INTERDIZIONE
. Diritto romano. - L'interdizione dei pazzi e dei prodighi è istituto antichissimo regolato già nelle XII Tavole (cfr. Tab. V, 7: Si furiosus escit, adgnatum gentiliumque in eo pecuniaque eius potestas esto; Cic., Ad Her., I, 13, 23; De inv., II, 50; Dig., XXVII, 10 De curat. furioso, 1 pr.; Ulp. XII, 2: Lex duodecim tabularum furiosum itemque prodigum, cui bonis interdictum est, in curatione iubet esse agnatorum). Privati dell'amministrazione dei beni, sono sottoposti nella persona e nelle sostanze alla cura degli agnati e dei gentili, la più antica cura che si conosca nel diritto romano. La funzione del curator è più che altro patrimoniale: per quanto le fonti dichiarino che egli eserciti la potestas sulla persona del pazzo, questi in realtà è affidato ai congiunti prossimi e in casi gravi sottoposto a relegazione.
Si disputa se la cura ricordata nelle XII Tavole si applicasse solamente al furiosus oppure anche al mentecaptus. Contro l'opinione dominante che ammette fin dai tempi antichi la distinzione fra le due categorie, una moderna teoria (S. Solazzi, P. Bonfante) nega fondatamente per il diritto antico e per quello classico la distinzione, la quale sarebbe sorta soltanto in epoca romano-ellenica sulla base del concetto dei lucidi intervalli. I prodighi sono solo verbalmente assimilati ai pazzi, giacché hanno la capacità di acquisto e possono compiere gli atti che migliorano la loro condizione. Sulla base di un passo di Paolo, che ci conserva la formula del decreto d'interdizione pretorio (Sent. III, 4a, 7, Moribus per praetorem bonis interdicitur hoc modo. "Quando tibi bona paterna avitaque nequitia tua disperdis, liberosque tuos ad egestatem perducis, ob eam rem tibi ea re (o aere) commercioque interdico"), e di Ulpiano, XII, 3, si ritiene che l'interdizione secondo la legge delle XII Tavole non potesse applicarsi se non a chi dissipava beni aviti, cioè all'erede ab intestato. Negli altri casi il pretore stesso nominava il curatore con una formula probabilmente modificata. Il Solazzi trova una spiegazione a ciò, osservando che le XII Tavole avrebbero assoggettato all'interdizione e alla cura degli agnati e dei gentili i sui heredes, appunto perché questi potevano a quell'epoca essere fra i prodighi che bisognavano di protezione. Il diseredato non doveva infatti avere beni sufficienti da richiedere tale norma e l'erede testamentario designato dal pater non era certo prodigo, altrimenti non sarebbe stato nominato erede. (Contro la tesi assai dubbia di A. Übbelohde e di A. Audibert, i quali ammettono due specie di prodighi: l'uno interdetto dalla legge e incapace per effetto dell'interdizione relativamente ai bona paterna avitaque; l'altro, a cui il pretore nomina un curatore senza interdirlo e la cui incapacità deriva da un'assimilazione pretoria al furiosus, cfr. P. Bonfante, Corso, I, p. 485). Nel passo di Paolo, III, 4a, 7, l'accenno ai mores appare come una contraddizione di fronte al fatto che l'interdizione è regolata nelle XII Tavole. Il Bonfante osserva che si può spiegar facilmente tale accenno, riferendo i mores alla formula del decreto d'interdizione e ritenendo che le XII Tavole stabilissero soltanto l'interdizione e la cura.
Il curatore ha facoltà assai ampie, compresa quella di alienare; ma poco alla volta queste facoltà vanno sempre più restringendosi analogamente a quel che accade per le facoltà del tutore. Si applicò alla cura dei pazzi e dei prodighi anche il senatoconsulto di Severo sulle alienazioni fatte dai tutori (Dig., XXVII, 9 De rebus eorum, 8, 1). Non mancano nondimeno dichiarazioni sulla maggiore ampiezza che serba questa specie di cura (Gaio, II, 64: v. tutela).
Nel diritto classico, accanto alla curatela legittima, abbiamo la cura dativa. Il magistrato, del resto, nomina quasi sempre curatore la persona prescelta nel testamento, onde può dirsi che in pratica ha efficacia la cura testamentaria. Controverso è il regime giustinianeo. A. Audibert, Ch. Appleton, S. Solazzi sostengono l'inapplicabilità della cura legittima e ciò è esatto nel senso che ormai questa cura è assorbita dalla cura dativa, richiedendosi sempre la conferma del magistrato. Il Solazzi nega l'esistenza di una cura testamentaria non sottoposta a conferma, (contro questa tesi: Bonfante, op. cit., p. 479 segg.).
