Abstract
Vengono analizzate le misure di protezione in favore dei soggetti privi, in tutto o in parte, di autonomia, come delineate a seguito della riforma di cui alla l. 9.1.2004, n. 6, dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’amministrazione di sostegno (artt. 404-413 c.c.) e della nuova disciplina dettata per l’interdizione (art. 414 c.c.) e per l’inabilitazione (art. 415 c.c.), con particolare attenzione ai presupposti previsti per i diversi istituti e alle aree di possibile sovrapponibilità tra gli stessi.
La disciplina delle misure di protezione in favore dei soggetti privi (in tutto o in parte) di autonomia è stata profondamente riformata dalla l. 9.1.2004, n. 6, che, ad esito di un travagliato dibattito, ha ridisegnato l’architettura del libro I, titolo XII del codice civile. L’intervento normativo ha introdotto nel nostro ordinamento, al primo capo del suddetto titolo (artt. 404-413 c.c.), l’istituto dell’amministrazione di sostegno; inoltre, ha innovato la disciplina di interdizione e inabilitazione. Ne discende una tripartizione degli strumenti di protezione dei soggetti in condizioni di minorità, analogamente a quanto previsto in altri Stati dell’Europa mediterranea.
L’amministrazione di sostegno si applica nel caso in cui una persona maggiore di età si trovi nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica. Il decreto del giudice tutelare stabilisce, tra l’altro, l’oggetto dell’incarico e l’ambito delle attività dell’amministratore di sostegno in favore del beneficiario. Gli atti compiuti dall'amministratore di sostegno o dal beneficiario in violazione delle norme di legge o delle disposizioni del giudice sono annullabili, ai sensi dell'art. 412 c.c.
L’interdizione può essere disposta nei confronti di chi si trovi in condizioni di abituale infermità di mente, che cagioni incapacità di provvedere ai propri interessi. Viene nominato un tutore, che, di norma, può compiere tutti gli atti di straordinaria e ordinaria amministrazione. Nella sentenza che pronuncia l’interdizione, o in successivi provvedimenti, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere validamente compiuti dall’interdetto senza l’intervento (o con la mera assistenza) del tutore. In assenza di tali previsioni, gli atti compiuti dall’interdetto sono annullabili.
L’inabilitazione può essere disposta: a) nei casi di infermità di mente, non così grave da far luogo all’interdizione; b) nei confronti di persone che espongano sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici, per prodigalità o abuso di bevande alcoliche o di stupefacenti; c) nei casi di sordità e cecità dalla nascita o dalla prima infanzia e di mancato apprestamento di un’educazione sufficiente. La sentenza che pronuncia l'inabilitazione limita la capacità di agire del soggetto per ciò che attiene agli atti di straordinaria amministrazione (anche se, per taluni di tali atti, l'inabilitato può essere dichiarato idoneo ad agire autonomamente). Ove l'inabilitato provveda senza l'assistenza del curatore, gli atti di straordinaria amministrazione da lui compiuti sono annullabili.
La disciplina si pone nel solco delle riforme già adottate in altri Paesi europei (Cian, G., L’amministrazione di sostegno nel quadro delle esperienze giuridiche europee, in Riv. dir. civ., 2004, 481 ss.).
Un modello tripartito è quello adottato in Francia. Gli istituti di protezione, profondamente riformati dalla l. 5.3.2007 n. 308, sono la tutelle, la curatelle e la sauvegarde de justice, con quest'ultima che è figura flessibile, orientata alla minor compressione possibile dei diritti del soggetto non autonomo. Un sistema articolato, caratterizzato dalla tripartizione delle misure di protezione e dall’assenza di rigide predeterminazioni legali, è stato adottato anche in Spagna. Alla tutela e alla curatela, peraltro profondamente riformate, si è affiancato il defensor judicial. Viceversa, i Paesi mitteleuropei hanno adottato il sistema monistico. È il caso della Germania, dove, negli anni Novanta, è stato introdotto il Rechtliche Betreuung, figura unitaria, ma flessibile. Non molto dissimile è l’istituto austriaco del Sachwalterschaft.
