Abstract
Il divieto di interposizione nella prestazione di lavoro deve ritenersi tuttora in vigore, ed assume ancor oggi rilevanza centrale fra le discipline dirette a soddisfare l’esigenza dell’ordinamento di identificare il datore di lavoro.
Nonostante la profonda trasformazione che negli ultimi tempi ha riguardato quasi tutte le categorie del diritto del lavoro, la protezione dei lavoratori subordinati (Lavoro subordinato) è ancor oggi affidata, in misura prevalente, a norme inderogabili (Inderogabilità [dir. lav.]). Norme che trovano giustificazione non soltanto nel programma di trasformazione sociale voluto dalla Costituzione (art. 3 cpv. Cost.) e che impone al legislatore di proteggere il lavoratore, quale contraente socialmente ed economicamente debole, fin dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, ma anche nella natura eminentemente personalistica degli interessi anche patrimoniali coinvolti nel rapporto di lavoro (artt. 32, 36, 37, 41 cpv., Cost.).
In un siffatto contesto normativo, il legislatore non può restare indifferente alla questione di identificare il soggetto che deve inderogabilmente assumere gli obblighi e le responsabilità che quelle norme attribuiscono al datore di lavoro (Carinci, M.T., La fornitura di lavoro altrui. Interposizione, comando, lavoro temporaneo, lavoro negli appalti, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2000, 575 s.).
Tale questione può essere anche descritta come una questione che attiene alla definizione della “nozione” o del “concetto” di datore di lavoro, ma deve essere chiaro che non si tratta soltanto di attribuire la “qualità giuridica” di datore di lavoro ovvero semplicemente di enunciare la “regola d’uso” del sintagma “datore di lavoro”, perché si tratta invece di questione che ha a che fare con un dover-essere.
Ed infatti, com’è agevole comprendere, lo statuto protettivo del lavoro subordinato rischierebbe di restare per la gran parte privo di effetti se il datore di lavoro potesse liberamente trasferire su un diverso soggetto le responsabilità derivanti da quelle norme inderogabili. Allo stesso tempo, la protezione del lavoratore quale contraente economicamente e socialmente debole sarebbe gravemente deficitaria se egli non fosse tutelato proprio nella decisione negoziale più rilevante qual è quella che attiene alla individuazione del soggetto che deve assumere le responsabilità derivanti dal rapporto di lavoro.
Fra le discipline dirette ad identificare autoritativamente il datore di lavoro (v. supra, § 1), assume ancor oggi rilevanza centrale la disciplina della interposizione nella prestazione di lavoro.
Ed infatti, come tra breve si dirà meglio, il legislatore considera interposizione ogni operazione negoziale che consenta la “effettiva utilizzazione” della prestazione lavorativa da parte di un soggetto (cd. interponente) diverso da quello che ha formalmente stipulato con il prestatore il contratto di lavoro (cd. interposto), e la disciplina della interposizione è stata fin dalle origini caratterizzata da una tipica sanzione che conduce alla imputazione imperativa del rapporto di lavoro subordinato in capo al soggetto che, proprio in virtù di quella “effettiva utilizzazione”, viene considerato dal legislatore come datore di lavoro «effettivo», in luogo di quello formale (v. infra, § 5 e § 6).
Pertanto, ancora oggi «il valore politico e giuridico» della disciplina dell’interposizione sta proprio in ciò che il legislatore non si limita, «come di regola, a riprovare l’esplicazione illecita dell’autonomia privata, con la conseguenza della mera nullità degli atti», ma vuole «intervenire per ricollegare ad essa, in presenza dell’effettiva utilizzazione delle prestazioni del lavoratore, gli effetti giuridici ritenuti più congrui a realizzare l’interesse del prestatore, addossando il rapporto di lavoro direttamente all’imprenditore interponente» (Benedetti, G., Profili civilistici dell’interposizione nel rapporto di lavoro subordinato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 1492 ss., spec. 1524; si tratta di reazione comune ad altri ordinamenti: cfr. De Luca Tamajo, R., Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: scenari e strumenti, in Riv. it. dir. lav., 2007, I, 3 ss., spec. 13).
Del resto, l’affermazione che quella tipica sanzione costituisce il tratto saliente della disciplina dell’interposizione nella prestazione di lavoro non si giustifica soltanto per la fondamentale considerazione che la valutazione che il legislatore dà di un fenomeno giuridico si esprime soprattutto nella definizione degli effetti che ne derivano (cfr. ancora Benedetti, G., op. cit., 1496), ma anche per due ulteriori specifiche ragioni.
