INTERESSE (XIX, p. 378)
Pedagogia. - Nell'accezione più vasta, psicologica, è la disposizione favorevole dell'animo verso un certo oggetto, l'attrazione che questo esercita su di esso, la tendenza, conscia o no, a porsi in rapporto con esso, a farlo oggetto d'attenzione, ad elaborarlo e ad appropriarselo spiritualmente (nel che si distingue dal desiderio, che è tensione verso il possesso pratico, l'utilizzazione e la fruizione dell'oggetto, non della conoscenza o del commercio mentale con esso). Da questo punto di vista, si può distinguere tra un i. attuale, implicito in ogni processo d'attenzione, del quale non è che l'aspetto sentimentale e conativo insieme, e un interesse costituzionale e potenziale, che consiste in quelle originarie e naturali esigenze, disposizioni, tendenze proprie dello spirito, che sono il presupposto d'ogni suo possibile attuale interessarsi a un oggetto qualsiasi.
In questo senso, tutta la pedagogia moderna, da Herbart in poi, si è fondata, in modo sempre più consapevole o addirittura scientifico, sull'i., sebbene l'importanza di questo non fosse mai sfuggita ai grandi pedagogisti ed educatori, in particolare, tra i più moderni, a Comenio e a Rousseau. Non v'è apprendimento senza attenzione e non v'è attenzione senza interesse. E non v'è educazione che non s'adegui e non soddisfi ai costitutivi i. e bisogni spirituali dell'essere umano da svolgere. Herbart ha classificato così tali i.: a) conoscitivo, distinguibile in empirico e speculativo; b) estetico (che comprende quello morale); c) simpatetico; d) sociale; e) religioso. Gl'i. non sono che le varie forme o direzioni dell'attività stessa dello spirito; in tal senso, essi sembrano non contraddire all'anti-innatismo dell'Herbart; ma in realtà essi non possono non essere considerati come originarî e, costituire innate (non certo nel senso cartesiano) disposizioni e tendenze o esigenze dell'io, forze motrici d'ogni sua autoconservazione (unica tendenza innata per Herbart) e realizzazione. L'educazione non si compie che mettendo in moto codesti i. e soddisfacendoli in armonia tra loro (multilateralità degl'interessi) e così formando una larga e coerente personalità.
Per quanto svariatissimi siano stati gli apporti al moto contemporaneo dell'attivismo pedagogico, il diretto precedente di questo sul terreno psico-pedagogico è il principio dell'i. di Herbart, in quanto radice ed espressione genuina dell'attività del soggetto. Pedocentrismo ed attivismo intendono partire appunto dal fanciullo come attività mossa da suoi proprî, costitutivi i., e mirano a rendere questi operativi al massimo grado, come spinta, iniziativa, azione personale, che l'educatore facilita, colla quale collabora e che, occorrendo, indirizza o sollecita. La psicologia infantile odierna è in gran parte psicologia degl'i. e su questa è fondata in misura sempre maggiore la più recente pedagogia e didattica, da J. Dewey ad A. Ferrière, da É. Claparède a O. Decroly, da M. Montessori a J. Piaget, da H. Wallon a H. Bouchet, ecc. Naturalmente, un problema importante in tale ordine di ricerche e di applicazioni è quello dell'evoluzione degl'i. nello sviluppo della personalità. Il Ferrière p. es., vi distingue queste fasi:1) i. sensoriali; 2) i. sparsi o di giuoco; 3) i. immediati; 4) i. concreti specializzati; 5) i. astratti semplici; 6) i. astratti complessi. Una certa reazione, peraltro, si è avuta da parte di pedagogisti che vedono nell'i. solo una manifestazione superficiale e ritengono che la pedagogia debba da esso risalire alle motivazioni.
