Abstract
Viene analizzato il tema concernente le attività investigative compiute dagli organi inquirenti attraverso il mezzo captativo disciplinato dal codice di rito agli artt. 266 ss. Alla descrizione dei presupposti formali e delle procedure normativamente imposte è affiancata l’elaborazione giuridica della Corte costituzionale e di legittimità, chiamate da tempo a risolvere i contrasti interpretativi sorti nella prassi applicativa.
L’ordinamento giuridico nazionale non conosce una nozione unitaria di “intercettazione di comunicazioni”. Spesso, infatti, il termine viene utilizzato per indicare istituti fra loro eterogenei, per inquadramento sistematico, modalità operative e finalità. Generalmente, si considera intercettazione processuale quell’operazione di occulta presa di conoscenza del contenuto di una conversazione riservata tra presenti o di una comunicazione inter absentes, anche informatica o telematica, effettuata a scopo investigativo dagli organi inquirenti sottoposta a controllo giurisdizionale, preventivo o successivo, ed eseguita mediante strumenti tecnici idonei alla captazione ed alla registrazione in tempo reale del dato comunicativo (si veda Intercettazione telefonica 2. Trojan).
Collocata fra i mezzi di ricerca della prova, rinviene la propria sedes materiae in seno al capo quarto, titolo terzo, del terzo libro del codice di rito, più specificamente accanto agli istituti delle ispezioni, delle perquisizioni e dei sequestri che, pur se connotati da rilevanti differenze strutturali, possono dirsi fra loro accomunati dalla preordinazione funzionale alla ricerca di fonti di prova rilevanti per il procedimento penale.
La normativa vigente mira a contemperare il potenziale contrasto tra due valori costituzionali concernenti rispettivamente il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni, riconosciuto come inviolabile dagli artt. 2 e 15 Cost. e l’interesse pubblico alla repressione dei reati (C. cost., 17.7.1998, n. 281). Sussiste, in altri termini, una interdipendenza tra i due profili della libertà e segretezza, in base alla quale l’una si pone quale ragion d’essere dell’altra, concorrendo entrambe a delineare l’ambito di operatività delle stesse garanzie costituzionali. L’art. 15 Cost. prevede due concorrenti meccanismi di tutela delle comunicazioni riservate attraverso le cd. riserve di legge e di giurisdizione. La Consulta, evidenziando la funzione garantista della riserva di giurisdizione, precisa che intercettazioni telefoniche assunte senza previa, motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria, essendo «attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino, non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subìto» (C. cost., 6.4.1973, n. 34).
Di bilanciamento tra protezione della sfera privata e fini pubblicistici di sicurezza fa menzione la stessa C. eur. dir. uomo la quale ha avuto modo di ribadire – a più riprese – che, rivestendo ogni intercettazione la caratteristica della ingerenza della pubblica autorità nella sfera privata del cittadino a norma dell’art. 8 CEDU, l’intromissione dei pubblici poteri – per considerarsi lecita – deve essere giustificata dalle suddette finalità pubbliche e, soprattutto, essere prevista dalla legge. È stato altresì affermato che compito della legge è quello di stabilire le garanzie sufficienti non solo per il titolare della linea telefonica intercettata ma anche per il terzo che, chiamando o chiamato da tale linea, subisca un pregiudizio dall’intercettazione della sua conversazione. Per i giudici di Strasburgo, infatti, la mancanza di legittimazione del terzo a sollevare in giudizio un’eccezione di nullità delleoperazioni costituisce una violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto il meccanismo di protezione non può trascurare un numero potenzialmente enorme di persone e cioè tutte quelle che conversano con altri soggetti che abbiano linee telefoniche attenzionate dagli organi inquirenti (C. eur. dir. uomo, 24.8.1998, Lambert c. Francia).
La terzietà del captante rappresenta il connotato essenziale dell’operazione con la conseguenza che «… non può parlarsi di intercettazione allorché uno dei dialoganti registri la conversazione all’insaputa dell’altro: in tal caso non vi è intervento di un terzo e non si consuma alcuna violazione del diritto alla segretezza perché chi registra la conversazione è lo stesso mittente o destinatario che documenta quanto da lui detto o comunicatogli, potendosi tutt’al più ravvisare, in caso di divulgazione, una lesione della riservatezza non tutelata dalla legge» (Filippi, L., Intercettazioni telefoniche (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg. VI, Milano, 2002, 566).