L'interdizione e la cura dei pazzi hanno termine con la guarigione: nel diritto giustinianeo si sospendono durante i lucidi intervalli del furiosus. Per quanto riguarda i prodighi la fine dell'interdizione e della cura avviene con il ritorno ad sanos mores, ma si ritiene che debba intervenire una cognitio e un provvedimento da parte del magistrato.
Diritto moderno. - Nel diritto italiano l'interdizione della persona può essere pronunciata con speciale sentenza in un giudizio civile a causa d'infermità di mente o in un giudizio penale come aggravamento della pena restrittiva della libertà personale in seguito a grave condanna penale: la prima è l'interdizione giudiziale; la seconda, l'interdizione legale.
Interdizione giudiziale. - Questa non ha luogo naturalmente che per i maggiori d'età e i minori emancipati: il minore, anche se colpito da grave infermità mentale, è già protetto come minore e non può essere interdetto se non nell'ultimo anno della sua minore età (art. 325 c. civ.). Deve trattarsi d'infermità abituale (art. 324) in modo che la persona interdicenda sia incapace di provvedere ai proprî interessi. Il giudizio d'interdizione può essere promosso da qualsiasi congiunto, dal coniuge, dal pubblico ministero (art. 326): l'ambiguo termine congiunto ha fatto dubitare se una tal facoltà spettasse anche all'affine; il progetto del nuovo codice civile (art. 504) risolve la disputa parlando espressamente di parenti entro il 4° grado e di affini entro il 2°. La pronuncia del tribunale (il progetto del nuovo codice civile sostituisce al tribunale il giudice tutelare) deve essere preceduta dall'interrogatorio dell'interdicendo (art. 327) e dalla costituzione di un consiglio di famiglia se si tratta di figlio legittimo (o di tutela, se si tratta di figlio illegittimo), che deve esprimere il proprio parere sull'interdizione: di esso non possono far parte il coniuge, i discendenti e i parenti che abbiano domandato l'interdizione (art. 327). Dopo l'interrogatorio dell'interdicendo e prima della sentenza definitiva, si può nominare all'interdicendo un amministratore provvisorio, detto anche curatore temporaneo. Se questi sia un vero rappresentante e se abbia poteri che eccedono l'ordinaria amministrazione, è disputato: sembra preferibile la dottrina (R. De Ruggiero) che lo nega e che vede nell'amministratore provvisionale un curatore che assiste ma che non sostituisce.
Gli effetti della sentenza d'interdizione sono: a) la sottoposizione dell'interdetto al potere del tutore (art. 329) sia quanto alla persona, sia quanto ai beni: alla tutela dell'interdetto sono comuni le disposizioni della tutela dei minori salvo alcune differenze e disposizioni speciali (art. 330-334 c. civ.); b) la nullità di diritto degli atti compiuti dopo la sentenza (art. 335). Questo articolo commina la nullità di diritto anche agli atti compiuti dopo la nomina dell'amministratore provvisionale, ma ciò s'intende quando alla nomina di questo amministratore sia effettivamente poi seguita la sentenza d'interdizione: se questa non è pronunciata, gli atti si considerano validi e, finché non venga pronunciata, non potranno essere impugnati come atti nulli.
Con l'espressione atti nulli di diritto, usata dal nostro legislatore (art. 335), si vuol significare che la prova, diretta a dimostrare che, nonostante la pronunciata interdizione, l'interdetto aveva piena coscienza di quel che voleva, non è ammissibile e che la nullità degli atti compiuti cesserà solamente con la revoca dell'interdizione e precisamente dalla data della sentenza che la pronuncia. L'art. 335 capov. statuisce che la nullità non può essere proposta se non dal tutore dell'interdetto e dai suoi eredi o aventi causa: per questo, siccome l'inefficacia dell'atto è subordinata alla sua impugnativa, fu giustamente osservato che il legislatore impropriamente parla di nullità e meglio avrebbe fatto se avesse parlato di annullabilità. Il progetto del nuovo codice civile (art. 523) più esattamente parla, infatti, di annullabilità e nega l'impugnabilità se l'altro contraente dimostra di avere agito in buona fede e che dall'atto non è derivato pregiudizio patrimoniale o morale alcuno all'infermo di mente.
