INTERLINGUISTICA
Con il termine i. si fa riferimento a quel particolare settore delle discipline linguistiche che ha come oggetto i fenomeni del contatto e delle conseguenti interferenze tra sistemi e/o varietà di uno stesso sistema.
Questa accezione di i. è sostanzialmente identica a quella impiegata in ultimo da R. Gusmani (1987). La semantica tecnica dell'etichetta risulta fortemente condizionata all'interno della letteratura scientifica dalla polisemia − dovuta anche a etimi diversi − del sostantivo interlingua. Secondo alcuni, infatti, l'i. si occuperebbe della creazione, miglioramento e diffusione delle ''lingue artificiali'' o, appunto, interlingue. In tal caso l'uso del termine interlingua si rifà al nome con cui il matematico G. Peano battezzò il proprio latino sine flexione, sorta di lingua ausiliaria basata su una semplificazione strutturale del latino scientifico. Al 6° Congresso Internazionale dei Linguisti, A. Debrunner (1949) si fece sostenitore di una i. che riprendesse le idee sulle interlingue artificiali precedentemente esposte da O. Jespersen in un saggio intitolato A new science; interlinguistics. Si osservi che di una interlangue parlava anche De Wahl (1867-1943) a proposito del suo codice occidental (Bausani 1974, p. 130). A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sono moltiplicate le associazioni e le accademie ''interlinguistiche''. Com'è chiaro, la parola interlingua, donde i. nel senso di ''linguistica delle lingue ausiliarie'', è una neoformazione in cui confluiscono i valori lessicali del lat. internationalis e del lat. lingua (significativamente Debrunner nell'intervento citato parlava di "un'abbreviazione di internationale Hilfssprache"). Movendo da questa accezione di i., M. Wandruszka ha teorizzato l'esistenza di una disciplina che fosse "linguistica del plurilinguismo, dell'ibridismo e delle lingue miste, della traduzione e del confronto di traduzioni, nuova linguistica comparativa" (Wandruszka-Paccagnella 1974, p. 12). Si tratterebbe di una linguistica applicata di tipo contrastivo, particolarmente interessata alla traduzione letteraria, il cui statuto e il cui assetto metodologico non risultano però del tutto perspicui. Quel che è certo è che Wandruszka ha reinterpretato i. come scienza di ciò che concerne le relazioni ''tra le lingue'', senza più alcun riferimento al valore tradizionale di interlingua ''lingua ausiliaria'', in questo sicuramente aiutato dalla semantica dell'aggettivo inglese interlinguistic (v. anche il lemma interlinguistique in Mounin 1974, p. 182), che nel mondo anglosassone, in primo luogo nell'incunabolo della linguistica del contatto, Languages in contact (Weinreich 1953 [trad. it., 1974]), ricorre come sinonimo appunto di contrastivo. Attraverso questa complessa trafila semantica si è dunque consolidata l'accezione di interlinguistica. È bene segnalare che di recente si è registrata una possibile interferenza tra i. e un nuovo valore assegnato all'ingl. interlanguage, tradotto interlingua nelle pubblicazioni italiane: con interlingua si intende, a partire dagli anni Settanta (Selinker 1972; Pit Corder 1981; Giacalone Ramat 1986), l'insieme instabile di varietà di apprendimento che caratterizzano la competenza di un individuo, il quale si impadronisce di una lingua seconda (L2).
Il panorama attuale degli studi interlinguistici è estremamente vasto e differenziato, ricco di novità e caratterizzato da un tasso di accelerazione teorica che non trova probabilmente riscontro in altri settori della ricerca linguistica contemporanea. Tuttavia l'incremento di pubblicazioni nel campo dell'i. si è concentrato in un arco di tempo relativamente ristretto e recente. Si può dire in effetti che sino alle soglie degli anni Sessanta l'argomento del contatto interlinguistico occupava una posizione marginale: la ricerca verteva quasi esclusivamente sulle quote di prestiti, analizzati etimologicamente in quanto elementi lessicali con aspetti formali e semantici in qualche modo ''irregolari'' (Deroy 1956; Pisani 1967n,2, pp. 65-83).