Nella prassi investigativa sussistono delle modalità di “approvvigionamento” diretto delle informazioni che, pur se apparentemente distanti dal modello processuale prestabilito, consentono comunque di raggiungere risultati analoghi a quelli che si avrebbero rispettando la normativa di settore.
Molto diffusa è la prassi da parte degli operatori di polizia giudiziaria di captare, presso i propri uffici, le conversazioni intrattenute con gli indagati ai fini dell’accertamento di fattispecie criminose di rilevante offensività (come l’estorsione, il traffico di stupefacenti, l’usura ecc...). Dal punto di vista procedurale tale attività, non essendo riconducibile ad alcun modello normativamente disciplinato, viene realizzata nella gran parte dei casi in assenza di una regolare autorizzazione e, dunque, senza alcun controllo preventivo da parte dell’autorità giudiziaria. Nonostante tale tecnica investigativa non risulti, prima facie, sovrapponibile allo strumento delle intercettazioni (in quanto per l’interlocutore consenziente la pratica appare tutt’altro che occulta), la giurisprudenza ha, tuttavia, sostenuto che debba comunque applicarsi la disciplina di cui agli artt. 266 ss c.p.p. (Cass. pen., 27.5.2014, n. 39771).
Parimenti dovrà parlarsi di intercettazione anche nelle ipotesi di acquisizione del contenuto delle conversazioni tra presenti effettuata direttamente dalla polizia giudiziaria, con propri mezzi, mediante la collocazione di un’apparecchiatura di registrazione nei locali in cui è previsto il colloquio a prescindere dal rilievo che uno dei partecipanti sia a conoscenza dell’attività predetta (Cass. pen., 23.2.2000, n. 6). Principi ribaditi anche successivamente dal giudice della nomofilachia avuto riguardo, in particolare: alle dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate ex art. 63 c.p.p.; alle informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell’art. 203 nonché alle dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli artt. 62 e 195, co. 4, c.p.p. La registrazione di una comunicazione da parte di un soggetto che ne sia stato partecipe, infatti, per quanto suscettibile di produzione come documento, non può sostituirsi a fonti di prova delle quali la legge vieta l’acquisizione ex art. 191 c.p.p. (Cass. pen., 28.5.2003, n.36747).
Similare è il caso del cd. “agente segreto attrezzato per il suono” vale a dire di colui che, d’intesa con la polizia giudiziaria, occulti su di sé appositi strumenti di registrazione al fine di acquisire quante più informazioni possibili dalla persona sottoposta alle indagini ad insaputa della stessa. Anche in tali circostanze la scelta investigativa fa leva sul coinvolgimento di una terza persona consenziente, con il preciso intento di trarre in inganno l’interlocutore ignaro della funzione assunta dal suo conversante. La Corte di cassazione (Cass. pen., 21.6.2010, n. 23742) ha stabilito che le registrazioni fonografiche di conversazioni occultamente effettuate da uno degli interlocutori d’intesa con le autorità inquirenti attraverso strumenti di captazione dalla stessa forniti, da un lato non sono utilizzabili in assenza di un provvedimento motivato del giudice o del p.m. e, dall’altro, non costituiscono un “documento” formato fuori dal procedimento e utilizzabile ai fini di prova ex art. 234 c.p.p., rappresentando piuttosto documentazione di una vera e propria attività di indagine. La stessa Corte costituzionale, invero, non ha ravvisato alcuna concreta differenza tra il caso in cui il privato colloquiante concordi con la p.g. l’installazione su di sé di dispositivi che le consentano di intercettare la conversazione con un interlocutore ignaro ed il caso in cui il medesimo colloquiante, agendo su istruzioni e con apparecchi forniti dalla stessa, registri direttamente il colloquio per poi metterlo a disposizione degli inquirenti (C. cost., 30.11.2009, n.320).
La legge garantisce l’assoluta riservatezza dei colloqui intercorsi fra l’imputato ed il suo difensore, sancendo le relative garanzie rispettivamente agli artt. 103 e 104 c.p.p. In particolare, l’art. 103, co. 5, c.p.p., pone il divieto di sottoporre ad intercettazione le conversazioni e le comunicazioni tra detenuto e difensore, nonché consulenti tecnici e loro ausiliari, e quindi soggetti la cui attività risulti coperta dal segreto professionale. L’importanza pratica di questa disposizione è data dalla sanzione stabilita nel caso di violazione del divieto, la quale consiste nell’inutilizzabilità in giudizio di quanto eventualmente appreso in contrasto con il diritto di difesa.
