Intellettuali
di Norberto Bobbio
Intellettuali
sommario: 1. Un vecchio problema. 2. Chi sono gli intellettuali. 3. Tipi d'intellettuali. 4. L'origine del nome. 5. L'intellettuale rivoluzionario e l'intellettuale puro. 6. La grande prova dell'intellettuale puro. 7. La grande prova dell'intellettuale rivoluzionario. 8. Tradimento o diserzione? 9. L'antintellettualismo. □ Bibliografia.
1. Un vecchio problema
Il nome è relativamente recente, ma il tema è antico. Il termine viene infatti di solito introdotto quando s'intende parlare del problema dell'incidenza (o della mancanza d'incidenza) delle idee sulla condotta degli uomini in società, e in specie dei governanti presenti o futuri, con particolare riguardo a un soggetto specifico o più precisamente a un insieme di soggetti specifici, considerati come creatori, portatori, trasmettitori di idee, che da un secolo a questa parte vengono abitualmente chiamati, appunto, ‛intellettuali'.
Almeno dalla Repubblica di Platone in poi i filosofi si sono sempre occupati e preoccupati, se pure sotto diversi nomi, di che cosa fanno o debbono fare i filosofi, cioè essi stessi, nella società, quale influenza hanno o debbono avere nei rapporti sociali affinché questi rapporti non siano abbandonati alla cecità del caso o all'arbitrio della volontà altrettanto cieca del più forte. In due brani celebri di Platone e di Kant sono espresse rispetto a questo problema due posizioni antitetiche, che possono essere considerate come paradigmatiche, e che dimostrano nello stesso tempo l'antichità e la perennità del tema. Platone: ‟A meno che negli Stati non divengano re i filosofi, o coloro che oggi si dicono re e sovrani non divengano veri e seri filosofi, e che non si vedano riuniti in un solo individuo il potere politico e la filosofia, a meno che d'altra parte quei molti, che oggi separatamente tendono all'uno e all'altra, non siano assolutamente eliminati, non vi sarà rimedio alcuno ai mali degli Stati [...], e neppure quindi a quelli dell'umanità" (Repubblica, 473 c-d). Kant al contrario (con un riferimento tacito ma chiaro al passo platonico): ‟Non c'è da attendersi che i re filosofeggino o i filosofi diventino re, e neppure da desiderarlo, poiché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione. Ma che re o popoli sovrani (...] non lascino perdere o ridurre al silenzio la classe dei filosofi, ma la lascino pubblicamente parlare, questo è indispensabile agli uni e agli altri per aver luce sui loro propri affari. E poiché questa classe per sua natura è immune da spirito fazioso ed è incapace di cospirare, non può essere sospettata di fare della propaganda" (Per la pace perpetua, in Scritti politici, Torino 1956, p. 316).
Il tema è antico e perenne perché esso non è altro a ben guardare che un aspetto di uno dei problemi centrali della filosofia, quello del rapporto fra teoria e prassi (o tra pensiero e azione), in termini ancora più generali e filosofica- mente ancor più tradizionali, fra ragione e volontà, quando sia trattato dal punto di vista di coloro che a partire da un determinato periodo storico e in determinate circostanze di tempo e di luogo sono considerati i soggetti cui si attribuisce di fatto o di diritto il compito specifico di elaborare e trasmettere conoscenze, teorie, dottrine, ideologie, concezioni del mondo o semplici opinioni, che vanno a costituire le idee o i sistemi di idee di una determinata epoca e di una determinata società. Che questi soggetti storici vengano prevalentemente chiamati ‛intellettuali' soltanto da un secolo a questa parte all'incirca, non deve oscurare il fatto che i temi che vengono messi in discussione quando si discute il problema degl'intellettuali sono sempre esistiti, siano questi soggetti chiamati, secondo i tempi e le società, saggi, sapienti, dotti, philosophes, clercs, hommes de lettres, letterati, ecc. Si pensi, per fare qualche esempio, quanta parte del tradizionale tema della superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva (di cui offre una trattazione classica il libro decimo dell'Etica nicomachea di Aristotele) si ritrovi nella disputa spesso avvelenata sulla figura dell'intellettuale che si rifugia nella cosiddetta ‛torre d'avorio'; oppure quale e quanta continuità vi sia fra la figura ricorrente in tutti i secoli del filosofo o del saggio educatore del principe (dalla Settima lettera di Platone alla Institutio principis christiani di Erasmo) e l'odierna figura dell'intellettuale che ritiene suo compito principale contribuire con consigli da competente alla condotta del buon governo; oppure quale stretta analogia vi sia fra l'ideale antico della filosofia che deve reggere il mondo e l'ideale positivistico (sansimoniano e poi comtiano) del governo degli scienziati (la filosofia della terza età).
Non è fuor di proposito ricordare che i vari atteggiamenti che gli intellettuali possono assumere di fronte al compito loro spettante nella vita sociale - atteggiamenti che suscitano continue diatribe, e formano l'oggetto principale del cosiddetto problema degl'intellettuali - corrispondono esattamente ai vari modi con cui nei secoli le diverse scuole filosofiche hanno cercato di dare una soluzione al problema del rapporto fra le opere dell'intelletto o della mente o dello spirito e il mondo delle azioni: questo problema, considerato dal punto di vista dei soggetti rispettivamente delle une e delle altre, può essere riformulàto, per usare una frase celeberrima, come il problema del rapporto fra coloro che sono chiamati a comprendere o interpretare il mondo e coloro che sono chiamati a trasformarlo. Alla tesi del primato dell'intelligenza sull'azione (o della ragione sulla volontà) - in principio era il logo - corrisponde la tesi, spesso etichettata, con intendimenti polemici, come idealistica, o, non a caso, ‛intellettualistica', secondo cui gli intellettuali sono il sale della terra, il lievito della storia, i promotori del progresso civile, e così via, onde una società si dovrebbe giudicare dal posto che attribuisce, o dal rango che assegna, o dai privilegi che accorda (primo fra tutti quello della libertà di espressione) ai propri signori delle idee; alla tesi contraria del primato della volontà o dell'azione - in principio era l'atto - corrisponde la tesi, non a caso detta antiintellettualistica, secondo cui gli intellettuali non contano nulla o sono considerati come dei rompiscatole che il potere politico fa benissimo a tenere nei ghetti dorati delle università o delle accademie perché nuocciano il meno possibile.
Per usare il linguaggio marxistico diventato di dominio pubblico, è chiaro che il posto degl'intellettuali nella società è diverso secondoché si ritenga che sia la coscienza che determina l'essere o sia l'essere che determina la coscienza, o, in altri termini, la sfera delle idee sia determinante o determinata, sia una forza propellente o una semplice sovrastruttura: secondoché, in sostanza, si accolga una concezione idealistica o materialistica del divenire storico. Quando Th. Geiger nel suo libro Aufgaben und Stellung der Intelligenz in der Geselschaf riassume i diversi possibili atteggiamenti degli intellettuali nei riguardi del potere nei quattro seguenti: a) primato dello Spirito sul potere; b) asservimento dello Spirito al potere; c) mediazione fra Spirito e potere; d) critica del potere; ripete, magari senza avvedersene, quattro teorie filosofiche fondamentali intorno al tema del rapporto fra la ragione intelligente e la volontà deliberante: la ragione guida e la volontà segue; la volontà delibera e la ragione giustifica; ragione e volontà si richiamano l'una con l'altra in un rapporto di interdipendenza reciproca; la ragione ha una funzione critica e non costitutiva (che è poi la posizione attraverso cui entra nella storia delle idee il kantismo come criticismo).
In forma più specifica, il problema degl'intellettuali è il problema del rapporto fra costoro - con tutto quello che rappresentano di idee, opinioni, visioni del mondo, pro- grammi di vita, opere dell'arte, dell'ingegno, della scienza - e il potere (s'intende il potere politico). Siccome attraverso le loro opere anche gl'intellettuali esercitano un potere, se pure mediante la persuasione anziché la coazione, nelle forme estreme di manipolazione o di falsificazione dei fatti mediante una violenza psicologica che è pur sempre diversa dalla violenza fisica cui ricorre in ultima istanza il potere politico, il rapporto fra intellettuali e potere si può benissimo configurare come rapporto fra due diverse forme di potere, per usare termini noti, e per mostrare ancora una volta l'antichità e continuità del problema, fra potere spirituale e potere temporale. Nel libro Men of ideas (1965), L. A. Coser raggruppa nei seguenti quattro atteggiamenti questo rapporto: a) gl'intellettuali stessi sono al potere, della qual rara situazione sarebbero stati esempi storici significativi i giacobini e i bolscevichi; b) cercano d'influire sul potere standosene al di fuori, come hanno fatto i fabiani in Inghilterra o il brain trust di Roosevelt negli Stati Uniti; c) non si propongono altro compito che quello di legittimare il potere, come gli idéologues rispetto a Napoleone, o, per fare esempi vicini a noi, tutti coloro che nei regimi totalitari contribuiscono con scritti e discorsi alla cosiddetta fabbrica del consenso; d) combattono permanentemente il potere, sono per vocazione (si veda la quarta categoria di Geiger) i critici del potere, e ne rappresentano un esempio storico rilevante in Russia tanto gl'intellettuali radicali dell'Ottocento quanto i cosiddetti intellettuali del ‛dissenso' di oggi. Occorre tener conto anche di una quinta categoria, cioè di coloro che non intendono avere alcun rapporto col potere, in quanto ritengono che il loro regno non sia di questo mondo, e una volta dato a Cesare quel che è di Cesare in quanto cittadini della città terrena, il loro compito sia, in quanto intellettuali, di dare a Dio quel che è di Dio. Anche rispetto a questi raggruppamenti si possono ripetere le cose già dette circa il rapporto fra teoria e prassi: il primo esprime e incarna la tesi, predominante nella tradizione del pensiero marxista, dell'identità di teoria e prassi, nel senso che solo il grande intellettuale può essere un grande politico e viceversa (Lenin e Mao insegnino); il secondo e il terzo esprimono la tesi della separazione ma non della contrapposizione se pure coi termini invertiti, secondoché si ritenga che la pratica debba verificare la teoria, oppure la teoria serva a confermare la pratica (si pensi alle ideologie nel senso marxiano o alle ‛derivazioni' nel senso paretiano, e in genere alla funzione di pura e semplice ‛razionalizzazione' dell'accaduto che si ritiene spetti alla teoria secondo alcune concezioni); il quarto e il quinto rappresentano la tesi della separazione e insieme della contrapposizione se pure in termini diversi, in quanto l'intellettuale si consideri un antagonista del potere, oppure il protagonista di una storia completamente diversa; in altre parole, come un dissuasore anziché un persuasore, un provocatore di dissenso anziché di consenso, in una funzione contraria a quella del legittimatore, oppure come legittimatore di altri sovrani e di altri imperi.
