Abstract
Il procedimento di interdizione e inabilitazione presenta aspetti di spiccata specialità che riguardano soprattutto la fase istruttoria, le impugnazioni e la possibilità che il provvedimento finale, una volta passato in giudicato, possa essere oggetto di un giudizio di revoca per il venir meno delle condizioni che hanno giustificato la pronuncia protettiva.
Il procedimento di interdizione e inabilitazione è disciplinato dagli artt. 712-720 c.p.c., nonché da alcune regole processuali contenute negli artt. 414-432 c.c., norme che ne costituiscono altresì il fondamento di diritto sostanziale.
Si è molto discusso circa la natura di questo procedimento: taluno lo ascrive alla giurisdizione volontaria, altri a quella contenziosa (specie la giurisprudenza) o ne evidenziano la commistione di elementi di entrambe le categorie; altri ancora – ed è la tesi più convincente – lo annoverano fra i cd. processi a contenuto oggettivo, ossia quei processi volti ad attuare interessi generali o situazioni non soggettivabili che culminano in statuizioni idonee al giudicato (Tommaseo, F., I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 500; per riferimenti sulle opinioni ricordate, v. Vullo, E., Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, I, Bologna, 2011, 453 ss.).
La competenza per materia sulla domanda d’interdizione o inabilitazione spetta al tribunale, che giudica in composizione collegiale ai sensi dell’art. 50 bis, co. 1, c.p.c., per la necessaria partecipazione al giudizio del p.m.
Competente per territorio è il giudice del luogo di residenza o domicilio dell’interdicendo o dell’inabilitando; si tratta di competenza inderogabile ex art. 28 c.p.c., sempre per l’obbligatorietà dell’intervento del p.m. (Vellani, M., Interdizione e inabilitazione (procedimento di), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 2): ciò comporta che il relativo difetto sia rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 38, co. 3, c.p.c. (Miozzo, A., Commento all’art. 712 c.p.c., in Commentario breve al diritto della famiglia, a cura di A. Zaccaria, II ed., Padova, 2011, 2658).
Se domicilio e residenza dell’incapacitando sono sconosciuti, si ritiene applicabile il criterio sussidiario di cui all’art. 18, co. 1, c.p.c., che attribuisce rilievo al luogo della dimora (se nota e se in Italia) (Poggeschi, R., Il processo d’interdizione e d’inabilitazione, Milano, 1958, 54 s., spec. 55, nt. 17). Qualora invece l’interdicendo o inabilitando risieda all’estero, l’art. 29, co. 2, d.lgs. 3.2.2011, n. 71, stabilisce che la competenza appartenga al tribunale di ultima residenza in Italia dell’incapacitando, ovvero, se costui non ha mai avuto residenza in Italia, al «tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE».
Se l’incapacitando è un minore emancipato o nell’ultimo anno della minore età, la competenza per materia spetta al tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 40 disp. att. c.c., mentre ai fini della competenza per territorio si guarda al luogo dove il minore ha il domicilio ex art. 45, co. 2, c.c., e quindi il luogo di residenza della famiglia o del tutore (Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, III ed., IV, Napoli, 1964, 353). La disciplina del processo d’interdizione o inabilitazione è identica nel caso che si svolga davanti al tribunale ordinario o a quello per i minorenni (Redenti, E.-Vellani, M., Diritto processuale civile, Milano, 2011, 835).
I soggetti legittimati (in via alternativa o concorrente) a proporre la domanda sono indicati all’art. 417 c.c., con un’elencazione considerata tassativa e che non prevede un ordine di preferenza (per indicazioni, Vullo, E., op. cit., 458 s.).
In particolare, dopo che la l. 9.1.2004, n. 6 ha novellato tale norma, la legittimazione spetta innanzitutto allo stesso interdicendo o inabilitando, per effetto del richiamo agli artt. 414 e 415 c.c. La seconda categoria di soggetti titolari del potere di avviare il processo comprende persone che sono legate all’incapacitando da stretti vincoli di familiarità: il coniuge, la persona stabilmente convivente, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo grado. L’ultima categoria di legittimati raccoglie soggetti non appartenenti alla famiglia dell’incapacitando, ma cui la legge conferisce il potere di promuovere questo giudizio, per altri motivi: il p.m. e il tutore o curatore (riferimenti in Vullo, E., op. cit., 458 ss.).
L’art. 417, co. 2, c.c. prevede poi una legittimazione più ristretta nell’eventualità che l’interdicendo o inabilitando sia sotto la responsabilità dei genitori oppure abbia come curatore uno di essi: in quest’ipotesi, il potere di proporre la domanda appartiene solo ai genitori aventi la responsabilità e la curatela, nonché al p.m.
Quanto alla legittimazione passiva essa appartiene esclusivamente all’incapacitando. Di regola possono essere interdette o inabilitate solo le persone fisiche maggiorenni; la legge ammette tuttavia una deroga, consentendo l’interdizione (ma non l’inabilitazione) del minore emancipato, nonché l’interdizione (e l’inabilitazione) del minore che si trovi nell’ultimo anno di minore età.
Il processo di interdizione o inabilitazione s’introduce con ricorso, che deve contenere i requisiti previsti dall’art. 712, co. 2, c.p.c., nonché, in quanto compatibili, gli elementi di forma-contenuto imposti in via generale dall’art. 125 c.p.c. per tutti gli atti processuali di parte (Vellani, M., op. cit., 3).