Due punti, comunque, emergono da tutta l'attuale psicologia e pedagogia dell'i.: 1) l'i. non esclude lo sforzo, spesso anzi, se intenso e vivo, lo implica: 2) non tutti gl'i. van posti allo stesso livello: vi sono determinazioni particolari, più o meno transitorie o contingenti, dell'i., che dipendono dal carattere individuale e da circostanze momentanee o estrinseche. Quindi gl'i. non han tutti lo stesso valore e l'educatore deve soddisfare e incoraggiare quelli che possono ricondursi alle tendenze essenziali e veramente costruttive dello spirito, e favorirli. Donde la necessità di non ridurre la pedagogia dell'i. a uno spontaneismo o a una pedagogia del facile e del piacevole, ambedue deleterie. Infine, bisogna, teoricamente e praticamente, distinguere l'interesse dall'istinto o dal bisogno vitale. Quando il Decroly pone a base del suo metodo gl'i. che chiama di nutrizione, di difesa (contro le intemperie e i nemici), di riposo e di ricreazione, di associazione, in fondo assume come interessi degl'istinti o bisogni vitali, comuni agli animali: istinti e bisogni che possono essere e sono occasione e materia non trascurabile al vero interesse (come l'oggetto del senso al conoscere), ma non sono l'i. vero e proprio. Il quale è fatto spirituale, che supera la natura, e tende, consciamente o incosciamente direttamente o indirettamente, a realizzare valori (conoscitivi, morali, estetici, sociali, religiosi, ecc.).
Bibl.: G. Calò, La psicologia dell'attenzione in rapporto alla scienza educativa, Firenze 1907; J. Dewey, Interest and effort in education, Boston 1913; id., Interest as related to the training of the will, Bloomington 1896 (trad. in francese con altri saggi nel vol. L'école et l'enfant, da L. S. Pidoux, Neuchâtel 1913, 3ª ed. 1931); A. Ferrière, L'école active, Ginevra 1922 (trad. it. Firenze 1947); A. T. Jersild, R. J. Tasch, Childrens interests and what they suggest for education, new York 1949; M. Eliot, Autour de quelques définitions de l'intérêt, in Pour l'ère nouvelle, 1952, fasc. 11-12, pp. 11-21; R. Cousinet, L'intérêt, in Cahiers de l'école nouvelle française, n. 30, 1955; v. anche globalismo, in questa Appendice.
L'interesse nella dottrina economica (XIX, p. 383).
Il complesso delle teorie dell'i. è rimasto invariato fino all'opera di J.M. Keynes portante il titolo General theory of employment, interest and money, uscita nel 1936. In seguito gli economisti di scuola keynesiana hanno elaborato, per la sistematica dell'i., due distinti modelli di analisi.
Uno parte dalle teorie neoclassiche dell'i.: essendo l'i. determinato dalle varie preferenze per i beni presenti rispetto a quelli futuri di eguale numero e utilità, queste preferenze (le quali sorgono per via dello scambio attraverso il tempo) importano sempre un costo sociale, al di sopra del loro costo di produzione. È questo costo sociale che spiega perché l'i. debba essere necessariamente una quantità positiva (a meno che vengano capovolte le preferenze dei redditieri). Secondo i keynesiani occorre però, a questo punto, tener conto di due particolari influenze, da essi elevate al rango di principali qualificatori causanti. Il primo di questi qualificatori risulta dai varî livelli di reddito. Questi, producendo varî cambiamenti di natura non sempre unidirezionale nelle preferenze, sottomettono il comportamento dell'i. all'azione di un particolare fattore di incertezza che non è però l'incertezza di cui si parla abitualmente in economia. L'altro qualificatore causante principale connesso dai keynesiani al movimento dell'i. è costituito dalle complesse interazioni tra risparmî e investimenti che si producono durante lo sviluppo economico. Ogni maggior risparmio, cioè, che dovrà poi essere investito, si produce solo con un maggior reddito nazionale. Sia esso K. A loro volta gli investitori programmano investimenti per K′, in funzione delle loro aspettazioni circa l'andamento dei reddito nazionale. Se K ≠ K′, vi sarà un saggio di i. differente da quello risultante in caso di eguaglianza e quindi un alto i. rappresenterà una situazione di scarsità di risparmio mentre, nel caso contrario di scarsità di aspettazioni favorevoli, l'i. sarà basso. Fin qui non c'è nulla che non si trovi già nelle tesi classiche. La parte nuova è la seguente. Se il saggio di i. non si adegua a questa situazione di scarsità, gli investimenti eccessivi o scarsi "sbilanceranno" lo sviluppo economico avvenire. Questo, cioè, sarà per un certo tempo (di regola imprecisabile a priori) o troppo accentuato o troppo contenuto. In ogni caso richiederà varî complicati aggiustamenti delle quantità economiche.