2. Chi sono gli intellettuali
Non si insisterà mai abbastanza sul nesso relativamente recente tra il tema degl'intellettuali e il problema antichissimo del rapporto fra teoria e prassi, fra cultura e politica, fra il dominio delle idee e il puro dominio, perché è davvero incredibile quanto si perpetui nelle discussioni sempre appassionate, spesso acrimoniose, sul problema degl'intellettuali la confusione fra il significato del sostantivo, il solo che qui viene preso in considerazione, e il significato dell'aggettivo, in espressioni come lavoro intellettuale, contrapposto a lavoro manuale, professioni intellettuali, contrapposte al mestiere dell'artigiano o alla non-professionalità dell'operaio di una fabbrica moderna, ecc. Tutte le volte che viene in discussione quale sia il compito degl'intellettuali nella società, con tutti i problemi connessi, fra i quali occupa un posto preminente se essi siano un ceto o una classe, se abbiano una loro funzione specifica e quale essa sia, vi è sempre qualcuno che credendo di parlare dello stesso argomento introduce il discorso sulla divisione fra lavoro manuale e intellettuale, sulla progressiva estensione del secondo rispetto al primo, sulla disoccupazione intellettuale, sulla proletarizzazione degl'intellettuali, ove sarebbe più corretto parlare di proletarizzazione dei ceti medi, e così via. Sia detto una volta per tutte che qualunque sia l'estensione, maggiore o minore, che si attribuisce al concetto di intellettuale (come sostantivo), secondoché vi si comprendano soltanto coloro che fanno opera di produzione artistica o letteraria o scientifica, o anche coloro che trasmettono il patrimonio culturale acquisito o applicano invenzioni o scoperte fatte da altri, i creatori o i commentatori, o, per usare la distinzione weberiana, i profeti, coloro che annunziano il messaggio, o i sacerdoti, coloro che lo trasmettono, le due categorie degl'intellettuali e di coloro che esercitano un lavoro intellettuale non coincidono e soprattutto i problemi che li riguardano sono profondamente diversi. Non coincidono perché, se è vero che un intellettuale svolge un lavoro non manuale è anche vero che non tutti coloro che svolgono lavoro non manuale sono intellettuali. Ciò che caratterizza l'intellettuale non è tanto il tipo di lavoro quanto la funzione: un operaio che svolga anche opera di propaganda sindacale o politica può essere considerato un intellettuale, o per lo meno i problemi etici e conoscitivi della sua opera di agitatore sono quelli stessi che caratterizzano il ruolo dell'intellettuale: qual è l'incidenza delle idee sulle azioni? è lecito distorcere i fatti per raggiungere uno scopo pratico? come si colloca la sua attività nell'ambito del potere costituito e di quello costituendo? D'altra parte, coloro che appartengono al settore terziario svolgono lavoro intellettuale, nel senso che non adoperano le mani nella maggior parte delle loro mansioni, ma non possono dirsi per lo più a nessun titolo intellettuali. In secondo luogo, i problemi relativi alla distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale e quelli relativi al ceto degli intellettuali come men of ideas sono profondamente diversi, perché i primi sono soprattutto problemi di stratificazione sociale con tutte le questioni connesse al passaggio dall'uno all'altro strato, di perequazione distributiva, di ‛pari dignità sociale'; i secondi sono problemi relativi al posto che hanno o debbono avere le idee in una determinata società.
Della confusione fra i problemi relativi al lavoro intellettuale e i problemi degl'intellettuali sono stati spesso responsabili gli intellettuali (nel senso proprio della parola) socialisti, per i quali spesso il discorso sugl'intellettuali e il socialismo riguardava il problema del modo con cui attirare i ceti medi verso il movimento operaio senza che questo ne fosse contaminato e di allargare quindi il consenso intorno agli ideali socialisti da parte di individui appartenenti a classi con un'istruzione superiore a quella degli operai; oppure il problema di come evitare, nell'ambito del partito e dell'organizzazione della classe operaia, la diffidenza dei proletari nei riguardi di coloro che provengono dalla classe borghese; si pensi a scritti come Die Intelligenz und die Sozialdemokratie (1894-1895) di K. Kautsky, a Les intellectuels devant le socialisme (1900) di H. Lagardelle, a Der Sozialismus und die Intellektuellen (1910) di M. Adler, dove per intellettuali s'intendono in modo molto largo anche coloro che esercitano professioni liberali, e in genere individui provenienti dalla classe borghese, e il problema centrale non è tanto quello del loro ruolo quanto quello della compatibilità fra appartenenza alla classe borghese e partecipazione attiva e leale alle lotte del proletariato. Il perdurare della incredibile confusione dipende infine dal fatto che nel linguaggio ufficiale dell'Unione Sovietica, e di riflesso anche in quello non altrettanto ufficiale ma altrettanto rigido di molti intellettuali comunisti nei paesi non socialisti, per ‛intellettuali' s'intende, nella formula ‛operai, contadini, intellettuali', l'insieme degl'individui che svolgono un lavoro non manuale, che sono nella stragrande maggioranza i tecnici e i burocrati, coloro che altrove si chiamano i ‛colletti bianchi', e hanno ben poco a che vedere con l'intellighenzia' della tradizione.
È noto altresì come proprio nell'ambito dei vari movimenti socialisti il termine intellettuale sia stato usato con connotazioni fortemente negative. Come tutti i termini largamente adoperati nel linguaggio politico e con uno statuto scientifico ancora poco consolidato, anche ‛intellettuali' assume significati valutativi diversi, anzi opposti, secondo i contesti, dove può essere usato come titolo d'onore o all'opposto addirittura come contumelia. Oltre all'accezione troppo larga del termine testé considerata, un'altra ragione della confusione che regna nelle discussioni intorno agl'intellettuali sta nella sovrapposizione fra significato descrittivo neutrale del termine e i suoi diversi significati valutativi. Anche là dove l'estensione del concetto è correttamente h.mitata ai men of ideas accade d'imbattersi in una ulteriore limitazione, questa volta indebita, derivante dall'introduzione surrettizia di una definizione persuasiva, di una definizione cioè in cui si attribuiscono all'intellettuale caratteri moralmente positivi, come l'indipendenza di giudizio, il coraggio delle proprie opinioni, l'amore dell'avventura spirituale, il gusto del paradosso, l'arditezza delle idee, lo spirito critico, la propensione verso l'innovazione, con la conseguenza di espellere dalla categoria coloro che pur rientrandovi per l'attività e per la funzione svolte non sembrano possedere agli occhi di chi li giudica con quel metro le qualità richieste. Pare superfluo avvertire che per una giusta impostazione del problema è opportuno accogliere il termine nel suo uso più neutrale, indipendentemente da qualsiasi giudizio di valore, tanto più che la storia del problema è costellata di giudizi etici e politici contrastanti nei riguardi di questo o quel gruppo d'intellettuali da parte dei loro - sempre eminenti - confrères. Allo stesso modo che non costituiscono una classe omogenea, e non sono mai rappresentati da un partito (vi può essere in una società un partito di intellettuali ma non mai il partito degl'intellettuali), questi non sono mai, salvo nel caso di società teocratiche, i depositari di un unico corpo di dottrine: secondo le idee che sostengono e per le quali si battono sono progressisti o conservatori, radicali o reazionari; secondo le ideologie che difendono sono libertari o autoritari, liberali o socialisti; secondo l'atteggiamento di fronte alle stesse idee che sostengono, scettici o dommatici, laici o clericali. Dalle due parti della barricata gli uni e gli altri si lanciano accuse feroci: e naturalmente fra queste accuse vi è anche quella di non appartenenza alla categoria. Se si dovesse giudicare chi sono gl'intellettuali non in base al significato descrittivo del termine ma in base al significato emotivo, e quindi all'ideale d'intellettuale che ogni gruppo si propone, e in base al quale esclude tutti gli altri, la classe logica degl'intellettuali finirebbe per essere, a furia di toglierne una parte per compiacere gli uni e un'altra per compiacere gli altri, una classe vuota. Oltretutto, la ragione per cui è conveniente l'uso neutrale del termine è che, indipendentemente dal giudizio di valore per cui vi sono intellettuali per gli uni buoni e per gli altri cattivi, i problemi dell'incidenza delle battaglie delle idee per lo sviluppo di una determinata società sono comuni agli uni e agli altri.
