo umano che accoglie le " forme ". Questo può certamente passare dalla potenza all'atto, realizzando così la propria funzione specifica; ciò non significa, però, che sia incorruttibile e immortale, ché anzi segue la sorte necessaria del composto umano e partecipa, per natura, alla sua corruttibilità.
Simili dottrine influirono, senza dubbio, sulla concezione dell'i . elaborata da uno dei massimi pensatori arabi, Avicenna (980-1037) e resa familiare ai filosofi occidentali dalla traduzione del De Anima compiuta, intorno al 1126-1151, da Domenico Gundisalvi. Per Avicenna l'i. " primo " procede direttamente dalla " Causa prima "; ma in esso già si verifica la distinzione tra l'essenza e l'esistenza perché, derivando il proprio essere da un altro, non è più " semplice " e " uno ". L'intelligenza o i. primo riflette sé stessa; e con questo atto comprende e riconosce la propria essenza, l'identità con sé stessa, la contingenza del proprio essere. Il suo pensiero si distingue così in un triplice processo che origina, a sua volta, una triplice emanazione: dal riconoscimento della propria essenza scaturisce infatti una " seconda intelligenza ", dalla coscienza dell'identità la forma di un'orbita planetaria, dalla conoscenza della propria contingenza il corpo che si muove entro quell'orbita. Il medesimo processo di emanazione si riproduce ulteriormente e così genera la struttura delle sfere celesti e le ‛ intelligenze ' che lo muovono, sino a concludersi con la produzione dell'intelligenza della sfera della luna, nona e ultima, dalla quale, a loro volta, procedono le anime dei singoli individui umani. L'intelligenza della sfera della luna svolge nei confronti degl'intelletti individuali la funzione dell'i. agente aristotelico; non solo, essa è la " datrice delle forme ", e possiede una natura " separata " e " divina ", senza che peraltro s'identifichi con Dio. Il rapporto dell'anima individuale con questo principio o emanazione divina è poi chiaramente indicato da Avicenna: le singole anime si uniscono all'i. agente, in questa vita, solo in modo temporaneo nell'atto della conoscenza intuitva; dopo la morte, pur conservando la propria individualità, si congiungono con esso perennemente, partecipando alla superiore e suprema realtà divina. Avicenna riflette indubbiamente in questa sua dottrina le preoccupazioni tipiche di un filosofo profondamente legato alla tradizione coranica, aperto a intense esperienze mistiche e desideroso di conciliare la ‛ scienza ' aristotelica con i dettami della fede islamica.
Averroè, che si dichiara " fedele discepolo " di Aristotele, supremo e assoluto interprete della ragione umana, è invece del tutto libero da ogni preoccupazione fideistica quando affronta il tema dell'i., sul fondamento dei classici testi aristotelici e degl'interpreti greci. Concordando con Temistio, egli considera l'i. materiale come una sostanza ingenerata e incorruttibile, capace proprio per questo di recepire le forme immutabili ed eterne. Ma al tempo stesso accetta una tesi essenziale della concezione alessandrista: l'i. agente o attivo è un principio sovrumano, immortale e " separato " da qualsiasi realtà materiale. D'altro canto, conformemente alla sua impostazione generale di questo problema, Averroè insiste nell'affermare che l'i. materiale non è né materia, né forma e neppure un composto di materia e forma: se mai è un altro " genere " del tutto peculiare, risultante dalla necessaria distinzione dell'intelligibile in qualcosa che sia simile alla materia e alla forma (De Anima, 151d), ossia, una specie di " materia intelligibile ", una " potenza " che dev'essere resa " attuale " dall'azione dell'i. agente. Questo ha infatti la funzione propria e specifica di rendere attuali gl'intelligibili, e di produrre così l'i. " acquisito ". La sua azione è quindi assolutamente universale e universale dev'essere anche l'i. materiale, unico e proprio di tutta la specie umana. Ne deriva che, per Averroè, il pensiero individuale ha soltanto il compito di fornire le immagini sensibili dalle quali l'i. agente farà scaturire gl'intelligibili che vi sono in potenza, realizzandoli in atto.
La nozione d'intelletto al tempo di Dante. - Nel corso del XII e XIII secolo la dottrina aristotelica dell'i. penetrò in Occidente attraverso le interpretazioni e le discussioni dei filosofi arabi e le traduzioni dall'arabo, e poi dal greco, dei testi, così disputati, del De Anima, e specialmente la concezione dell'i. agente poté facilmente incontrarsi e accordarsi con la classica dottrina agostiniana dell' " illuminazione ".