La linguistica dell'Ottocento, attraverso le prove della comparazione e della ricostruzione, era andata elaborando un paradigma di descrizione e spiegazione dei fenomeni linguistici dominato dalla nozione di continuità genealogica. A. Meillet, in Le développement des langues (1938), aveva ben individuato l'antinomia che allora esisteva tra un modello di continuità evolutiva della storia linguistica "nel caso di trasmissione regolare della lingua dai più anziani ai più giovani... all'interno di una popolazione omogenea" e un modello di discontinuità; quest'ultimo era rappresentato in limine da rotture brusche nella storia di una comunità di parlanti, i quali non solo subiscono interferenze da parte dei ceti dominanti, ma finiscono con l'adottare altre lingue come le creole "che sono una sorta di portoghese, di spagnolo, di francese, di olandese articolati da negri che non hanno abbandonato le loro antiche maniere di pronunzia" (Meillet 1938, pp. 76-77; Vineis 1987). Meillet ereditava le contraddizioni di una linguistica del ''prodotto storico-documentario'' che nel 19° secolo era culminata nella codificazione dei principi di uniformità diacronica da parte dei neogrammatici. Malgrado i ripetuti appelli di personalità come Osthoff e Brugmann a lasciare "il laboratorio fumoso e torbido di ipotesi" che era la preistoria delle lingue indoeuropee e a uscire "all'aria aperta della realtà tangibile e del presente" (Bolelli 1986), la linguistica storica aveva formulato un reticolo entro cui inserire gli oggetti lingue, reticolo basato sulla riducibilità genetica e sulla regolarità evolutiva di tratti diagnostici, specie fonologici. Per converso i prestiti, "quel particolar modo di aumento esterno che è il più estrinseco di tutti" (Whitney-d'Ovidio 1876, p. 145), erano indagati in quanto irriducibili a schemi regolari di sviluppo (Bynon 1980). Così, per es., A. Ernout (1909) giungeva a una ricognizione dei prestiti italici in latino sulla base di spie fonetiche quali l'irregolare sviluppo in /p/ di indoeuropeo */kw/ (coquina accanto a popina da una radice indoeuropea *kwekw−), o in /f/ di indoeuropeo /dh/ (rufus accanto a ruber da una radice indoeuropea *rewdh-). L'omogeneità di principio di ciascuna delle strutture linguistiche conduceva inevitabilmente al famoso assunto di Müller secondo cui "non esiste alcuna lingua mista". A sconvolgere il paradigma neogrammatico, che nello specifico non era andato al di là di una generica discriminazione lessicale tra prestiti integrati e non integrati (ted. Lehnwörter di contro a Fremdwörter), giunsero da un canto le ricerche di Schuchardt e dall'altro i nuovi postulati della dialettologia romanza (Belardi 1990). La straordinaria esperienza linguistica di Schuchardt (cui andrebbe aggiunto il nome di Hesseling, pioniere nello studio della creolizzazione dell'afrikaans) doveva approdare a una serie di riflessioni teoriche fortemente divergenti rispetto a quelle sostenute dai colleghi neogrammatici. I suoi interessi romanistici e, soprattutto, i tanti lavori sui pidgins e i creoli indussero Schuchardt a formulare un asserto opposto a quello di Müller, ossia che "non esiste alcuna lingua che sia non-mista" (Meijer-Muysken 1977). In particolare il caso dei creoli occidentali convinse lo studioso svizzero dell'esistenza di meccanismi profondi di interferenza linguistica, tali da mettere in serio dubbio l'ipotesi di regolarità filogenetica cara agli indoeuropeisti.