All'inverso, non conviene restringere la categoria, come pure è accaduto, ai soli cosiddetti ‛grandi intellettuali', a quelli che, riprendendo il titolo del fortunato libro di A. Glucksmann, si possono chiamare maîtres penseurs, che sono poi i Fichte, gli Hegel, i Marx, i Nietzsche. In una storia degl'intellettuali (come quella di A. M. Jacobelli Isoldi, L'intellettuale a Delfi alla ricerca della propria identità, 1976), è lecito concentrare il fuoco della ricerca prevalentemente sui protagonisti, siano essi Erasmo o Machiavelli, Kant o Hegel, Fichte o Schopenhauer, Kierkegaard o Nietzsche, Lenin o Gramsci. Ma quando si affronta il problema in generale del posto degl'intellettuali nella società, non bisogna dimenticare che questo dibattito riguarda anche i mediocri e i piccoli e che oggi i grandi intellettuali sono una razza in via d'estinzione: in Italia non ci sono più né Croce nè Gentile; nel mondo non ci sono più Bergson e Husserl, Dewey o Russell, Lukàcs o Jaspers. L'ultimo oracolo è stato Heidegger. Sopravvive Sartre, che fra gli scrittori del nostro tempo è certamente quegli che più ha fatto parlare di se. Ma è un maître penseur? Scrittore geniale e versatile, filosofo, letterato, romanziere, drammaturgo, ha immolato il proprio genio all'idolo dell'engagement a tutti i costi, anche a costo della coerenza e della ponderazione, ha logorato la propria eccezionale vitalità nella ossessione della continua presenza; fra marxismo ed esistenzialismo, tra comunismo e libertà, ha rivelato un'ambiguità di fondo che ha finito per condannarlo alla solitudine. Altri scrittori o filosofi sono comparsi e scomparsi come meteore: il caso più tipico è Marcuse. Le comunicazioni di massa nella loro intrinseca volubilità danno in estensione quello che tolgono in durata: al posto dei ‟venticinque lettori", di cui parlava Manzoni, che si rinnovano per un secolo, i lettori del libro di oggi sono magari centomila ma non durano più di un anno.
3. Tipi d'intellettuali
Definita la categoria, non tanto larga da comprendere tutti i lavoratori non manuali, non tanto stretta da comprendere soltanto i protagonisti, si possono introdurre alcune distinzioni, stabilire una tipologia. La distinzione più corrente e anche più ovvia è quella che si rifà al criterio delle ‛due culture': da un lato gli umanisti, i letterati, gli storici, dall'altro gli scienziati. Ricorre frequentemente anche la distinzione fra intellettuali creativi o innovativi e quelli recettivi o ripetitivi. Una delle classificazioni più comunemente menzionate, ma anch'essa troppo dilatata per essere utile, è quella fatta da R. Aron in L'opium des intellectuels del 1953 (per chi non lo sapesse questo oppio è il comunismo): scribi, esperti e letterati. Nel contesto in cui si muovono queste pagine ritengo che la distinzione più opportuna sia quella fra ‛ideologi' ed ‛esperti', che corrisponde su per giù, se pure meno drastica, alla distinzione fra intellettuali-filosofi e intellettuali-tecnici introdotta e ampiamente illustrata da G. P. Prandstraller (v., 1972). Ogni azione politica, in quanto è o pretende di essere un'azione razionale, ha bisogno di idee generali sugli scopi da perseguire, che chiamo ‛principi', ma potrebbero anche essere chiamati ‛valori', ‛idealità', 'visioni del mondo', e di conoscenze scientifiche e tecniche necessarie per raggiungere i fini stabiliti. Per ‛ideologi' intendo coloro che forniscono principî-guida, per ‛esperti' coloro che forniscono conoscenze-mezzo. La differenza fra gli uni e gli altri può essere interpretata mediante la distinzione weberiana fra azioni razionali secondo il valore e azioni razionali secondo lo scopo. Gli ideologi sono coloro che elaborano i principî in base ai quali un'azione si dice razionale in quanto conforme a certi valori proposti come fini da perseguire; gli esperti sono coloro che suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine fanno sì che l'azione che vi si conforma possa dirsi razionale secondo lo scopo. La discussione classica sulla miglior forma di governo è una tipica discussione di carattere ideologico; una discussione sulla maggiore o minore opportunità di costruire centrali nucleari per lo sviluppo dell'energia in un determinato paese, è una tipica discussione per esperti. Come sempre, anche in questo caso la realtà sociale è più complicata delle categorie che adoperiamo per dominarla mentalmente: non c'è ideologo che non chieda soccorso a conoscenze tecniche per elaborare i suoi principî, non c'è esperto che non debba avere una qualche idea dei fini per dare un senso alle sue analisi. L'utopista, tutto immerso nella costruzione della città ideale, e il puro tecnico, chiuso nel proprio laboratorio come i topi dei propri esperimenti, sono due casi-limite. Ma sono proprio i casi-limite che permettono di rendersi conto dell'utilità della distinzione. Del resto, questi due casi-limite sono benissimo rappresentati dall'antitesi, così violenta dinnanzi ai nostri occhi, fra la rinascita dell'utopismo da un lato, che rappresenta la sublimazione dell'ideologia allo stato puro, e la dichiarazione della fine dell'ideologia, che rappresenta il trionfo del puro tecnicismo. Di contro alla tecnocrazia, che è il paradiso dei tecnici, sta l'acrazia, che è il paradiso degli utopisti.
La distinzione fra ideologi ed esperti può essere illustrata da due libri che fanno testo: Il tradimento dei chierici di Benda e I nuovi mandarini di Chomsky. Gli intellettuali traditori di cui parla Benda sono degli ideologi (in particolare i dottrinari dell'Action française); gl'intellettuali cui si riferisce Chomsky sono degli esperti (in particolare i sociologi e gli scienziati che hanno contribuito con le loro ricerche alla prosecuzione e all'inasprimento della guerra del Vietnam). Gli ideologi di Benda sono accusati di essere venuti meno ai principî della verità e della giustizia; i mandarini di Chomsky sono accusati di aver messo la propria competenza al servizio di un potere ingiusto e distruttivo.
Ogni società in ogni epoca ha avuto i suoi intellettuali, o più precisamente un gruppo più o meno esteso di individui che esercitano il potere spirituale o ideologico contrapposto al potere temporale o politico, un gruppo cioè di individui che corrispondono per la funzione che svolgono a coloro che oggi chiamiamo intellettuali. E infatti uno dei criteri per distinguere vari tipi di società organizzate può essere quello del maggior o minor potere di costoro rispetto agli altri gruppi sociali: a un estremo si trovano le società reali o ideali in cui gl'intellettuali sono al potere e per le quali sono state coniate diverse espressioni come ierocrazia, clerocrazia, sofocrazia, ideocrazia, logocrazia; all'altro estremo, società in cui il ‛principio' (nel senso di Montesquieu) che le fa muovere è avverso all'intelligenza, come la plutocrazia (dominio della ricchezza), la bancocrazia (termine introdotto all'inizio del secolo scorso negli ambienti sansimoniani, per sottolineare l'importanza crescente del potere delle banche), la strateocrazia (termine usato da Carl Schmitt per indicare il governo dei militari), l'onagrocrazia (o governo degli asini, termine usato scherzosamente da Croce per satireggiare l'ignoranza dei gerarchi fascisti). Ma per quanto ogni società in ogni epoca abbia nel suo seno i rappresentanti di quel potere che a differenza del potere economico e del potere politico si esercita con la parola, e più in generale, attraverso segni e simboli, oggi, quando si parla di intellettuali, ci si riferisce a un fenomeno caratteristico del mondo moderno, dove è avvenuto il distacco della scienza mondana, prima rivolta alla natura e poi rivolta anche all'uomo e alla società, dalla scienza divina, quel processo di secolarizzazione che Weber ha chiamato del ‟disincanto". Non si può dissociare il significato di ‛intellettuale' dal significato di ‛intelletto' o di ‛intelligenza', e quindi dall'uso prevalente di operazioni mentali e di strumenti di ricerca che hanno un qualche rapporto con lo sviluppo della scienza, e pertanto sarebbe una forzatura far rientrare nel concetto attuale i depositari della sapienza riposta delle società primitive e in genere i sacerdoti delle società religiose. Possono essere assimilati gli uni e gli altri per le funzioni che esercitano e anche perché spesso accade che all'esercizio della ragione si sostituisca il culto della ragione e i suoi cultori si comportino come sacerdoti; ma la differenza rispetto alla forma di sapere da cui gli uni e gli altri attingono i loro simboli e quindi il loro potere rimane e non può essere cancellata senza incorrere in una pericolosa contaminazione.