La prima di queste disposizioni stabilisce che nel ricorso debbano indicarsi le generalità e la residenza del coniuge, dei parenti entro il quarto grado e degli affini entro il secondo, e, se vi sono, del tutore o del curatore dell’incapacitando; ancora, nonostante l’art. 712 c.p.c. non lo dica, è necessario menzionare le stesse indicazioni relative all’eventuale persona convivente (Miozzo, A., op. cit., 2659): scopo della norma è permettere l’individuazione dei soggetti che, nelle fasi successive del processo, saranno chiamati a fornire al giudice le informazioni e i pareri circa l’esistenza delle circostanze di fatto cui è subordinata l’eventuale pronuncia d’interdizione o inabilitazione (Rampazzi Gonnet, G., Procedimento di interdizione e inabilitazione, in Dig. civ., XIV, Torino, rist. 1997, 596). Secondo la giurisprudenza, l’omissione di tutte o di alcune di queste indicazioni – cui segua la mancata notificazione, ai relativi soggetti, del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, ex art. 713, co. 2, c.p.c. – configura una mera irregolarità, sanabile nel corso del processo mediante l’audizione dei soggetti non indicati o non citati, e può costituire motivo d’impugnazione della sentenza solo deducendo che il soggetto pretermesso sarebbe stato in grado di offrire decisivi elementi di convincimento (da ultimo, Cass., 15.5.1989, n. 2218).
L’altro requisito imposto dall’art. 712, co. 2, c.p.c. è l’esposizione dei fatti sui quali si fonda la domanda. Per alcuni tale espressione imporrebbe solo la menzione delle condizioni anormali dell’incapacitando ovvero l’alterazione patologica delle sue facoltà mentali, condizioni che rappresentano la causa petendi della domanda di interdizione o inabilitazione; altri sembrano sostenere, invece, che la norma richiederebbe anche l’esposizione dei singoli fatti storici che costituiscono indizio della predetta condizione di anormalità (sul punto, Vullo, E., op. cit., 467 ss.).
Come detto, le disposizioni sul contenuto del ricorso ex art. 712 c.p.c. vanno integrate con quelle dell’art. 125 c.p.c., in quanto compatibili: l’atto introduttivo del processo dovrà pertanto indicare anche le generalità e la residenza del ricorrente e dell’incapacitando, l’ufficio giudiziario adito e il provvedimento richiesto.
Si afferma che l’omissione o l’assoluta incertezza dei vari requisiti fin’ora ricordati (tranne l’indicazione degli altri soggetti legittimati: v. supra) comporterebbero la nullità dell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 156, co. 2, c.p.c., salva la sanatoria per raggiungimento dello scopo (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 595; contra, Vullo, E., op. cit., 469 s., favorevole all’applicabilità dell’art. 164 c.p.c., pur con i necessari adattamenti).
Il ricorso introduttivo va sottoscritto da un avvocato munito di procura al momento del deposito del ricorso (Cass., 22.6.1994, n. 5967).
Il deposito del ricorso in cancelleria apre la fase cd. preliminare o presidenziale del giudizio di interdizione o inabilitazione (regolata all’art. 713 c.p.c.), fase che si svolge davanti al presidente del tribunale e ha lo scopo di valutare, con un esame sommario, se l’azione proposta presenti almeno una parvenza di fondatezza o se, invece, si basi su fatti ictu oculi irrilevanti e inverosimili; la ratio di questa delibazione preventiva è preservare l’incapacitando da domande palesemente infondate, permettendone il rigetto in limine litis (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 593, 597).
L’unica ipotesi in cui non ha luogo il vaglio preliminare si ha quando la domanda sia stata proposta dal p.m.: in questo caso, dunque, il presidente nomina direttamente il giudice istruttore e fissa la data dell’udienza di comparizione, senza possibilità di rigetto in limine.
Al di fuori di quest’eventualità, se il giudizio è promosso da una parte privata (i.e., da uno degli altri legittimati indicati all’art. 712 c.p.c.), il presidente ordina la comunicazione del ricorso al p.m., il quale, esaminati l’atto introduttivo del processo e i documenti che l’istante abbia eventualmente depositato, se convinto dell’infondatezza della domanda, può chiederne al presidente il rigetto immediato.
In seguito alla richiesta motivata di rigetto del P.M., il presidente non può pronunciarsi immediatamente, ma deve comunicare la richiesta al ricorrente per consentirgli di formulare eventuali osservazioni, fissando un’apposita udienza per ascoltare entrambe le parti: ciò per effetto di una decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’art. 713 c.p.c., là dove consente al presidente di rigettare «senz’altro» la domanda di interdizione o inabilitazione, senza istituire il contraddittorio con il ricorrente (C. cost., 5.7.1968, n. 87, in Riv. dir. proc., 1969, 301, con nota di C. Mandrioli).
Il presidente del tribunale, se condivide la valutazione del p.m., rigetta il ricorso con decreto motivato, avente natura di volontaria giurisdizione, quindi non idoneo al giudicato e revocabile. Inoltre, in virtù della già ricordata C. cost. n. 87/1968, il decreto di rigetto è impugnabile con reclamo al presidente della corte d’appello nei termini e nelle forme del rito camerale. Se la legittimazione a valersi di tale rimedio spetta certamente al ricorrente, la maggioranza degli studiosi sembra escluderla in capo al p.m., mentre alcuni, analogamente a quanto previsto dall’art. 718 c.p.c., la estendono a tutti gli altri soggetti che avrebbero potuto iniziare il giudizio (Vullo, E., op. cit., 474 s.).
Il decreto di rigetto non impedisce la riproposizione della domanda, anche sulla base degli stessi motivi, ma (secondo i più) allegando nuove deduzioni e argomentazioni (Vullo, E., op. cit., 475).
