intenzione
Dal lat. intentio «atto di tendere verso un oggetto», quindi l’atto dell’intelletto teso a comprendere l’oggetto o quello della volontà teso a ordinare l’azione a uno scopo; nelle traduzioni arabo-latine e nei testi medievali che ne dipendono corrisponde ad almeno due termini arabi: ma‛qūl – che vale letteralmente «intelligibile» e – ma‛nā – «significato» o appunto «intenzione». La progressiva specializzazione semantica del termine, che va differenziandosi da intensio, con cui si indicherà un aspetto quantitativo di intensità (e a partire da Leibniz la modalità opposta all’estensione di un concetto), permette di distinguere almeno tre ambiti di utilizzo: gnoseologico, logico, etico.
Il termine intentio assume uno specifico significato tecnico con le traduzioni latine degli scritti di tradizione aristotelica, e in partic. con le traduzioni delle opere avicenniane. In senso tecnico (il termine può infatti avere anche il senso generico di ‘cosa’), Avicenna utilizza il termine ma‛nā, tradotto per lo più dal latino intentio, in due distinte accezioni. Nella prima esso indica – nel De anima – il contenuto non sensibile di una percezione sensibile, per es. l’aggressività che l’agnello avverte alla vista del lupo, contenuto che, se non è come tale veicolato da un elemento particolare della percezione sensibile, è colto nel suo insieme dalla facoltà estimativa. Accanto alla percezione sensibile del lupo (nella forma cui accede con i cinque sensi esterni e i sensi interni), l’agnello ha insomma una percezione del ‘significato’ di essa, e cioè del fatto che si tratta di un animale pericoloso e da cui è opportuno fuggire. Nella seconda accezione, intentio indica, nella Logica e nella Metafisica, sia la forma intelligibile universale (ma‛qūl), distinta da quella sensibile, sia il contenuto concettuale che, corrispondendo all’essenza della cosa, va inteso in senso assoluto, al di là di una qualunque determinazione quantitativa (non è né universale né particolare). Ai significati di derivazione avicenniana va poi ad accostarsi l’uso del termine rintracciabile in Averroè che intende intentio come il contenuto appreso dalle diverse facoltà conoscitive. Tratto distintivo della riflessione latina medievale – e in parte della stessa riflessione di lingua araba che la influenza – è l’attenzione all’atto noetico prima che alla rappresentazione che ne consegue. Su questa linea si pone Tommaso d’Aquino che – tra l’altro consapevole dell’equivocità che va attribuita alla voce – intende l’intentio come il termine del processo conoscitivo (il concetto universale propriamente detto) e la species come il suo principio e inizio. Il phantasma, illuminato, dà luogo alla species intelligibilis o species impressa che, rispecchiando la realtà esterna (è una similitudo rei extra), contiene ciò che c’è di universale e quindi in fondo di conoscibile nella cosa; è in relazione alla species impressa che è nell’intelletto possibile che questo stesso intelletto possibile forma poi una species expressa o un verbum mentis e cioè l’intentio. In quanto è termine del processo conoscitivo, l’intentio è per altro ciò grazie a cui si conosce, e non ciò che è in effetti conosciuto (è id quo intelligitur e non id quod intelligitur) e cioè l’oggetto. In tal senso, l’oggetto conosciuto non è presente come tale all’intelletto, e lo è piuttosto intenzionalmente, attraverso la species. A costituire lo sfondo di tale concezione è la dottrina della verità come corrispondenza; la verità è cioè intesa come adaequatio intellectus et rei, secondo una formula che Tommaso attribuisce a Isaac Israeli ma che corrisponde, invece, a un passaggio della versione latina della Metafisica di Avicenna (I, 8. Nel testo arabo, tuttavia, in luogo di ‛aql «intelletto», si ha ‛aqd : «nesso»). In tal senso, viene sottolineato il legame tra noetica e ontologia: l’atto del pensiero si definisce e ha senso soltanto in relazione all’essere. La filosofia moderna, in virtù di quel processo di ripensamento del rapporto tra soggetto e oggetto del conoscere che ha un suo momento centrale nel cogito cartesiano, perde tale relazionalità, insistendo sulla problematicità del rapporto tra species e res, in parte già sottolineata, per altro, dagli autori del tardo Medioevo – Durando di S. Porciano, Pietro Aureolo, Guglielmo di Occam – i quali misero in dubbio la necessità di supporre la species per spiegare la conoscenza. Il termine intentio viene poi recuperato da Brentano, che lo utilizza per esprimere le diverse modalità con le quali l’oggetto – che può venire rappresentato, affermato o negato, amato o odiato – si presenta alla coscienza (cfr. La psicologia dal punto di vista empirico, 1874; La classificazione dei fenomeni psichici, 1911). Prendendo le mosse da Brentano, Husserl farà dell’i. (Intention) il perno della propria teoria volta a ristabilire la relazionalità tra soggetto ed essere. L’intenzionalità, che indica la diversità dei modi di percezione dell’oggetto, diviene così la caratteristica fondamentale delle esperienze vissute della coscienza (cfr. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, 1913).