Si è detto e ripetuto che il precedente più convincente degl'intellettuali di oggi sono i philosophes del Settecento. Ma occorre aggiungere che l'aumento di coloro che vivono non soltanto per le idee ma anche di idee, è dovuto alla invenzione della stampa e alla facilità con cui i messaggi trasmissibili attraverso la parola possono essere moltiplicati e diffusi. La Riforma, le guerre religiose, la rivoluzione inglese scatenano la produzione e la diffusione di una miriade di scritti che nelle età precedenti sarebbe stato impossibile immaginare. Nelle città greche la forza delle idee si rivelava attraverso la parola: la figura tipica dell'intellettuale era l'oratore, il retore, in senso spregiativo il demagogo. Dopo l'invenzione della stampa la figura tipica dell'intellettuale è lo scrittore, l'autore di libri, libelli, e poi di articoli su riviste e giornali, di fogli volanti, di manifesti, di lettere pubbliche, cui corrisponde la controfigura del pennivendolo o pennaiolo. Per Kant l'illuminismo inteso come l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità è strettamente connesso all'‟uso pubblico della propria ragione", il quale è a sua volta inteso come l'uso che ne fa uno scrittore di fronte ‟all'intero pubblico dei lettori". Se è vero che oggi attraverso la radio e la televisione si è allargato enormemente lo spazio e quindi l'influenza della parola detta (senza che peraltro diminuisca quella della parola scritta), la caratteristica principale del moderno ceto degl'intellettuali è stata al suo sorgere la formazione di una sempre più vasta opinione pubblica attraverso la stampa; tanto che il fenomeno dell'opinione pubblica e quello del ceto degl'intellettuali nel senso moderno della parola si fanno nascere insieme, e l'accresciuta influenza di questi si misura di solito dalla formazione di un pubblico sempre più esteso in grado di esprimere e di far valere la propria opinione. Per rendersi conto della novità rappresentata dai philosophes bastino due testimonianze: nelle ultime pagine delle sue Lezioni sulla filosofia della storia Hegel dice a proposito dell'illuminismo che ‟da che il sole splende sul firmamento e i pianeti girano attorno al sole, non si era ancora scorto che l'uomo si basa sulla sua testa, cioè sul pensiero, e costruisce la realtà conformemente a esso". In L'ancien régime et la révolution Tocqueville scrive le celebri pagine in cui mostra ‟come verso la metà del secolo XVIII gli scrittori divennero i più eminenti uomini politici della nazione e con quali risultati per il paese" (Libro III, cap. I). Che questi risultati siano stati deleteri per Tocqueville non toglie che questi scrittori, proprio per l'influenza che ebbero o che ad essi tanto nel bene come nel male fu attribuita, siano diventati il più persistente e più attraente modello ideale degl'intellettuali nel loro rapporto con il potere.
4. L'origine del nome
Se il problema è antico, il nome, dicevo, è relativamente recente: lo si fa risalire di solito al russo intelligencija, che, pronunciato ‛intellighenzia', è diventato una parola del linguaggio comune italiano, data dai dizionari. Viene usato spesso proprio per designare l'insieme degl'intellettuali come gruppo o ceto o categoria o classe sociale (secondo le diverse interpretazioni) che ha una propria funzione specifica e un proprio specifico ruolo nella società, pur avendo perduto in gran parte il significato originario. Nel particolare contesto della storia della Russia prerivoluzionaria, infatti, il termine, usato, pare per la prima volta, dal romanziere Boborykin, e diffusosi negli ultimi decenni del secolo, significava l'insieme (non necessariamente costituente un gruppo omogeneo) dei liberi pensatori - fossero scrittori politici, critici letterari, o anche letterati e romanzieri - che iniziarono, promossero e fecero alfine esplodere il processo di critica all'autocrazia zarista e in genere alle condizioni di arretratezza della società russa (non diversamente da quello che accade oggi per opera dei cosiddetti ‛dissenzienti' nell'universo sovietico), sino allo scoppio della Rivoluzione. Da questa origine il termine ‛intellettuali' (usato generalmente al plurale come nome collettivo), a differenza di altri termini spesso usati come sinonimi, ha derivato e non ha perduto del tutto il significato di antagonista del potere, o per lo meno di complesso di persone che si pongono, in quanto hanno preso coscienza di se stesse come di un ceto con proprie funzioni e proprie prerogative, in una posizione di distacco critico da ogni forma di dominio esercitato esclusivamente con mezzi coercitivi, e tendono a sostituire il dominio delle idee - attraverso un'azione di illuminazione, di rischiaramento (di Aufklärung, nel senso originario della parola) - al dominio degli strumenti tradizionali del potere dell'uomo sull'uomo; e quindi in ultima istanza a trasformare la società esistente, considerata troppo difforme dalla società quale dovrebbe essere. Per citare il caso più comune di questi sinonimi, ‛uomo di cultura' ha un significato più generico e a ogni modo meno legato alla tematica del rapporto teoria-prassi, e ha assunto recentemente nell'espressione la ‛classe dei colti' anche una connotazione peggiorativa, essenzialmente ironica, proprio dal punto di vista di questo rapporto.
Nella storia del termine e della tematica ha acquistato particolare importanza il saggio già ricordato di Kautsky, sull'intellighenzia e la socialdemocrazia, apparso alla fine del secolo: riprendendo il tema della funzione critica degl'intellettuali rispetto al potere dominante e alla classe al potere, Kautsky dà al problema del rapporto fra gl'intellettuali, considerati come ceto a sé stante, e le classi subalterne una soluzione destinata a un vasto e sempre risorgente dibattito nell'ambito del movimento operaio: poiché gl'intellettuali non hanno in quanto tali alcun interesse allo sfruttamento capitalistico, debbono essere considerati come i migliori alleati degli operai e dei contadini; in quanto poi sono possessori degli strumenti di analisi e di critica della società, e quindi del monopolio del sapere in una società divisa in classi e con una netta divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, svolgono una funzione insostituibile, e pertanto è compito della socialdemocrazia attrarli sottraendoli all'influsso della borghesia. Alcuni anni dopo, a proposito del progetto di un nuovo programma del Partito Socialdemocratico Austriaco (1901), sostiene la tesi, diventata celebre perché accolta da Lenin nel Che fare?, secondo cui deve ritenersi completamente falso che la coscienza socialista sia il prodotto necessario e diretto della lotta di classe del proletariato, perché essa, al contrario, non può sorgere che sulla base di profonde conoscenze scientifiche, patrimonio esclusivo degl'intellettuali, ragion per cui ‟la coscienza socialista è un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall'esterno, e non qualcosa che ne sorga spontaneamente". Mutato il soggetto storico, non più il principe ma il proletariato (il cui partito costituirà il ‟nuovo principe" di Gramsci), non era mutato il compito pedagogico dell'uomo di scienza e di studi che continuava a essere quello di illuminare il governante. Non è il caso di ricordare la disputa nata attorno alla tesi che è passata alla storia come la tesi leniniana della coscienza socialista portata al movimento operaio dagl'intellettuali, e che Plechanov criticò duramente accusandola di idealismo. Per il discorso che qui sto facendo sul problema degl'intellettuali nella società moderna basti ricordare che a questa tesi è connessa l'interpretazione polemica della Rivoluzione russa come rivoluzione di intellettuali (più specificamente, di intellettuali declassati, alienati, emarginati, ecc.).
Quando il 14 gennaio 1898 appare a Parigi sul giornale ‛'L'aurore" il Manifeste des intellectuels, firmato da illustri scrittori, come Zola, Anatole France, Proust, in occasione dell'affaire Dreyfus', il nuovo termine è ormai preso e accettato (anche polemicamente) nell'accezione ancor oggi corrente: si tratta appunto di un gruppo di uomini non politici, noti per la loro attività prevalentemente letteraria, che prendono posizione in quanto uomini di lettere nei riguardi di una prevaricazione del potere politico, e combattono la ragion di Stato in nome della ragione senza altre specificazioni, difendendo la verità di cui si considerano i depositari e i custodi contro l'utile menzogna'. Inoltre la presa di posizione è espressa nella forma più consona a chi fonda la propria dignità e il proprio potere sulla forza delle idee, nella forma di una protesta verbale, il ‛manifesto' appunto, che diventerà un vero e proprio genere letterario e sara tanto più influente quanto più sarà letterariamente incisivo, fattualmente documentato, logicamente bene argomentato. Non sarà inutile ricordare che l'autore di uno dei libri più famosi e giustamente famosi sul dovere degl'intellettuali, J. Benda, iniziò la sua vita di scrittore in occasione dell'affaire, scrivendo sulla ‟Revue blanche" una serie di articoli raccolti quindi nel suo primo libro Dialogues à Byzance (1900), in cui, rispondendo ad Auguste Mercier che aveva accusato i dreyfusards di comportarsi come i dotti bizantini disputanti sul sesso degli angeli mentre i Turchi sono alle porte, scrive ‟tout intellectuel contient en puissance un iconoclaste", un motto che nell'epoca di ferro dell'entre deux guerres sarà una divisa per chi considererà il sostegno dato da intellettuali alle passioni di parte come il primo odioso esempio di ‛tradimento dei chierici'. Anche l'accusa di bizantinismo sarà uno dei tratti ricorrenti della polemica contro gl'intellettuali che stanno fuori della mischia. Ma in questo caso chi era veramente fuori della mischia? Coloro che combattevano per il trionfo della verità e della giustizia contro la verità di Stato e contro la giustizia del più forte, oppure coloro che col pretesto del non intervento negli affari dello Stato se ne lavavano le mani e permettevano la diffamazione e la condanna di un innocente?
