intelligenza (intelligenzia)
Con questo termine, di largo uso nella filosofia del XIII secolo, D. intende principalmente le i. angeliche o celesti (i. celestiali, in Cv II X 11), motrici dei singoli cieli. In Cv II Voi che 'ntendendo il poeta si richiama fin dall'inizio alla dottrina delle i. motrici, esplicata più chiaramente e, in buona forma scolastica, nel commento (cfr. II II 7 ne la quale s'inducono a udire ciò che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo di Venere, sì come movitori di quello), con la dichiarata accettazione della identità di tali i. con gli angeli della tradizione ebraico-cristiana (cfr. Angelo; in Cv III XIII 2 le i. in essilio e infernali sono gli angeli ribelli). In Cv II IV 2 ss., la natura delle i. e il loro carattere di sostanze separate da materia (in III XIII 5 e 7 parla di intelligenze separate) è oggetto di una concisa ma esauriente definizione, condotta sulla linea di concetti comunemente accolti dalla scolastica occidentale: È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [i cieli] sono sostanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli; né D. manca di alludere alla dottrina aristotelica delle i. motrici (E di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. Furono certi filosofi, de' quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica [Metaph. XII 8] (avvegna che nel primo di Cielo [Cael. I 9] incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più, dicendo che l'altre sarebbero state etternalmente indarno, santa operazione; ch'era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione, Cv II IV 3), o alla supposta identificazione platonica tra le i. e le idee (cfr. § 4-5). Inoltre l'autore del Convivio ricorda che li gentili... avvegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, chiamarono Dei e Dee quelle i., ne adorarono le immagini, elevarono a esse grandissimi templi (Cv II IV 6), ricordando così la stretta connessione, il lungo legame storico tra la concezione delle i. motrici, alcuni temi centrali della tradizione astrologica e gli antichissimi culti astrali (e cfr., ad es., il De Mundo, allora attribuito ad Aristotele [2, 391b 7]: " il cielo è pieno di corpi divini che chiamano astri ").
In che modo le i. svolgano il loro compito di principi motori dei cieli è poi spiegato da D. in un altro passo del Convivio (III XIV 4) dove s'illustra il processo della ‛ discesa ' della ‛ virtù divina ' dal Primo Agente alle cose generate, per il tramite appunto delle i.: Ove... è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce santa mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. Ma il testo più significativo per illustrare la concezione dantesca delle i. e il posto che il poeta ha loro attribuito nella sua visione cosmica, è piuttosto quello di Cv III VI 4-6 (ma cfr. anche III XIII, dove il termine è ai §§ 3, 5, 7 e 8), molto discusso dai vari interpreti: E dico che le Intelligenze del cielo la mirano... E qui è da sapere che ciascuno Intelletto di sopra, secondo ch'è scritto nel libro de le Cagioni [cfr. Liber de Causis, prop. 8-9], conosce quello che è sopra sé e quello che è sotto sé. Conosce adunque Iddio sì come sua cagione, conosce quello che è sotto sé si come suo effetto; e però che Dio è universalissima cagione di tutte le cose, conoscendo lui, tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo de la Intelligenza. Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana in quanto ella è per intenzione regolata ne la divina mente; e massimamente conoscono quella le Intelligenze motrici, però che sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata... tanto quanto essere puote, si come loro regola ed essemplo. E se essa umana forma, essemplata e individuata, non è perfetta, non è manco de lo detto essemplo, ma de la materia la quale individua. Però quando dico: ‛ Ogni intelletto di là su la mira ', non voglio altro dire se non ch'ella è così fatta come l'essemplo intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente e, per quella, in tutte l'altre, massimamente in quelle menti angeliche che fabbricano col cielo queste cose di qua giuso.