L’eterogeneità dei modelli dei diversi Paesi europei non deve essere enfatizzata: anche nei Paesi che hanno adottato modelli tripartiti sono stati previsti dei meccanismi di comunicazione tra i vari istituti di protezione. Per ciò che concerne l’Italia, un orientamento dottrinario è incline ad una lettura sostanzialmente unitaria delle misure di protezione (stante il disposto dell’art. 427 c.c., che consente al giudice di apportare modifiche all’ambito di operatività dell’interdizione e dell’inabilitazione, e stanti gli artt. 406, 413, 418 e 429 c.c., che introducono un meccanismo di circolarità tra gli istituti: v. infra, § 4.1).
Leitmotiv delle riforme adottate nei diversi Paesi è una diversa concezione della persona non dotata di completa autonomia. La nuova Weltanschauung è scolpita sin dall’art. 1 della l. 9.1.2004, n. 6, in cui ci si prefigge lo scopo di «tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone in tutto o in parte prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporanei o permanenti». Obiettivi, questi, in linea con quelli proclamati successivamente dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, stipulata a New York il 13.12.2006 e ratificata dall’Italia con la l. 3.3.2009, n. 18 (Cass. civ., sez. I, 25.10.2012, n. 18320). Il modello precedente, imperniato sul dogma dell’incapacità, era stato oggetto di ampie critiche, per il suo approccio autoritativo, invasivo, segregativo, custodialistico e patrimonialistico (Bianca, C.M., La protezione giuridica del sofferente psichico, in Riv. dir. civ., 1985, 25 ss.). Da una parte, vi era un eccesso di intervento nei confronti dei soggetti incapaci, con automatismi poco inclini a considerare le peculiarità del caso concreto e con effetti, ‘preconfezionati’ dal legislatore, il più delle volte totalizzanti, che falcidiavano le residue prospettive di recupero del soggetto. L’eccessiva ablazione dei diritti dei sofferenti psichici ne mortificava gli ambiti di possibile autonomia, pretermettendoli dal traffico giuridico. Un siffatto approccio comportava anche discredito sociale, ove sol si consideri la sostanziale equiparazione, in punto di effetti, tra l’interdizione giudiziale e quella legale, riservata a chi è condannato alla reclusione per un periodo non inferiore a cinque anni (Cendon, P., Infermi di mente ed altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile, in Pol. dir., 1987, 621 ss.). Di converso, per una vastissima congerie di altre persone non autosufficienti, vi era totale assenza di tutela legale, a dispetto dell’eterogeneità delle forme di disagio esistenti. Ciò rendeva squilibrato l’intervento del legislatore, privando diverse tipologie di disabili di qualsivoglia strumento di assistenza.
Tale rigida dicotomia rendeva inadeguate le regole previgenti rispetto all’assiologia personalistica che permea sia la Costituzione, sia il diritto privato europeo, anche a seguito della promanazione della Carta dei diritti fondamentali e della codificazione dell’art. 6 del Trattato di Lisbona. Lo iato sussistente tra gli strumenti di protezione degli incapaci, da una parte, e i progressi della scienza medica, dall’altra, si acuiva in considerazione dello scarso ricorso all’inabilitazione, motivato anche dall’impossibilità dell’impiego di tale istituto per gli atti della vita civile e per la cura della persona.
Di qui, l’esigenza di approntare un regime di protezione privatistico ‘cucito’ sulle esigenze della singola persona, che, da una parte, ampliasse lo spettro dell’intervento normativo (estendendolo anche a fattispecie diverse da quelle originariamente previste) e, dall’altra, valorizzasse le residue possibilità di autodeterminazione del beneficiario (abbandonando meccanismi di rimozione rigida e standardizzata della capacità di agire), in sintonia con la profonda eterogenesi di politica del diritto che aveva già investito la normativa di diritto pubblico.