5. L'intellettuale rivoluzionario e l'intellettuale puro
Con l'affermazione dell'intellettuale rivoluzionario contro il potere costituito in nome di una nuova classe e per la instaurazione di una nuova società, e con l'affermazione dell'intellettuale puro che lotta contro il potere in quanto tale in nome della verità e della giustizia, cioè di valori assoluti (Croce avrebbe parlato di ‟valori di cultura" contrapposti ai ‟valori empirici"), venivan proposti i due temi fondamentali del ruolo dell'intellettuale nella società che spesso saranno in contrasto fra loro e rappresenteranno i due poli del dibattito insoluto (perché astrattamente insolubile) che giunge sino ai nostri tempi. Entrambi, l'intellettuale rivoluzionario e l'intellettuale puro, hanno in comune la coscienza dell'importanza del proprio ruolo nella società e della propria missione nella storia onde si potrebbe parlare - e si parla spesso a ragion veduta - dell'eterno illuminismo degl'intellettuali, del loro inconsapevole idealismo: per il primo vale il principio che non si fa rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria e che di conseguenza la rivoluzione deve avvenire prima nelle idee che nei fatti; per il secondo, il principio che la ragion di Stato, o che è lo stesso, la ragione di partito, di nazione o anche di classe, non deve mai prevalere sulle ragioni imprescrittibili della verità e della giustizia. Ma sono destinati spesso a non incontrarsi, anzi a scontrarsi, perché per il primo è vero ciò che serve alla rivoluzione mentre per il secondo la verità è di per se stessa rivoluzionaria. Qual è il dovere dell'intellettuale? Servire la rivoluzione o la verità? La contrapposizione fra l'uno e l'altro si rivela anche nella diversità del rispettivo avversario, dal momento che l'uno vede il proprio principale avversario, se pure deformandolo, nell'altro. Dell'intellettuale rivoluzionario infatti il principale antagonista è colui che per troppo amore degli astratti ideali di verità e di giustizia non vuole ‛sporcarsi le mani' (ma le mani sporche, le mains sales di Sartre, non sono talora sporche di sangue?); così come il maggiore avversario dell'intellettuale puro è colui che per eccessivo amore del successo delle proprie idee finisce per prostrarsi al demone del potere.
6. La grande prova dell'intellettuale puro
Non sarebbero mancate le grandi occasioni per mettere alla prova gli uni e gli altri. La prova degli intellettuali custodi dei valori assoluti fu la grande guerra che scatenò la passione nazionale, una passione di tale intensità da rompere non solo il fronte dell'internazionalismo proletario ma anche l'universalità di fatto della res publica degli uomini di cultura. Di fronte agl'intellettuali che dimentichi della loro missione universale si schierano con acrimonia da una parte o dall'altra e contrappongono la civiltà della propria nazione alla barbarie dell'altra, R. Rolland, antico dreyfusardo, già celebre come romanziere, scrive nel settembre 1914, poco dopo l'inizio della guerra, Au-dessus de la mélée, per esprimere la protesta di coloro che non si arrendono allo scatenamento dell'odio che la guerra ha suscitato: denunciando la ‟mostruosa epopea" di cui gli ‟autori criminali", i capi di Stato, non hanno il coraggio di assumersi la responsabilità e di cui si rinfacciano la colpa l'uno all'altro, invita gli uomini di cultura a non compromettere nella propaganda di guerra ‟l'integrità del proprio pensiero". Ricorrendo al topos classico delle due città, la città terrena, di cui gli uomini di cultura sono gli ospiti, e la città di Dio, di cui sono i costruttori, chiede che alla prima si dia il proprio corpo, ‟ma nulla di ciò che amiamo, famiglia, amici, patria, nulla ha diritto sullo spirito" perché ‟lo spirito è luce, e il dovere è d'elevarlo al di sopra delle tempeste e di scartare le nuvole che cercano di oscurarlo". Gli fece eco Benedetto Croce il quale scrisse pagine di fuoco contro i professori che si comportano come se fossero belligeranti ricordando che ‟sopra il dovere stesso verso la Patria c'è il dovere verso la Verità, il quale comprende in sé e giustifica l'altro, e storcere la verità e improvvisare dottrine non sono servigi resi alla patria ma disdoro recato alla patria, che deve poter contare sulla verità dei suoi scienziati, come sul pudore delle sue donne" (Pagine sulla guerra, Bari 19282, pp. 52-53).
Che al di sopra del dovere verso la Patria ci sia il dovere verso la Verità è il tema centrale dell'opera più nota apparsa fra le due guerre sul problema degl'intellettuali: La trahison des clercs di Benda. Per Benda gli intellettuali, i ‟chierici", sono, o meglio dovrebbero essere, coloro che ‟cercando la soddisfazione nell'esercizio dell'arte e della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dicono in qualche modo: ‛il mio regno non è di questo mondo'". Ora che cosa è accaduto? È accaduto e sta sempre più accadendo che i chierici hanno cominciato a servire le passioni destinate a trionfare in questo mondo, e non fanno più il loro dovere che è quello di ‟soffocare l'orgoglio umano" e al contrario si sono dati spavaldamente a esaltare ‟gli stessi sentimenti di chi guida gli eserciti". Il libro comincia significativamente con l'aneddoto dell'ufficiale che vedendo un altro ufficiale maltrattare un soldato gli dice: ‟Ma non hai letto il Vangelo?"; e l'altro di rimando: ‟Ma tu non hai letto il regolamento militare?" Ebbene, il compito dell'intellettuale secondo Benda è di ricordare all'umanità che non esistono soltanto i regolamenti militari. Nel 1925, scrivendo il Manifesto degl'intellettuali antifascisti, per rispondere al Manifesto degl'intellettuali fascisti scritto da Gentile, Croce aveva espresso più o meno gli stessi concetti, quando aveva affermato che gli intellettuali, se come cittadini compiono il loro dovere aderendo a un partito, ‟come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l'opera dell'indagine e della critica, e con la creazione dell'arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie". Nel 1927 (lo stesso anno in cui apparve il libro di Benda), scrivendo la prefazione a una nuova edizione delle Pagine sulla guerra, quando ormai tanti tradimenti erano stati consumati ed era cominciata l'‟ère des tyrannies" (così la chiamerà un altro intellettuale, É. Halévy, che farà datare dal 1914 i due nefasti effetti della soppressione di ogni opinione sfavorevole all'interesse nazionale e l'‟organizzazione dell'entusiasmo"), Croce riprendeva il tema delle due città e scriveva: ‛'Rimango anche in questa parte nella tradizione del pensiero cristiano, che dà a Cesare quel ch'è di Cesare, ma sopra Cesare innalza la coscienza religiosa e morale, la quale solamente eticizza di volta in volta l'azione politica, pur riconoscendone e rispettandone e adoprandone la logica che le è propria". In una delle pagine più solenni e commosse, riprendendo se pure in altra forma il tema delle due città e traducendolo nella visione delle due storie parallele, la storia politica e quella morale, dirà che l'uomo dall'animo ‟religiosamente disposto lascia volentieri a politici e a militari e a economisti la considerazione della prima storia, nella quale si svolge il dramma che in lui si prosegue, e dove, lungo i secoli, egli incontra i suoi padri e i suoi fratelli, coloro che amarono come lui e come lui seppero soffrire e operare per la libertà" (Soliloquio di un vecchio filosofo, in Discorsi di varia filosofia, vol. I, Bari 1945, p. 300).
