intercalari
Si indicano come intercalari quelle sequenze (di varia natura, costituite come sono da parole o espressioni) che il parlante inserisce qua e là nel discorso, come personali forme di routine e in modo per lo più irriflesso, per punteggiare espressivamente il discorso stesso. Gli intercalari non hanno una specifica funzione nella strutturazione del testo né trasmettono precisi contenuti semantici: proprio per questo, possono ricorrere più volte in una stessa enunciazione come veri e propri tic.
Alcuni esempi registrati da interazioni reali:
(1) ogni dito del piede ha è vero tre ossa, le falangi, a eccezione dell’alluce che ne ha due; le falangi sono unite è vero da articolazioni a cerniera mosse dai tendini che flettono o estendono è vero il dito
(2) in agosto niente è venuta da me al mare e niente mi ha fatto perdere un sacco di tempo, niente volevo dirtelo
(3) capirai che io poi cazzo, che me ne frega no, voglio dire cazzo me ne sto per i fatti miei, cazzo
Per il loro carattere fortemente personale non sembra opportuno considerare gli intercalari (che Simone 1990: 242 pone tra i «frammenti di enunciato») come una categoria a sé: sono elementi di varia natura (nomi, avverbi, ecc.) che vengono volti a un uso ricorrente d’altro segno.
Tale uso interessa particolarmente i ➔ segnali discorsivi, la cui occorrenza come intercalari (privati cioè delle funzioni interattive e metatestuali che sono loro proprie: Bazzanella 1994 e 1995) va riconosciuta di volta in volta. Tra i segnali discorsivi usati come intercalari si possono citare: (è) vero, sai (o sapete), no?, (va) bene (o vabbe’), chiaro, così, ecco, cioè, insomma, nevvero, non so, come dire, voglio dire, ti dico, per così dire, diciamo(lo), fammi capire, guarda (o guardi), vedi (o veda), praticamente, tipo, un attimino, uhm, ehm, mhm.
È facile rilevare inoltre che spesso sono usate come intercalari ➔ interiezioni costituite da ➔ parole oscene o comunque colpite da tabu (➔ tabu linguistico), più o meno eufemizzate e desemantizzate, spesso marcate regionalmente (cazzo, belìn, minchia, socmèl, pota, diofà, maremma: vedi oltre).
L’uso di intercalari è frequente nel parlato, sia monologico sia dialogico (➔ lingua parlata), e può provenire da parlanti incolti non meno che colti, più spesso in situazioni informali (esempi 2 e 3), ma, non di rado, in quanto tic, anche formali (lezioni, conferenze, interviste: es. 1). La loro presenza sembra in ogni caso contribuire ad alcuni aspetti tipici del parlato, quali la frammentarietà e la scarsa progettazione (Berruto 1985; Berretta 1994); essa corrisponde inoltre ad altri fattori del parlato, quale il riferimento al parlante, quel che Berruto (1985) chiama egocentrismo del parlato. La presenza di intercalari si riscontra però anche nella lingua scritta, non solo ove questa intende espressamente riprodurre l’oralità (discorsi diretti, simulazioni dialogiche, ecc.) ma anche in contesti meno controllati, che permettono l’emergere di quelle stesse inclinazioni personali che producono il fenomeno nel parlato.
Tra le forme di comunicazione mediata da tecnologie informatiche, la presenza di intercalari interessa soprattutto i testi delle e-mail. Negli scambi rapidi delle chat lines, come nelle formulazioni sintetiche degli sms (➔ posta elettronica, lingua della), i segnali discorsivi sembrano mantenere più facilmente le loro funzioni pragmatiche e sono semmai le interiezioni oscene a mostrare, anche in queste sedi, la tendenza a un uso abitudinario.
Ciascun parlante tende, come s’è visto, a privilegiare alcuni intercalari o uno in particolare, che diventa suo carattere distintivo e elemento di identificazione; al punto che da un intercalare abituale può addirittura avere origine un soprannome:
(4) te la ricordi in quarta la prof vabbuò?
Quando l’intercalare caratterizza personaggi pubblici accade che esso venga sottolineato ed enfatizzato dai media o utilizzato da comici e imitatori per le loro parodie: tali, ad es., il caso del veda di Gianni Agnelli (1921-2003), del dài di Giulio Tremonti, ministro delle finanze in vari governi Berlusconi, del mi consenta di Silvio Berlusconi stesso.
Il ricorrere di intercalari negli enunciati di un parlante può rivelarne non solo le preferenze personali ma anche l’appartenenza regionale (es. 4), soprattutto quando ad apparire come intercalari sono elementi dialettali o locali usati nelle enunciazioni anche di non dialettofoni. In tali casi, l’intercalare segnala la provenienza geografica: belin e mia sono di origine ligure, socmèl bolognese, pota bergamasca o bresciana, diofà e bon piemontese, ahò romana, ciò veneta, dè livornese o pisana, ecc.