Nonostante la formulazione letterale del precetto in esame non contempli alcun margine di flessione ma, al contrario, un solo espresso divieto in tema di utilizzazione processuale dei risultati acquisiti, la Cassazione ha più volte ribadito che l’art. 103, co. 5, c.p.p. non si traduce in un divieto assoluto di conoscenza ex ante, come se il legale godesse di un ambito di immunità assoluta o di un privilegio di categoria, ma implica una verifica postuma del rispetto dei relativi limiti, la cui violazione comporta l’inutilizzabilità dei risultati dell’ascolto non consentito, ai sensi dell’art. 103, co. 7, c.p.p., e la distruzione della relativa documentazione, a norma dell’art. 271, co. 3, c.p.p.
Il divieto ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato (Cass. pen., 6.10.2015, n. 43410).
L’art. 266 c.p.p. definisce i limiti oggettivi di ammissibilità delle intercettazioni, elencando tassativamente i reati per i quali è ammesso questo mezzo di ricerca della prova e distinguendo poi, l’«intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni» dalla «intercettazione di comunicazioni tra presenti».
Si distinguono limiti di tipo oggettivo e soggettivo. Nel primo caso sono indicate determinate tipologie di reato sulla base di un criterio quantitativo o qualitativo, attinente alle peculiarità di fattispecie delittuose oggetto di accertamento, per le quali lo strumento captatorio risulta particolarmente utile. Rientra sempre nella categoria dei limiti oggettivi la previsione di cui al co. 2 dell’art. 266 c.p.p., ove si proceda per i reati individuati al co. 1 e si abbia fondato motivo di ritenere che nel domicilio sia in atto l’attività criminosa. La ratio di questa previsione è da ricondurre alla inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.). Quando l’intercettazione è legittimamente autorizzata all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati ex art. 266 c.p.p. i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati trattati nel medesimo procedimento, senza condizione alcuna (Cass. pen., 25.11.2015, n. 50261).
La categoria dei limiti soggettivi comprende sia le disposizioni previste a tutela delle garanzie di libertà del difensore (art. 103, co. 5, c.p.p.), sia i divieti previsti da leggi speciali. Ad esempio sono vietate le intercettazioni nei confronti del Presidente della Repubblica (art. 7, co.1, l. 5.6.1989, n. 219), del parlamentare italiano (art. 68, co. 2 e 3, Cost.), del parlamentare europeo (artt. 1 e 4, l. 3.5.1966, n. 437 e l. 6.4.1977, n. 150), dei giudici costituzionali (art. 3, co. 2, l. cost. 2.11.1967, n. 2), del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, anche una volta cessati dalla carica, per i reati ministeriali (art. 10, co.1, l. cost. 16.1.1989, n.1).
L’art. 266 bis c.p.p. è stato introdotto dal legislatore con la l. 23.12.1993, n. 547, anni prima della diffusione capillare e della implementazione sistemica delle comunicazioni telematiche. La norma, nel consentire l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi nei procedimenti relativi ai reati indicati dall’art. 266 nonché a quelli commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche, ha fatto sorgere una serie di problemi interpretativi in merito ai suoi stessi limiti di operatività. Secondo una prima tesi restrittiva sussiste una tassatività delle ipotesi di utilizzazione dello strumento captativo ricavata da una lettura combinata dell’art. 266 c.p.p. con l’art. 266 bis c.p.p. in quanto, a voler diversamente ragionare, si rischierebbe di incorrere in una disparità di trattamento tra diversi imputati di uno stesso reato commesso con modalità tecniche differenti, le une legittimanti, le altre no, il ricorso alle intercettazioni telematiche. La tesi estensiva, al contrario, sostiene che l’art. 266 bis c.p.p. abbia una portata più ampia richiedendo il solo uso dello strumento informatico per la commissione del reato. Per la Corte di cassazione la novità dell’art. 266 bis c.p.p. sta proprio nell’aver esteso l’ambito di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova ai procedimenti aventi ad oggetto i “computers crimes” e nell’aver consentito la captazione dei flussi di dati (bit) di singoli sistemi o fra sistemi interconnessi (Cass. pen., S.U., 24.9.1998, n. 21).