La l. 9.1.2004, n. 6 ha costituito il tentativo di fondare un articolato sistema di protezione sul principio personalistico, mediante un diverso equilibrio tra le esigenze, talvolta confliggenti, di protezione del soggetto di diritto e della sua libertà individuale, di rispetto della sua dignità e di valorizzazione della sua autodeterminazione (Cass. civ., sez. I, 20.12.2012, n. 23707). Tale contemperamento si realizza mediante l’enucleazione di diversi principi, che innervano il nuovo sistema e che rilevante importanza assumono anche sotto il profilo ermeneutico.
Primeggia il principio di tutela e valorizzazione della personalità, che si enuclea in una maggiore considerazione della cura della persona. Emerge il principio di gradualità, di adeguatezza e di proporzionalità delle misure di protezione, improntato alla maggior conservazione possibile degli ambiti di capacità di agire del soggetto debole (e di correlativa minor deminutio possibile degli spazi di esplicazione dell’autodeterminazione). Le limitazioni di capacità e di iniziativa dovranno essere disposte soltanto laddove esse si prospettino indispensabili, ovvero maggiormente adeguate, senza vulnerazione dei livelli di capacità e dei correlativi spazi di autonomia del soggetto debole.
Alla predilezione per il metodo casistico fa consegue la compressione dei caratteri di generalità ed astrattezza delle norme (o, rectius, la rinuncia del legislatore a stabilire ex ante ed in maniera uniforme le conseguenze incapacitanti). Ne discende l’ampliamento dei poteri del giudice, sia nella scelta dello strumento da utilizzare nel caso concreto, che nella articolazione di ciascuno degli istituti di protezione, mediante la modulazione dell’ambito di operatività, del grado di invasività e del contenuto di ciascuno di essi. Sotto il primo profilo, emerge un principio di favor verso l’amministrazione di sostegno, con conseguente residualità dell’interdizione e dell’inabilitazione (C. Cost., 9.12.2005, n. 440). Sotto il secondo profilo, il grado di flessibilità dei diversi istituti di protezione è significativamente diverso. L’amministrazione di sostegno è ampiamente adattabile alle peculiarità del caso concreto (tant’è che la vera fonte dei poteri dell’amministratore di sostegno è rappresentata dal decreto del giudice): dovrà essere il giudice a ‘calibrare’ sul beneficiario l’ampiezza dello strumento (Cass., sez. I, 20.3.2013, n. 6861). Interdizione e inabilitazione, viceversa, conservano un contenuto normalmente prefissato, ma la riforma, novellando l’art. 427 c.c., ha attribuito al giudice il potere di sottrarre determinati atti o categorie di atti dal regime standardizzato (v. infra, § 4.1). Si registra anche una maggiore considerazione dell’aspetto diacronico. Gli strumenti di protezione non sono concepiti più come tendenzialmente irreversibili; l’amministrazione di sostegno, inoltre, è assoggettata a provvedimenti integrativi, modificativi o sostitutivi, suscettibili di adattare nel tempo i meccanismi di tutela alle cangianti esigenze della persona (Cass. civ., sez. I, 25.10.2012, n. 18320; Cass. civ., sez. VI, 23.6.2011, n. 13747). Infine, è stato introdotto un congegno per transitare da un istituto di protezione all’altro.
L’amministrazione di sostegno è misura rivolta ad una platea di persone più ampia di quella cui erano destinati gli strumenti tradizionali di protezione. L’art. 404 c.p.c. ne individua l’ambito di applicazione.
