Interni
La locuzione interior design (o architettura degli interni, o arredamento) indica quell’attività che si occupa della qualità funzionale, estetica o tecnica degli spazi interni dell’architettura. Si tratta di un ambito di grande rilevanza sociale, che risponde a interessi culturali ed economici molto estesi.
Fino al 18° sec., questa disciplina si era occupata soprattutto dell’assetto interno dei grandi palazzi e dei monumenti pubblici, dedicandosi a questioni d’immagine istituzionale più che a veri problemi di abitabilità. Fu con la Rivoluzione francese e soprattutto con l’inizio di quella industriale, e il conseguente sviluppo urbano derivato dalle migrazioni interne, che la cultura del progetto e la politica cominciarono a occuparsi della ‘questione delle abitazioni’ (dal titolo di un famoso saggio di Friedrich Engels, Zur Wohnungsfrage, 1872) come tema sociale di enorme rilevanza. La nascente architettura moderna prese le mosse proprio da questa realtà, cercando di dare una risposta positiva a una città industriale ormai fuori controllo e profondamente inospitale nella sua dimensione umana.
Sarebbe però sbagliato ritenere che fino a quell’epoca la realtà domestica e i luoghi del lavoro non avessero avuto un’evoluzione storica importante; al contrario, fino dall’antichità classica il mondo degli oggetti, degli strumenti e delle suppellettili è stato al centro di complesse vicende culturali, legate a questioni non solo sociali o tecniche, ma spesso anche religiose o filosofiche. Si tratta di vicende ancora poco analizzate, ma che hanno lasciato tracce profonde nel nostro modo d’intendere e vivere la casa, gli oggetti che essa contiene e anche le relazioni antropologiche che in essa si svolgono.
Una storia difficile
Ancora oggi non esiste una storia (e una teoria) organica degli spazi interni, se non come storia degli stili o delle evoluzioni tipologiche dei singoli oggetti di arredamento. Stretto tra le vicende del product design e quelle della storia dell’architettura, l’interior design non è stato quindi indagato come un corpus disciplinare autonomo, dotato di una propria storia e soprattutto della capacità di incidere sulle qualità urbane e sociali. Lo spazio interno all’universo urbano è sempre stato interpretato come testimonianza di relazioni familiari o di organizzazioni produttive, che interessano più una parte specializzata e minore delle scienze umane che non un’area centrale della cultura del progetto.
L’insegnamento di questa disciplina si svolge tuttora attraverso un lungo percorso di singoli esempi, una costellazione di casi culturalmente (o formalmente) interessanti, scelti tra quelli in cui si è verificata un’evidente coincidenza tra le forme dell’involucro architettonico ‘esterno’ e quelle degli oggetti ‘interni’. In altre parole, si ritiene ancora fondamentale l’unità linguistica tra interno ed esterno, a testimonianza dell’unicità del percorso progettuale, spesso realizzato da un solo architetto che abbia disegnato, partendo dal tetto, anche i tavoli e le sedie. Casi del genere sembrano interessare molto poco gli storici, secondo i quali essi sono molto rari e non rappresentano che una curiosità irrilevante (e spesso culturalmente insignificante), perché dove questa unità si è realizzata essa è stata il frutto di un atteggiamento monologico e autoreferenziale.
Si tratta di una vecchia gerarchia accademica, confermata in parte anche dal Movimento moderno, che vedeva nella città il luogo delle decisioni fondamentali, nell’architettura i punti di realizzazione delle qualità formali, e nell’interior design un’attività minore e priva di una vera autonomia culturale.
Si vuole in questo saggio dimostrare, invece, che la progettazione degli spazi interni costituisce un’attività con fondamenti culturali autonomi, che si pone fuori dall’idea che possa ancora esistere un’unità oggettiva tra logica urbana, qualità architettonica e interior design. Già dagli anni Sessanta del 20° sec. questo concetto si era dimostrato irrealizzato e irrealizzabile, perché frutto dell’idea che il futuro delle società industriali si sarebbe fondato sulle sole logiche razionali, centralizzate, definitive e irreversibili, prodotte da metodologie rigide; ipotesi che sono andate in crisi di fronte ai cambiamenti sociali e tecnologici succedutisi negli ultimi decenni, e che hanno avuto origine dalla ‘terza rivoluzione industriale’ (o postindustriale).
Il 21° sec. è nato quindi all’insegna del fallimento di questo tipo di modernità monologica e ha adottato una filosofia molto diversa, tesa a valorizzare gli spazi interni della città concepita come una realtà autonoma, impegnata in quei processi che permettono di realizzare scenari provvisori per rispondere alle trasformazioni funzionali, usando dispositivi reversibili e flessibili che sono l’effetto incontrollabile di un buzz design, cioè un flusso di microprogetti di molti autori diversi (anche anonimi), che seguono logiche svincolate dall’architettura e che nel loro insieme producono un continuo aggiornamento della realtà urbana a partire dal suo interno.
La civiltà domestica
La stessa architettura moderna del secolo scorso ha avuto origine dalle questioni inerenti la qualità degli spazi interni. Le spinte più profonde al rinnovamento delle logiche del progetto, infatti, si sono determinate attorno alla questione dell’abitare, alla necessità di salvaguardare le tradizioni antropologiche degli spazi domestici; temi apparentemente minori, ma che nascevano da una critica radicale agli effetti devastanti dell’industrializzazione e delle sue logiche di sfruttamento.
