Come la comunicazione politica, sociale e aziendale, anche la diplomazia pubblica - quell’insieme di iniziative con cui i governi si rivolgono alle opinioni pubbliche dei paesi stranieri - sta attraversando un cambio di paradigma, da una logica transazionale a una relazionale. Nella logica transazionale la comunicazione cerca di influenzare direttamente le popolazioni, modificando i loro atteggiamenti e comportamenti attraverso campagne unidirezionali di persuasione o tramite la mediazione dei professionisti che operano nei mass media. Nella logica relazionale si cerca invece di ottenere un’influenza indiretta attraverso la costruzione di legami di fiducia con i propri interlocutori, considerati come partner anziché come target, e affiancando quindi ai rapporti con i media di massa un flusso costante di comunicazioni bidirezionali con cittadini non professionisti, capaci di diffondere messaggi credibili attraverso le loro reti di relazioni. Lo sviluppo più avanzato di questo approccio prevede che i rappresentanti di uno stato creino e gestiscano infrastrutture, attraverso le quali comunità di cittadini globali dialogano liberamente fra loro.
Questa logica, basata sul decentramento e su relazioni orizzontali anziché verticali, incontra resistenze nei governi, abituati a operare secondo complessi sistemi burocratici di autorizzazioni e catene di comando rigide. Anche per questo motivo molti esperimenti di ‘diplomazia pubblica 2.0’, fondati sulla presenza di diplomatici nella sfera pubblica online attraverso blogs e social media, hanno avuto scarso successo: toni, linguaggi e contenuti ufficiali e istituzionali faticano a conciliarsi con la soggettività e informalità che gli utenti si aspettano di incontrare su queste piattaforme. Per coinvolgere i cittadini sui nuovi media occorre cedere parte del controllo sulla produzione e distribuzione dei messaggi, e non sempre questo è possibile o desiderabile per i decisori politici.
Un altro rischio che la diplomazia pubblica online corre è di concentrarsi solo sul lato dell’offerta, ossia sulla diffusione di informazioni attraverso il maggior numero possibile di piattaforme e tecnologie, ipotizzando erroneamente che per convincere i propri interlocutori sia sufficiente bombardarli di messaggi, a prescindere dal loro contenuto. In realtà, la diplomazia pubblica non può rendere accettabile una policy che una popolazione ritiene inaccettabile; anzi, spesso in questi casi l’aumento delle informazioni può produrre effetti contrari a quelli attesi, in quanto coloro che non condividono un messaggio possono controbattere direttamente in rete e orientare le opinioni di coloro che si limitano a leggere o ascoltare.
Una trattazione del rapporto fra internet e diplomazia pubblica non può non soffermarsi sul fenomeno di Wikileaks, un’organizzazione a-statale che opera interamente online e che nel 2010 ha divulgato, in collaborazione con alcune testate giornalistiche, documenti segreti sulle guerre in Afghanistan e Iraq e 250.000 dispacci diplomatici delle ambasciate Usa. Wikileaks è stato definito ‘l’11 settembre della diplomazia’, in quanto ha messo a rischio una delle garanzie necessarie per la conduzione di qualsiasi trattativa: la segretezza di alcune informazioni e la riservatezza di certi punti di vista. D’altra parte, molti documenti pubblicati da Wikileaks hanno consentito alle opinioni pubbliche di vari paesi di smascherare le falsità e le manipolazioni dei loro leader su questioni fondamentali. In precedenza, l’equilibrio fra due interessi contrastanti – quello del pubblico a conoscere la verità e quello della diplomazia a operare in segreto – era garantito dalla mediazione dei giornalisti, che accettavano compromessi con i governi quando si era in presenza di informazioni sensibili, ma erano ritenuti dalla popolazione guardiani affidabili dell’interesse pubblico in presenza di abusi di potere.
Questo equilibrio non è più riproducibile nel contesto attuale non tanto per le proprietà intrinseche di internet, ma perché i media tradizionali e il giornalismo professionale hanno perso credibilità come ‘cani da guardia’ attenti e imparziali dei governi democratici. Difficilmente Wikileaks sarebbe riuscito ad acquisire la legittimazione che ha ottenuto, tanto agli occhi delle fonti quanto del pubblico, se i mass media non avessero perso di vista la loro funzione sociale e se molti governanti democratici non avessero palesemente nascosto o manipolato informazioni fondamentali per i loro concittadini.
Nell’ipotesi, probabile, che la tendenza alla divulgazione di questo tipo di informazioni aumenti anziché diminuire, gli stati dovranno affrontare due sfide. La prima è ridefinire quali documenti devono rimanere segreti, accrescendo la mole di informazioni disponibili al pubblico e restringendo l’accesso ai dati veramente fondamentali per la sicurezza nazionale. La seconda è attrezzarsi per spiegare meglio ai cittadini il processo decisionale in politica estera: gran parte dei documenti divulgati da Wikileaks non contiene decisioni, ma informazioni su cui si sono basate le decisioni.
Le opinioni pubbliche non sono abituate a presupporre una differenza fra il giudizio di un ambasciatore su un leader straniero e la condotta del governo verso quel leader, ma possono rapidamente prenderne coscienza se opportunamente informate. Una delle risposte della diplomazia pubblica all’aumento delle informazioni disponibili nella sfera pubblica deve dunque essere una strategia attiva che aiuti i cittadini a contestualizzarle meglio.