Circa gli atti compiuti dai malati di mente, non interdetti, valgono le seguenti regole. È dichiarato nullo il testamento (art. 763) ed è dichiarata nulla la donazione (art. 1052) di colui che non era sano di mente nel tempo in cui testava o donava, indipendentemente da qualsiasi procedimento d'interdizione. Per ogni altro atto compiuto anteriormente all'interdizione occorre che non solo la grave infermità mentale sia dimostrata esistente al tempo del compimento dell'atto, ma che l'interdizione sia poi stata dichiarata e che "o per la qualità del contratto o per il grave pregiudizio che ne sia derivato o ne possa derivare all'interdetto o altrimenti risulti la malafede di chi contrattò col medesimo" (art. 336). Che se l'infermo di mente è morto prima che ne fosse promossa l'interdizione, l'atto potrà essere annullato soltanto se la prova dell'infermità risulti dall'atto stesso che viene impugnato. È noto che soprattutto dalle diverse norme contenute negli articoli 763, 1052, 336 e 337 c. civ. trae origine la disputa se accanto all'incapacità legale sia riconosciuta nel sistema del nostro codice l'incapacità naturale. Il che riconoscono i più, quantunque diverse siano le conseguenze.
Interdizione legale. - In tutti i tempi e presso tutti i popoli le condanne per reati gravi hanno influito più o meno duramente sulla capacità giuridica del condannato, essendosi ritenuto giusto e morale togliere o diminuire i diritti civili alle persone che se ne erano mostrate indegne. Il diritto moderno - financo il Codice Napoleone (art. 25 e 33) - sancì la finzione della morte civile e pronunziò la fuorgiudica e l'infamia dei condannati. L'Italia abolì espressamente questi istituti nelle provincie che facevano parte dell'ex regno delle Due Sicilie con l'art. 24 del decr. 17 febbraio 1861. Indi l'art. 3 delle disposizioni transitorie del codice civile dispose che il condannato alla pena di morte, all'ergastolo e ai lavori forzati a vita fosse interdetto legalmente. Tale interdizione importava che il condannato non potesse amministrare i suoi beni né disporne per atto tra vivi, e gli potesse soltanto essere assegnato un tenue sussidio a titolo di alimenti; che perdesse i diritti politici, la potestà patria e la maritale e che conservasse soltanto il diritto di ricevere sia per donazione, sia per testamento, nonché la facoltà di testare e di contrarre matrimonio. Queste disposizioni furono sostanzialmente mantenute nel codice penale del 1889, il quale tuttavia, per quel che riguarda il condannato all'ergastolo, aggiunse alle altre limitazioni l'incapacità di testare e annullò il testamento fatto prima della condanna (art. 33).
Anche per il codice penale 1930 il condannato a morte - fino all'esecuzione della condanna (art. 38) - e il condannato all'ergastolo non hanno più l'esercizio dei diritti patrimoniali (amministrazione dei beni e rappresentanza a causa della detta amministrazione, perdono la patria potestà sui figli legittimi e la tutela legale sui figli naturali riconosciuti, l'autorità maritale, e la capacità di testare, e diventa nullo il testamento fatto prima della condanna. Invece rimangono salvi i diritti personali, sicché i detti condannati possono riconoscere figli naturali; intentare l'azione di denegata paternità, di separazione personale; pubblicare un'opera dell'ingegno od opporsi alla pubblicazione della medesima. E in ciò l'interdizione legale differisce dalla giudiziale, come ne differisce altresì nel senso che gli atti compiuti dall'interdetto giudiziale sono inficiati da nullità relativa, che può essere, cioè, proposta soltanto dal tutore, dall'interdetto e dai suoi eredi e aventi causa (art. 335 cod. civ.), laddove quelli compiuti dall'interdetto legale sono inficiati da nullità assoluta, che cioè si può opporre da chiunque vi abbia interesse (art. 1107, 2° comma cod. civ.).
È oggetto di disputa la condizione giuridica del condannato a morte, che venga graziato. Secondo l'opinione più accettabile, siccome l'art. 174 cod. pen. dispone che l'indulto o la grazia non estinguono le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, bisogna ritenere che egli rimanga in stato d'interdizione legale, a meno che non venga espressamente reintegrato nella piena capacità giuridica.