Se la domanda di interdizione o inabilitazione è stata proposta dal p.m., oppure questi non ha richiesto il decreto di rigetto, o ancora il presidente non ha accolto tale istanza, l’art. 713 c.p.c. regola il passaggio dalla fase preliminare a quella istruttoria del processo, stabilendo innanzitutto al co. 1 che il presidente nomini il giudice istruttore e fissi l’udienza di comparizione dinanzi a sé del ricorrente, dell’incapacitando e di tutte le altre persone indicate nel ricorso, le cui informazioni ritenga utili. Questo provvedimento – con il quale il giudice fissa pure il termine entro cui il ricorrente ha l’onere di provvedere alle notificazioni previste al comma successivo – ha forma di decreto ed è ritenuto non impugnabile con ricorso straordinario in cassazione ex art. 111, co. 7, Cost. (Cass., 29.5.1972, n. 1678; in argomento v. pure Cass., 1.10.1975, n. 3095).
Nell’individuare le persone che dovranno comparire all’udienza istruttoria, il presidente non è vincolato dal ricorso: da un lato infatti egli può escludere qualcuno dei familiari menzionati dall’art. 712, co. 2, del quale non reputi utile la presenza (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 599); dall’altro, sempre in base al criterio dell’utilità, può disporre la comparizione di altri soggetti (colegittimati) non indicati nell’atto introduttivo del giudizio (Andrioli, V., op. cit., 357 s.). La Suprema Corte afferma che queste persone, se diverse dall’interdicendo o dall’inabilitando, sono chiamate a partecipare al giudizio in via «consultiva», ossia come «fonti di utili informazioni al giudice» (Cass., 1.12.2000, n. 15346)
L’art. 713, co. 2, c.p.c. prevede che il decreto di nomina del giudice istruttore e di fissazione della prima udienza siano notificati all’incapacitando e alle altre persone indicate al co. 1, notificazione a cura del ricorrente, entro un termine considerato non perentorio (Andrioli, V., op. cit., 358). Se questi non provvede, si verifica una mera irregolarità, sanabile nel corso del processo attraverso l’audizione dei soggetti non citati, e che può costituire motivo d’impugnazione della sentenza solo deducendo che il soggetto pretermesso sarebbe stato in grado di offrire decisivi elementi di convincimento (Cass., 15.5.1989, n. 2218). Diversamente, se l’omissione o l’invalidità riguardano la notificazione del ricorso e del decreto all’interdicendo o inabilitando, si ritiene che il presidente debba ordinare al ricorrente la rinnovazione della notifica e, in caso di inottemperanza, disporre che sia la cancelleria a provvedere a tale incombente (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 599 s.).
Lo stesso art. 713, co. 2, c.p.c. dispone che il decreto presidenziale sia comunicato al p.m.
Per la dottrina più recente il ricorrente è da considerare costituito fin dal momento del deposito del ricorso (e del proprio fascicolo) nella cancelleria del giudice adito; l'iscrizione a ruolo della causa avviene d’ufficio, senza bisogno che sia presentata l’apposita nota. Ciò comporta da un lato l’impossibilità che il giudizio si svolga in contumacia dell’attore, dall’altro che il passaggio alla seconda fase del processo si perfezioni con la semplice rimessione del fascicolo al giudice istruttore (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 600; diff., gli studiosi citati da Vullo, E., op. cit., 478).
Quanto all’incapacitando e agli altri soggetti destinatari della notificazione di cui all’art. 713, co. 2, c.p.c. che vogliano partecipare attivamente al processo, essi possono costituirsi in qualunque momento del giudizio.
La fase istruttoria del giudizio è fondamentalmente regolata dall’art. 714 c.p.c. il quale prevede che all’udienza il giudice istruttore, con l’intervento del p.m., esamini l’interdicendo o l’inabilitando, senta il parere delle altre persone citate, interrogandole sulle circostanze che ritiene rilevanti ai fini della decisione e possa disporre, anche d’ufficio, l’assunzione di ulteriori informazioni, esercitando tutti i poteri istruttori previsti nell’art. 419c.c.
In generale si osserva che tale istruttoria si caratterizza per gli ampi poteri ufficiosi del giudice, assumendo una connotazione spiccatamente inquisitoria, dovuta alla rilevanza pubblicistica degli interessi tutelati (Vellani, M., op. cit., 6). Si ritiene altresì che – esaurita inutilmente l’istruttoria tipica contemplata all’art. 714 c.p.c. (o quando il giudice non abbia raggiunto la certezza circa la sussistenza della causa di incapacità) – sia possibile avvalersi di alcuni degli altri mezzi istruttori indicati dal codice di rito, «secondo le formalità e le garanzie ivi previste» (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 601; contra, Poggeschi, R., Interdizione e inabilitazione, in Nss. D.I., VIII, Torino, 1962, 825): dunque nulla dovrebbe escludere, di regola, l’ammissibilità della prova testimoniale o della consulenza tecnica, o la produzione di documenti (Andrioli, V., op. cit., 362); diversamente, la natura indisponibile delle situazioni soggettive coinvolte impedisce l’esperibilità del giuramento decisorio e della confessione (Vellani, M., op. cit., 6), nonché, per uno studioso, dell’interrogatorio libero (Schizzerotto, G., Interdizione e inabilitazione, Padova, 1972, 209).
Se è vero che il convincimento del giudice può fondarsi su varie fonti, la principale è certamente rappresentata dall’esame diretto dell’incapacitando: l’importanza di questo mezzo istruttorio è tale che, per alcuni, il giudice potrebbe trarre anche solo da esso elementi sufficienti per la decisione.