Nel campo della dialettologia romanza e della linguistica indoeuropea spicca a cavallo tra Otto e Novecento l'opera di G.I. Ascoli. L'i. deve ad Ascoli la matura consapevolezza dei rapporti tra lingue cosiddette di sostrato e lingue sovrapposte durante i processi di evoluzione storica. "Scoprire, − scrisse nel famoso Proemio all'Archivio Glottologico Italiano - scernere e definire, a larghi ma sicuri tratti, gli idiomi e quindi i popoli, che ben soggiacquero a quella potente parola, ma sempre reagendo sopra di lei con maggior o minor forza, per guisa che ciascun di loro la rifrangesse in diversa maniera, e rivivesse, in qualche modo, sotto spoglie romane" (Ascoli 1873 [1975, p. 43]). Le parole di Ascoli si riferivano ai compiti della romanistica: vi è adombrata la fondamentale nozione di ''reazione etnica'' che dava finalmente profondità storica e sociologica ai meccanismi dell'interferenza ricuperati attraverso le ricerche fonolessicali (Silvestri 1977). Da questo raggiunto dinamismo sociostorico prenderanno avvio le migliori ricerche della scuola italiana sui fenomeni interlinguistici, grazie soprattutto ai lavori di Pisani, assertore di modelli plurilineari nella genesi linguistica (Pisani 1966), e del Terracini dialettologo. Un'analoga sensibilità caratterizza le sintesi storico-linguistiche sul greco e soprattutto sul latino di Meillet, attentissimo a cogliere l'intrecciarsi di varietà distinte nella vita delle comunità di parlanti: Meillet fu tra i primi a postulare semplificazioni a opera di fasce bilingui dietro la trafila che condusse il latino popolare a diffrangersi nelle lingue romanze (Meillet 19485, p. 236). In tutte le opere dei linguisti appena citati il prodotto linguistico è ormai un organismo complesso, attraversato da variazioni, ciascuna strettamente legata a contesti storici precisi.
La riflessione sui fenomeni interlinguistici da parte delle moderne correnti strutturali si apre, un po' paradossalmente, con il silenzio di F. de Saussure. Il linguista ginevrino non dedica più di un fuggevole accenno alla questione del prestito all'interno del Cours (Saussure 1976, pp. 32-33). L'appassionata difesa del principio di coesione interna dei sistemi di lingua conduce Saussure a ritenere che "lo studio dei fenomeni linguistici esterni sia fruttuoso, ma è falso dire che senza di essi non sia possibile conoscere l'organismo linguistico interno". A riprova di ciò egli portava l'esempio del vocabolo preso in prestito "che non conta più come tale dal momento in cui viene studiato in seno al sistema". In sostanza il ripensamento da parte della linguistica strutturale della nozione di ''lingua'' in quanto rete di opposizioni sincroniche produsse sin dall'inizio una certa ipostasi del monolinguismo e dell'impermeabilità dei sistemi (Weinreich 1968, p. 648; Sala 1988, pp. 7-27). L'attenzione della Scuola di Praga rivolta alla natura della strutture fonologiche favorì, ciò non ostante, l'elaborazione di una serie di principi regolanti il contatto fonologico a opera di R. Jakobson, E. Polivanov, N.S. Trubeckoj (Travaux du Cercle Linguistique de Prague 1931; Trubeckoj 1939 [trad. it., pp. 76-78]). In questi lavori è contenuto il germe della vera e propria ''rivoluzione copernicana'' compiuta da U. Weinreich nel campo dell'interlinguistica.
Il mondo anglosassone, anteriormente alle ricerche di Weinreich, conosceva quasi esclusivamente le notevoli pagine dedicate da Bloomfield al prestito (Bloomfield 1933 [trad. it., pp. 522-77]). Nel volume di Bloomfield − è bene sottolinearlo − vi è un'interessante correlazione tra prestito linguistico e diffusionismo culturale, analizzato secondo un modello antropologico allora in auge presso i ricercatori statunitensi; non solo vi si elencano le questioni ''strutturali'' dell'adattamento dei suoni stranieri da parte di singole tradizioni linguistiche, ma, per la prima volta, si dedica grande spazio alle mescidanze dei pidgins, in quanto esempi di ''prestito profondo'' ovvero di interferenza sistemica e non superficiale. Pur tuttavia è con Languages in contact di Weinreich che l'i. guadagna lo statuto di disciplina autonoma. Nel volume, uscito con una prefazione di A. Martinet, l'attenzione dell'analista viene spostata dal ''prodotto'' lingua agli ''atti'' dei parlanti bilingui. Grazie alla definizione di concetti-chiave come contatto (due o più lingue usate alternativamente dalle stesse persone), bilinguismo (pratica dell'uso alternativo di due lingue), interferenza ("esempi di deviazione dalle norme dell'una e dell'altra lingua che compaiono nel discorso dei bilingui", Weinreich 1953 [trad. it., p. 3]), il libro propone la categorizzazione rigorosa di una gran messe di fatti, molti dei quali tradizionalmente etichettati in maniera semplicistica come prestiti o calchi. Nel pensiero di Weinreich l'interazione delle strutture, fonologiche, morfologiche, lessicali, sintattiche, dà conto dei fenomeni di interferenza sul piano formale, mentre il contesto socioculturale è in grado di chiarire le motivazioni funzionali delle interferenze. Il testo, dunque, oltre a elencare una griglia definitoria di tipo ''interno'' (ipodifferenziazione, iperdifferenziazione, reinterpretazioni, sostituzioni fonematiche, integrazioni grammaticali e lessicali, ecc.), delinea anche i compiti della futura ricerca sociolinguistica alla quale offre nozioni assolutamente basilari come standardizzazione, congruenza, prestigio − etichetta già impiegata dalla scuola francese −, fedeltà simbolica, ecc.