In data 2 dicembre 2015, è stata depositata la proposta di legge C. 3470, intitolata «Modifica all’art. 266 bis c.p.p., in materia di intercettazione e di comunicazioni informatiche o telematiche». Intendendo garantire l’adeguamento tecnologico del sistema delle intercettazioni mediante l’utilizzo di programmi informatici tali da consentire l’accesso ai computer da remoto (ai fini della acquisizione di dati presenti in un sistema informatico ritenuti utili alle indagini connesse al perseguimento di reati con finalità terroristiche), è stato suggerito l’inserimento all’art. 266 bis, co. 1, c.p.p. delle parole: «anche attraverso l'impiego di strumenti o di programmi informatici per l’acquisizione da remoto delle comunicazioni e dei dati presenti in un sistema informatico». L’iter normativo della proposta, tuttavia, non trovando larga condivisione in Parlamento, sembra essersi arrestato alla Camera. Resta, comunque, al vaglio del legislatore la disciplina dei captatori informatici, ad oggi ammessi praeter legem dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., S.U., 28.4.2016, n. 26889).
Recentemente è stata affrontata la problematica relativa alla captazione delle comunicazioni protette tramite il servizio cd. pin to pin offerto dalla azienda canadese Blackberry sui suoi terminali. Si tratta di un servizio di messaggistica istantanea (chat) protetta che consente ai possessori del dispositivo di comunicare riservatamente attraverso un sistema di identificazione (PIN) cifrato. Tramite il PIN è possibile inviare e ricevere messaggi semplici o multimediali nonché accedere ad una casella di posta elettronica su cui è possibile riversare il contenuto di altre cartelle di posta personale. Tutti i servizi sono cifrati end-to-end, ovvero dal terminale al server Blackberry. Solo la società è a conoscenza delle chiavi di cifratura che permettono di acquisire i contenuti in chiaro di tali comunicazioni. Dal punto di vista tecnico, l’erogazione dei servizi di messaggistica e posta elettronica sui terminali avviene tramite la connettività ad internet fornita dai gestori nazionali. Per procedere ad intercettazione è necessario il relativo decreto ex art. 266 bis c.p.p. per un certo PIN o IMEI, intestato a Blackberry Italia s.r.l. ed inviato all’ufficio di pubblica sicurezza dedicato ai rapporti con l’autorità giudiziaria italiana (PSO). Quest’ultimo non richiede la rogatoria internazionale in quanto gestisce la relativa richiesta solamente ove il terminale oggetto di attenzione si trovi sul suolo italiano. Verificata la sussistenza delle predette condizioni, Blackberry estrae i contenuti relativi ai servizi del terminale di interesse dai server della Blackberry in Canada che vengono poi inviati in modalità sicura (SSL) direttamente sul server della Procura della Repubblica. Tale modus operandi ha trovato cittadinanza anche in seno alla giurisprudenza di legittimità attraverso il richiamo alla procedura di instradamento. È stato recentemente affermato, infatti, che in tema di intercettazioni telefoniche o telematiche, il ricorso alla procedura di convogliamento delle chiamate in partenza dall’estero in un “nodo” situato in Italia (e a maggior ragione di quelle in partenza dall’Italia verso l’estero delle quali è certo l’instradamento a mezzo di gestore sito nel territorio nazionale) non comporta la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali poiché in tal modo tutta l’attività di intercettazione, ricezione e registrazione viene interamente compiuta nel territorio italiano, mentre il ricorso alle forme dell’assistenza giudiziaria è necessario unicamente per gli interventi da compiersi all’estero, per l’intercettazione di conversazioni captate solo da un gestore straniero o i cui contenuti transitino unicamente nel territorio non nazionale (Cass. pen., 8.3.2016, n. 16171).
Investendo un diritto costituzionalmente protetto, il legislatore ha previsto che l’intercettazione, ammissibile entro specifici limiti, richieda due distinti procedimenti: uno finalizzato all’iniziativa, l’altro al controllo; il primo vede protagonista il pubblico ministero, l’altro il giudice delle indagini preliminari.
I presupposti dell’intercettazione sono indicati dall’art. 267 c.p.p, che dispone che l’autorizzazione per le operazioni è concessa dal g.i.p. con decreto motivato, su richiesta del p.m., se ricorrono le due seguenti condizioni:
- la presenza di gravi indizi di reato. Secondo giurisprudenza consolidata, i gravi “indizi di reato” (e non di reità) che costituiscono presupposto per il ricorso alle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, attengono all’esistenza dell'illecito penale e non alla colpevolezza di un determinato soggetto, sicché per procedere legittimamente ad intercettazione non è necessario che tali indizi siano a carico di persona individuata o del soggetto le cui comunicazioni debbano essere captate a fine di indagine;
- l’assoluta indispensabilità delle intercettazioni per la prosecuzione delle indagini (non, quindi, la semplice utilità).