Nonostante l’art. 419, co. 1, c.c. reciti che «non si può pronunciare l’interdizione o l’inabilitazione senza che si sia proceduto all’esame dell’interdicendo o dell’inabilitando», vi è chi sostiene giustamente che l’omissione del mezzo istruttorio sia ammissibile almeno in caso di illegittimo rifiuto opposto dall’esaminando a comparire davanti al giudice – ergo, in mancanza del «legittimo impedimento« di cui all’art. 715 c.p.c. – o di irreperibilità dell’esaminando (conf., C. cost., ord. 31.3.1988, n. 382, in Giust. civ., 1988, I, 1386). Fermo restando, peraltro, che la mancata comparizione ingiustificata dell’incapacitando, non solo non è interpretabile come ficta confessio, ma non può nemmeno assumere il più limitato valore di argomento di prova ai sensi del combinato disposto degli artt. 116 e 118 c.p.c.; pertanto, se l’illegittimo contegno dell’incapacitando rende impossibile l’esame da parte del giudice istruttore, la decisione della causa dipenderà dal risultato dell’esperimento dei mezzi di prova ammessi su istanza di parte o d’ufficio, nonché dagli eventuali documenti prodotti in giudizio (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 604;Vellani, M., Alcune considerazioni sull’esame dell’interdicendo o dell’inabilitando, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, spec. 995 s.).
Come accennato, la legge prevede che, se l’interdicendo o l’inabilitando non può presentarsi per «legittimo impedimento» davanti al giudice istruttore, questi, con l’intervento del p.m., si rechi per sentirlo nel luogo dove si trova (art. 715 c.p.c.).
Nel silenzio dell’art. 714 c.p.c., le modalità di svolgimento dell’esame dell’incapacitando sono rimesse alla valutazione del giudice istruttore, che procederà come reputa più opportuno (e che può farsi assistere da un consulente tecnico ex art. 419, co. 2, c.c.). Di regola, tuttavia, questo mezzo istruttorio consiste in un colloquio fra il giudice istruttore e l’esaminando, cui sono poste domande volte a stabilirne «le capacità intellettive e le concrete ed attuali facoltà di cosciente autodeterminazione» (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 602), ma anche nell’osservazione, da parte del magistrato, «dell’aspetto esteriore» e «del comportamento dell’interdicendo o inabilitando» (Schizzerotto, G., op. cit., 159; in proposito la Consulta ha affermato che l’esame dell’incapacitando va inteso come indagine sulla sua «complessiva personalità», quale emerge non solo dalle risposte al giudice «ma anche dall’intero comportamento tenuto in occasione dell’incontro con il giudice» ovvero dall’eventuale scelta di sottrarsi a esso: C. cost., ord. 31.3.1988, n. 382, in Giust. civ., 1988, I, 1386).
Dell’esame, che può eventualmente essere ripetuto, si redige processo verbale.
Si è accennato che il giudice istruttore deve esaminare l’interdicendo o inabilitando con l’intervento del p.m. (art. 714 c.p.c.): per la giurisprudenza più recente, l’inosservanza di tale precetto non sarebbe causa di nullità del mezzo istruttorio e degli atti consequenziali, sempre che al p.m. siano stati ritualmente comunicati ricorso e data di comparizione dell’incapacitando (riferimenti in Vullo, E., op. cit., 486 s.).
L’art. 714 c.p.c. prevede che il giudice istruttore, oltre a esaminare l’incapacitando, senta il parere delle altre persone citate a comparire all’udienza (Vellani, M., Sul parere delle persone citate nel procedimento d’interdizione e d’inabilitazione, in Riv. trim dir. proc. civ., 1995, 591 ss.). Tali persone sono quelle – legittimate a proporre la domanda d’interdizione o inabilitazione, anche se non indicate nel ricorso introduttivo – che il presidente del tribunale (ex art. 713, co. 1, c.p.c.) ha ritenuto in grado di fornire informazioni utili per la causa. Si ritiene che il giudice istruttore possa ampliare o limitare il numero delle persone da ascoltare, escludendo alcune di quelle indicate dal presidente, oppure, all’opposto, convocando alcuni dei legittimati pretermessi (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 607, nt. 228).
Poiché l’art. 714 c.p.c. nulla prevede sul punto, anche l’audizione de qua è un mezzo istruttorio che si svolge con le modalità che il giudice reputi più opportune, senza la necessaria osservanza di forme solenni o particolari (sul punto, v. Vullo, E., op. cit., 488).
Il giudice istruttore che, nonostante l’esame dell’incapacitando e l’ascolto delle altre persone citate a comparire, abbia ancora dei dubbi, può disporre, anche d’ufficio, «l’assunzione d’ulteriori informazioni, esercitando tutti i poteri istruttori previsti nell’art. 419 c.c.» (art. 714 c.p.c.). Dunque, in caso di esito negativo o non del tutto positivo dei mezzi di prova speciali, il giudice istruttore dispone di due altri strumenti per completare il suo convincimento: a) «assumere informazioni», che potranno essere richieste, ad es., a enti pubblici o privati, o ad altre persone, che conoscano le condizioni dell’incapacitando; b) ricorrere ai mezzi istruttori del processo ordinario, esclusi, però, quelli incompatibili con l’indisponibilità della situazione soggettiva che costituisce oggetto del giudizio di interdizione o inabilitazione (giuramento e confessione) (v. supra).
L’assunzione delle informazioni può avvenire «anche d’ufficio» (art. 714 c.p.c.): ciò dovrebbe comportare la possibilità per il giudice istruttore di domandare informazioni o documenti, pure in mancanza di un’iniziativa delle parti private o del p.m. (riferimenti, anche difformi, in Vullo, E., op. cit., 489 s.).
Per alcuni, il giudice istruttore che reputi sufficientemente adeguata, già dopo l’esame dell’incapacitando, la misura dell’amministrazione di sostegno, potrebbe disporre la trasmissione degli atti al giudice tutelare ai sensi dell’art. 418, co. 3, c.c., e quindi anche d’ufficio (Jannuzzi, A.-Lorefice, P., La volontaria giurisdizione, XI ed., Milano, 2006, 241); in tal caso, lo stesso giudice competente per l’interdizione o inabilitazione può adottare i provvedimenti urgenti previsti all’art. 405, co. 4, c.c. strumentali alla cura della persona interessata e alla conservazione e all’amministrazione del suo patrimonio, nonché, se necessario, provvedere «alla nomina di un amministratore di sostegno provvisorio, indicando gli atti che questi è autorizzato a compiere» (Miozzo, A., op. cit., 2667).