Il movimento dei riformisti inglesi del 19° sec. fu il primo ad aprire la questione dell’urgenza di accogliere l’innovazione tecnologica come occasione per rinnovare e salvaguardare la casa dell’uomo, come luogo all’interno del quale si combatteva una battaglia decisiva contro lo sradicamento sociale. La qualità interna della casa era interpretata da riformisti quali William Morris, Augustus W.N. Pugin, Henry Cole, John Ruskin come il vero centro del mondo progettato e la sua abitabilità come la monade di un universo globalmente salvato.
Nel 1907 il Deutscher Werkbund, riunito nel suo congresso di fondazione, aveva rivolto un appello agli artisti, agli intellettuali, agli architetti e ai poeti perché collaborassero a «rendere di nuovo abitabile» il mondo devastato da un industrialismo selvaggio, sostenendo un progetto collettivo al quale l’industria, l’artigianato, le arti applicate potessero fornire strumenti importanti: una nuova architettura avrebbe potuto realizzare una civiltà domestica rinnovata. Rinnovata non dal punto di vista linguistico, ma nella sua capacità di sviluppare positivamente la densa rete di relazioni funzionali, affettive, tecniche e simboliche che legano da sempre l’uomo ai luoghi e agli oggetti del suo habitat. Una civiltà domestica, dunque, non monologica, ma capace di ospitare le infinite varietà di identità individuali.
Il movimento futurista, a sua volta, pose al centro della questione della modernità gli effetti devastanti che la città industriale produceva proprio all’interno degli spazi domestici, nei salotti borghesi, nella psiche umana. Il Futurismo lanciò la sfida ai nuovi architetti a confrontarsi con un ambiente sempre diverso, attraversato da flussi di informazioni, parole e simboli prodotti da una realtà esterna ingovernabile e anarchica, che violava i confini e penetrava nei perimetri sacri della realtà domestica quotidiana.
Contraddizioni crescenti
Il 20° sec. è stato dunque attraversato, al di là dell’apparente unità del progetto moderno, da un non risolto conflitto tra spazi interni, architettura e città. Ognuno di questi soggetti rivendicava infatti non solo la propria autonomia strategica, ma anche la propria centralità culturale. Spazi interni e spazi esterni non hanno mai trovato un equilibrio stabile, in quanto entrambi portatori di logiche divaricanti.
Questo frazionamento dell’universo costruito non è l’effetto di un coordinamento mancato, quanto piuttosto il risultato più evidente della legge di sviluppo complessivo della civiltà postindustriale, che non si riconosce più nella logica razionale delle macchine e delle fabbriche, ma nella molteplicità dei mercati, nell’innovazione continua indotta da concorrenza globalizzata, nell’avvento dell’imprenditorialità di massa, nel livello crescente della creatività sociale.
Una civiltà, quella nata dalla terza rivoluzione industriale, che non opera più attraverso progetti definitivi, forti e concentrati, ma mediante dispositivi flessibili, deboli e diffusi, che le permettono di adeguarsi al continuo mutare dei mercati, alle trasformazioni tecnologiche e agli assetti interni di una società che non possiede più un modello certo di riferimento, ma deve costantemente adeguarsi per rispondere a equilibri in continuo cambiamento.
È dunque nel quadro di tali trasformazioni storiche che oggi si pone la questione degli interni; non come un’area di competenza di un piccolo settore professionale, bensí come un’attività che svolge un ruolo fondamentale nel funzionamento complessivo della città contemporanea.
La terza rivoluzione industriale: due economie
La terza rivoluzione industriale, iniziata a partire dagli anni Settanta con il progressivo inserimento delle tecnologie robotiche e informatiche nelle grandi fabbriche, e con la diffusione dell’elettronica nei settori terziari, si è sviluppata producendo un vasto indotto sociale, economico e urbano, che ha modificato in profondità la società e anche la cultura del progetto.
Questa rivoluzione, infatti, è nata innanzitutto come aggiornamento tecnologico della produzione industriale, a fronte della domanda di una sempre maggiore flessibilità produttiva rispetto al frazionamento e alla crescente complessità dei mercati; in secondo luogo ha risposto a una più articolata strategia, tendente ad allontanare dai cicli industriali il maggior numero possibile di addetti, organizzando la presenza in fabbrica di quelli restanti tramite isole produttive tra loro separate, allo scopo di ridurre le tensioni politiche che avevano caratterizzato il decennio precedente. Uno degli effetti più evidenti di questa rivoluzione è stato l’inizio di ciò che si chiama globalizzazione del sistema industriale, consistente nel trasferimento (in toto o in parte) della produzione e delle attività terziarie in Paesi economicamente più convenienti, con cui era ormai possibile stabilire relazioni rapide ed efficienti attraverso lo sviluppo delle telecomunicazioni.
Questa complessa trasformazione dell’universo industriale ha fatto sì che interi comparti urbani, composti da fabbriche e da uffici direzionali, venissero rapidamente dismessi, causando lo svuotamento di un vastissimo patrimonio immobiliare e anche il cambiamento dei modi d’uso di gran parte delle nostre tipologie architettoniche più consolidate.
Questo vasto fenomeno è avvenuto in maniera spontanea, fuori dal controllo della progettazione territoriale e del governo urbano, entrambi in grave ritardo non solo nella previsione, ma anche nella gestione dei suoi effetti. Bisogna forse risalire alle conseguenze della soppressione dei beni ecclesiastici operata dalle leggi napoleoniche del 1810 per ritrovare nelle città europee un fenomeno analogo; allora si immisero sul mercato conventi, abbazie, seminari e sedi ecclesiastiche, la cui presenza, difficilmente riciclabile, interessa ancora le nostre città dopo due secoli.