La novità introdotta con questo modello di analisi consiste dunque nel postulare che non si può stabilire il livello del saggio di i. senza conoscere il comportamento del livello del reddito nazionale nel tempo (e viceversa), dato che risparmî e investimenti sono condizionati da tale andamento e che in più vi sono tante famiglie di offerta, o schede di risparmio, e tante famiglie di domanda, o schede di investimento, ai varî livelli del reddito nazionale. Un'altra novità è che secondo questo schema l'importanza del meccanismo risparmî-investimenti, come regolatore del saggio di i. e di questo come regolatore di quello, è mutevolissima nei varî momenti del tempo: è cioè un fenomeno a più direzioni.
Nel secondo modello di analisi dell'i. vengono, da una parte, introdotte in posizione di primo piano le domande di "liquidità", cioè di moneta che i richiedenti trattengono in modo passivo (o, come si dice, "ozioso") nei saldi bancarî o in altra forma. Esse si aggiungono a quelle, ben note sistematicamente, di moneta richiesta per far fronte ai pagamenti, che sono in funzione diretta della quantità di affari. Dalla parte dell'offerta vi sono le quantità di moneta create dalle banche per corrispondere a un tale scopo (sempre a prescindere dalla moneta che le banche raccolgono dai risparmiatori in quanto tali, o che si creano a scopo di investimento).
La domanda di liquidità, cioè di saldi oziosi, riguarda, in ipotesi, una quantità avente velocità zero. Però questo non impedisce che quando questa domanda risulta eccessiva rispetto alla corrispondente (ma a priori non precisabile) offerta, si determini un innalzamento dei saggi di interesse e viceversa nel caso contrario. Dunque, secondo i keynesiani, vi è sempre, da questo lato, una certa influenza sui saggi di i. in genere, determinata dal variabile comportamento delle preterenze per la liquidità. Questa funzione agisce soprattutto sui saggi di interesse a breve termine.
In sede di politica monetaria, di questa connessione si potrebbero avvalere, con una "illuminata" visione della situazione, le autorità monetarie 1) per influire sui saggi di i. a lungo termine; 2) per modificare le condizioni in cui si attuano le operazioni di mutuo bancario o in forma di obbligazioni; 3) soprattutto per stimolare gli investimenti in grado di realizzare la situazione di pieno impiego, dato che i mutamenti del saggio di i., con cui si riducono o si allargano i saldi oziosi, trasformano questi ultimi in saldi di investimento o i saldi di investimento in saldi oziosi.
Diverso, sistematicamente, è l'operare della liquidità dei saldi oziosi per sé. Come già detto, questi ultimi hanno velocità zero, ma tale funzione è in genere altamente elastica rispetto al saggio di i. quando questo è molto elevato. Per di più è variamente condizionata dalla grandezza e dal movimento del reddito nazionale. Perciò, come si possono rendere attivi i saldi oziosi (riducendoli con l'investimento diretto o creando una minore quantità di moneta corrispondente, onde alimentare l'offerta di risparmio), così se ne può accrescere l'entità con misure opposte, onde il conseguente effetto sull'interazione tra risparmî ed investimenti.
Anche in questo secondo modello schematico di analisi del saggio di i. vi sono famiglie, pure imprecisabili a priori, di schede di domanda, o di liquidità, e di schede di offerta di moneta "iniettata" a questo scopo dalle autorità monetarie nel sistema economico. In queste famiglie, variabili con i varî livelli di reddito, ogni singola scheda si comporta diversamente al mutare del saggio di interesse. In generale, quanto maggiore è il saggio di i. tanto minore è la domanda di liquidità e viceversa, per quanto le "singole" specie di liquidità si possano comportare diversamente e persino con direzione opposta. Altrettanto dicasi dei tempi di durata dei saldi oziosi.