Il co. 1 bis dell’art. 267 (inserito dall’art. 23, l. 1.3.2001, n. 63) opera un rinvio all’art. 203 c.p.p. per la valutazione dei gravi indizi di reato. Sarà quindi impossibile a tali fini, utilizzare le informazioni confidenziali riferite dalla polizia giudiziaria e dai servizi di sicurezza se gli informatori non abbiano reso testimonianza; dette informazioni sono parimenti inutilizzabili anche nelle fasi successive del dibattimento se gli informatori non siano stati interrogati né le loro dichiarazioni siano state assunte dalla polizia giudiziaria nei verbali di sommarie informazioni.
Un’autonoma ipotesi di ricorso alle intercettazioni è, poi, dettata dall’art. 295 c.p.p. (Verbale di vane ricerche), quando ciò sia necessario per agevolare la ricerca del latitante.
Per i delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono il legislatore del 1991 (con l’art. 13 del d.l. 13.5.1991, n. 152 – cd. “decreto anticrimine” – convertito con modificazioni nella l. 12.7.1991, n. 203) ha attenuato le condizioni di legittimazione dei decreti autorizzativi richiesti dalla normativa codicistica prevedendo, tra l’altro, che a tale fine il mezzo sia non “indispensabile” ma semplicemente “necessario” per le indagini e richiedendo indizi non “gravi” ma solo “sufficienti”. Con la l. 7.8.1992, n. 356, di conversione del d.l. 8.6.1992, n. 306 è stata, inoltre, consentita, nei procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata – e in deroga al regime ordinario del secondo comma dell’art. 266 – l’intercettazione ambientale “domiciliare” (quella cioè che si esegue nella abitazione altrui o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi) “anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa”.
La disciplina in esame è stata estesa ad una serie di altri procedimenti dall’art. 3, co. 1, d.l. 18.10.2001, n. 374, conv. in l. 15.12.2001, n. 438 e dall’art. 9, l. 11.8.2003, n. 228.
Se, nelle ipotesi ordinarie, è il g.i.p. – quale organo garante delle libertà individuali – ad autorizzare le intercettazioni, nei casi di urgenza, il p.m. dispone direttamente l’intercettazione con decreto motivato, sottoposto comunque a convalida. L’urgenza, nello specifico, risiede nel possibile grave pregiudizio alle indagini che potrebbe derivare dal ritardo nell’intercettazione. Il p.m. comunica immediatamente e, in ogni caso, non oltre 24 ore, al g.i.p. l’adozione del provvedimento; la convalida da parte del giudice deve avvenire non oltre 48 ore (dal decreto del p.m.). Alla mancata convalida, consegue l’impossibilità di proseguire l’intercettazione e l’inutilizzabilità probatoria dei risultati acquisiti.
Si è osservato che il termine per la trasmissione al giudice della convalida del decreto con il quale il p.m. abbia disposto d’urgenza l’intercettazione presenta carattere meramente ordinatorio, di talché la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze acquisite si determina solo nel caso in cui il provvedimento di convalida del g.i.p. non intervenga entro quarantotto ore dall’adozione dell’atto (Cass. pen., 4.11.2003, n. 6875). Ad ogni buon conto poiché la sanzione di inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni disposte in via d’urgenza con decreto del pubblico ministero è prevista dall’art. 267 c.p.p. solo nel caso di mancata convalida da parte del g.i.p., una volta intervenuta, resta sanato ogni vizio formale del citato decreto, compresa l’eventuale mancanza del requisito dell’urgenza (Cass. pen., 22.4.2004, n. 23512).
Il decreto del pubblico ministero che dispone le intercettazioni indica anche le modalità e la durata delle operazioni che non può superare i quindici giorni. Tuttavia il giudice può, con decreto motivato, prorogare tale durata per periodi successivi (anch’essi di quindici giorni) in permanenza dei presupposti indicati dal co. 1 dell’art. 267 c.p.p. Anche i decreti di proroga devono essere motivati in quanto implicanti la compressione, per un ulteriore termine, della sfera di riservatezza delle comunicazioni private. In difetto di motivazione, la sanzione è quella dell’inutilizzabilità delle operazioni estesa anche nel procedimento cautelare, poiché colpisce i risultati del mezzo di ricerca della prova in quanto tali, in qualunque sede si intenda impiegarli.