All'idea delle due città e alla tesi che l'intellettuale non potesse servire contemporaneamente due padroni corrispondeva l'idea, che si era fatta strada fra i cultori delle scienze sociali ed era culminata nella teoria, di cui si era fatto banditore Max Weber fra il 1913 e il 1917 (dunque negli stessi anni in cui il venir meno della neutralità dei professori sarebbe stato considerato una defezione), della ‛avalutatività' della scienza, secondo cui chi si propone di esercitare la professione-vocazione dello scienziato deve rinunciare a dare giudizi di valore e quindi a sostenere in quanto scienziato una politica piuttosto che un'altra. Allo stesso modo che la storia per Croce deve proporsi di essere giustificatrice e non giustiziera, così il sociologo, il giurista, l'economista debbono comprendere e non giudicare. Nel 1916, nel mondo già sconvolto dalla prima guerra mondiale, appariva il Trattato di sociologia generale di Pareto, dominato da cima a fondo dalla contrapposizione fra lo scienziato e l'apostolo, impiantato sulla tesi che il sociologo si occupa di accertare fatti e di formulare teorie e non si preoccupa delle conseguenze buone o cattive delle proprie asserzioni. Tanto Pareto quanto Weber, rigidi e ostinati avversari di ogni contaminazione fra l'opera dello scienziato e quella del politico o del moralista, furono entrambi inclini a credere, e operarono di conseguenza come scienziati, che in una società guidata da forze irrazionali - le azioni non-logiche del primo, le azioni razionali secondo il valore del secondo -, dalla prevalenza di ideologie (le paretiane ‟derivazioni") che vengono gabellate per teorie scientifiche, in un universo irriducibile di ‛politeismo dei valori' per effetto dell'impotenza della ragione, l'unica impresa umana in cui dovevano essere mantenuti incontrastati il dominio e la guida della ragione fosse la scienza. Per questo incombeva all'uomo di scienza, secondo loro, la responsabilità di preservare l'unica forma di sapere che può aspirare all'intersoggettività dalla corruzione delle fedi individuali e collettive, dai sentimenti, dalle mitologie sempre rinascenti, dalle concezioni generali del mondo non razionalmente vere ma solo praticamente utili. In Pareto e in Weber, per parlare dei maggiori, perché l'idea della separazione fra il mondo della scienza e il mondo della pratica era diffusa (basti pensare a tutte le teorie ‛pure', dal diritto all'economia, di cui si fece promotore filosoficamente il neokantismo), la difesa della scienza disinteressata va di pari passo con una concezione fondamentalmente irrazionalistica dell'universo etico: pertanto l'etica dello scienziato consiste proprio nella difesa a oltranza dell'unica e limitata cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione che si esprime nei giudizi di valore. Non saranno mai ricordate abbastanza le accorate, severe, e quanto preveggenti!, parole che Weber pronunciò alla fine del 1918, al momento della sconfitta della Germania, nella conferenza alla Libera lega studentesca, sulla scienza come professione e come vocazione (Wissenschaft als Beruf), quando disse che nella scienza ha una sua personalità e una sua dignità soltanto colui che ‟serve puramente il proprio oggetto", esaltò ‟l'intima dedizione al proprio compito", e domandandosi perché il professore non debba dare consigli pratici intorno al modo di agire nella società, rispose: ‟Perché la cattedra non è per i profeti e per i demagoghi" (v. Weber, 1918; tr. it., p. 64).
In una società caratterizzata da un irriducibile ‛politeismo dei valori' - irriducibile perché le scienze, riconoscendo i propri limiti, si erano arrestate di fronte ai valori ultimi, e perché via via che a sempre più vaste masse di cittadini venivano aperte le porte della partecipazione alla vita pubblica attraverso i sindacati e i partiti, le ideologie dominanti si moltiplicavano e diventavano sempre più antagonistiche - o si riusciva a creare solide istituzioni che permettessero a ciascuno di adorare in pace i propri dei (il grande sogno dei liberali, l'ideale della ‛libertà dei moderni' contrapposta alla ‛libertà degli antichi'), oppure, di fronte al pericolo del conflitto permanente, e in definitiva della disgregazione, non appariva altra via di salvezza che l'imposizione di una sola religione mediante un nuovo Leviatano, che, come quello immaginato da Hobbes, tenesse in una mano la spada, simbolo del potere temporale, e nell'altra il pastorale, simbolo della guida dottrinale. Ci si sarebbe ricordati troppo tardi che già Dante aveva detto che quando la spada e il pastorale sono tenuti insieme ‟per viva forza/mal convien che vada". Con la teoria del partito-guida, che si era andata sempre più rafforzando là dove una classe audace e spregiudicata di rivoluzionari aveva preso il potere e lo andava consolidando attraverso il rafforzamento del partito unico, e con l'instaurazione dei regimi fascisti in una parte dell'Europa occidentale, sembrava che dovesse prevalere in Europa, nel periodo di tregua fra le due guerre, la seconda soluzione.
Mentre Benda aveva denunciato il cedimento degl'intellettuali di fronte al potere, K. Mannheim negli stessi anni confidava negl'intellettuali per una soluzione della crisi, partendo proprio dalla constatazione che in una società politeistica si fronteggiano le ideologie della classe dominante, che mira alla conservazione, e le utopie della classe oppressa, che mira alla trasformazione della società presente. Il suo libro Ideologie und Utopie, che viene considerato come il primo tentativo di analisi sociologica degli intellettuali e uno dei punti di partenza della sociologia della conoscenza, apparve nel 1929. La contrapposizione fra mondo delle idee e mondo delle azioni, il dualismo fra scienza e politica, l'incompatibilità fra impegno scientifico e impegno politico, erano stati sino allora presenti nella battaglia ideale dei chierici che si professavano o si credevano indipendenti. Mannheim tenta di dare a questo modo essenzialmente etico-pedagogico di trattare il problema un crisma di validità scientifica sostenendo una teoria sociologica o presuntivamente tale: nella società di massa, divisa in classi, gl'intellettuali costituiscono non già una classe nel senso proprio della parola ma un ceto a se stante, in quanto è formato da un insieme di individui provenienti dalle classi più diverse, non legato a nessuna classe in particolare, socialmente indipendente, librantesi al di sopra delle classi contrapposte; per questo sono nella migliore condizione per tentare di compiere la sintesi delle ideologie che si contendono il campo e il favore dei diversi gruppi in lotta fra di loro. Soltanto orientandosi verso questa opera di sintesi il ceto degl'intellettuali può sfuggire alle due tentazioni opposte dell'utopismo e del nichilismo, che sono due modi di sottrarsi alle proprie responsabilità, e distogliersi dalla passiva contemplazione della propria impotenza.
7. La grande prova dell'intellettuale rivoluzionario
La soluzione di Mannheim, che non soltanto teorizzava ma fondava o credeva di fondare criticamente la tesi della diversità tra ruolo di mediazione e di politica a lunga scadenza e ruolo politico immediato degli intellettuali, era diametralmente opposta alla tesi che in quegli anni Gramsci stava elaborando nelle sue riflessioni del carcere. Mannheim si trovava sulla linea che parte dalla separazione fra impegno intellettuale e impegno politico, pur non escludendo l'interesse attivo degli intellettuali per i problemi della città, che se non era la città di Dio era pur sempre una città ideale che doveva essere progettata senza illusioni di una rapida e completa attuazione. Gramsci invece continuava, se pure con spirito critico, la linea, che aveva caratterizzato la storia dell'intellettuale rivoluzionario, della identità d'impegno politico e impegno culturale. In una lettera dal carcere del marzo 1927 annuncia per la prima volta alla cognata il proposito di occuparsi di ‟una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti, ecc.", riprendendo un problema già trattato, sebbene di sfuggita, nel saggio Alcuni temi della questione meridionale dell'ottobre precedente. La parte più importante delle note sugli intellettuali è del 1932. Come Mannheim, anche Gramsci presenta un abbozzo di sociologia degl'intellettuali, e ne delinea a grandi tratti la storia. Ma, diversamente da Mannheim, rifiuta la tesi, che avrebbe considerata astratta e speculativa se l'avesse conosciuta, di un unico ceto degl'intellettuali, e distingue due gruppi contrapposti, quello degl'intellettuali tradizionali e quello degl'intellettuali organici. Siccome peraltro anche gl'intellettuali tradizionali sono organici alle classi in declino, la tesi fondamentale di Gramsci è proprio l'opposto della tesi mannheimiana della libera intellighenzia. ‟Ogni gruppo sociale - questo è il punto di partenza dell'analisi storica gramsciana -, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme organicamente uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione"... Gramsci non ignora che gl'intellettuali tradizionali si considerano ‟autonomi e indipendenti", ma sa anche che il compito dello storico e del sociologo marxista è di mostrare che non lo sono. Gl'intellettuali sono sempre i ‟commessi" del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico (v. Gramsci, 1949, pp. 3 ss.).
La tesi dell'intellettuale organico è la risposta critica alla tesi dell'intellettuale indipendente. Se ogni classe ha i suoi intellettuali organici, anche la nuova classe avrà o dovrà avere (lo scambio fra l'essere e il dover essere è una caratteristica ambiguità del discorso politico) i suoi intellettuali organici, ma saranno diversi da quelli tradizionali: l'intellettuale tradizionale è l'umanista, il letterato, l'oratore, il cui modo d'essere essenziale è l'eloquenza; il nuovo intellettuale, invece, sarà insieme specialista (o tecnico) e politico (Gramsci usa la nota formula specialista+politico). Questi, in quanto politico, non può trovare altra sede per l'esercizio della sua specialità che il partito, cui incombe in primo luogo, come partito della classe operaia, il compito della riforma morale e intellettuale della società: il partito del proletariato non sarà soltanto il nuovo principe ma sarà anche il nuovo intellettuale (collettivo) e realizzerà in tal modo in forma nuova la sintesi fra teoria e prassi.
Il problema degl'intellettuali era un problema con cui, come si è detto, il movimento operaio e i partiti socialisti avevano sempre dovuto fare molto seriamente, e talora con asprezza, i conti. Inoltre, intorno al problema la discussione non era mai stata così fervida come negli anni in cui Gramsci aveva deciso di farne uno dei temi principali, se non il principale, com'è stato da qualcuno osservato, delle sue riflessioni in carcere: erano gli anni della denuncia di Benda, delle proposte di Mannheim, dei diverbi intorno alla funzione dell'intellighenzia rivoluzionaria, iniziata l'era dell'ordine staliniano. Gramsci in fondo riprendeva il tema tradizionale nella storia del movimento operaio dell'indissolubilità e dell'inscindibilità di impegno politico e di impegno culturale.