Due sono i presupposti, che debbono essere entrambi sussistenti, affinché sia disposta l’amministrazione di sostegno: l’infermità o la menomazione fisica o psichica, nonché l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (Cass. civ., sez. IV, 4.2.2014, n. 2364). Vi dev’essere, inoltre, un nesso eziologico tra i suddetti due presupposti, nel senso che l’impossibilità di provvedere ai propri interessi deve essere riconducibile all’infermità o alla menomazione. Si tratta, all’evidenza, di uno spatium operandi particolarmente ampio, capace di abbracciare una vasta eterogeneità di fattispecie concrete (come dimostrano i riferimenti anche alle semplici menomazioni, e non solo alle infermità, ed ancora all’impossibilità, e non solo all’incapacità, di cura dei propri interessi). Ciò nondimeno, l’utilizzazione, da parte del legislatore, di un lessico originale, non ancora «arato» dalla giurisprudenza e non caratterizzato da profili di scientificità, ha posto una pluralità di problemi interpretativi ed esegetici.
Si parla, innanzitutto, di semplice infermità, e non già di infermità mentale (come, invece, è previsto per l’interdizione: v. supra, § 2.1). Dunque, è sufficiente che sussista una patologia, anche laddove essa non investa le facoltà intellettive e non assurga, pertanto, a malattia mentale (Cass. civ., sez. I, 2.8.2012, n. 13917). Presupposto alternativo all’infermità è la menomazione: il legislatore ha scientemente utilizzato un termine non tecnico, al fine di dare il senso, anche plastico, dell’ampiezza e della duttilità del congegno di protezione, senz’altro applicabile anche a casi di disabilità limitata e a forme anche non clinicamente rilevanti di minorità. In ogni caso, la condizione del beneficiario deve essere attuale: non è sufficiente che essa si sia manifestata esclusivamente in passato, né è sufficiente la previsione di una sua futura insorgenza (Cass. civ., sez. I, 20.12.2012, n. 23707).
Controverso è se le infermità o menomazioni debbano necessariamente incidere sulle facoltà intellettive, ovvero se siano sufficienti anche patologie soltanto fisiche. Secondo una prima tesi, l’amministrazione di sostegno può essere disposta anche nei confronti di una persona menomata esclusivamente dal punto di vista fisico. I fautori di tale orientamento fondano il proprio convincimento sul dato letterale: l’art. 404 c.c. parla di «infermità ovvero … menomazione fisica o psichica», utilizzando la disgiuntiva «o» e, dunque, accreditando la disabilità fisica quale autonomo presupposto applicativo (Simeoli, D., Amministrazione di sostegno: II, Profili sostanziali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007, 1 ss.). Viene valorizzato anche il riferimento all’impossibilità (e non all’incapacità) di cura dei propri interessi. Si ricorre, infine, al criterio della ratio legis, evidenziando come intenzione del legislatore sia stata quella di espandere l’ambito della tutela. Tale risultanza ermeneutica risulterebbe corroborata dal fatto che il provvedimento di amministrazione di sostegno, ai sensi dell'art. 409 c.c., non involge alcun accertamento circa l’incapacità di agire (essendosi accreditata la tesi secondo cui tale misura potrebbe anche non comportare limitazioni alla capacità di agire: Ferrando, G. L'amministrazione di sostegno nelle sue recenti applicazioni, in Fam. pers. succ., 2010, 836 ss.).
L’orientamento maggioritario nega che il semplice impedimento fisico possa assurgere a requisito autonomo per l’amministrazione di sostegno, ritenendosi che, affinché sia disposta tale misura, la disabilità debba comportare, comunque, ripercussioni sull’ambito cognitivo e volitivo. Il dato letterale viene superato con diversi criteri ermeneutici. Si valorizza l’interpretazione sistematica, mediante il ricorso a due considerazioni: la collocazione topografica dell’istituto, contigua all’interdizione e all’inabilitazione (misure utilizzabili esclusivamente per carenze intellettive); la previsione, nel codice civile, di altri e meno invasivi strumenti per sopperire ad un impedimento fisico, quale può essere il ricorso alla rappresentanza volontaria. Estendere l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno anche a casi di infermità o menomazione fisica, alla stregua di tale orientamento dottrinario, significherebbe altresì porsi in contrasto con la scelta di ridurre la connotazione eteronoma ed autoritativa della normazione di settore.