Successivamente alla pubblicazione di Languages in contact i rami della ricerca interlinguistica si moltiplicano.
Dall'incontro dell'i. strutturale di matrice weinreichiana con le esperienze della glottodidattica, interessata per definizione al bilinguismo ''imperfetto'' di quanti intendano apprendere una lingua diversa da quella materna, è nata la linguistica contrastiva. Le migliori prove in quest'ambito restano quelle di R. Lado (1957) e R. Di Pietro (1971). Test cruciale è l'errore, che l'analisi contrastiva spiega come frutto di interferenza tra le strutture della L1 e della L2. Questa concezione dell'errore nell'apprendimento discende evidentemente dalle analisi sul bilinguismo ''perfetto'' di Weinreich: così, per es., per il discente italiano risultano predittivamente difficili da riprodurre coppie oppositive inglesi come /ϑ/:/δ/, assenti dal sistema fonematico italiano, cosicché molto probabilmente gli errori si concentreranno nel tentativo di adattare questa coppia alla competenza italiana (con conseguenti riformulazioni del tipo /s/:/z/ o /ts/:/dz/). Ben presto, alla luce della rivalutazione operata da Chomsky della creatività del parlante, il test dell'errore si è rivelato indicativo non tanto delle devianze strutturalmente prevedibili, quanto piuttosto della capacità del bilingue ''imperfetto'' di costruire una serie di competenze transitorie (interlingua) approssimantisi alla competenza ideale di L2 (Dulay-Burt-Krashen 1982 [trad. it., 1985]). Il nuovo error analysis, pertanto, avvicina la costruzione della grammatica di una L1 a quella di una L2: accanto alla tipologia classica dell'interferenza (con transfer di elementi superficiali), questo nuovo approccio tenta di spiegare le tappe dell'apprendimento della L2, fatto di ipergeneralizzazioni ed elaborazione di regole da parte della competenza interlinguistica.
Attualmente l'i., oltre alle nuove metodologie escogitate in seno alle ricerche sull'apprendimento guidato di una L2 (ossia in condizioni per così dire ''scolastiche''), comprende una tipologia articolata in vari sottosettori, parecchi dei quali interagiscono metodologicamente fra loro, come nel caso dei lavori sui pidgins e creoli che mettono a frutto le acquisizioni su apprendimento di L1 ed L2.
I sociolinguisti si sono a lungo interessati del contatto all'interno della competenza comunicativa dei parlanti plurilingui: sono stati proposti vari modelli di alternanza di codice (ingl. code-switching) sia sul piano macroscopico (v. le elaborazioni di concetti operativi quali diglossia e bilinguismo in Ferguson 1959, Fishman 1972 [trad. it., 1975]) sia su quello microscopico. In quest'ultimo ambito si segnalano gli studi di J. J. Gumperz (1982) sulle funzioni che in determinate reti sociali rivestono le alternanze di codice lungo i segmenti conversazionali (categorizzate in citazioni, appelli all'interlocutore, reiterazioni, riqualificazioni, personalizzazioni). Sul piano propriamente formale una più accurata distinzione è stata affacciata tra alternanze di codice esofrastiche (ingl. intersententially), corrispondenti al vero e proprio code-switching, e alternanze endofrastiche (ingl. intrasententially), corrispondenti alla mescidanza di codici (ingl. code-mixing: Bokamba 1988). Nel secondo caso si sono proposte a più riprese possibili restrizioni che governerebbero l'interazione delle regole grammaticali attinte ora all'una ora all'altra lingua. Nel caso di lingue tipologicamente congruenti (per es. spagnolo e inglese: Pfaff 1979; hindī e inglese: S. N. Sridhar e K. K. Sridhar 1980) o incongruenti (arabo e francese: Bentahila-Davies 1983; ebraico israeliano e giudeo-spagnolo: BerkSeligson 1986) le uniche restrizioni paiono essere legate all'inseparabilità dei cosiddetti morfemi legati (per es. le desinenze).