Il p.m. procede alle operazioni personalmente ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria. In un apposito registro riservato, tenuto presso il suo ufficio, sono annotati secondo un ordine cronologico, i decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni e, per ciascuna di esse, l’inizio ed il termine delle operazioni.
Le operazioni de quibus – per le quali è prevista la redazione di un verbale contenente, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate – possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica. Tuttavia laddove risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni di urgenza, il p.m. può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle stesse mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria. Nei casi di intercettazioni informatiche o telematiche può altresì disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti ai privati (art. 268, co. 3 e 3 bis, c.p.p.). L’art. 271, co. 1, c.p.p. sanziona con l’inutilizzabilità processuale i risultati delle operazioni compiute senza osservare le suindicate prescrizioni. Parte della dottrina ritiene che, nonostante il mancato riferimento al co. 3 bis dell’art. 268, ricadano nel divieto anche le risultanze delle attività ottenute grazie all’utilizzo di impianti appartenenti ai privati, non debitamente motivato.
Le decisioni della giurisprudenza di legittimità esprimono la tendenza a depurare la materia da qualsiasi inutile formalismo, risultando pacificamente sanzionata la sola situazione in cui il p.m. si sia limitato ad una affermazione generica ed apodittica sulla sussistenza delle condizioni prescritte dalla legge, soprattutto qualora dagli atti non sia desumibile in alcun modo una situazione di necessità dovuta a cadenze processuali ravvicinate e concitate (Cass. pen., 19.11.2003, n. 48252).
Le ragioni di urgenza non possono essere desunte soltanto dal titolo del reato; mentre possono ritenersi implicitamente sussistenti (Cass. pen.,11.5.2004, n. 24241) qualora si faccia risaltare la ritenuta esistenza di una attività criminosa in atto per la quale sussiste il dovere della p.g. di intervenire con la massima sollecitudine per impedire che essa venga portata a conseguenze ulteriori (Cass. pen., 22.4.2004, n. 23512).
È ammesso anche il rinvio per relationem al decreto di autorizzazione del g.i.p. a condizione che da tale ultimo provvedimento emerga l’esistenza delle eccezionali ragioni di urgenza occorrenti per legittimare il decreto del p.m.
I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al p.m. e depositati, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, in segreteria insieme agli altri decreti (di proroga, autorizzazione o convalida) rimanendovi per il tempo fissato dal pubblico ministero (fatta salva la possibilità di ritardare il deposito, non oltre la chiusura delle indagini e dietro autorizzazione del giudice, ove dalla discovery possa derivare un grave pregiudizio per le indagini). Ai difensori delle parti è data la facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche nei termini previsti dalla legge o fissati dal giudice (art. 268, co. 4, 5 e 6). Una volta scaduti, è disposta l’acquisizione delle comunicazioni che non appaiano irrilevanti con contestuale stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui sia vietata l’utilizzazione. Nel procedimento de libertate la richiesta dei difensori di accedere, prima del loro deposito, alle conversazioni captate e sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cd. brogliacci di ascolto, determina l’obbligo per il p.m. di provvedere in tempo utile a consentire l’esercizio del diritto di difesa (obbligo il cui inadempimento può dar luogo a responsabilità disciplinare o penale del magistrato oltre che ad un vizio del procedimento da cui deriva la conseguente impossibilità di utilizzazione degli elementi acquisiti) (Cass. pen., S.U., 22.4.2010, n. 20300). Il giudice nel valutare l’eventuale lesione del diritto di difesa deve considerare la congruità del termine a disposizione del difensore per esaminare la documentazione tenendo conto del suo “volume” (Cass. pen., 11.12.2014, n. 281).
Delle registrazioni il giudice dispone la trascrizione integrale ovvero la stampa in forma intellegibile (nei casi previsti ex art. 266 bis c.p.p.) osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l’espletamento delle perizie. Tali trascrizioni sono inserite nel fascicolo per il dibattimento ed è data la facoltà ai difensori di estrarne copia e fare eseguire la trasposizione delle registrazioni su nastro magnetico (o su idoneo supporto). L’art. 271, co. 1, c.p.p. non richiama la previsione dell’art. 268, co. 7, c.p.p. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l’inutilizzabilità. Inoltre la mancata trascrizione non è espressamente prevista come causa di nullità, né tanto meno è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall’art. 178 c.p.p.