L’art. 419, co. 3, c.c. prevede che il giudice istruttore possa nominare un tutore o un curatore provvisorio. La disciplina positiva dell’istituto comprende – oltre alla norma appena ricordata e all’art. 717 c.p.c. (sugli aspetti processuali della nomina) – anche gli artt. 422, 423, 424, e 427 c.c., che riguardano, rispettivamente, la durata, la pubblicità, la scelta, e gli effetti dell’ufficio.
La nomina del tutore o curatore provvisorio è disposta dal giudice sul presupposto che egli si convinca, anche già sulla scorta delle prime risultanze istruttorie, che le condizioni di salute mentale del soggetto di cui si domanda l’interdizione o inabilitazione siano tali da determinare «l’incapacità di quest’ultimo a provvedere ai propri interessi» (Bruscuglia, L., Interdizione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 15).
La tutela interinale dell’incapacitando risponde dunque all’esigenza di garantire un’efficace gestione dei suoi interessi (ma anche di protezione di quelli della collettività, ossia di coloro che si trovino in contatto con quest’ultimo, per ragioni non solo economiche) (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 607 s.), durante il tempo necessario per lo svolgimento del processo.
Sotto il profilo strutturale, invece, la nomina de qua, si caratterizza, oltre che per la provvisorietà, anche e soprattutto per il nesso di «strumentalità» che la lega alla decisione finale (Cass., 15.11.1994, n. 9634), della quale anticipa in parte quelli che saranno gli effetti.
Dal combinato disposto degli artt. 717 c.p.c. e 419, co. 3, c.c. si evince che la nomina del tutore o curatore provvisorio è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice istruttore, il quale può provvedervi anche d’ufficio, a condizione che sia stato espletato l’esame dell’incapacitando (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 608) o anche, per alcuni, qualora tale esame risulti oggettivamente impossibile (Vellani, M., Interdizione e inabilitazione, cit., 7). È ragionevole ritenere che a tale adempimento sia consentito provvedere fino alla rimessione della causa al collegio e nulla sembra escluderne l’ammissibilità anche in grado d’appello, quando sia impugnata la sentenza di rigetto della domanda d’interdizione o inabilitazione (Rampazzi Gonnet, G., op. cit.,608).
Si discute se il tutore o curatore provvisorio possa essere nominato dal collegio con la sentenza che accoglie la domanda d’interdizione o inabilitazione: alcuni lo ammettono, altri lo negano, ma non mancano soluzioni intermedie (sul punto, v. Vullo, E., op. cit., 498 s.).
La nomina del tutore o curatore provvisorio va preceduta dalla sua audizione (Trib. S. Maria Capua Vetere, 7.2.1997, in Dir. fam., 1998, 153); costui, una volta dichiarato idoneo ad assumere l’ufficio, potrà accettare o rifiutare l’incarico (Miozzo, A., op. cit., 2671).
La nomina avviene con decreto, soggetto al regime di pubblicità dichiarativa regolato dall’art. 423 c.c., il quale ne prevede l’immediata annotazione a cura del cancelliere nell’apposito registro, nonché la comunicazione entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile, affinché proceda all’annotazione in margine all’atto di nascita ai sensi dell’art. 49, co. 1, lett. d), d.P.R. 3.11.2000, n. 396; l’art. 42 disp. att. c.c. stabilisce inoltre che, entro dieci giorni dalla pubblicazione, la cancelleria del tribunale debba trasmettere copia in carta libera del provvedimento al giudice tutelare.
È opinione diffusa che il decreto di nomina non sia impugnabile in alcun modo: contro di esso, infatti, non sarebbe proponibile reclamo ex art. 739 c.p.c., né ex art. 669 terdecies c.p.c. (contra, Vullo, E., op. cit., 501), né ricorso straordinario in cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost., né infine regolamento di competenza. Pertanto, l’unico rimedio nei confronti di un provvedimento di nomina del tutore o curatore provvisorio che si riveli inopportuno o illegittimo (fin dall’origine o per fatti sopravvenuti) consisterebbe nel potere di revoca del giudice istruttore (sempre con decreto), esercitabile su istanza di parte o d’ufficio (art. 717, co. 2, c.p.c.), finché non sia stata pronunciata la sentenza d’interdizione o inabilitazione (indicazioni in Vullo, E., op. cit., 500 s.).
Premesso che ai sensi dell’art. 716 c.p.c., l’incapacitando può stare in giudizio e compiere da solo tutti gli atti del procedimento, comprese le impugnazioni, anche qualora sia stato nominato il tutore o curatore provvisorio, si sostiene che quest’ultimo non sia parte necessaria del giudizio e non assuma la veste di rappresentante processuale dell’incapacitando.
È dibattuto se il tutore o curatore provvisorio possa costituirsi nel giudizio di interdizione o inabilitazione: la maggioranza degli studiosi lo ammette, aggiungendo che in questo caso egli potrà presentare istanze o conclusioni anche in contrasto con quelle dell’incapacitando (Vellani, M., op. cit., 7). Se si accoglie questa tesi e si ritiene altresì, con la dottrina prevalente, che tale causa sia da considerare inscindibile, ne deriva che l’impugnazione dovrà essere notificata anche al tutore o curatore provvisorio che si sia costituito nel giudizio di primo grado (diff., però, la giurisprudenza evocata da Vullo, E., op. cit., 501 ss.)