Una terza teoria subordina l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno ai casi di minorità soltanto fisica alla presenza di due condizioni: la necessità del consenso del beneficiario; la persistenza della capacità di agire di quest'ultimo e, dunque, la natura non sostitutiva della legittimazione dell’amministratore di sostegno (rispetto a quella sussistente in capo al soggetto che presenti patologie fisiche). A tale tesi si obietta che la capacità di agire non è disponibile per il privato. Siffatta critica, tuttavia, non è destinata a cogliere nel segno, quanto meno se si rileva che, con il proprio consenso, il beneficiario non disporrebbe della propria capacità d’agire, limitandosi ad assentire all’amministrazione di sostegno.
È necessario, inoltre, che l’infermità o la menomazione determinino l’impossibilità di cura dei propri interessi (Cass. civ., n. 2364/2014). La nozione di impossibilità è compatibile con soglie di autogoverno maggiori rispetto a quelle richieste per il caso di vera e propria incapacità. La suddetta condizione può anche essere temporanea (purché non sia transeunte) e parziale, da un punto di vista quantitativo (avendo riguardo al numero o all’entità economica delle conseguenze delle attività da compiere) o qualitativo (avendo riguardo alle tipologie di atti). Gli interessi presi di mira dal legislatore non sono soltanto quelli di natura patrimoniale, ma anche quelli connessi alla vita civile. La conferma si rinviene all’art. 405, co. 4, c.c., ove si fa riferimento alla cura della persona. Benché non ve ne sia cenno all’art. 404 c.c., è pacifico che l’amministrazione di sostegno possa essere disposta solo in favore di un beneficiario maggiore di età. Non mancano, tuttavia, sollecitazioni affinché de jure condendo l’istituto venga esteso anche al minore non sottoposto alla tutela dei genitori. L’età avanzata, di per sé, non rappresenta condizione sufficiente affinché sia nominato un amministratore di sostegno, ma essa può concorrere alla determinazione dei presupposti per siffatta istituzione (Bonilini, G., Persone in età avanzata, e amministrazione di sostegno, in Fam. pers. succ., 2005, 487 ss.).
È disciplinata la possibilità, per l’interessato, di designare il proprio amministratore di sostegno, quantunque tale indicazione non sia necessariamente vincolante per il giudice (art. 408 c.c.). La Suprema Corte, a tal proposito, ha evidenziato come tale facoltà, riconosciuta anche preventivamente all’insorgere della minorità, rappresenti esplicazione del principio di autodeterminazione (Cass. civ., sez. I, 20.12.2012, n. 23707). Più in generale, il Giudice deve seguire il criterio concernente la cura e gli interessi della persona beneficiaria della tutela (Cass. civ., sez. I, 26.9.2011, n. 19596).
Un ampio dibattito ha interessato l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno per il caso in cui una persona malata, impossibilitata a farlo, debba esprimere il consenso o il dissenso rispetto alla sottoposizione ad un trattamento terapeutico o chirurgico. La giurisprudenza di merito è orientata nel senso che spetta all’amministratore di sostegno ricostruire la volontà del paziente rispetto alle scelte di cura (Ciatti, A., I trattamenti sanitari e terapeutici alla persona (totalmente) incapace e l'amministrazione di sostegno, in Giur. it., 2012, 2279 ss.).
Stante la parziale fungibilità dei presupposti applicativi legittimanti le tre misure di protezione, le linee di confine dell’amministrazione di sostegno con l’inabilitazione, da una parte, e con l’interdizione, dall’altra, risultano oggetto di controversia in dottrina e in giurisprudenza. L’atteggiamento self-restraint adottato dal legislatore (che ha rimesso all’organo giudiziale un’ampia discrezionalità nella scelta dell’istituto da applicare al caso concreto) ha reso molto complesso il tentativo di individuare, in astratto, criteri discretivi tra una misura e l’altra.