Dalle osservazioni via via fatte nel corso dell'esposizione risulta dunque che nel pensiero degli economisti keynesiani nessuno dei due modelli è pienamente determinato, se preso separatamente, giacché nessuno è sufficiente a stabilire esattamente il livello del saggio di i., per quanto esista in entrambi un referenziale comune che è il livello del reddito nazionale. A maggior ragione nessuno di essi opera in modo esclusivo in guisa da determinare la posizione di equilibrio dei saggi di interesse durante le fasi dello sviluppo economico. Per conseguenza, nessuno dei due fornisce il criterio operativo sufficiente a modificare le funzioni di liquidità, in modo da accrescere, per es., gli investimenti.
Per quanto suggestive, queste teorie presentano una lacuna sistematica. Anzitutto esse andrebbero fuse insieme. Per di più i due modelli andrebbero messi in relazione esplicita con le posizioni di equilibrio statico ai varî livelli di reddito, tenendo cioè conto della posizione di massimo di utilità collettiva della produzione e della distribuzione nel tempo. Altrimenti, non risultando definita la posizione di equilibrio dei saggi d'i. nel quadro generale dell'equilibrio statico, non si possono sistematicamente scontare né confrontare tra loro le produzioni ai varî tempi 1, 2, ... n, e quindi resta anche indeterminata l'"allocazione" delle risorse produttive disponibili negli stessi tempi. Anche assumendo di conoscere di volta in volta, nei varî momenti del tempo, le disponibilità in parola, non risulta da questi modelli né il tempo né come dovrebbero ritirarsi o immettersi nei varî impieghi.
Comunque, gran parte dell'apparato teorico dei due modelli schematici di analisi del saggio di i. si trova, o in modo esplicito o in modo implicito, nella teoria generale dell'equilibrio economico. Sotto questo riguardo non possono dunque dirsi originali (a prescindere dal maggior approfondimento di certe relazioni che prima delle teorie keynesiane avevano sempre avuto poco rilievo). La parte non accettabile dei due modelli si può riassumere in due punti. Primo, il problema dei saggi di i. è matematizzato in modo che risulta "sottodeterminato", in quanto dà luogo a più soluzioni e non a una sola. Per conseguenza queste soluzioni dovrebbero essere trattate aprioristicamente come se stessero in un "cerchio" di possibilità, vale a dire in modo stocastico. Ma allora questo metodo di ricerca resterebbe limitatamente euristico, e ciò fino a quando non si circoscriva il "cerchio" stesso. In secondo luogo, le statistiche di periodi anche lunghissimi di tempo dimostrano come saggi alti e bassi di sviluppo economico, e anche di inviluppo economico, si accompagnino a livelli differenti di saggi d'i. È vero che ciò si presta come verifica empirica dell'indeterminatezza a cui si perviene con gli schemi keynesiani presi separatamente. Non bisogna però trascurare che questi schemi sono stati, dai loro autori, congetturati come precise dimostrazioni sistematiche di tipo strettamente meccanico, e perciò non dovrebbero dar luogo a questa indeterminatezza. L'infinita varietà dell'esperienza non costituisce quindi una verifica delle due teorie. Prese a sé tali teorie sono per lo meno incomplete, per non dire inesatte. I fattori trascurati hanno, in certe situazioni, rilevante importanza, e questo è quanto dovrebbe prendersi in considerazione nell'impostazione teorica di una adeguata esplicazione dei fenomeni dell'interesse.
Da questa esposizione risulta infine la necessità di completare la teoria dell'equilibrio economico statico non solo nella direzione suggerita dalle teorie keynesiane ma tenendo presente fattori che neppure in tutte queste teorie vengono matematizzati o tenuti comunque in evidenza. Tra essi, in particolare, l'effetto di un miglioramento ab extra dell'organizzazione del processo produttivo e quindi dello stesso suo adattamento graduale, a volte incessante. Giacché una più adeguata corrispondenza temporale tra incassi e pagamenti dei singoli operatori (che è anche opera delle autorità monetarie) influisce sul volume dei saldi oziosi e quindi ha per effetto di condizionare il livello del saggio di i., specie se, contemporaneamente, le autorità non immettono in circolazione la corrispondente quantità di moneta richiesta dagli operatori a titolo precauzionale.