La cessazione dall’incarico si verifica, innanzitutto, qualora il giudice istruttore revochi la nomina o sostituisca la persona del tutore o curatore provvisorio, sulla base di una rinnovata valutazione, anche d’ufficio, circa la sussistenza dei presupposti che avevano determinato l’adozione del provvedimento di tutela interinale dell’incapacitando (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 611). Il decreto di nomina perde inoltre efficacia con la pronuncia della sentenza di accoglimento o di rigetto della domanda di interdizione o inabilitazione. In particolare, in caso di accoglimento l’organo provvisorio resta in carica fino a quando il giudice tutelare non nomina il tutore o curatore “definitivo”, il quale peraltro, potrà anche essere la persona che già rivestiva l’incarico in via interinale (riferimenti in Vullo, E., op. cit., 503 s.). Nell’ipotesi di rigetto della domanda, invece, si ha di regola la cessazione della tutela provvisoria, salvo che il giudice non ritenga opportuno mantenere in carica il tutore o curatore interinale fino al passaggio in giudicato della sentenza stessa (art. 422 c.c.).
Conclusa l’istruzione, si ritiene (non senza contrasti) che il passaggio alla fase decisoria segua le scansioni del rito ordinario: precisazione delle conclusioni, scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ex art. 187 ss. c.p.c., nonché eventuale svolgimento della discussione orale della causa davanti al collegio qualora una delle parti ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 275 c.p.c. (riferimenti in Vullo, E., op. cit., 504).
Il provvedimento conclusivo del giudizio di interdizione o inabilitazione ha forma di sentenza, con la quale il tribunale può accogliere la domanda, dichiarando lo stato di incapacità, oppure rigettare l’istanza e non concedere la misura richiesta.
La sentenza di accoglimento della domanda ha natura costitutiva necessaria e produce effetti erga omnes dal momento della pubblicazione (art. 421 c.c.), salvo che l’incapace si trovi nell’ultimo anno di minore età, ipotesi in cui l’art. 416 c.c. prevede che l’efficacia decorra dal raggiungimento della maggiore età.
La pronuncia con cui si accoglie l’istanza di interdizione o di inabilitazione è soggetta a un regime di pubblicità con funzione dichiarativa: precisamente, l’art. 423 c.c. stabilisce che la sentenza sia immediatamente annotata a cura del cancelliere nell’apposito registro e comunicata entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni a margine dell’atto di nascita. L’eventuale omissione di tali adempimenti pubblicitari, considerata la loro natura dichiarativa, non impedisce che la pronuncia d’interdizione o inabilitazione produca i suoi effetti (Cass., 9.3.1955, n. 703).
Quanto al regime delle spese processuali, non si dubita dell’applicabilità del principio dell’onere dell’anticipazione ex art. 8 d.P.R. 30.5.2002, n. 115, sia nel caso di domanda proposta da una parte privata che dal p.m. La questione è meno semplice riguardo ai criteri per la distribuzione definitiva del carico delle spese. Così, la giurisprudenza maggioritaria e parte della dottrina ritengono che, pure in questo giudizio, operi la regola generale della soccombenza. Nell’ambito di tale orientamento, poi, mentre prevale l’opinione che questa disciplina sarebbe integralmente applicabile anche nei confronti del p.m., vi è chi la limita alle sole parti private (indicazioni in Vullo, E., op. cit., 508 ss.).
L’art. 418 c.c. prevede che il tribunale adito per l’interdizione possa dichiarare, anche d’ufficio, l’inabilitazione, ma esclusivamente per infermità di mente e non per le altre cause previste all’art. 415 c.c. (Andrioli, V., op. cit., 349). Si procederà in questo modo quando il giudice si convinca che non sussistano i presupposti per la misura più grave, «ma siano presenti quelli per l’inabilitazione» (Fazzalari, E., Giurisdizione volontaria (diritto processuale civile), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 366; Cass., 4.10.1956, n. 3340, in Giust. civ., 1957, I, 47).
La stessa norma stabilisce poi che, proposta la domanda originaria di inabilitazione, il tribunale possa dichiarare l’interdizione, quando nel corso del giudizio il p.m. sollevi la relativa istanza affermando l’esistenza delle condizioni richieste per la misura incapacitante più grave. Dunque in questo caso, al contrario del precedente, è esclusa la possibilità di una pronuncia d’ufficio; peraltro, vi è chi ritiene legittimato a proporre la predetta istanza, non solo il p.m., ma anche l’originario ricorrente, o addirittura chiunque avrebbe potuto proporre la domanda di interdizione (riferimenti in Vullo, E., op. cit., 511 s.).
Infine, sempre l’art. 418 c.c. dispone che se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appaia opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, «il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare»; in questo caso, lo stesso giudice dell’interdizione o inabilitazione può adottare «i provvedimenti urgenti» indicati all’art. 405, co. 4, c.c., ossia quelli relativi alla cura della persona interessata e alla amministrazione del suo patrimonio, e può altresì nominare, se opportuno, un amministratore di sostegno provvisorio.
È opinione comune che la sentenza conclusiva del procedimento di interdizione o di inabilitazione, di accoglimento o di rigetto, sia soggetta in linea di massima ai normali mezzi di impugnazione previsti all’art. 323 c.p.c. In particolare, non si dubita dell’ammissibilità dell’appello, del ricorso ordinario per cassazione contro la sentenza di gravame e del regolamento di competenza. Anche per la revocazione si tende a riconoscerne in generale l’ammissibilità, anche se taluno osserva che non tutti i motivi menzionati all’art. 395 c.p.c. sarebbero compatibili con il giudizio in esame o che comunque alcuni di essi non sembrano avere particolare rilevanza pratica. Si dibatte invece sulla proponibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.: taluno la considera inammissibile, sia nella forma ordinaria (co. 1) sia in quella revocatoria (co. 2); altri, l’ammettono in entrambi i casi; altri ancora distinguono, limitando l’ammissibilità alla sola forma revocatoria ed escludendola per quella ordinaria) (su tutto, riferimenti in Vullo, E., op. cit., 512 ss.).