Già al cadere del XII secolo, Domenico Gundisalvi identificava l'i. agente con Dio e proponeva così una soluzione di questo grosso problema filosofico e gnoseologico, che sarà più tardi accettata, con sostanziale adesione, da alcuni tipici rappresentanti della filosofia francescana. Come ha mostrato esattamente il Gilson, filosofi come Roberto Grossatesta, Adamo di Marsh e Ruggero Bacone concordano nel far propria questa identificazione che, del resto, ritroviamo anche in un celebre maestro parigino come Guglielmo d'Alvernia. Non diversamente anche Giovanni della Rochelle, nella Summa de anima, sembra riconoscere nei concetti aristotelici d'i. agente e i. possibile l'equivalente " filosofico " delle nozioni agostiniane di " ratio superior " e " ratio inferior ", mentre un altro maestro francescano, Alessandro di Hales (morto nel 1245) afferma, nella sua Summa (II q. 69), che l'i. agente e l'i. possibile stanno tra di loro nello stesso rapporto in cui la forma sta alla materia. Pochi anni dopo (tra il 1250 e il 1255), Bonaventura da Bagnoregio (Comment. Sentent. II 8 2 1) non solo attacca duramente e critica a fondo la dottrina averroistica, già nota evidentemente nello Studio parigino, ma contrappone a essa un'interpretazione ortodossa, fortemente influenzata dalle dottrine agostiniane.
Che, del resto, le tesi di Averroè fossero ben note in Occidente e probabilmente abbastanza diffuse nei principali centri di studi filosofici, lo dimostra Alberto Magno, il quale, nella sua Summa de creaturis (II 55 3) composta intorno al 1250, mostra di conoscere assai bene la dottrina averroistica dell'intelletto. Però la penetrazione di queste idee suscitò subito vivaci e decise reazioni negli ambienti teologici ed ecclesiastici, ben decisi a combattere le " dottrine perniciose " che trovavano una sospetta accoglienza soprattutto tra i maestri della facoltà delle Arti. Già nel 1255 un giovane ‛ baccelliere ' della facoltà teologica di Parigi, il domenicano Tommaso di Aquino, commentando le Sentenze (Il 18 2 1) discuteva e si sforzava di confutare tali concezioni, richiamandosi non solo ai principi della fede, ma soprattutto ad argomenti di carattere filosofico. L'anno successivo, il suo maestro Alberto Magno teneva alla corte di papa Alessandro IV una " disputatio de unitate intellectus contra Averroem " (in Opera, ediz. Borgnet, V 218 ss.) che attaccava, con decisa polemica, tutti i sostenitori della " unicità " dell'i., e non solo Averroè, ma anche altri filosofi come Avempace e il Maimonide, i quali avevano affermato la sola sopravvivenza di un eterno, unico e divino i. agente. Alberto, che si dichiarava verace interprete di Aristotele, opponeva a queste dottrine l' " autentica " verità del filosofo, il quale aveva sempre concepito l'i. agente come " parte dell'anima "; più tardi, nella Summa (II 14 3), ribadiva la sua posizione, affermando che l'i. agente ha soltanto la duplice funzione di " astrarre gl'intelligibili " e " illuminare l'i. possibile ", cui pertanto è sempre unito e connesso.
La difesa delle tesi averroiste fu assunta, com'è noto, da un gruppo di maestri e filosofi parigini i cui atteggiamenti dottrinali non sono peraltro ancora stati del tutto chiariti ma che, comunque, non nascosero la loro adesione al principio dell' " unicità " dell'i. possibile comune a tutta la specie umana (per l'illustrazione delle loro dottrine rinviamo alle voci AVERROISMO e SIGIERI di BRABANTE). Giova qui ricordare che essi furono ben presto al centro di vivaci e, talvolta, aspre reazioni polemiche, culminate con precise condanne da parte delle autorità ecclesiastiche e accademiche. Nella lotta contro questi sostenitori dell'unicità dell'i. possibile (cfr. INTELLETTO POSSIBILE), Si distinse soprattutto lo stesso Tommaso d'Aquino che, nella Summa contra gentiles (1259-60) non trascurò di affrontare direttamente questo tema e di tentare una confutazione sistematica dell' " empietà averroistica " (Il 73-75). Egli accusò Averroè di avere falsato il vero significato dei testi aristotelici e di averne pervertito la dottrina con pertinace e " volpina " malizia. Per Tommaso, infatti, secondo la genuina dottrina peripatetica, l'anima umana è la u forma del corpo "; e, giacché l'i. è funzione dell'anima, è evidentemente necessario che esso non sia " uno in tutti ", bensì si moltiplichi nei vari individui così come sono molteplici e diverse le singole anime (II 59). Più tardi, nella Summa theologica (1265-71), Tommaso attaccò a fondo anche quella tesi averroistica che indicava il tramite o elemento di unione tra l'i. e gl'individui nei " fantasmi " o " immagini ", così come negò che l'i. potesse unirsi al corpo a guisa di " motore ". Poi, nel 1270, con il De Unitale intellectus contra averroistas, egli scese in diretta polemica con Sigieri e i suoi seguaci, proponendo e illustrando la propria soluzione del problema filosofico dell'intelletto.