Connesso con quello gnoseologico, ma non a esso riducibile, è l’uso del termine nella logica medievale. Nei testi di logica intentio interessa in genere il rapporto tra la res e l’intelletto. Testo di riferimento è il Prologo dell’Isagoge di Porfirio che, ponendo la questione dell’esistenza delle forme universali senza però assumere una posizione a riguardo, scatena la disputa degli universali che si può dire percorra l’intero pensiero medievale. Al di là delle varie soluzioni adottate, la logica scolastica distingue le «i. prime» (primae intentiones), nozioni cui corrispondono cose che hanno un’esistenza extramentale (‘animale’, ‘uomo’, ecc.), e le «i. seconde» (secundae intentiones) che sono nozioni di nozioni (per es., soggetto, predicato), riflettono un atto dell’intelletto sul suo proprio pensare, hanno un’esistenza meramente «intenzionale» o mentale e sono il soggetto o oggetto proprio della logica. Nella riflessione scolastica, dunque, si distingue tra un primo livello di conoscenza intellettuale, che è quello della corrispondenza con la realtà, e un secondo livello, che è quello del tutto mentale o intellettuale della logica. La fonte di tale distinzione è ancora nei testi avicenniani: nel commento all’Isagoge si legge che la logica differisce dalle altre scienze, perché considera le proprietà che appartengono a una quiddità in quanto concepita nella mente; nella Metafisica (I, 2) il soggetto della logica è identificato nelle intentiones intellectae secundae che si fondano sulle intentiones intellectae primae. Di rilievo è poi la discussione sullo statuto ontologico delle i. seconde sviluppatasi tra il sec. 13° e il 14°. Decisiva in questo senso sarà la teoria della significazione (impositio) che ha in Guglielmo di Occam un momento centrale. Collegando il nome alla intentio, Occam distingue, infatti, i nomi di «seconda imposizione» (i nomi di nomi o le loro proprietà) da quelli di «prima imposizione»; questi sono a loro volta distinti in nomi di «prima i.» che significano le cose stesse (le quali hanno un’esistenza extramentale, per es., ‘uomo’) e nomi di «seconda i.» (per es., ‘specie’). Questi ultimi significano i concetti che hanno esistenza soltanto nella mente. In questo senso, l’i. rappresenta un segno che sta per una classe di oggetti; un oggetto è quindi sostituito dal concetto ogni volta che entri in gioco in un giudizio o in un ragionamento.
In ambito etico l’i. rimanda all’intenzionalità, ossia al rapporto della volontà con il fine. Per Abelardo l’i. in quanto orientamento della volontà determina la qualifica morale dell’atto: un atto non è peccaminoso se procede da una buona i., che è però tale in sé stessa, ossia in rapporto a Dio, e non soggettivamente (Conosci te stesso, Scito te ipsum). In Tommaso d’Aquino e nella filosofia tomista il termine viene utilizzato nel dar conto dell’atto umano volontario, a indicare il momento della decisione che muove ad agire, correlando il fine con i mezzi. L’intentio finis costituisce l’atto della volontà, che suppone una conoscenza del fine differente nei diversi enti: così la conoscenza razionale umana determina l’implicazione morale dell’atto. In tal senso, l’i. non è rintracciabile nell’etica aristotelica dove l’atto non viene esaminato in base al suo fine, ma in base al suo movente. Grandissimo rilievo all’i. nell’atto morale è dato anche da Kant nella Critica della ragion pratica.