L’impatto più rilevante di questa rivoluzione è stato soprattutto di natura economica e sociale. Infatti, con la riduzione del numero degli addetti nelle grandi fabbriche e nei centri direzionali, durante gli anni Ottanta si sono create due economie, parallele ma separate. Da una parte un’economia industriale classica, con un numero sempre minore di addetti, basata su rapporti contrattuali e su relazioni salariali sindacalizzate; dall’altra, una nuova economia sociale prodotta da un numero sempre crescente di soggetti, non più inquadrati nelle vecchie e normate relazioni di lavoro e in aree precise, ma liberamente attivi sul mercato con un’imprenditorialità debole e diffusa sul territorio che inventa nuovo lavoro, nuove imprese, nuovi servizi e nuove forme di economia relazionale, spesso turbolenta e discontinua, e tale da attivare un modo diverso e improprio di usare la città.
Queste due economie (industriale e sociale) sono tra loro strettamente connesse da un rapporto speculare. Se un tempo il benessere generale era direttamente legato (attraverso i salari e i posti fissi di lavoro) al buon andamento dell’economia industriale, adesso invece si deve constatare che più l’industria cresce più investe in nuove tecnologie e in mercati globalizzati, estromettendo addetti. In ragione di ciò sempre più si sviluppa e si espande la nuova economia sociale indipendente, grazie alla quale si incrementa il processo di continua rifunzionalizzazione di una città nata e progettata per logiche sociali e produttive tipiche dell’economia industriale classica, che oggi invece deve misurarsi con le logiche del lavoro diffuso e con il conseguente uso improprio di gran parte delle strutture esistenti.
Questo tipo di imprenditorialità di massa, che opera attraverso la diffusione delle strumentazioni elettroniche, non è infatti inquadrabile negli zoning della tradizione moderna. Non solo invade il vastissimo patrimonio immobiliare (fatto di fabbriche, uffici, laboratori e depositi) dismesso a seguito della globalizzazione, ma sviluppa anche un uso improprio e trasversale di tutto il sistema architettonico (vecchio e nuovo), secondo criteri spesso sfuggenti, che producono luoghi (interni ed esterni) a basso livello d’identità funzionale, ma proprio per questo motivo adatti a essere interpretati come opportunità aperte; strutture che sembrano seguire la logica operativa dei computer, che non hanno una funzione precisa, ma tante funzioni quante sono le necessità degli operatori, diventando veri e propri ‘funzionoidi’ urbani.
Le stesse normative che guidano il governo urbano sono soggette a nuove sperimentazioni, derivate dalla non sempre facile verifica dell’uso reale degli spazi, sfuggenti rispetto ai cataloghi tipologici classici (residenza, terziario, commercio, spettacolo), e dal loro rapido mutare nel tempo.
Questa nuova economia sociale, destrutturata e dinamica, si inquadra tra i fenomeni tipici di una società come la nostra, che deve quotidianamente riformare sé stessa, elaborando in maniera positiva il proprio stato di crisi permanente. Si tratta dunque di un processo dinamico, che esula dai dispositivi elaborati dalla politica del 20° sec., tesa a cercare soluzioni definitive e permanenti per problemi e funzioni perfettamente definiti. Nella società attuale, impegnata a confrontarsi in maniera costante con il nuovo, il diverso e l’innovazione continua, il progetto deve ricercare soluzioni reversibili, incomplete, provvisorie, che garantiscano la possibilità di non creare soluzioni rigide, destinate a produrre fragilità a fronte dei cambiamenti di senso e di funzione. Il sociologo Zygmunt Bauman ha teorizzato infatti l’avvento di una ‘modernità liquida’ (Liquid modernity, 2002), cioè priva di un proprio codice formale, ma disposta ad assumere le innumerevoli forme dei suoi contenitori.
La rifunzionalizzazione urbana
Si assiste dunque alla nascita di un nuovo modello di modernità che si può definire debole e diffusa, nel senso che opera in maniera sperimentale, evitando di produrre sistemi forti e concentrati, alimentandosi di energie sociali nuove e di forme di conoscenza sempre più articolate. Una modernità che, come si è visto, a partire dagli anni Sessanta ha rinunciato all’idea di un’unità metodologica nelle sue diverse discipline del progetto, e ha fondato la sua capacità dinamica sull’autonomia reciproca tra progettazione urbana, composizione architettonica e design degli arredi, dei sottosistemi e della componentistica ambientale.
Nell’ambito dello scenario apparentemente immobile delle nostre città, dove niente sembra indicare l’esistenza di una rivoluzione urbana in atto, esiste invece un fenomeno di grande originalità storica consistente in una sorta di smottamento funzionale di quasi tutti gli apparati architettonici e urbani, derivato dalla smentita o dal superamento di molte previsioni, anche recenti. Si lavora in casa, in auto, nella strada, si fanno università nelle fabbriche, musei nei gasometri, si abita nei magazzini, si fanno banche nelle chiese, scuole nei depositi e nelle rimesse, centri studi negli appartamenti, uffici nei laboratori artigianali. Una rivoluzione urbana che si realizza tutta ‘dentro’ l’architettura, per rifunzionalizzare una città invecchiata rispetto alle proprie previsioni d’uso. Questo processo di rifunzionalizzazione non consiste in un semplice programma di aggiornamento delle tipologie esistenti, ma comporta l’inizio di un processo evolutivo ininterrotto.
Il sistema commerciale della città si rinnova periodicamente, si progettano gli uffici tenendo conto della loro possibile destinazione a residenza, le residenze si organizzano per diventare uffici, e il patrimonio del già costruito richiede di essere rapidamente adattato a nuovi modi d’uso. La più importante regione industriale d’Europa, la Rhur in Germania, negli ultimi vent’anni si è trasformata in un vasto territorio che ospita musei, gallerie d’arte, teatri e sale da concerto, realizzati negli involucri industriali, adattati ai nuovi usi grazie alla loro grande flessibilità interna.