Storia. - Nel periodo successivo alla crisi 1929-33 e fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, i nuovi regimi di moneta manovrata consentirono di perseguire una politica di cheap money e d'ampio rifornimento di mezzi monetarî al mercato. Malgrado la progressiva ripresa industriale e il processo di riarmo, mercato monetario e mercato di capitali continuarono così a godere di tassi di sconto e di i. non eccessivi e, a periodi, addirittura modesti. Il dilatarsi della offerta monetaria era quasi ovunque dovuto alla svalutazione della moneta e alla rivalutazione delle riserve che avevano permesso un maggior rifornimento di disponibilità alle banche commerciali; inoltre si notava un fenomeno diffuso di propensione alla liquidità con preferenza a tenere presso di sé il biglietto e a evitare il deposito, il che si spiegava sia con il basso tasso d'i. offerto sia con il timore ancora persistente di ulteriori fallimenti bancarî.
Il totale della offerta monetaria, facendo uguale a 100 la cifra del 1929, era sceso nel 1933 a 94 in Gran Bretagna, a 79 negli S.U.A., a 80 in Italia, a 67 in Germania (mentre era stato 101 in Francia), ma era ovunque rapidamente risalito nel 1937, a 131 in Gran Bretagna, a 112 negli S.U.A., a 93 in Italia, a 84 in Germania e in Francia a 110. Il credito a breve e a lunga scadenza rimase quindi per tutto questo periodo relativamente poco oneroso.
Il tasso ufficiale di sconto e quello privato per effetti a 3 mesi si mossero, nel periodo tra la fine della crisi e la vigilia della guerra, non molto differentemente nei varî stati europei e negli S.U.A. In Gran Bretagna scesero rispettivamente dal 5,50 e dal 5,26 (medie per il 1929) al 2 e al 0,69 (medie per il 1933) per rimanere a tali livelli fino al dicembre 1941. In Francia dal 3,5 e dal 3,46 (medie per il 1929) calarono al 2,50 e all'1,83 (medie del 1933), per risalire temporaneamente nel periodo 1934-37 e poi continuare a calare fino al 2,76 e al 3 (medie per il 1938), e ancora lo sconto ufficiale fino al 2,5 alla vigilia della guerra. In Germania dal 7,10 e dal 6,87 (medie per il 1929) scesero ininterrottamente fino al 4 e al 3,88 (medie per il 1933) per rimanere a questi livelli fino alla guerra. In Italia nel 1929 il tasso ufficiale aveva oscillato attorno alla media di 6,79 e quello privato tra il 5,75 e il 7; ambedue scesero progressivamente fino al 1932, il primo a 5,56 (media per il 1932) e il secondo a 4,50-7,25, e poi, rispettivamente, a 3,10 (media del 1934) e a 3-4,50 (1934) per risalire nel 1938 il primo a una media del 4,50 e il secondo fino a 5-5,50
I rendimenti effettivi dei titoli di stato e delle obbligazioni industriali ebbero nello stesso periodo un andamento più o meno parallelo. Dal 1929 in Inghilterra quello del consolidato 2,5% e quello medio delle obbligazioni industriali, che erano rispettivamente del 4,60 e del 5, scesero fino al 1933, in cui arrivarono a 3,38 e a 4,87, e poi ancora ininterrottamente fino al 1936 (a 2,95 e 3,92); nel 1938 risalirono a 3,41 e a 3,95. In Germania il simile progressivo calo fu interrotto soltanto nel 1933 quando si ebbe un temporaneo brusco rialzo nel tasso sia delle obbligazioni ipotecarie 6% sia delle obbligazioni industriali; a parte questa punta di 8,33 per le prime e di 9,87 per le seconde, il loro rendimento effettivo calò rispettivamente da 7,40 e 7,81 (medie per il 1929) a 4,50 e a 4,91 (medie per il 1939). In Francia si ebbe il consueto andamento assai più mosso che altrove: il tasso dei consolidati a rendimento effettivo del 3,5% calò dal 1929 al 1931, da una media di 3,98 a una di 3,84 per risalire l'anno seguente fino a una media di 4,38 e ricadere entro due anni a una media di 3,88; crebbe quindi fino al 1937 per ridiscendere a 4,04 nel 1938. In Italia il rendimento effettivo del consolidato 3,5% calò ininterrottamente nel periodo 1929-34 da una media di 5,14 ad una media di 4,09; salì quindi nel 1938 fino a raggiungere 4,80. Il corso delle azioni industriali salì ovunque fino al 1937 ma in Gran Bretagna cominciò a calare all'inizio di quest'anno; in Francia subì un crollo nel 1936, si riprese poi e giunse a 44 nel 1937; in Italia scese invece fino alla fine del 1935 per poi riprendere; nel 1938 il fenomeno del rialzo fu comune a tutta Europa. Negli Stati Uniti il tasso privato di sconto si mantenne sotto all'i % fino alla metà del 1937, poi raggiunse tale livello e vi rimase per tutto il 1938; il rendimento effettivo delle obbligazioni di stato da quasi 3% scese nel biennio 1935-37 al 3% e poi risalì al 3,35; il corso delle azioni industriali, facendo base 100 il 1929, scese da 44,8 a 43,8 per poi risalire nel 1938.