Anche il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, durante la pena, perde ipso iure, salvo che il giudice disponga altrimenti, la patria potestà e l'autorità maritale (art. 32). Se si tratta di delitti commessi con abuso della patria potestà o dell'autorità maritale, è inibito al giudice di escludere la perdita di tali prerogative e la condanna importa la perdita ipso iure anche per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta (art. 34).
Era antico voto della dottrina, che dai registri dello stato civile apparisse tutto ciò che riguarda la condizione giuridica della persona. Tale voto non è stato soddisfatto, e si sono emessi soltanto alcuni provvedimenti, che non integrano la pubblicità di tali atti nell'interesse dei terzi. Si è disposta infatti la pubblicazione della sentenza di condanna alla pena di morte o all'ergastolo (art. 36 cod. pen.); si sono sancite le norme per l'esecuzione delle pene accessorie (art. 587 cod. proc. pen.); e si è vietato d'inserire nelle copie, estratti o certificati degli atti dello stato civile alcune circostanze che ricordano l'esecuzione delle pene (art. 602 cod. proc. pen.).
Interdizione dai pubblici uffici. - La pratica legislativa ha sempre applicato (e la dottrina non ne contesta la ragionevolezza) alcune pene, che limitano temporaneamente o perpetuamente la capacità giuridica pubblica del colpevole d'un reato, che si sia dimostrato col reato commesso indegno di compiere certe funzioni o di godere o acquistare alcuni diritti soggettivi pubblici (a qualità, a gradi, a dignità, a titoli, a uffici e a impieghi).
Nella nostra legislazione l'interdizione è applicata a tutti coloro che hanno subito una grave condanna per qualunque specie di reato e a tutte le funzioni che hanno in sé come una rappresentanza della pubblica amministrazione, al fine di rendere degni di stima e considerazione quanti sono investiti del pubblico potere.
Nel cod. pen. del 1930 (art. 28) l'interdizione è perpetua (e quindi irriducibile per attenuanti o scusanti, ammenoché la legge non disponga altrimenti) o temporanea (da uno a cinque anni salvo casi speciali: v. art. 79). Essa è pena per i delitti, e (eccetto i casi speciali in cui espressamente la legge ne limita gli effetti) produce la privazione dei seguenti diritti: 1. del diritto di elettorato e di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale e di ogni altro diritto politico; 2. di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità a essi inerente di pubblico ufficiale o d'incaricato di pubblico servizio.
Tale dizione va posta in relazione con il concetto abbastanza controvertibile, che gli articoli 357 e 358 cod. pen. dànno di pubblico ufficiale e d'incaricato di pubblico servizio. Ad ogni modo, comprendendo il n. 2 tanto il pubblico ufficio quanto l'incarico non obbligatorio di pubblico servizio, esso sembra includere tutti coloro che in qualche modo prestino non obbligatoriamente (siano o non siano impiegati) a tutte le amministrazioni dello stato (stato, enti ausiliarî, enti parastatali) un servizio per cui s'istituisca un rapporto pubblico con l'amministrazione. L'elettorato e l'eleggibilità politica si perdono in base alla legge speciale anche per altri reati (v. articoli 107, 108, 118 testo unico 2 settembre 1928, n. 1993). Nulla più dice la legge speciale per gli assessori alla Corte d'assise, mentre altre leggi speciali comminano esclusioni per alte pene per altri uffici (notai) e impieghi pubblici. A quello di giurato (ora soppresso) per l'art. 10 cod. proc. civ. è parificato l'ufficio di arbitro. Sarebbe escluso dall'inclusione nell'interdizione il puro e semplice servizio militare obbligatorio, ma la questione è risolta in senso affermativo dall'art. 4 del testo unico 8 settembre 1932, n. 1332, sul reclutamento del R. Esercito. L'esclusione contempla il perito in causa penale per l'art. 315 del codice di procedura penale. La legge notarile toglie anche la capacità a fungere da teste negli atti pubblici e nei testamenti.