Circa l’applicabilità delle norme generali in materia di impugnazione, si segnala una pronuncia di legittimità che ha ritenuto incompatibile l’art. 338 c.p.c. con i procedimenti di interdizione e di revoca dell’interdizione (Cass., 17.2.2006, n. 3570)
Relativamente al giudizio di gravame, la Suprema Corte ha statuito che, dichiarata con sentenza di primo grado l’inabilitazione di un soggetto, non si può chiederne per la prima volta l’interdizione in appello, stante il divieto di domande nuove ex art. 345 c.p.c.; si è altresì affermato che la sentenza di riforma della decisione di primo grado restituisce piena capacità all’interdetto con efficacia retroattiva (indicazioni di giurisprudenza in Vullo, E., op. cit., 515 s.). Si nega, inoltre, la possibilità di reformatio in peius, vale a dire «la pronuncia dell’interdizione in caso di inabilitato appellante avverso la sentenza d’inabilitazione» (Giunta, G., Incapacità di agire, Milano, 1965, 79).
Riguardo alla legittimazione a impugnare, l’art. 718 c.p.c. stabilisce una deroga significativa ai principi che valgono nel processo ordinario di cognizione, conferendo il potere d’impugnare ai soggetti cui spetta il diritto di proporre la domanda di interdizione o inabilitazione, anche qualora non abbiano partecipato al relativo giudizio. In proposito, secondo una criticabile pronuncia della Cassazione, i parenti o gli affini che non furono parte del procedimento potrebbero censurare la sentenza solo deducendo che la loro esclusione avrebbe impedito di acquisire fatti e informazioni che avrebbero diversamente orientato la decisione (Cass., 1.12.2000, n. 15346; contra, Vullo, E., op. cit., 517).
La legittimazione a impugnare spetta anche all’interdetto o inabilitato, il quale – secondo la tesi più convincente (seppure minoritaria) – potrebbe impugnare la sentenza che ha dichiarato l’interdizione o l’inabilitazione, nonché, qualora abbia proposto egli stesso la relativa domanda, anche (e solo) quella che ha rigettato tale istanza (v.Vullo, E., op. cit.,517 s.). Al riguardo, si rammenta che per alcuni il sistema delle impugnazioni nel giudizio de quo conoscerebbe un’altra importante eccezione rispetto ai principi ordinari: si sostiene, cioè, che il ricorrente, sia esso un privato o il p.m., potrebbe impugnare non solo la sentenza di rigetto della domanda proposta, ma anche di accoglimento, in deroga, quindi, alla regola della soccombenza (critico Vullo, E., op. cit., 518 s., ed ivi riferimenti).
Si discute, infine, sul significato dell’ultimo inciso dell’art. 718 c.p.c., che amplia il novero dei soggetti legittimati ad impugnare anche «al tutore o al curatore nominato con la stessa sentenza»: norma di ardua interpretazione, tenuto conto che la nomina del tutore o curatore definitivo appartiene alla competenza esclusiva del giudice tutelare, mentre quella degli organi interinali di tutela spetta, per l’opinione preferibile, al solo giudice istruttore, tutt’al più con la possibilità che la sentenza confermi questi organi nel loro ufficio (per indicazioni v. Vullo, E., op. cit., 519).
Ai sensi dell’art. 719, co. 1, c.p.c., il cd. termine breve per impugnare decorre – per tutti i legittimati ex art. 718 c.p.c., abbiano o no partecipato al giudizio – dalla notificazione della sentenza a quanti sono stati parte del processo. Questo termine (come pure quello cd. lungo) non è soggetto a sospensione feriale (Vullo, E., op. cit., 520 s.).
L’art. 719, co. 2, c.p.c. stabilisce che l’atto di impugnazione debba essere notificato «anche» all’eventuale tutore o curatore provvisorio, un inciso da cui taluno ha desunto l’inscindibilità della causa e la conseguente applicazione dell’art. 331 c.p.c. (Vullo, E., op. cit., 522 s.).
L’impugnazione va comunicata anche al p.m. (v. Vullo, E., op. cit., 523).
La disciplina processuale della revoca dell’interdizione o inabilitazione è contenuta all’art. 720 c.p.c., mentre gli aspetti sostanziali dell’istituto sono regolati dagli artt. 429-432 c.c.
Si ritiene che due siano i presupposti della domanda di revoca: a) il passaggio in giudicato della sentenza di interdizione o inabilitazione; b) il venir meno delle condizioni che ne hanno giustificato la pronuncia. La necessità di entrambi deriva dall’oggetto del giudizio di revoca che non consiste nel riesame, ormai precluso dal giudicato, dei presupposti sostanziali che avevano giustificato l’assunzione della misura protettiva, bensì nell’accertamento della persistenza o della cessazione della causa d’incapacità nel tempo successivo alla pronunzia (Cass., 26.1.1952, n. 221, in Riv. dir. proc., 1952, II, 215, con nota di F. Carnelutti). Non si tratta quindi di un rimedio a carattere impugnatorio (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 629), ma di un procedimento volto a ricreare la corrispondenza tra lo stato di capacità naturale e legale del beneficiario, alla luce di eventuali mutamenti verificatisi nelle sue condizioni psichiche (in argomento, Vullo, E., op. cit., 524 s.).