Nel primo periodo della guerra in quasi tutti i paesi d'Europa, dove ad una liquidità sempre maggiore dovuta all'espansione monetaria si accompagnava un efficace sistema di controllo sui prezzi, il tasso d'i. a lungo termine continuò a mantenersi basso o a cadere, e a cedere avrebbe pure teso il tasso di sconto privato ove non fosse stato tenuto fermo da accordi interbancarî. L'Italia, la Finlandia e la Romania appaiono i soli paesi in cui i tassi in quel periodo non diminuirono; lo dimostrano i corsi dei titoli di stato e le condizioni a cui si collocavano i nuovi prestiti pubblici, i quali, ad esempio in Italia, continuavano ad essere emessi al 5%. Il fenomeno era conseguenza di un sistema di razionamento e di controllo dei prezzi soltanto parzialmente funzionante e incapace di impedire che all'aumento delle disponibilità dovuto all'espansione monetaria si accompagnasse un rialzo del costo della vita e quindi l'inflazione. Nel susseguente periodo della guerra, causa l'occupazione tedesca, la situazione precipitò quasi ovunque sul continente europeo.
Nel primo dopoguerra in quei paesi che praticavano un controllo degli investimenti e del credito (Gran Bretagna, Paesi Bassi e Paesi Scandinavi) i tassi di i. furono mantenuti bassi come strumento di politica produttivistica per rimediare ai guasti della guerra; in Germania, Francia e Italia, dove quei guasti erano stati maggiori, occorreva invece instaurare una politica flessibile di credito, con rialzi di i. e restrizioni creditizie. Sopraggiunse quindi la guerra di Corea a segnare un notevole movimento dei tassi di sconto e di interesse, ovunque in Europa rialzati per frenare l'espansione del credito.
Negli anni seguenti la pressione esercitata dalla domanda per investimenti e consumi sulle risorse disponibili costrinse tutti i paesi europei ad adottare nuove misure restrittive del credito. Il movimento di espansione è continuato fino al 1957, sempre finanziato in gran parte dal credito bancario. Dal 1958, cessata o diminuita quella spinta, in tutta Europa i tassi hanno cominciato a declinare. In Gran Bretagna il tasso di sconto, salito fino al 7% nel 1957, dal primo trimestre 1958 e caduto progressivamente fino al 4% nel 1959, e parallelamente il rendimento effettivo medio delle obbligazioni di stato (5%) è sceso dal 5,5% al 4% e quello delle obbligazioni industriali (6%) dal 6,5 al 5%. In Francia il tasso di sconto dal 5% raggiunto nel 1957 è diminuito fino a sotto il 4% nel 1959, mentre il rendimento effettivo medio delle obbligazioni industriali è sceso dall'8,5 al 6%. In Germania il tasso di sconto negli anni dal 1957 al 1959 è caduto dal 5,5 al 2,75% e il tasso di rendimento delle obbligazioni industriali dal 6,5 al 5%. In Italia il movimento di flessione è cominciato a metà del 1958, quando il tasso di sconto passò dal 4 al 3% e il rendimento effettivo medio delle obbligazioni industriali cominciò a cadere dal 7,2% fino al 5,5% (nel 1959); quello dei titoli di stato dal 6 al 5,5%.