3. dell'ufficio di tutore e di curatore, anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela e alla cura; le quali privazioni è da ritenere si riferiscano piuttosto a un munus di diritto privato anziché a diritti pubblici; 4. dei gradi (lauree e diplomi delle università e istituti superiori) e delle dignità accademiche (posizioni universitarie e accademiche); dei titoli (nobiliari, di ufficio e di onorificenza); delle decorazioni (medaglie e croci, comprese anche le straniere) e di altre pubbliche insegne onorifiche; 5. degli stipendî, delle pensioni, e degli assegni che siano a carico dello stato o di un altro ente pubblico; 6. di ogni diritto onorifico inerente a qualunque degli uffici, servizî, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti; 7. della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità e decorazione e insegna onorifica indicati nei numeri precedenti. Per l'art. 389 cod. pen. (a prescindere da altri reati che possano essere con la trasgressione compiuti), il condannato che trasgredisce gli obblighi derivanti dalla condanna d'interdizione commette senz'altro il reato d'inosservanza di pena accessoria ed è ulteriormente punito (ferma la durata della pena precedente) con la reclusione sino a un anno o con la multa da L. 500 a 10.000. Si discute da alcuni se tale reato permanente sussiste quando la professione sia esercitata a mezzo d'interposta persona. L'interdizione non è mai comminata come pena a sé, ma come pena accessoria, talora soltanto limitata a comprendere una parte degli uffici contemplati.
Oltre che per reati speciali, essa è comminata (art. 541 cod. pen.) per tutti i reati contro la morale pubblica e il buon costume, relativamente agli uffici attinenti alla tutela o alla cura, tutte le volte che la qualità di tutore o curatore è elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato. Inoltre (art. 31) ogni condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o servizio o a taluno degli uffici tutelari, importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Per l'art. 29 cod. pen. la condanna all'ergastolo e quella alla reclusione per più di cinque anni hanno per effetto l'interdizione perpetua del condannato; la condanna alla reclusione per un tempo superiore ai tre anni ha per effetto l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto o di tendenza a delinquere importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per la disposizione generale dell'art. 37, quando la legge commini l'interdizione senza esprimerne la durata, questa è uguale a quella della pena principale inflitta o da scontarsi in caso di conversione per insolvibilità del condannato, pur non oltrepassando mai il minimo e massimo per essa pena accessoria stabiliti. Infine l'interdizione consequenziale a condanna non si applica mai nel caso di condanna per delitto colposo, e neppure in quello di condanna per delitti commessi con abuso o violazione dei doveri d'ufficio o di servizio o di tutela, quando il delitto sia colposo e la pena inflitta inferiore a tre anni di reclusione o solo pecuniaria. Per l'art. 110 della legge di pubblica sicurezza la condanna per reati di ubbriachezza o commessi in stato di ubbriachezza, quando si tratti di condannati recidivi, ha per effetto l'interdizione per cinque anni dal diritto di elettore e di eleggibile.
Per la disposizione generale dell'art. 9 se la pena detentiva inflitta al minore di 18 anni è inferiore a 5 anni, alla condanna non segue l'interdizione: se la pena è più grave, la condanna importa l'interdizione solo per 5 anni.
Per l'art. 140 durante l'istruzione o il giudizio il giudice può ordinare la sospensione provvisoria dall'esercizio dei pubblici uffici o da taluno di essi dell'imputato, ove ritenga che possa essergli inflitta condanna che importi l'interdizione: tale tempo è computato nella durata della pena accessoria. In caso di concorso di reato e quindi di aumento di pena la interdizione temporanea dai pubblici uffici non può mai superare i 10 anni (art. 79 cod. pen.).
L'interdizione decorre dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, e per l'art. 139 non si tien conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva o è sottoposto a misura di sicurezza detentiva, né del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente all'esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
La legge non contempla prescrizione della condanna a pene accessorie, dimodoché pare che la condanna a interdizione non si prescriva.
Non fanno cessare l'interdizione (art. 174) l'indulto o la grazia salvo il caso di espressa disposizione. L'interdizione si estingue per effetto della riabilitazione (articolo 178 cod. pen.).
Se contro il cittadino per un delitto commesso all'estero sia stata ivi pronunciata condanna, che, secondo la legge italiana, importerebbe interdizione (v. art. 12, n. 2), l'autorità giudiziaria su istanza del Pubblico ministero può dichiarare che la sentenza pronunciata all'estero produce nel regno l'interdizione. La dichiarazione è pronunciata dalla Corte d'appello penale (con le forme stabilite per gl'incidenti di esecuzione) nel distretto della quale si trova il competente ufficio del casellario (art. 674 cod. proc. pen.). Ove sia pronunciata condanna con la pena dell'interdizione il Pubblico ministero o il pretore ne comunicano il dispositivo all'autorità di pubblica sicurezza e alle altre autorità interessate. Il Procuratore del re provvede a dar notizia al pretore e all'autorità amministrativa dell'estinzione dell'interdizione (articoli 587 e 588 cod. proc. pen.). Recente giurisprudenza ritiene che la pena dell'interdizione debba applicarsi, anche se non espressamente pronunciata, in via di esecuzione della sentenza.