Non sempre tuttavia un intercalare marcato regionalmente è motivato da un’identità geografica specifica: talune espressioni si sono diffuse in tutt’Italia, magari per via di un tramite prestigioso come un attore (per es., Alberto Sordi per ammàzza o ahò) o un personaggio televisivo (per es., Luciana Littizzetto per bon e neh).
Nella sua adozione di intercalari il parlante sembra infatti seguire facilmente tendenze del momento e mode, come anche nel caso dell’impiego di ➔ forestierismi. Tipico il caso di ok (pronunciato in vario modo), divenuto molto comune in Italia per via di un modello anglo-americano diffuso ancora una volta soprattutto dal cinema e dalla televisione. Ma è possibile che venga rafforzato per l’influenza di modelli stranieri anche l’impiego di intercalari già comuni, come nel caso di sai e di chiaro per la corrispondenza con l’inglese you know e con lo spagnolo claro. Questi ultimi del resto ormai sono spesso usati in Italia, soprattutto dai giovani e in funzione ludico-espressiva, nella forma straniera.
Un intercalare può diventare un contrassegno generazionale, come nel caso di cioè, rimasto come traccia del politichese sessantottino (➔ politica, linguaggio della) e dei linguaggi giovanili (➔ giovanile, linguaggio), pur avendo avuto senz’altro una diffusione più vasta. La comunicazione giovanile, che di intercalari fa largo uso, sembra essere oggi caratterizzata dal ricorrere di altre forme: da elementi paragergali come bella (come appellativo) e da parole oscene come cazzo e minchia (talmente generalizzato, anche nella forma interiettiva troncata mii, da perdere ogni contrassegno regionale), fino a quei segnali discorsivi di modulazione, come niente, praticamente, per così dire, tipo, che scandiscono spesso le risposte degli studenti nelle interrogazioni.
Delle potenzialità espressive ed evocative dell’intercalare si servono gli scrittori, sia per riprodurre il parlato, aggiungendovi naturalezza, sia per caratterizzare personaggi:
(5) … ma ora, così, non è più come aveva detto lei, signor Ennio. La televisione ha parlato chiaro, ha detto, così «sequestro di persona». È un reato grave, e lei, così, doveva avvertirci, doveva … Perché adesso siamo tutti, così, complici. Mi scusi ma io penso che, così, lei doveva dirci come stavano le cose, doveva, così … (Veronesi 2007: 112).
Ancor più, la riproduzione di intercalari risulta funzionale alle esigenze del teatro e del cinema. La mira di caratterizzare linguisticamente il personaggio è illustrata nel seguente passo, in cui Marco Paolini spiega come ha costruito il parlato di Giuriolo, uno dei protagonisti de I piccoli maestri di Luigi Meneghello da lui messo in scena:
(6) Meneghello mi aveva detto anche di un suo modo di parlare intervallato da dei no che voleva dire sì, come parlano quelli che non sono tanto sicuri, che non sono abituati a far discorsi e così il discorso di Giuriolo diventò così: Lui che ha parlato prima di me, no, dice che senza un ordine scritto del Re non la farà la guerra con le armi, no … e l’altro amico nostro che viene da Bassano, no, si chiede se questo periodo da partigiano gli conterà per la pensione, no … ci sono i fascisti e i tedeschi, no, che occupano il nostro paese e ci siamo noi qua in montagna, no, che non si sta bene (Paolini 2000: 139).
Nel copione di scena della trasposizione teatrale, operata dallo stesso Paolini, de Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern appare invece chiaro come l’intercalare dialettale pota, comune in area bresciana e bergamasca (e non presente nell’originale), sia usato per indicare la provenienza regionale:
(7) Meschini: – Pota, la capisce, pota. Se riesce pota a farsi capire da Moreschi pota, capisce sì (Paolini 2008: 87)
Gli intercalari possono anche servire agli attori per modellare il proprio stile di parlato, come nel caso dell’attore napoletano Massimo Troisi (1953-1994) che con essi, e in particolare con innumerevoli cioè, caratterizza, ad es., la sua interpretazione del personaggio di Gaetano nel film Ricomincio da tre.
Paolini, Marco (2000), L’anno passato, Pordenone, Ed. Biblioteca dell’immagine.
Paolini, Marco (2008), Quaderno del sergente, Torino, Einaudi.
Veronesi, Sandro (2007), Venite venite B-52, Milano, Bompiani (1a ed. Milano, Feltrinelli, 1995).
Bazzanella, Carla (1994), Le facce del parlare. Un approccio pragmatico all’italiano parlato, Firenze, La Nuova Italia.
Bazzanella, Carla (1995), I segnali discorsivi, in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1988-1995, 3 voll., vol. 3° (Tipi di frase, deissi, formazione delle parole), pp. 225-257.
Berretta, Monica (1994), Il parlato italiano contemporaneo, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 2º (Scritto e parlato), pp. 239-270.
Berruto, Gaetano (1985), Per una caratterizzazione del parlato: l’italiano parlato ha un’altra grammatica?, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, hrsg. von G. Holtus & E. Radtke, Tübingen, Narr, pp. 120-151.
Simone, Raffaele (1990), Fondamenti di linguistica, Roma - Bari, Laterza (18a ed. 2007).