Secondo l’economista Storm Cunningham (The restoration economy, 2002), il mercato delle trasformazioni interne ed esterne delle nostre città, inadeguate ai modi indotti dalla terza rivoluzione industriale, sarà uno dei business più importanti del 21° secolo.
Questa attività di rifunzionalizzazione continua della città contemporanea si realizza dunque attraverso la progettazione dei suoi spazi interni, intesi come un’infrastruttura autonoma che, nel rispetto degli organismi architettonici esistenti, ne modifica le destinazioni sociali e produttive e ne rinnova l’immagine, creando quelle mental maps tutte ‘interne’ alla città (e di cui parlava già nel 1960 Kevin A. Lynch in The image of the city, trad. it. 1964), fatte di segni e arredi, comunicazioni commerciali e prodotti esposti, che rendono riconoscibile al cittadino la propria città, creando un contesto espressivo che esula dai macrosegni architettonici, sempre più lontani dall’esperienza quotidiana.
La progettazione degli spazi interni, dunque, sta ormai superando i suoi tradizionali limiti di disciplina dell’‘arredamento’, per diventare la nuova protagonista della scena urbana e l’attività principale per il funzionamento complessivo della città. Una funzione centrale, che si attua attraverso la disponibilità di tecnologie e merceologie che appartengono in gran parte alle competenze dell’interior design, come attività di progettazione di sottosistemi e microstrutture (prodotte in grande serie, in piccola serie, o in manufatti unici, usando tecnologie avanzate o manuali) in grado di seguire il mutare della domanda e assecondare i processi di rifunzionalizzazione interna della città.
Nuove qualità urbane
Negli ultimi dieci anni, dunque, sono giunte a maturazione alcune profonde trasformazioni urbane, che si sono attuate non tanto nel cambiamento dello scenario architettonico, quanto in quello continuo dei suoi spazi interni. Si tratta di una vera e propria rivoluzione urbana i cui effetti non si sono limitati solamente al mercato immobiliare, ma hanno avuto un’importante ricaduta tanto nelle economie locali, quanto nel riassetto di disfunzioni urbane, e nello sviluppo positivo delle attività creative.
Quando si parla oggi degli spazi interni urbani, si deve tenere presente il ruolo che essi hanno acquistato nell’economia sociale delle città, le quali hanno cessato il loro ciclo di espansione sul territorio e sono passate a una fase ‘entropica’, costituita cioè dall’intensificazione dell’uso del patrimonio architettonico esistente, e anche da una nuova interpretazione funzionale dei vuoti urbani (strade, piazze e parchi). Mentre la nuova architettura e l’espansione urbana sono state le protagoniste indiscusse del 20° sec., ora si assiste a un capovolgimento di questa logica, per cui la città appare ormai come un unico ‘sistema ininterrotto di spazi interni’, disponibili a un continuo rinnovamento di funzioni e di immagine, dove la differenza tra spazi interni ed esterni è sempre meno chiara, i perimetri tipologici diventano più opachi e il funzionamento complessivo della città (e della sua economia) è affidato non a ciò che ‘si vede’ nel paesaggio architettonico, bensì a ciò che ‘non si vede’ ma sta al suo interno, e che determina il metabolismo e la qualità funzionale ed estetica della città stessa.
Il caso di Milano
Durante gli anni Novanta esistevano a Milano 9 milioni di m2 di aree industriali dismesse; tali spazi sono stati progressivamente assorbiti dall’economia dell’innovazione, tipica di questa città (design, moda, comunicazione, promozione, ricerca). Questo settore in piena espansione, che non avrebbe potuto trovare offerte adeguate nel mercato immobiliare tradizionale, ha individuato nei grandi contenitori industriali abbandonati il polmone adatto non solo ad accogliere ma anche a sviluppare la propria attività, adeguandola alle modalità gestionali più avanzate. Tali modalità, infatti, non possono convivere con le tipologie dei vecchi uffici, fatti di spazi frazionati e ridotti, e invece necessitano di superfici ampie dove la produzione può accogliere un’intensa rete di relazioni esterne e nuove forme di organizzazione del lavoro.
La presenza di questo mercato di aree industriali dismesse ha permesso a Milano di crescere e di aggiornarsi, affrontando positivamente il momento delicato della propria espansione: studi di progettazione, studi fotografici, redazioni, gallerie d’arte, lofts, e successivamente università, scuole, laboratori per microimprese, sono progressivamente (e spesso abusivamente) penetrati nei vasti e deserti edifici periferici, sostituendo le vecchie attività industriali dell’epoca della meccanica (adesso trasferite lontano) con nuove attività legate all’innovazione, ai servizi informatici, alla formazione. Inoltre, la disponibilità di queste grandi aree non solo ha aperto un altro settore del mercato immobiliare, ma ha anche avviato un importante processo di aggiornamento gestionale e tecnologico dell’intero ambito della progettazione, della comunicazione e della promozione, con un’importante ricaduta su tutta l’economia di un ramo imprenditoriale trainante per Milano. Un settore che probabilmente non avrebbe potuto sopravvivere alla concorrenza internazionale senza poter accedere a questo vasto patrimonio di spazi interni.