Per Tommaso, il primo punto da chiarire consiste nel precisare la " separazione " dell'i., nel senso che questo concetto significa soltanto che l'i. non può possedere un proprio " organo " corpo. Ciò aveva inteso Temistio (il cui commento al De Anima è ben noto a Tommaso, attraverso la traduzione di Guglielmo di Moerbeke), senza per questo presupporre affatto l'unità specifica dell'i.; e che, del resto, la ragione umana ripugni dall'accettare la soluzione averroista è dimostrato da argomenti evidenti e inconfutabili. Il maestro domenicano, che usa qui gli stessi temi esposti già altrove (nella Quaestio disputata de anima 2), nega, infatti, che si possa discutere con chi sostiene una dottrina nella quale è implicita l'impossibilità d'intendere da parte degli individui particolari, giacché è evidente che costui, se fosse vera la propria tesi, sarebbe incapace d'intendere. Ma anche ammettendo che possa esistere un i. " fuori dell'uomo " che muova l'anima dell'individuo (cosa che Tommaso nega assolutamente), sarebbe pur sempre necessario che l'i. possibile di cui parla Aristotele fosse presente nell'animo di quell'individuo. Ora, come scrive Tommaso, " se l'intelletto di tutti fosse uno solo, dovrebbe essere uno solo anche il soggetto che intende e, di conseguenza, anche il soggetto che vuole "; e, quindi, esisterebbe un'unica volontà morale comune a tutti gli uomini con il risultato di togliere ogni responsabilità agl'individui e " distruggere tutta la filosofia morale " (De Unitate intellectus IV 89). A questo proposito, il teologo non manca di sottolineare che tale difficoltà non è affatto superata dal tentativo averroista di fondare la diversità dei singoli atti intellettivi sulla distinzione dei singoli " fantasmi " sui quali opera l'i., poiché anche questa distinzione non basterebbe a rendere veramente diversi gli atti d'intendere (ibid. IV 91). Né vale d'altro canto insistere, come Averroè e i suoi seguaci occidentali, sul carattere universale della conoscenza e sull'identità dell'oggetto conosciuto che può essere comune a più soggetti per dedurne la necessità di un unico intelletto. Secondo Tommaso il fatto che diversi soggetti intendano lo stesso e unico oggetto, non giustifica affatto una simile conseguenza; certo l'oggetto che essi conoscono è " uno ", ma esso è inteso dai vari soggetti mediante specie intelligibili diverse e, quindi, è diverso anche il loro intendere e sono diversi i loro i. (ibid. V 112). In conclusione, la tesi tomista ribadisce il carattere individuale e singolo dell'atto d'intendere e dell'i. con il preciso ed esplicito intento di difendere l'individualità delle coscienze umane e la loro piena responsabilità intellettiva e volitiva.
Le dottrine che abbiamo così rapidamente indicato giovano a inquadrare e risolvere nel contesto culturale del tempo le definizioni e i riferimenti danteschi al concetto d'i. così frequenti, come si è visto, nel corso di tutta la sua opera. E occorre subito aggiungere che i testi citati mostrano come D. si sia mosso con grande libertà nell'intricata discussione filosofica e teologica, accettando suggerimenti e suggestioni che venivano da diverse correnti e tendenze dottrinali, dalla tradizione agostiniana dell' " illuminazione " ai temi aristotelici propri del commento albertino, a motivi propri della grande teologia duecentesca di tradizione francescana, ai più diretti riflessi della polemica, ancora così scottante, di cui erano stati principali protagonisti Sigieri e Tommaso.
Bibl.-Non è naturalmente possibile indicare in questo contesto la vastissima bibliografia dedicata a illustrare la concezione dell'i. negli autori classici e medievali citati. Mentre per la bibliografia relativa alla dottrina gnoseologica di D. e alle relative discus sioni rinviamo alla voce INTELLETTO POSSIBILE, citiamo qui come ottimo avvio allo studio del problema (soprattutto dal punto di vista dell'indagine dei testi danteschi) l'Introduzione di B. Nardi a s. Tommaso D'aquino, Trattato sull'unità dell'i, contro gli averroisti, traduz., commento e introduz. di B. Narri, Firenze 1938. Si veda inoltre, sempre di B. Narri, Soggetto e oggetto del conoscere nella filosofia antica e medioevale, Roma 1952².