La distinzione tra le due figure è complicata dalla nuova fisionomia assunta da interdizione ed inabilitazione a seguito della riforma del 2004. Infatti, il legislatore, pur alla presenza dei presupposti applicativi previsti per i due istituti tradizionali, ha disciplinato in termini di possibilità, e non più di doverosità, l’assunzione dei provvedimenti di interdizione ed inabilitazione. Inoltre, come si è notato, all’estrema duttilità dell’amministrazione di sostegno si è accompagnata una maggiore flessibilità delle due preesistenti misure di protezione. L’art. 427 c.c., a seguito della novellazione, abilita il Giudice a sottrarre determinate tipologie di atti dai regimi della tutela e della curatela, in deroga agli schemi precostituiti per legge che, in tal modo, divengono parzialmente derogabili.
Proprio l’impossibilità di un raffronto in astratto tra le tre misure ha inibito la ricostruzione degli istituti de quibus in termini di climax, impedendo di ravvisarvi una scala di progressività. La parziale sovrapponibilità delle fattispecie e i rilevanti poteri attribuiti al diritto giurisprudenziale hanno innescato anche dubbi di legittimità costituzionale dell’impianto disegnato dal legislatore. La Consulta, tuttavia, ha certificato la conformità delle norme alla Costituzione, valorizzando il principio di residualità (degli altri istituti rispetto all’amministrazione di sostegno) quale grimaldello per la scelta da compiere nel caso concreto (C. Cost., 9.12.2005, n. 440). Non mancano, peraltro, elementi atti a differenziare le tre misure di protezione.
Mentre l’amministrazione di sostegno e l’interdizione possono essere disposte anche per patologie afferenti alla sola cura personae, l’inabilitazione, anche dopo la riforma, comporta una protezione limitata al solo ambito patrimoniale (sebbene l’art. 44 disp. att. c.c., come novellato, parrebbe far ritenere diversamente). Ne consegue che, laddove dovessero sussistere patologie comuni all’inabilitazione e all’amministrazione di sostegno, che tuttavia, nel caso concreto, incidano negativamente su aspetti della vita civile, il Giudice sarà obbligato a scegliere quest’ultimo istituto (Trib. Napoli, 3.7.2006, in Corr. mer., 2006, 985).
Laddove sussista un’ipotesi di infermità di mente, non talmente grave da dar luogo all’interdizione, l’individuazione di un criterio discretivo è particolarmente ardua, posto che il legislatore configura l’inabilitazione per i casi di infermità meno grave rispetto a quelli legittimanti l’interdizione, senza tracciare alcun discrimen con i presupposti applicativi dell’amministrazione di sostegno. Ebbene, per jus receptum, si applica il criterio funzionale: dovrà essere preferita la misura di protezione che si riveli maggiormente adeguata al caso concreto. L’adozione di tale criterio deve tener conto di tre fattori: a) il favor nei confronti dell’amministrazione di sostegno, con conseguente applicazione residuale dell’inabilitazione (v. supra, § 2.4); b) l’inutilizzabilità dell’inabilitazione per sopperire a bisogni ultronei rispetto all’ambito patrimoniale; c) il fatto che la modulabilità dell’amministrazione di sostegno trova un limite proprio nell’ambito di poteri assegnato al curatore per il caso di inabilitazione. In sostanza, i poteri dell’amministratore di sostegno non potranno mai essere talmente ampi, per ciò che attiene all’ambito patrimoniale, da coincidere con quelli assegnati dal legislatore al curatore.