Il caso del Giappone
In Giappone, durante gli ultimi dieci anni, il fenomeno delle dismissioni industriali è rimasto abbastanza limitato, perché la globalizzazione non ha coinciso con il trasferimento delle attività produttive in altri Paesi (per es., India o altri territori asiatici), ma piuttosto con l’adeguamento tecnologico e gestionale di tutto il settore terziario e amministrativo. In altre parole, in Giappone la globalizzazione ha prodotto un effetto apparentemente limitato; tuttavia, da alcuni anni nel centro di Tokyo esistono 1,5 milioni di m2 di uffici abbandonati, che erano stati realizzati prima dell’avvento delle strumentazioni elettroniche, e di aree di servizi centralizzati per importanti aziende e imprese multinazionali (con un elevatissimo numero di addetti), che nel tempo si sono riorganizzate in aggregazioni gestionali più snelle.
Il fatto che questo patrimonio immobiliare sia collocato nel centro delle grandi città giapponesi, come Tokyo o Osaka, deriva storicamente dalla politica nazionale di sostegno ai processi di industrializzazione forzata che il Paese aveva adottato dal periodo della ricostruzione postbellica fino a tutti gli anni Ottanta. Questa politica ha comportato il quasi completo allontanamento delle residenze dai centri delle città, destinati a ospitare tutti i servizi industriali e commerciali, creando nella periferia un sottile anello di residenze costituito da quartieri privi di servizi e di spazi di aggregazione, dove gli alloggi sono in gran parte costituiti da moduli residenziali minimi e molto cari.
Adesso la dismissione delle aree terziarie collocate nel centro delle città costituisce per il Giappone un’occasione storica unica per attuare un riequilibrio non solo urbanistico, ma anche sociale ed economico, che favorisca un nuovo modello di benessere, più attento alla qualità della vita dei singoli cittadini. Esiste infatti la possibilità di trasformare dal suo interno il patrimonio immobiliare dismesso, operando con tecnologie e sistemi oggettuali, per realizzare ‘nuova residenza’ posta nel centro delle città, immettendo sul mercato immobiliare una nuova offerta di beni residenziali qualitativamente adeguati al livello economico di una società come quella giapponese che, pur godendo di un reddito tra i più alti del mondo, non possiede un analogo livello di standard qualitativi individuali. La carenza di un mercato immobiliare in grado di offrire beni adeguati ha finito per costituire un’intrinseca debolezza dell’economia giapponese, che si è molto sviluppata a livello industriale, mentre su quello individuale si è basata soltanto sul possesso di ‘beni mobili’ (automobili, servizi informatici, alto turismo, moda, design), scaricando su queste fragili ricchezze private gran parte delle ricorrenti crisi economiche; economie private che non possono accedere (come succede nei Paesi occidentali) agli ammortizzatori costituiti dal possesso di ‘beni immobili’ per superare eventuali difficoltà finanziarie.
Dunque una nuova disponibilità di spazi interni non solo può rappresentare l’occasione per processi di riforma urbana, ma anche costituire un fattore di trasformazioni economiche e sociali importanti.
Nuovi spazi per una nuova cultura
Queste riflessioni portano a considerare in maniera diversa il ruolo che la componente dimensionale degli spazi può avere sulla produzione stessa della cultura e dell’arte. Si può notare, per es., come la prima differenza tra l’arte statunitense e quella europea, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, fosse costituita dalla dimensione stessa degli studi degli artisti: mentre in Europa i pittori e gli scultori continuavano a operare nei vecchi atelier, negli Stati Uniti una nuova generazione di artisti prendeva possesso dei depositi del porto di Manhattan, di fabbriche periferiche abbandonate, di granai e addirittura di rami dismessi della metropolitana.
Questa disponibilità logistica favorì la nascita della nuova pittura americana, permettendole di esprimere segni e installazioni dimensionalmente impossibili per gli artisti europei, limitati dall’estensione dei loro studi a una pittura da cavalletto. Tutto il Cubismo e il lavoro delle avanguardie europee si sono svolti in spazi ottocenteschi, in laboratori artigianali, in piccole officine abbandonate se non addirittura in appartamenti borghesi. Al contrario, i grandi drippings di Jackson Pollock (realizzati in un granaio) o le opere pop di Robert Rauschenberg (in un tunnel dismesso della metropolitana di New York) sono da mettere in rapporto con una disponibilità di spazi che ha dato la possibilità agli artisti statunitensi di sperimentare nuove tecniche operative, ma ha costituito anche un nuovo orizzonte gestuale e mentale.
Sarebbe interessante approfondire con un’analisi storica l’influenza che la disponibilità logistica ha avuto nello sviluppo dell’arte contemporanea. Si scoprirebbe che le vicende della ‘cultura degli interni’ nei primi anni del 21° sec. hanno avuto un ruolo, non solo nel contesto urbano, ma anche nella possibilità di sperimentare e comunicare la creatività e l’innovazione in un contesto spaziale diverso da quello della tradizione storica e anche moderna. Per questo motivo gli ‘interni industriali dismessi’ del 21° sec. sono diventati un’occasione per realizzare nuovi dispositivi per molte attività culturali profondamente cambiate nell’ultimo decennio e basate su un’organizzazione diversa (o disorganizzazione) degli spazi interni, prima ancora che su una differente forma esterna dell’edificio.
In altre parole, negli ultimi decenni non solo è cambiata la cultura creativa, ma è profondamente mutato il contesto sociale in cui gli edifici destinati alla cultura sono collocati. Se un tempo il teatro, l’auditorium o il museo di arte moderna si ponevano dentro uno spazio urbano dove agiva una società ‘indifferente’, estranea cioè ai temi dell’arte, della creatività o della musica, oggi questa relazione è molto diversa: i luoghi dell’arte e della cultura si collocano dentro uno spazio sociale molto più ‘reattivo’, che produce innovazione come rinnovata energia imprenditoriale e che è in grado di creare nuove economie a partire dalla capacità individuale di inventare nuovi comportamenti, nuovi mercati e nuovi servizi.