Le registrazioni, i verbali delle intercettazioni e il materiale che è stato oggetto di stralcio a norma dell’art. 268, co. 6, c.p.p. devono essere conservati nel fascicolo del p.m. fino alla sentenza divenuta irrevocabile. Tale dovere è funzionale al “recupero” del materiale raccolto in una fase successiva del procedimento quando, per fatti sopravvenuti, essa possa considerarsi rilevante. La regola generale individua nella intervenuta irrevocabilità della sentenza il termine massimo di conservazione delle registrazioni; le parti, tuttavia, possono chiedere al giudice che ha autorizzato o convalidato l’attività di captazione, la distruzione di quanto raccolto. Sulla richiesta il giudice procede nell’ambito di un’udienza camerale e, se accolta, la distruzione avviene sotto il suo diretto controllo. Delle operazioni è redatto verbale.
È regola generale la non trasferibilità dei risultati acquisiti tramite lo strumento captativo dal procedimento in cui le operazioni sono state disposte ad altri procedimenti, salvo risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza.
La nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270 c.p.p., può prescindere da elementi formali (come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato) ed impone una valutazione sostanziale, con la conseguenza che il procedimento è considerato identico quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, alla base dell’autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (Cass. pen., 15.11.2012, n. 46244).
Pertanto, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, co. 1, c.p.p. la nozione di procedimento diverso va collegata al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento (Cass. pen., 18.1.2016, n. 1804), e non quindi dal medesimo filone investigativo, da cui traggono origine procedimenti connessi, relativi alla medesima fattispecie criminosa.
I verbali e le registrazioni, ai fini dell’utilizzazione prevista dal co. 1 dell’art. 270, sono depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento con possibilità per le parti di esaminare anche quanto in precedenza depositato. È prevista l’applicazione delle disposizioni di cui ai co. 6, 7 e 8 dell’art. 268 c.p.p.
L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni è determinata da cause diverse (art. 271 c.p.p.). La prima concerne i casi in cui le operazioni siano state eseguite al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Il riferimento è, ad esempio, alle captazioni disposte fuori dei limiti oggettivi o soggettivi di ammissibilità individuati dall’art. 266 c.p.p.
La seconda riguarda i casi di mancata osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, co. 1 e 3, c.p.p.: ad esempio nei casi di omessa o tardiva convalida dell’intercettazione disposta d’urgenza dal p.m. o in difetto di motivazione del decreto di autorizzazione, convalida o proroga. In forza del secondo richiamo normativo sono inutilizzabili i risultati delle intercettazioni i cui dati comunicativi non sono stati registrati o verbalizzati o sono stati verbalizzati senza indicare le modalità operative di registrazione, la durata o i nomi delle persone che vi hanno partecipato (art. 89, co. 1, disp. att.). Sono, altresì, inutilizzabili gli esiti delle operazioni compiute mediante l’impiego di impianti diversi da quelli installati nell’ufficio della procura della Repubblica. Diversa è l’ipotesi in cui la registrazione dei dati captati sia avvenuta mediante gli impianti installati in procura, mentre le operazioni di ascolto, verbalizzazione e riproduzione dei dati registrati sono state eseguite negli uffici di polizia giudiziaria: in tale ipotesi le intercettazioni sono pienamente utilizzabili.
Un’ultima causa di inutilizzabilità concerne le captazioni di soggetti depositari di un segreto professionale (art. 200, co. 1, c.p.p.) quando le comunicazioni abbiano ad oggetto fatti appresi in ragione del loro ministero, ufficio o professione (salvo che tali fatti siano già stati resi noti nel corso di una deposizione o in altro modo divulgati).
Della documentazione inutilizzabile il giudice ne dispone la distruzione in ogni stato e grado del processo (salvo che costituisca il corpo del reato, i.e. quando integri di per sé la fattispecie criminosa) (Cass. pen., S.U., 26.6.2014, n. 32697), dopo aver sentito le parti in udienza camerale sulla eventuale rilevanza in bonam partem di tale materiale (C. cost., 15.12.1994, n. 463).
La sanzione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle prescrizioni stabilite dagli artt. 267 e 268, co. 1 e 3, c.p.p. trova applicazione anche in materia cautelare stante l’espresso richiamo all’art. 271 c.p.p. operato dall’art. 273, co. 1 bis.
Le videoriprese suscettibili di addurre elementi utili all’accertamento di un fatto e, pertanto, pienamente riconducibili al genus dei metodi investigativi, consistono nelle tecniche di captazione visiva occulta di un fatto, attraverso strumentazioni apposite alle quali sempre più spesso ricorrono gli organi inquirenti.