Si discute circa l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno a casi di prodigalità o di abuso di sostanze economiche o stupefacenti. Pur essendovi orientamenti che negano tale possibilità, la dottrina maggioritaria si esprime in senso favorevole, a condizione che sussistano i presupposti per la misura de qua. Mentre appare di difficile riscontrabilità l’esistenza di una situazione di infermità derivante da prodigalità o da abuso di sostanze economiche o stupefacenti, è ben possibile che tali condizioni possano assurgere a scaturigine di menomazioni. Ad ogni modo, la concreta possibilità di ricorrere all’amministrazione di sostegno al cospetto di fattispecie di prodigalità dipende in larga misura dagli esiti della pluriennale disputa relativa ai presupposti per la pronuncia dell’inabilitazione (Trabucchi, A., L'alterazione mentale nella prodigalità dell'inabilitato, in Giur. it., 1980, I, 966 ss.). Se si aderirà ad una prima tesi (secondo cui l'inabilitazione può essere disposta solo ove la prodigalità costituisce espressione di infermità), allora verrà fatta larga applicazione dell'amministrazione di sostegno. Viceversa, laddove dovesse prevalere la seconda tesi (secondo cui la prodigalità costituisce requisito autonomo per l'inabilitazione), allora lo spatium operandi per l'amministrazione di sostegno si ridurrebbe. Ricorrendone i presupposti, si dovrebbe comunque far ricorso all'amministrazione di sostegno, nel caso in cui la prodigalità dovesse esporre il soggetto e la famiglia a gravi pregiudizi.
Il criterio funzionale, fondato sulla maggior adeguatezza di uno strumento rispetto all’altro, determina altresì la scelta, nel caso di persona sorda o cieca dalla nascita o dalla prima infanzia, la quale non abbia ricevuto un’educazione sufficiente. Ed infatti, si tratta senz’altro di fattispecie generative di menomazione fisica, che talvolta possono determinare anche minorità psichica. Anzi, potrà essere disposta amministrazione di sostegno anche nel caso in cui la sordità o la cecità non siano insorte alla nascita o alla prima infanzia, ovvero riguardino persone che abbiano ricevuto sufficiente educazione, naturalmente laddove si presentino i requisiti codificati dall’art. 404 c.c. (v. supra, § 3.1).
Più complessa è l’individuazione della linea di confine tra interdizione ed amministrazione di sostegno, anche perché entrambi gli istituti sono volti anche alla tutela di interessi relativi alla cura della persona. Il problema, in particolare, si pone nel caso di sovrapponibilità dei requisiti legittimanti: infatti, anche l’amministrazione di sostegno è prevista per i casi di infermità mentale derivante da impossibilità totale e permanente di cura dei propri interessi.
Due sono le teorie che si sono contrapposte. La tesi minoritaria fonda la distinzione su un criterio quantitativo, dovendosi disporre l’interdizione nei casi in cui il livello di gravità della malattia sia più forte. I sostenitori di questa teoria attribuiscono rilievo al dato letterale, in base al quale l’interdizione è disposta nel caso di incapacità, mentre l’amministrazione di sostegno è prevista per il caso di impossibilità. Inoltre, si valorizza il disposto (art. 410 c.c.) secondo cui l’amministratore di sostegno deve informare ed ascoltare il beneficiario. La tesi maggioritaria adotta il criterio funzionale. Tale orientamento depotenzia l’argomento letterale, rilevando come l’incapacità sia una species nel genus dell’impossibilità e come, pertanto, essa sia compatibile, in astratto, con lo strumento dell’amministrazione di sostegno. Inoltre, si afferma che la previsione di doveri di ascolto ed informativi del beneficiario deve interpretarsi nel senso che tali doveri debbono essere assolti esclusivamente laddove le condizioni del soggetto consentano di adempierli. D’altra parte, si evidenzia che, persino laddove una dialettica tra amministratore di sostegno e beneficiario sia possibile, il dissenso espresso da quest’ultimo non sarebbe ex se ostativo allo svolgimento di un’attività da parte dell’amministratore di sostegno (quantunque questi, in tal caso, sia tenuto ad informare previamente il giudice: art. 410 c.c.). Infine, si è evidenziato che la nuova formulazione dell’art. 414 c.c., in materia di interdizione, sottintende l’eliminazione del carattere obbligatorio di tale misura, pur al cospetto dei presupposti stabiliti dalla legge per il ricorso ad essa. In sostanza, l’amministrazione di sostegno potrebbe essere disposta anche nei casi di totale incapacità del soggetto di provvedere ai propri interessi, laddove tale misura si presenti, nel caso concreto, come maggiormente adeguata rispetto all’interdizione.