I soggetti muniti di legittimazione a proporre la domanda di revoca sono indicati, innanzitutto, dall’art. 429, co. 1, c.c., ove si menzionano il coniuge, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo grado, il tutore dell’interdetto o dell’inabilitato e, infine, il p.m. Tale elenco che, prima della novella dell’art. 417 c.c. coincideva con quello dei soggetti legittimati a promuovere il giudizio di interdizione o inabilitazione, va ora integrato in via interpretativa, adeguandolo all’ampliamento del novero di coloro che possono domandare la pronunzia di una delle misure protettive in esame: oggi, quindi, la legittimazione ad agire per la revoca spetta anche all’incapacitando e alle persone stabilmente conviventi con esso (Miozzo, A., op. cit., 2677).
La Suprema Corte ha statuito che nelprocedimento «avente ad oggetto la revoca dell’interdizione e l’eventuale pronuncia dell’inabilitazione, il curatore provvisorio, nominato all’esito del giudizio di primo grado, non assume la veste di rappresentante processuale dell’interdetta, medio tempore inabilitata» e che «pertanto, correttamente, l'atto di appello del tutore è notificato alla parte personalmente e non al curatore provvisorio» (Cass. 2,.8.2007, n. 17003).
In virtù del rinvio contenuto all’art. 720, co. 1, c.p.c., il giudizio di revoca segue le regole previste per il procedimento d’interdizione o inabilitazione, se compatibili (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 631).
Giudice competente è il tribunale nel cui circondario si trova il domicilio del tutore o la residenza dell’interdetto, ovvero la residenza o il domicilio dell’inabilitato. La domanda ha forma di ricorso che, se proposto da parte privata, va comunicato al p.m. e comunque notificato, con il decreto di fissazione dell’udienza, all’interdetto in persona del tutore e all’inabilitato (in argomento, v. Vullo, E., op. cit., 527). La revoca può essere chiesta anche dal p.m. che, ai sensi dell’art. 429, co. 2, c.c., va informato dal giudice tutelare dell’eventuale venir meno della causa che aveva legittimato la pronuncia della misura di protezione dell’incapace.
L’istruttoria e la decisione dovrebbero avvenire secondo le modalità previste per il giudizio di interdizione o inabilitazione, e ciò in forza del rinvio contenuto all’art. 720, co. 1, c.p.c. Tuttavia, in virtù della consueta clausola di compatibilità, si esclude che sia possibile nominare un tutore o curatore provvisorio, operando già quello definitivo, mentre è dubbio se sia applicabile il rigetto dell’istanza in limine litis ai sensi dell’art. 713 c.p.c. (sul punto, Vullo, E., op. cit., 528).
L’art. 720, co. 2, c.p.c. pone una regola che lascia perplessi (Satta, S., Commentario del codice di procedura civile, IV, 1, Milano, rist. 1968, 351), stabilendo che i colegittimati a proporre la domanda di interdizione o inabilitazione possano intervenire nel giudizio di revoca, ma solo per opporsi alla relativa istanza (dunque, non per chiederne l’accoglimento: in proposito, v. Cass., 10.4.1953, n. 939, in Foro it., 1954, I, 342 ss., spec. 344).
Quanto alla fase decisoria, il tribunale – sentite le conclusioni del p.m. e, se opportuno, anche il giudice tutelare (Rampazzi Gonnet, G., op. cit., 631) – definisce il giudizio con sentenza, che potrà essere di rigetto o di accoglimento dell’istanza e dunque, in quest’ultimo caso, di revoca dello stato di incapacità. Ma la legge contempla altri due possibili esiti del processo. Innanzitutto, l’art. 432 c.c. prevede che, qualora l’autorità giudiziaria reputi fondata l’istanza di revoca, ma non ritenga «che l’infermo abbia riacquistato la piena capacità», possa revocarne l’interdizione e nel contempo dichiararne ex officio l’inabilitazione. Un’ulteriore conclusione del procedimento si ricava dall’art. 429, ult. co., c.c., per il quale, se durante il giudizio di revoca appare opportuno che, accolta la domanda, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, pure d’ufficio, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare per i provvedimenti di sua competenza.
La sentenza conclusiva del giudizio di revoca è impugnabile con i mezzi esperibili contro la pronuncia che ha dichiarato l’interdizione o l’inabilitazione (Poggeschi, R., op. ult. cit., 836); ex art. 720, co. 2, c.p.c., sono legittimati a impugnare tutti coloro che avrebbero potuto proporre la domanda di revoca, anche qualora non abbiano partecipato al relativo giudizio: dunque, i soggetti indicati all’art. 429, co. 1, c.c., nonché lo stesso interdetto o inabilitato e le persone stabilmente conviventi (la giurisprudenza ha chiarito che l’impugnazione è proponibile altresì dal coniuge divenuto tale dopo la sentenza d’interdizione: Cass., 10.4.1953, n. 939, cit., 346).
Ai sensi dell’art. 430 c.c la sentenza di revoca è soggetta alle forme di pubblicità dichiarativa stabilite per quella di interdizione o inabilitazione.
La sentenza di revoca produce effetto dal passaggio in giudicato (art. 431 c.c.) e non dalla pubblicazione, come avviene invece per quella di interdizione o inabilitazione. L’art. 431 c.c. prevede, tuttavia, che gli atti compiuti dall’incapace dopo la pubblicazione della sentenza siano impugnabili solo dopo che la revoca sia esclusa con sentenza passata in giudicato.
Artt. 712-720 c.p.c.; artt. 417-423, 429-432 c.c.
Poggeschi, R., Il processo d’interdizione e d’inabilitazione, Milano, 1958; Rampazzi Gonnet, G., Procedimento di interdizione e inabilitazione, in Dig. civ., XIV, Torino, rist. 1997, 583 ss.; Schizzerotto, G., Interdizione e inabilitazione, Padova, 1972; Sorace, S., Interdizione (diritto processuale civile), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 953 ss.; Tommaseo, F., I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 685 ss.; Vellani, M., Interdizione e inabilitazione (procedimento di), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989; Vullo, E., Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, I, Bologna, 2011, 452 ss.