intenzionalita
Riprendendo l’uso del termine lat. intentio (➔ intenzione) invalso nel neoplatonismo arabo e nella gnoseologia aristotelico-scolastica (a indicare sia l’atto conoscitivo con cui il soggetto tende verso un oggetto, sia l’immagine o forma dell’oggetto conosciuto nel soggetto conoscente), Brentano e Husserl hanno parlato di i. come quel carattere per cui un fatto di coscienza (come ‘credere’, ‘desiderare’, ‘aspettarsi’, ecc.) tende verso qualcosa di altro da sé, è ‘coscienza di’ qualche cosa, vi si riferisce, pur non essendo tale cosa necessariamente reale o esistente, dato che la mente può riferirsi a oggetti non esistenti o non localizzabili esternamente (per es., quelli delle allucinazioni, dei sogni, della finzione letteraria o dell’utopia politica). L’i. riguarda pertanto quell’ampia gamma di stati mentali che posseggono un contenuto concettuale, dato che non si può credere senza che vi sia un creduto o sperare senza che vi sia uno sperato. Mentre però Brentano considerava l’i. come il carattere essenziale di tutti i fenomeni psichici, Husserl, sotto l’influenza di Bolzano e Frege, sottraeva l’i. all’ambito dell’esperienza psichica portandola in quello della pura validità logico-oggettiva. Riproposta sulla scena filosofica tra gli anni Cinquanta e Sessanta del sec. 20°, quando la critica al comportamentismo in psicologia (e al positivismo logico che lo giustificava sul piano epistemologico) favorì un orientamento che avrebbe poi imposto il paradigma cognitivista nelle scienze umane, la questione dell’i. fu inizialmente discussa sul piano linguistico, in partic. da Chisholm, secondo cui ogni uso di segni presuppone qualche stato intenzionale. Negli anni Ottanta del 20° sec. l’i. ha ricevuto una rinnovata attenzione da parte di quanti, nell’ambito della filosofia della mente, hanno cercato una via d’uscita dalle pastoie della prevalente teoria dell’identità mente-cervello. In tale prospettiva, tra le riflessioni di maggiore rilievo si possono annoverare quelle di J. R. Searle e Dennett.