Nel diritto penale francese (articoli 8, 28, 34, 36, C. P. e legge 31 marzo 1854 art. 2) troviamo la dégradation civique (perpetua, che può derivare dalla condanna a pena cosiddetta infamante, oppure è comminata come pena principale) e l'interdiction des droits civiques, civils et de famille (articoli 42-43 C. P.), che è pena correzionale, complementare, facoltativa.
La prima porta alla destituzione ed esclusione da ogni funzione, impiego o ufficio pubblico; alla privazione del diritto di voto, di elezione e di eleggibilità, e in generale di tutti i diritti civili e politici, del diritto di portare decorazioni, del diritto di portare armi, di far parte delle armate francesi, di tenere scuole, insegnare o essere impiegato in qualunque istituto d'istruzione a titolo di professore, maestro o sorvegliante; inoltre all'incapacità di essere teste e all'incapacità di far parte dei consigli di famiglia, di essere tutore, ecc. Se pena principale, può essere accompagnata dalla prigionia fino a cinque anni. La condanna ai lavori forzati a tempo, detenzione, reclusione o bando o a una pena perpetua porta con sé la degradazione.
La seconda colpisce il diritto di voto, d'eleggibilità, d'essere giurato ed esercitare altre funzioni pubbliche o impieghi amministrativi, di portare armi, di far parte dei consigli di famiglia e tutela, d'essere perito o teste; e il giudice può limitarla soltanto ad alcune di tali conseguenze.
Nel codice germanico l'interdizione dai diritti civili onorifici (sempre accessoria) è effetto di condanna a seguito di certe pene e talora facoltativa per alcune delinquenze speciali (§§. 31 a 37). È totale o parziale.
Essa produce la privazione dei diritti provenienti dalle pubbliche elezioni e dai pubblici uffici (compresa avvocatura, procura, notariato, ecc.), di ogni dignità, titolo, ordine e decorazione, della capacità di portare la coccarda, di prestare il servizio militare, di ottenere pubblici uffici, dignità, titoli, ordini, decorazioni, di votare, eleggere, essere eletto o esercitare altri diritti politici, di essere testimonio agli atti, di essere tutore, curatore, ecc.; oppure la perdita di alcuni di essi.
Disposizioni analoghe valgono in tutte le altre legislazioni.
Bibl.: Diritto romano: A. Audibert, La folie et la prodigalité en droit romain, Parigi 1892; Ch. Appleton, in Revue générale, XVII (1893), p. 136 segg.; P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Roma 1925, p. 473 segg.; P. Collinet, in Mélanges Cornil, I, Parigi 1926; F. De Visscher, ibid., II, pp. 539-612; O. Lenel, Intervalla insaniae, in Bull. Ist. dir. rom., XXXIII (1924); J. Pfaff, Zur Geschichte der Prodigalitätserklärung, Vienna 1911; S. Solazzi, La legge delle XII tavole sulla tutela e un'ipotesi del Bonfante, in Scritti dedicati a C. Arnò, Modena 1928; id., Interdizione e cura del prodigo nella legge delle XII tavole, in Studi in onore di P. Bonfante, I, pagine 45-70; id., Furor vel dementia, in Μουσεῖον, II (1924), fasc. 2°; A. Uebbelohde, in Grünhut's Zeitschrift, XLI (1869), p. 621 segg.
Interdizione giudiziale: R. De Ruggiero, Ist. di dir. civ., Messina 1932; id., Gli atti compiuti dall'interdicendo, in Riv. diritto commerciale, II (1922), p. 444 segg.
Interdizione legale: C. Saltelli, E. Romano-Di Falco, Commento teorico pratico del nuovo codice penale, I, 1, Roma 1930, n. 77 segg.; N. Stolfi, Diritto civile, I, ii, Torino 1931, n. 255 segg.
Interdizione dai pubblici uffici: Crespolani, Interdizione dai pubblici uffici, in Enciclopedia Giuridica, VIII, ii; R. de Notaristefani, Interdizione penale, in Digesto italiano, XIII; U. Conti, La pena e il sistema penale del Codice Italiano, in Enciclopedia del diritto penale italiano, IV; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 2ª ed., Torino 1921, III, p. 93 segg.; C. Saltelli, E. Romano-Di Falco, Commento teorico pratico del nuovo codice penale, Roma 1930.