Secondo quest’ultima e prevalente impostazione, la scelta deve essere effettuata avendo riguardo a due principi-cardine: i) anche nei casi di privazione totale della capacità, sussiste un sostanziale favor ordinamentale per l’amministrazione di sostegno, sicché l’interdizione rappresenta un’extrema ratio (v. supra, § 2.4); ii) tuttavia, all’amministratore di sostegno non potrebbero mai essere assegnati tutti i poteri attribuiti al tutore.
Sulla base di tali canoni orientativi, la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha statuito che, rispetto all’interdizione, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno non va collegato necessariamente ad un diverso e meno intenso grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto al tipo di attività che deve essere compiuta in nome del beneficiario della protezione (Cass. civ., sez. I, 26.10.2011, n. 22332; Cass. civ., sez. I, 1.3.2010, n. 4866; Cass. civ., sez. I, 24.7.2009, n. 17421; Cass. civ., 29.11.2006, n. 25366; Cass. civ., sez. I, 12.6.2006, n. 13584).
Il riferimento alla maggiore adeguatezza di un istituto rispetto all’altro, con riguardo alle circostanze del caso concreto, è apparso a taluni commentatori un criterio discretivo viziato da intrinseca tautologia. Si è contestata, a tal riguardo, l’eccessiva discrezionalità attribuita al giudice. I sostenitori della teoria prevalente, viceversa, condividono la soluzione adottata dalla Suprema Corte, valorizzando la sua coerenza con il mutamento di paradigma impresso dalla riforma.
D’altra parte, la stessa giurisprudenza, per temperare il rischio di arbitrarietà e disomogeneità delle decisioni, ha codificato una serie di elementi da prendere in considerazione, al fine di valutare la maggiore idoneità dell’amministrazione di sostegno o dell’interdizione. Il giudice, nell’apprezzamento della congruità della misura alle specifiche esigenze dell’interessato, dovrà tenere in considerazione: la gravità della malattia e/o della situazione di bisogno; la durata della stessa ed i margini di recupero; il grado di complessità delle attività da svolgere, nonché il numero e la gravità delle problematiche ad esse correlate; la consistenza del patrimonio; il grado di solidità della rete di protezione assicurata dalla famiglia e/o dai servizi sociali; la presenza e l’intensità della vita di relazione; la sussistenza o meno di contenziosi nella famiglia; i rapporti, anche di possibile conflitto di interessi, che intercorrono tra il soggetto da proteggere e la persona designanda come amministratore di sostegno e/o tutore; l’impatto della misura adottanda sulla psicologia del soggetto; il carattere dell’interessato; altre, specifiche circostanze caratterizzanti la vicenda presa in esame (Cass. civ., sez. I, 26.7.2013, n. 18171; Cass. civ., sez. I, 25.10.2012, n. 18320; Cass. civ., sez. I, 1.3.2010, n. 4866).
Artt. 404-432 c.c.; artt. 40, 42, 44, 46-bis, 47, 49-bis, 129 disp. att. c.c.; artt. 712-720-bis e 732-734 c.p.c.; l. 9.1.2004, n. 6; d.p.r. 14.11.2002, n. 313; l. 27.6.1909, n. 640; l. 3.3.2009, n. 18.
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