Nel panorama delle situazioni di contatto linguistico (Mackey 1976) un posto a parte è riservato alle varietà veicolari. L'i. dei pidgins e dei creoli costituisce un'area di ricerca ampliatasi enormemente a partire dagli anni Settanta. Banco di prova privilegiato per quanto concerne le tematiche della mescidanza linguistica, pidgins e creoli offrono molti dati sui ''salti'' genetici dovuti al contatto in situazioni ristrette di apprendimento. Nello specifico interlinguistico acquista peculiare importanza il tema della semplificazione strutturale cui sono sottoposte le varietà veicolari (Mioni 1988; Mülhäusler 1986; Valdman 1977). L'ipotesi di un parallelismo tra le procedure di acquisizione di L2 in condizioni svantaggiate, come nel caso del Gastarbeiterdeutsch o dell'italiano degli immigrati extracomunitari (Giacalone Ramat 1986 e 1988), e le procedure di pidginizzazione induce a riconsiderare la genesi di sistemi in aree di contatto (Grey Thomason e Kaufman 1988). Se la formazione di koinài, in quanto frutto di una omogeneizzazione e convergenza tra più varietà imparentate, non conduce necessariamente a radicali semplificazioni nella diacronia (Sanga 1985; Siegel 1985; Sanga 1990; Banfi 1991), ben diversamente potrebbero stare le cose nel caso della veicolarizzazione di certe varietà linguistiche per imposizione politico-amministrativa. D'altronde il caso speculare dell'espansione caratteristica delle lingue creole indica lungo quali possibili direttrici ''naturali'' un codice linguistico veicolarizzato può divenire L1 di una o più popolazioni, magari attraverso processi di rilessificazione del tipo di quelli che stanno verificandosi nel songhay settentrionale (Nicolaï 1987).
L'i., infine, è in grado di offrire interessanti modelli esplicativi nel settore del mutamento linguistico, ricongiungendosi in tal modo al filone delle ricerche diacroniche, dal cui alveo − come abbiamo mostrato − si era distaccata alla fine del 19° secolo. In particolare, oltre ai casi di veicolarizzazione citati (tra i quali è bene ricordare l'espansione dell'italiano standard: Berruto 1987), l'approccio interlinguistico si è rivelato fruttuoso nell'analisi di alcune concause del ''collasso'' dei sistemi linguistici sottoposti a forte pressione da varietà dominanti. La tematica della ''morte'' delle lingue ha mostrato in parecchi casi l'azione cui viene sottoposta una varietà morente, specie in aree costituite da bilingui isolati con competenza imperfetta. È stato provato che, in aggiunta a una serie di processi che si possono agevolmente spiegare in chiave generale (Dressler e Wodak Leodolter 1977; Dorian 1981; Giacalone Ramat 1984), la pressione interlinguistica sulla lingua ''morente'' da parte delle varietà di prestigio è in grado di indirizzare l'agonia linguistica verso l'uno o l'altro tipo di superstrato. Due buoni esempi di omologazione strutturale sono rispettivamente il dialetto alto-tedesco di Sauris (Denison 1980) e le varietà walser di Gressoney (Giacalone Ramat 1990). In entrambi i casi i ''semiparlanti'' non solo generalizzano regole in una situazione di bilinguismo estremamente instabile, ma producono enunciati strutturalmente determinati dalle varietà di prestigio a base romanza. Il grado di acculturazione dà conto della direzione univoca dell'interferenza (ben chiara è la differenza con i casi di convergenza equidistante, motivata da vettori centrifughi di identità culturale: Gumperz e Wilson 1971).
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