Se un tempo attorno alle ‘cattedrali della cultura’ esisteva il deserto, ora si può dire che attorno a esse gravitano ‘anelli di Saturno’, che dall’esterno premono sui perimetri (un tempo blindati) dei templi dell’arte e che permettono un interscambio sempre più intenso tra esterno e interno, tra spazio interno e città, tra arte e società. Queste nuove condizioni storiche, prodotte dal profondo rinnovamento dei modi di produzione e consumo della cultura, hanno determinato una vasta sperimentazione tipologica, nata in primis dall’uso innovativo di organismi architettonici abbandonati, e successivamente in grado di dar luogo a organismi originali, organizzati secondo le logiche di questo vasto rinnovamento.
I musei per l’arte contemporanea
I musei per l’arte moderna sono tradizionalmente organizzati secondo due criteri: il primo è quello del raggruppamento per tendenze linguistiche o culturali (la sala degli Impressionisti, la sala dei Cubisti, quella dei Surrealisti ecc.), e il secondo è quello cronologico (la sala del Settecento, dell’Ottocento ecc.). Questa impostazione museologica, di origine illuminista ed enciclopedica, si fonda sull’idea che l’arte nel suo sviluppo temporale e formale segua una linea evolutiva unica, una progressione verso un futuro di civilizzazione che può essere comunicata al pubblico; il Guggenheim Museum (1959) di Frank Lloyd Wright a New York, con il suo percorso elicoidale, costituisce la metafora spaziale più chiara di questa teoria evoluzionista. Le modalità operative degli artisti seguono (consciamente o inconsciamente) questo tipo di progressione storica, con il superamento continuo dei livelli espressivi raggiunti.
Negli ultimi decenni l’arte sta operando in maniera completamente diversa, non produce più un percorso unico di crescita, ma un labirinto di itinerari non riducibili a una strategia lineare; non costruisce più territori comunicanti tra loro, ma un arcipelago infinito di esplorazione di livelli autonomi di conoscenza della realtà. L’idea tradizionale di un possibile ordinamento degli elaborati artistici secondo un unico ‘percorso conoscitivo’, ha lasciato il posto a un sistema di ‘itinerari esplorativi’ che espongono una costellazione disorganica di ricerche, installazioni, immagini, di prodotti multimediali, performances che non possono (e non devono) essere ordinate, ma sovrapposte come ipotesi tra loro alternative, come universi conoscitivi concorrenziali, in grado di far uscire l’arte dai perimetri linguistici e stilistici tradizionali, trasformandola in tal modo in un sistema cosmico in continua espansione. L’arte si propone come nuova ‘religione rivelata’ priva di metafisica, che nasce direttamente dal corpo e dalla mente dell’artista e che indica al mondo globalizzato un comune destino.
I musei di arte contemporanea sono organizzati quindi preferibilmente come luoghi da esplorare, che non producono una forma di conoscenza unica, ma un sistema aperto di enigmi, disposti liberamente nello spazio come realtà autonome e reciprocamente alternative, offrendo un percorso che richiede codici interpretativi personalizzati, non facili da organizzare in un contesto di massa del consumo museale.
Gli auditorium e l’ottava nota
La progettazione di nuovi auditorium, di cui una prima selezione è stata presentata alla Biennale di architettura di Venezia del 2004 curata da Kurt W. Forster, si è attestata su una formula tipologica particolare: da una parte si sono sviluppate nuove forme architettoniche organiche o decostruttiviste, anche molto avanzate; dall’altra, lo spazio interno della sala concerti è rimasto legato alla ricerca scientifica della formula acustica per un ‘perfetto ascolto’, come se il consumo della musica richiedesse soltanto la realizzazione di condizioni percettive assolutamente perfette. Così, mentre si è sviluppata una vasta casistica di nuove forme architettoniche, le sale da concerto sono rimaste sostanzialmente uguali tra di loro, perché vincolate al rispetto delle leggi scientifiche dell’acustica.
Questa contraddizione è il frutto di una visione limitativa della musica e del suo consumo sociale, perché non esiste nessuna tendenza musicale che identifichi la qualità acustica come un valore culturale dirimente.
Il fatto di intendere le sale da concerto come luoghi altamente specializzati, impermeabilizzati ai rumori esterni, ha favorito infatti una ‘blindatura’ della musica stessa, che rimane così chiusa nella sala. Tale atteggiamento progettuale inizia a essere superato da esperienze che cercano di creare le condizioni perché dall’interno la musica esca verso l’esterno, e dall’esterno i rumori (e quindi anche la musica) entrino nell’interno. Così gli auditorium stanno diventando strutture più ‘permeabili’, nelle quali l’ascolto non è organizzato nelle forme rigide delle sale tradizionali, ma prevede una libera circolazione del pubblico durante il concerto, l’acquisto e la vendita di musica e di libri, i ristoranti e i self-service.
Questa nuova direzione progettuale va incontro alla tendenza della musica contemporanea che sta sviluppando una sorta di ‘ottava nota’, nel senso che l’esperienza dell’ascolto si combina in maniera sempre più intensa con il ruolo spettacolare degli interpreti, le immagini visive, i territori mediatici, gli scambi sociali e i servizi commerciali del settore. Nessuna società ha mai avuto una relazione così intensa con la musica come quella attuale, che dalla musica deriva stili di comportamento e sensibilità percettive in grado di segnare profondamente un pubblico che, pur cambiando continuamente la propria sensibilità e pur vivendo in una società altamente globalizzata, è in grado, attraverso la musica, di riconoscere le tribù di appartenenza, realizzare nuove economie creative, fornire identità individuali e produrre anche fenomeni di aggregazione di massa mai visti prima.