Se la guerra mondiale, che poteva essere interpretata come una lotta fra opposte ragioni di Stato, aveva esaltato la figura dell'intellettuale indipendente, e celebrato il principio etico dello stare al di sopra della mischia, la Rivoluzione russa, che poteva essere interpretata al contrario come la lotta della libertà contro l'oppressione, della giustizia contro l'iniquità, in una parola del bene contro il male, aveva esaltato la figura dell'intellettuale impegnato, partecipe, partigiano, che doveva scegliere una parte (ed era una scelta obbligata), entrare coraggiosamente e disciplinatamente (altro che indipendenza!) nella mischia. Ma come la figura dell'intellettuale indipendente aveva due facce, una buona, l'altra cattiva, secondoché l'indipendenza fosse intesa come un porsi al di sopra della mischia per trovare una soluzione più adeguata al conflitto, oppure come un porsi al di fuori della mischia in un atteggiamento d'aristocratica indifferenza rispetto al dramma della storia (i ‟cinquecento bruti morti brutalmente" di Andrea Sperelli), così ha sempre avuto due facce anche la figura dell'intellettuale impegnato: da un lato l'avanguardia delle masse in cammino, dall'altro lato lo zelante portavoce delle direttive del partito.
Che la rivoluzione dovesse essere guidata da uomini illuminati era un'idea che veniva da lontano, ed era destinata ad attraversare, talora dissimulata ma non mai definitivamente rinnegata, tutta la storia del movimento operaio. Il teorico e storico della prima fallita rivoluzione egualitaria, Filippo Buonarroti, giustifica la presa del potere e la dittatura di un manipolo di ‟saggi" perché prima della trasformazione della società, che solo i saggi con una forma dittatoriale di governo (vero e proprio esempio di dispotismo illuminato) possono imporre, ‟il popolo non può nè percepire nè dichiarare la volontà generale". Quando Marx in un articolo giovanile enunciò le sue celebri tesi che ‟la teoria diventa potenza materiale non appena s'impadronisce delle masse", che ‟la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali così come il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali", che ‟il cervello dell'emancipazione umana è la filosofia, il suo cuore il proletariato", che ‟la filosofia non può realizzarsi senza la soppress'ione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia", pone le premesse e propone l'ideale di quell'identità di teoria e prassi, di intelligenza che interpreta il mondo e di azione che lo trasforma, di intellettuale e politico (purché si tratti dell'intellettuale radicale e del politico rivoluzionario), che sarà una delle idee-forza del movimento operaio. In questo senso la Rivoluzione bolscevica potra essere chiamata una rivoluzione d'intellettuali (e di fatto la maggior parte della classe dirigente del gruppo bolscevico è composta da membri dell'intellighenzia). Anche la Rivoluzione del 1848, è vero, era stata chiamata una rivoluzione d'intellettuali (dal Namier), ma col preciso intento di mostrare che quando una rivoluzione è fatta dagli intellettuali è destinata a fallire. Si sarebbe detto al contrario che la Rivoluzione dei bolscevichi era riuscita perché aveva avverato la profezia di Marx che ‟la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse". Ma questa teoria non era la filosofia o la scienza di Marx? Mai prima d'allora un grande fatto storico erà stato giudicato come fu giudicata la Rivoluzione russa, non soltanto in base alle conseguenze, ma in base ai principi: com'è ben noto, i vari movimenti socialisti si spaccarono sul giudizio che si doveva dare della Rivoluzione, e la battaglia fra l'ala sinistra che inneggiava a Lenin e l'ala destra che lo ripudiava fu condotta coi testi di Marx alla mano. Lenin era un fedele interprete o un corruttore di Marx? la Rivoluzione bolscevica era una rivoluzione marxista? Per la prima volta un grande rivolgimento non solo nelle coscienze, com'era stata la Riforma, ma nelle istituzioni, nei rapporti concreti fra gli uomini, veniva rappresentato come l'incontro fra il ‛cuore' che pulsa e spinge all'azione e il ‛cervello' (la filosofia appunto) che la dirige.
La rivoluzione come fatto totale richiede un impegno totale. Come la prima guerra mondiale era stata il banco di prova dell'intellettuale puro, così la Rivoluzione bolscevica fu il banco di prova di quest'altro modo d'intendere la funzione dell'intellettuale, per cui l'impegno culturale non può andare disgiunto dall'impegno politico e in caso di conflitto il secondo deve prendere il sopravvento sul primo (ma proprio in questa soluzione si scopre che anche quest'atteggiamento ha il suo aspetto negativo). Chi intese la funzione in questo modo non poteva non scontrarsi duramente con gl'intellettuali che ritenevano, con l'autore della Trahison, il loro regno non essere di questo mondo. Nello stesso anno in cui Benda pubblicava il suo libro, P. Nizan si iscriveva al Partito Comunista Francese, e con quel fare aggressivo del giovane sicuro di sé, con quel tono arrogante di chi ha trovato la propria strada, pubblica qualche anno dopo (1932) Les chiens de garde, un libello diretto prevalentemente contro i filosofi della Sorbona e gl'intellettuali alla Benda, che accusa di essere, per l'appunto, i ‟cani da guardia" della classe al potere con il loro spiritualismo insulso, con la pretesa di essere al di sopra delle classi, mentre ‟la vera natura della filosofia, come d'ogni altra attività umana, è di essere al servizio di certe persone e dei loro interessi", con la loro presunzione di non aver scelto alcuna parte mentre stanno comodamente dalla parte dei padroni. Si tratta invece per il neofita comunista di scegliere consapevolmente una parte e questa parte non può essere che quella degli oppressi, dei diseredati, dei derelitti. Con una dichiarazione che si può erigere a formula tanto è esemplare, egli scrive: ‟Il tipo verso cui tende la filosofia degli sfruttati è quello del rivoluzionario di professione descritto da Lenin". Che poi Nizan dopo il patto fra Hitler e Stalin abbia abbandonato il partito, abbia detto pubblicamente che Stalin gli faceva schifo, abbia scritto prima di morire in guerra ‟il solo onore che ci resta è quello dell'intelletto" (una frase che sembra scritta da Benda), è un'altra storia, anche questa esemplare, se pure in altro contesto, perché dimostra quanto sia ambiguo il ‛mestiere' dell'intellettuale e difficile la presa di coscienza non distorta di quel che sia il diverso compito, secondo i tempi e le circostanze, del chierico.
8. Tradimento o diserzione?
È un compito che si muove continuamente fra la fedeltà ai valori ultimi, donde viene l'accusa di tradimento nei riguardi di chi prende troppo sul serio la lotta per la loro attuazione, e l'esigenza di mutare il mondo, donde viene l'accusa di diserzione verso chi si rifugia in sterili professioni di fede. Tradire significa scegliere la parte sbagliata, disertare significa non scegliere la parte giusta; se passi al nemico, tradisci; se abbandoni l'amico, diserti. Ma qual è la parte giusta e quella sbagliata? chi è l'amico, chi il nemico? Nel rapporto teso, drammatico, lacerante, fra tradimento e diserzione, risiede l'ambiguità del problema e la difficoltà della soluzione. A Nizan che accusa Benda di essere un disertore perché non ha scelto una parte, potrebbe Benda rispondere che lui, Nizan, è un traditore perché ha scelto una parte soltanto? Oppure si dovrà dire che Benda, nel momento in cui entra in campo contro il fascismo e il nazismo, in difesa dei rivoluzionari spagnoli, e fa l'elogio della democrazia, diventa egli stesso un traditore? e Nizan, nel momento in cui abbandona il partito e rende omaggio all'onore dell'intelletto, diventa egli stesso un disertore? Queste domande servono soltanto a far capire che il problema è complesso e per risolverlo sono da evitare le facili generalizzazioni.
In un periodo più vicino nel tempo e che molti di coloro che continuano a scrivere intorno al problema degli intellettuali hanno vissuto, le stesse persone possono aver rappresentato in due momenti successivi i due ruoli, senza sentirsi in contraddizione con se stessi. Il ruolo dell'intellettuale militante, che tradisce l'ideale della cultura disinteressata per non disertare, è impersonato mirabilmente dal giovane letterato Giaime Pintor, traduttore di Rilke, che nell'ultima lettera prima di compiere un'azione di guerra partigiana che lo condurrà alla morte scrive le memorabili parole: ‟Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte" (Il sangue d'Europa, Torino 1950, p. 247). Ma la Storia, la vichiana Provvidenza, mette sempre i poeti e i pittori in grado di sapere quale sia la loro parte? Alcuni anni dopo, di fronte al flagello della guerra fredda che metteva l'uno contro l'altro non virtù contro furore ma due furori eguali e contrari, qual era la parte giusta? Poté sembrare allora a qualcuno, per il quale era meglio correre il rischio di essere accusati di diserzione piuttosto che di tradimento, che l'uomo di cultura dovesse evitare di porre le domande in forma di aut aut perché ‟al di là del dovere di entrare nella lotta, c'è [...] il diritto di non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione". Siffatto atteggiamento, che segnava il passaggio dall'intellettuale impegnato all'intellettuale indipendente, era stato per così dire anticipato e preparato, reso quasi inevitabile, dall'esperienza altrettanto esemplare de ‟Il politecnico" di E. Vittorini. A nome di tutti coloro cui il regime fascista non aveva lasciato altra via d'uscita che il servizio o l'evasione (nell'arte per l'arte o nell'erudizione per l'erudizione), nella presentazione della rivista (settembre 1945) invocava una cultura che sapesse proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo, e riaccendeva le speranze, non mai spente, nel filosofo- re annunciando che la cultura avrebbe dovuto ‟prendere il potere". Dopo pochi mesi (nel maggio 1946), a una critica ideologica rivoltagli dal Partito Comunista rispose con la Lettera a Togliatti negando che il ruolo dell'intellettuale rivoluzionario fosse di suonare il piffero della rivoluzione e rivendicando per esso il diritto di ‟porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone". Era un modo di dire ancora una volta che anche gl'intellettuali fanno politica, ma che la loro politica è ‛diversa' da quella dei politici puri.