Particolarmente discusso è l’inquadramento delle videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria in modo clandestino, ai fini investigativi, nel corso del procedimento (e dunque con finalità probatoria) da utilizzare eventualmente sia nel procedimento de libertate che nel processo di merito. Nella giurisprudenza di legittimità si è, a più riprese, ribadita la distinzione tra comportamenti aventi ad oggetto atti comunicativi ovvero comportamenti non diretti alla intenzionale trasmissione di un messaggio, rintracciandosi solamente nei primi una particolare forma di intercettazione, come tale utilizzabile ex artt. 266, co. 2, c.p.p. Viceversa, nel secondo caso, si è in presenza di indagini atipiche, inutilizzabili perché effettuate in violazione dell’art. 14 Cost. (C. cost., 24.4.2002, n. 135).
Secondo un primo orientamento, l’art. 189 c.p.p. deve intendersi quale norma legittimante le videoriprese nella misura in cui si riferisca ad operazioni eseguite in luoghi diversi da quelli privati, posto che in tal caso non sussistono le esigenze di tutela del domicilio e della riservatezza che impongono il rispetto della disciplina di garanzia in materia di intercettazione. Originariamente, la Cassazione ha inteso in maniera restrittiva la nozione di domicilio, facendovi rientrare le sole abitazioni private e le immediate pertinenze. In un secondo momento le Sezioni unite (Cass. pen., S.U., 28.3.2006, n. 26795) hanno tracciato tre diverse discipline, distinguendo fra luoghi “pubblici”, luoghi “domiciliari” e luoghi “riservati”. Più in particolare, mentre con riferimento ai primi non è configurabile alcuna aspettativa di riservatezza (per cui la polizia giudiziaria potrà procedere alle videoriprese anche di propria iniziativa, trattandosi di un atto non ripetibile che in dibattimento può essere utilizzato come prova atipica ex art. 189 c.p.p.), i luoghi “domiciliari” sono, invece, contraddistinti dall’esistenza, in capo ad un soggetto, del diritto di escludere chiunque altro (ius excludendi alios), tutelabile anche qualora il titolare non sia presente sul luogo. Tali ipotesi rientrano nell’area protetta dall’art. 14 Cost. e quindi, in assenza di una disciplina legislativa espressa, che regoli casi e modi di una eventuale limitazione con un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, le videoriprese debbono ritenersi senz’altro vietate a pena di inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.). La terza categoria elaborata dalla pronuncia in esame concerne i cd. luoghi “riservati”, contraddistinti dalla mancanza di quel carattere di stabilità del rapporto che caratterizza il domicilio e, quindi, del diritto di escludere chiunque altro, sicché tale diritto persiste solo se il titolare è presente sul luogo. Si tratta, peraltro, di spazi che pur non rientrando nel concetto di domicilio, sono caratterizzati da una “aspettativa di riservatezza” maggiore rispetto ai luoghi pubblici. La norma costituzionale di riferimento in tali casi non è l’art. 14, bensì l’art. 2 Cost., che protegge la riservatezza in maniera meno intensa rispetto alla inviolabilità del domicilio, per cui una eventuale limitazione sarà consentita anche in assenza di una disciplina legislativa espressa purché attuata attraverso un provvedimento dell’autorità giudiziaria, fornito di congrua motivazione (C. cost., 16.5.2008, n. 149; C. cost., 30.11.2009, n 320).
Artt. 2, 14, 15 Cost.; art. 68, co. 2 e 3, Cost.; art. 8 CEDU; artt. 266 ss c.p.p.; art. 295 c.p.p.; art. 103, co. 5, c.p.p; art. 7, co. 1, l. 5.6.1989, n. 219; artt. 1 e 4, l. 3.5.1966, n. 437 e l. 6.4.1977, n. 150; art. 3, co. 2, l. cost. 2.11.1967, n. 2; art. 10, co. 1, l. cost. 16.1.1989, n. 1; l’art. 13 del d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. con modificazioni nella l. 12.7.1991, n. 203.
AA.VV., Procedura penale. Quarta edizione, Torino, 2015; Vele, A., Le intercettazioni nel sistema processuale penale tra garanzie e prospettive di riforma, Padova, 2011; Gaito, A., a cura di, La prova per intercettazioni tra diritto interno e diritto sovranazionale, in Riservatezza ed intercettazioni tra norma e prassi, Roma, 2011.