L’ottava nota è dunque costituita da questa straordinaria energia che la musica contemporanea è in grado di esprimere, emozionando enormi quantità di ascoltatori. Gli auditorium si avviano dunque a stabilire un rapporto più interattivo tra musica e pubblico, con forme diffuse di autogestione dell’ascolto e lo sviluppo di servizi oltre gli orari programmati dei concerti provocando una vera rivoluzione culturale.
Il ruolo culturale del commercio
La città contemporanea non può essere più considerata, come un tempo, un ‘insieme di scatole architettoniche’, ma piuttosto un flusso di merce, informazioni, servizi che muta continuamente, determinando il formarsi di un paesaggio fluido, dove agisce un infinito numero di attori e di energie. La qualità dei luoghi non è più determinata soltanto dalla forma o dall’estetica dei volumi architettonici, ma dalla qualità dei prodotti in vendita, dalle forme scelte per promuoverli e anche dall’insieme di segni e colori corrispondenti alle identità individuali che compongono il pubblico in movimento continuo negli spazi urbani.
Si è dunque capovolto il rapporto tradizionale: se prima la rete commerciale cercava una collocazione nei luoghi prestigiosi della città, adesso è la stessa rete a creare luoghi prestigiosi, vere e proprie cattedrali dello shopping divenute famose in tutto il mondo, e in grado di dare visibilità ad aree e percorsi urbani che altrimenti non sarebbero stati fonte di attrazione né per il commercio tradizionale né per il turismo.
Nell’ultimo decennio, infatti, si è assistito a un’importante trasformazione della strategia imprenditoriale di vari settori creativi (moda e design), che ha modificato profondamente il ruolo svolto dalla rete commerciale delle grandi marche. Se un tempo la gestione di queste importanti marche si concentrava nel controllo diretto della progettazione e della produzione, oggi tali attività sono articolate in competenze separate, e spesso la produzione è collocata in Paesi lontani (che producono e spesso copiano), mentre rimane sotto stretto controllo centrale la gestione dell’‘immagine’ del marchio, della sua comunicazione e promozione, della sua filosofia commerciale, della sua mission sul mercato globalizzato, della sua capacità di innovazione.
Per questo motivo, la concorrenza internazionale tra i grandi marchi dell’economia creativa si combatte soprattutto sul possesso dei luoghi strategici della città, sulla qualità sempre più sofisticata degli showrooms, cui è affidato il compito non solo di rispondere alle normali necessità di promozione, ma di creare un polo qualitativo che diventi un punto di riferimento nello scenario urbano complessivo. Così il ‘quadrilatero della moda’ a Milano, il quartiere di Omotesando a Tokyo, Madison e Fifth Avenue a New York, il Marais a Parigi sono diventati luoghi urbani di altissima qualità estetica grazie alla presenza di spazi interni dove le grandi marche si confrontano, ma anche e soprattutto sul piano dell’originalità spaziale, coinvolgendo nella progettazione e nella realizzazione i più prestigiosi architetti e interior designers del mondo.
La città contemporanea si identifica quindi attualmente come un ‘interno continuo’, dove le strade e le piazze sono di fatto inglobate; un sistema di luoghi coperti interconnessi, dai perimetri sempre più sfumati e dalle funzioni non rigidamente definite, organizzati attraverso dispositivi reversibili adeguati a rapidi cambiamenti d’uso, la cui qualità è diventata un motore di qualificazione urbana. Una qualità fluttuante non stabile, perché la concorrenza internazionale e locale, il mercato in continua evoluzione e il conseguente rinnovo dell’offerta hanno creato una situazione per cui ogni cinque anni l’intera rete commerciale deve rinnovarsi, sforzandosi di aggiornare l’immagine pubblica del marchio.
Gli uffici aperti
Nella società postindustriale tutto il lavoro terziario ha subito una grande trasformazione, come risultato di fattori sia tecnologici sia operativi.
L’ufficio ha cessato di essere un’area chiusa e monologica, aprendosi a un vasto sistema di collaborazioni esterne, costituito da una rete di imprese specializzate (agenzie, studi professionali, singoli consulenti); una rete diffusa che opera fuori dal perimetro aziendale e a questo è collegata per via mediatica o attraverso un calendario di incontri periodici. A loro volta, gli operatori interni agiscono oggi spostandosi fisicamente all’esterno per stabilire relazioni dirette con altre imprese coinvolte in specifici progetti operativi, per incontrare i consulenti e le agenzie con cui collaborano e per vedere, nelle grandi fiere, le proposte della concorrenza.
Gli uffici, dunque, da una parte sono diventati strutture ambientali più integrate nella città, che dal loro interno si espandono verso l’esterno; dall’altra, i perimetri sono diventati più attraversabili, e quindi più adeguati ad accogliere consulenti e clienti che dall’esterno accedono al loro interno.