9. L'antintellettualismo
L'intellettuale politico e l'intellettuale puro rappresentano due modelli positivi, anche se spesso l'uno è negativo per l'altro. Ma il termine ‛intellettuale' è, come ho già detto, assiologicamente ambivalente. Dietro la figura dell'intellettuale-guida compare sempre la controfigura del tentatore, del corruttore, del falso pedagogo, del falso profeta, del demagogo; dietro la figura dell'intellettuale-custode dei valori eterni, la controfigura dell'inetto, del pavido, del decadente se non addirittura del parassita. Ho accennato al ruolo positivo dell'intellettuale nella tradizione socialista: eppure non è da dimenticare che negli stessi anni in cui Lenin affermava che al movimento operaio la coscienza doveva essere portata dall'esterno, Sorel, che aveva percorso un lungo cammino, attraverso il marxismo ma aveva anche respirato l'aria pungente dell'antintellettualismo bergsoniano, non perdeva occasione per mostrare il proprio disprezzo per gli intellettuali di cui diceva che ‟non sono, come si dice spesso, gli uomini che pensano: sono coloro che fanno professione di pensare e che prelevano un salario aristocratico in ragione della nobiltà di tale professione". Lo seguiva il suo fedele discepolo, E. Berth, che pubblicava nel 1913 con una introduzione del maestro un mediocre libello antidemocratico, Les méfaits des intellectuels. Ho pure ricordato il Manifesto dei dreyfusardi; eppure non tardarono a farsi sentire le critiche feroci di Barrès che paragonò i firmatari ai porcellini d'India cui gli scienziati del laboratorio Pasteur inoculavano artificialmente la rabbia, o quelle sprezzanti di M. Paléologue che li accusò di presentarsi come una casta nobiliare al di sopra del volgo.
La tipologia dell'antintellettuale è ricchissima e più volte fatta e rifatta. Può essere utile distinguere l'antintellettualismo degli stessi intellettuali da quello dei non-intellettuali. Nel primo non rientra tanto la polemica fra intellettuali che intendono diversamente il loro ruolo, e di cui ho dato esempi sinora, quanto il rifiuto di chi, pur essendo sociologicamente un intellettuale, non si riconosce in nessuno di questi ruoli, e quindi rifiuta o sconfessa il ruolo che gli viene attribuito, e che identifica di solito con quello di una professione come tutte le altre, o con un servizio reso al potente, o con una missione di cui la futura società di massa non ha più bisogno. Questo atteggiamento di automortificazione è una risposta all'atteggiamento opposto di autoesaltazione che da Platone in poi contraddistingue il veggente che aiuta gli altri uomini a uscire dalla caverna (pur sapendo che la massa sarà destinata a restarci). E può a sua volta assumere due aspetti diversi secondoché la scomparsa dell'intellettuale sia considerata una necessità o una calamità. Chi la considera necessaria se ne compiace e giunge sino a evocare il suicidio dell'intellettuale, ovvero ad affermare che chi ha avuto il privilegio di un'educazione superiore che gli ha permesso di riflettere sulle miserie e sulle sofferenze dei dannati della terra, non di viverle, ha il dovere di rientrare nella massa donde uscirà rigenerato, di compiere una vera e propria metanoia attraverso la scoperta dell'uomo nuovo, di annullarsi per risorgere. Chi invece vede nella scomparsa dell'intellettuale un segno della degenerazione spirituale cui è avviata inesorabilmente una società sempre più plebea, volgare e livellata, lamenta la morte dell'intellettuale, sia essa naturale o violenta (ma per mano altrui), e introduce un concetto caratteristico della cosiddetta letteratura della crisi, il concetto del tramonto o dell'eclissi o del declino dell'intellettuale: in questo caso l'antintellettualismo non è una presa di posizione ma un'amara constatazione, o una profezia, e induce all'autocommiserazione piuttosto che all'autodenigrazione.
Quanto alla casistica dell'antintellettualismo dei non intellettuali, essa è tanto ampia da non poter essere riassunta in poche pagine. Ne dà numerosi esempi il libro di R. Hofstadter, Anti-intellectualism in American life (1964) che, pur prendendo lo spunto dall'America degli anni del maccartismo, svolge con un'ampia documentazione storica il tema del conflitto permanente fra l'uomo pratico che ha i piedi per terra e l'idealista nelle nuvole, o per usare i termini dello stesso autore, fra i fatheads (teste dure) e gli eggheads (teste d'uovo). In quanto l'uomo pratico, sia esso uomo d'affari o politico, si autodefinisce e si autoesalta come un realizzatore o come un costruttore, i rimproveri che muove all'intellettuale si possono riassumere nei due seguenti: a) nonostante la sua arroganza, colui che vive immerso nel mondo delle idee astratte non riesce a dare alcun contributo utile a chi deve risolvere problemi vitali giorno per giorno; b) a causa del suo spirito critico, del suo gusto delle idee radicali, dà un contributo, sì, ma è un contributo negativo, distruttivo, eversivo, che incoraggia la disperazione o la rivolta. Nel primo caso è un chiacchierone, un inconcludente, un perditempo, uno che spacca il capello in quattro e non riesce più a ricomporlo e discute sul sesso degli angeli mentre il nemico è alle porte (il bizantino); nel secondo, il nichilista, lo spirito della disgregazione, l'istigatore irresponsabile di tutti i fanatici, il tarlo corrosivo di ogni ben costrutto sistema sociale, o, con altra metafora che piaceva a Hegel e a Marx, la talpa che scava sottoterra la galleria che la porterà quando sarà venuto il momento alla luce del sole. All'accusa di inconcludenza l'intellettuale ha sempre risposto e continuerà a rispondere che le idee danno frutti a tempi lunghi, che non coincidono coi tempi delle azioni dei politici, e segnano le stagioni decisive della storia, la grandezza e la decadenza delle nazioni, più che le guerre e le rivoluzioni; all'accusa di nichilismo, che le opere degli uomini d'azione, le guerre e le rivoluzioni appunto, hanno sinora, per riprendere rovesciandola la celebre tesi di Marx su Feuerbach, distrutto il mondo e ora si tratta di costruirlo e per costruirlo bisogna prima comprenderlo. Ma il contrasto è insanabile.
Il contrasto è insanabile perché corrisponde a due esigenze contrarie ed entrambe insopprimibili, l'esigenza del viver bene (Aristotele) e quella della sopravvivenza, a due immagini dell'uomo, l'homo sapiens e l'homo faber, a due etiche, l'etica del dovere per il dovere e l'etica del successo, a due modi di fare politica, la politica come perseguimento del bene comune e la politica come dominio dell'uomo sull'uomo, alla presenza contemporanea delle due città, la città di Dio e la città degli uomini, o, in linguaggio kantiano, la comunità degli esseri ragionevoli e lo Stato che non può fare a meno della coazione per ottenere ubbidienza alle proprie leggi. S'illudono coloro che credono di superarlo cancellando dalla storia l'uno o l'altro dei due termini o vagheggiando un non meglio definito regno della libertà o dando la loro opera a creare l'onnipotente Leviatano. Le due città esistono, o almeno sinora sono esistite, e convivono, anzi debbono convivere: lo stilita non potrebbe continuare a pregare nel deserto per la salvezza degli altri uomini se di tanto in tanto il contadino non gli portasse i frutti della sua fatica, e il ‛bestione' non sarebbe mai uscito dal suo ‛divagamento fermo', se un bel giorno non avesse piegato atterrito la fronte al fulmine di Giove. Rari, rarissimi, sono i momenti nella vita di un individuo o nella storia di un popolo in cui sembra le due esigenze non siano più incompatibili. Generalmente il contrasto è superato perché l'una dimentica l'altra; chi vive secondo i principi non si preoccupa delle conseguenze e così può accadere che la sua azione sia nobile ma sterile; chi agisce tenendo conto soltanto delle conseguenze, non si preoccupa dei principî, e così può accadere che la sua azione sia efficace ma ignobile. Il contrasto non dipende dall'arbitrio degli uni o degli altri ma dalla natura dei fini che entrambi perseguono, e dalla incompatibilità dei mezzi di cui si debbono valere per raggiungerli. Per questo il contrasto può essere di volta in volta composto, mai definitivamente superato. E sino a che il contrasto esisterà, si continuerà a discutere del problema degl'intellettuali.
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