Queste parole, che ripetono con notevole fedeltà i passi corrispondenti di un'opera così citata dai maestri del XIII secolo, quale lo pseudo-aristotelico Liber de causis (v.) ben noto ad Alberto Magno (cfr. De Causis et processu universitatis, in Opera, ediz. Jammy, t. V) e a Tommaso d'Aquino (cfr. In librum de causis eXpositio, ediz. H.D. Saffrey, Friburgo-Lovanio 1954), mostrano come D. concepisca le i. come pure forme immateriali e intellettive intermediarie tra il Dio creatore e l'ordine delle cose mondane. Perciò esse conoscono la ‛ forma ' umana in due modi diversi, e anzitutto in sé stesse, in quanto conoscono Dio come cagione o causa ‛ universalissima ' di tutte le cose. La luce divina, che .è causa del loro essere, permette loro infatti di scorgere in quella stessa luce che è causa del loro essere la ‛ forma generale ' e l'essemplo intenzionale... de l'umana essenzia. Però questo modo di conoscenza è proprio di tutte le essenze separate e non soltanto delle i. motrici; e, quindi, esse conoscono la ‛ forma ' o ‛ specie ' umana in maniera particolare in quanto sono spezialissime cagioni di quella, e cioè in quanto contribuiscono, come cause intermediarie, all'opera della causa divina, e fabbricano col cielo queste cose di quagiuso (cfr. per questo Cv IV XXI 5 e 8 e, per l'infusione dell'amore, II VIII 4), limitando e individuando la forma generale che scorgono nella luce divina nell'atto stesso in cui essa le crea. Le i. motrici conoscono dunque le cose prodotte " in quanto esse le producono intellettualmente " (Nardi); e la ragione della loro conoscenza è questa attività produttiva di carattere intellettivo. Tale concezione sembra inoltre confermata da Cv III VII 6 (E però che ne l'ordine intellettuale de l'universo si sale e discende per gradi quasi continui da la infima forma a l'altissima [e da l'altissima] a la infima, sì come vedemo ne l'ordine sensibile; e tra l'angelica natura, che è cosa intellettuale, e l'anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l'uno a l'altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di si bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia; e così è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo: altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte, che esser non può), che sottolinea la continuità dell'ordine cosmico e la funzione intermediaria delle i. (e cfr. anche Cv III II 14 [sempiterna intelligenzia], XII 13, XIII 1, Pd II 136, XXVIII 78).
Il tenore dei passi citati e, in particolare, l'ampio richiamo al Liber de causis (di cui è indiscutibile la sostanziale dipendenza da un tipico testo neoplatonico quale la Στοιχείωσις θεολογική di Proclo), hanno indotto vari studiosi, tra i quali principalmente il Sauter, il Krebs, il Nardi e più di recente il Palgen, a battere sull'ispirazione neoplatonizzante della concezione dantesca delle i. riconoscendovi la presenza determinante di un'idea dell'universo scandita secondo una rigorosa gerarchia di esseri e di cause. E in particolare il Nardi, discutendo il significato delle citazioni dantesche del De Causis, ha indicato in esse la testimonianza di un influsso neoplatonico alimentato anche dalle suggestioni dei commenti albertisti. Tale interpretazione è però nettamente respinta dal Busnelli il quale, senza tuttavia addurre prove precise, ritiene che l'influsso del Liber de causis su D. sia stato mediato dall'interpretazione del commento tomista che avrebbe orientato il poeta verso una lettura perfettamente u ortodossa ". Comunque, anche questo argomento rientra nel più vasto problema di uno studio preciso ed esauriente dei rapporti tra D. e la tradizione platonica e neoplatonica medievale; problema che è ben lungi dall'essere stato definitivamente risolto.
Il termine i. torna, inoltre, ma nel significato di una particolare funzione o attività dell'anima umana, in Vn XLI 8 e 10 3, Cv II XIII 5, Pg XXV 83, Pd I 119.
Bibl. - C. Sauter, D. und der " Liber de causis ", in " Historischpolitische Blätter für das katholische Deutschland " CXLVII (1911) 81-91, 161-169; E. Krebs, Scholastisches zur Lösung von Danteproblemen, Colonia 1913, 35-55; R. Palgen, D. und Plotin, Vienna 1950 (Anzeiger der philosophisch-historischen klasse der Oesterr. Akademie der Wissenschaften, 1949, 527-534); ID., Werden und Wesen der Komödie D.s, Graz-Vienna-Colonia 1955; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 99-102.