Le modalità organizzative del lavoro terziario sono dunque cambiate e la tradizionale suddivisione dello spazio interno basata sulla stretta nominalità delle postazioni di lavoro ha lasciato il posto a un layout più fluido, incentrato sul libero accesso alle postazioni disponibili, al lavoro di gruppo e alla mobilità degli operatori esterni e interni, e sulla possibilità di creare spazi per operazioni non previste. Inoltre, nelle grandi compagnie gestionali che possiedono sedi sparse in diversi Paesi del mondo, il lavoro non si interrompe mai, segue i cicli solari e notturni senza interruzione, adeguandosi alla globalizzazione del mercato. In questa nuova organizzazione, nata dall’alta complessità del servizio terziario e dalla conseguente necessità di distribuzione sul territorio, la nuova fluidità degli orari di lavoro e il tipo di ritmo operativo, meno meccanico e più riflessivo, hanno creato una diversa logica degli spazi interni, i quali comprendono spazi di sosta, servizi, luoghi di incontro e di lavoro.
Le previsioni ritenevano che nel 21° sec. il lavoro terziario sarebbe stato interamente assorbito da servizi esterni (in India o in altri Paesi asiatici), e che gli uffici sarebbero completamente scomparsi, sostituiti dagli home offices e dal lavoro diffuso per via telematica nella città. Tutto questo non è avvenuto (o è avvenuto in termini molto relativi); in realtà l’ufficio continua a esistere come luogo di relazioni umane che conferma il senso di appartenenza anche fisica dei singoli operatori a un’impresa impegnata in una battaglia sempre più internazionale, come centrale operativa che dialoga con sedi distaccate e come luogo visibile per la clientela e per i consulenti esterni. Nell’epoca della globalizzazione l’ufficio è diventato uno spazio più complesso, che svolge anche un’importante funzione simbolica, in grado di affermare l’esistenza fisica dell’impresa nell’epoca dell’economia virtuale e delle relazioni umane diventate immateriali grazie alla rivoluzione telematica.
Rinnovandosi dal suo interno, il mondo degli uffici costituisce oggi un arcipelago di luoghi non molto dissimili dal tessuto urbano che li circonda; spazi meno monologici dove si attuano operazioni elettroniche ma anche importanti interscambi umani; strutture dove la globalizzazione non ha reso ancora più anonimo il lavoro, ma al contrario ha sviluppato l’identità dell’operatore divenuto gestore diretto di intensi programmi di relazioni disperse.
La nuova ospitalità
Per molti decenni le strutture alberghiere europee hanno conservato i tratti caratteristici della loro nascita storica all’indomani della Rivoluzione francese, consistente nell’offerta a un pubblico borghese dei lussi e delle raffinatezze un tempo riservate alla sola aristocrazia: i grands hôtels cercavano di riprodurre i modelli delle magioni nobiliari, sia come arredamento sia come cerimoniale dei servizi. Accanto a queste cattedrali del ‘lusso a pagamento’, si sviluppò poi una vasta rete di alberghi (con diverse categorie di prezzo) destinata al mercato degli uomini d’affari che con lo sviluppo della rivoluzione industriale avevano bisogno di viaggiare nelle diverse città e nazioni. Il turismo di massa che ebbe inizio negli anni del secondo dopoguerra si è vertiginosamente sviluppato creando una rete pulviscolare di micro- o macrostrutture alberghiere, destinate a un mercato internazionale sempre più strutturato e differenziato, che andava da modelli di international style a quelli che garantivano trattamenti familiari per clienti più provinciali.
Il primo cambiamento di questo assetto alberghiero tradizionale, tipico del 20° sec., si è verificato contemporaneamente alle attuali trasformazioni geopolitiche, quando cioè nuove classi di viaggiatori, provenienti dalla Russia, dalla Cina, dal Giappone o dall’India, hanno cominciato a circolare in tutto il mondo, creando un fenomeno di concorrenza internazionale tra le grandi compagnie alberghiere. Nuovi modelli di lusso, nuove offerte di servizi, nuove strategie attrattive si sono resi necessari per rispondere alle richieste di una clientela sempre più cosmopolita ed esigente, che viaggia per motivi di business o di piacere (la cosa è indifferente) ed è attratta da offerte alberghiere che non fanno più riferimento ai modelli tradizionali di un lusso astratto, ma creano situazioni spaziali e servizi aggiornati alle ultime tendenze della moda, del design e della cultura artistica.
Il turismo si è (in parte) trasformato, e dai ‘viaggi nella geografia e nella storia’ (nella cultura, quindi) si è passati a quei ‘viaggi nel mercato’ (cioè nello shopping) che rappresentano, come abbiamo visto, la nuova mappa delle qualità territoriali. Questa situazione ha richiesto il completo aggiornamento delle politiche delle catene alberghiere che hanno iniziato a interpretare sé stesse come organizzazioni in grado di offrire ai clienti una sorta di rete internazionale costituita da un sistema di ‘tunnel qualitativi autonomi’, che non hanno cioè un rapporto diretto con i luoghi e le realtà locali, ma fanno riferimento a una qualità della vita molto sofisticata, dove il cliente riceve ambienti e servizi personalizzati e non si sente mai trattato come il numero anonimo della propria stanza.
I servizi alberghieri tradizionali (sala ricevimenti, foyer, hall, ristoranti e camere) sono stati integrati con un’offerta personalizzata di commodities in grado di rispondere alla globalizzazione della clientela. Si è sviluppata soprattutto un’intensa ricerca di visibilità, riconoscibilità, unicità della propria immagine come premessa a una sorta di connivenza tra albergo e cliente, come sforzo per affezionarlo alla compagnia, facendolo sentire non solo servito e ospitato, ma anche compreso nella sua esigenza di incontrare innovazioni, qualità estetiche, selezione dei prodotti.
Bibliografia
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Spazi per la cultura, cultura degli spazi. Nuovi luoghi di produzione e consumo della cultura contemporanea, a cura di A. Branzi, A. Chalmers, Milano 2007.