Ed infatti, da un lato, nonostante le fattispecie nelle quali l’interposizione può manifestarsi sono fra loro diverse, sono accomunate da quel tipico effetto sanzionatorio, che conduce alla identificazione del soggetto che, secondo il legislatore, deve inderogabilmente assumere le responsabilità del datore di lavoro in luogo di quello che ha formalmente stipulato il contratto di lavoro.
D’altro lato, quella tipica sanzione, determinando una imputazione alternativa del rapporto di lavoro, vale a distinguere il divieto di interposizione dagli altri istituti diretti a identificare il soggetto che deve inderogabilmente assumere le responsabilità derivanti dal rapporto di lavoro subordinato e che sono incentrati sulla diversa tecnica della imputazione cumulativa, e non alternativa, di quelle responsabilità, fino a giungere a forme di vera e propria codatorialità (cfr., anche per i necessari riferimenti, Carinci, M.T., Il concetto di datore di lavoro alla luce del sistema: la codatorialità e il rapporto con il divieto di interposizione, in Ead., a cura di, Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Milano, 2015, spec. 22 ss.).
La rilevanza sistematica che assume tale regime sanzionatorio trova ulteriore conferma anche in ciò, che se pure la profonda evoluzione che ha caratterizzato i valori e le categorie del diritto del lavoro non ha risparmiato la disciplina della interposizione nella prestazione di lavoro (v. infra, § 7), la sanzione con cui il legislatore reagisce al fenomeno interpositorio è rimasta nel tempo sostanzialmente immutata (v. infra, § 8).
Ogni diversa ipotesi di interposizione nella prestazione di lavoro è divenuta, ed è stata per lungo tempo, contra legem, a seguito della emanazione della l. 23.10.1960, n. 1369 (v. infra, § 4).
Ancor prima di quella legge, però, e in continuità con la tradizionale valutazione negativa del marchandage du travail, la dottrina e la giurisprudenza avevano già tentato di individuare nel voluto delle parti una qualche ragione di illegittimità della interposizione nella prestazione di lavoro anche al di là della particolare fattispecie disciplinata dall’art. 2127 c.c., ad esempio ravvisando una frode alla legge in danno dei lavoratori (Cessari, A., L’interposizione fraudolenta nel diritto del lavoro, Milano, 1959).
In tale prospettiva, la giurisprudenza era giunta anche a riconoscere la possibilità di imputare il rapporto di lavoro al soggetto nella cui «organizzazione aziendale» si era «di fatto» realizzata la «inserzione» del lavoratore, ritenendo «possibile intravvedere l’accordo» fra il lavoratore ed il soggetto con il quale il rapporto di lavoro era «effettivamente corso» (Trib. Milano, 10.3.1958, in Riv. giur. lav., 1958, 10 ss.).
L’esigenza di individuare la ragione della illegittimità dell’interposizione è venuta meno dopo che il legislatore, anche a seguito di una rilevante inchiesta di una Commissione Parlamentare, ha introdotto con la l. n. 1369/1960 l’espresso e generale divieto di «interposizione nelle prestazioni di lavoro», ovvero il divieto di qualsiasi accordo o combinazione negoziale che comunque determinasse la fornitura, da parte dell’intermediario-interposto in favore del committente-interponente, anche «in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma», «di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario» (art. 1, co. 1).
Pertanto, non v’era più la necessità di indagare il voluto delle parti, né di considerare l’interposizione come una fattispecie in fraudem legis, essendo ormai in ogni caso contra legem, e la maggioranza degli interpreti è stata anche concorde nel ritenere che la fattispecie dell’interposizione avesse «portata puramente oggettiva» (Benedetti, G., op. cit., 1504 s., 1522; Ichino, P., Il contratto di lavoro, vol. I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2000, 418 s.; Cass., S.U., 21.3.1997, n. 2517) e, quindi, non richiedesse nel committente-interponente un particolare intento fraudolento, quale l’intento di sottrarsi all’applicazione di norme imperative o comunque di creare un diaframma giuridico fra sé e i lavoratori. Né assumeva rilevanza l’effettiva lesione degli interessi dei lavoratori, considerata dal legislatore insita nella fattispecie interpositoria (Spano, S., Il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, Milano, 1965, 37; Del Punta, R., Appalto di manodopera e subordinazione, in Dir. lav. rel. ind., 1995, 625 ss., spec. 626).
Peraltro, confermando ex post la ragionevolezza della soluzione già individuata dalla giurisprudenza (v. supra, § 3), la legge prevedeva anche che «I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni» (art. 1, co. 5).
Quest’ultima disposizione è stata comunemente interpretata nel senso che, in presenza delle circostanze indicate dal legislatore, si costituisse «direttamente tra imprenditore interponente e prestatori di lavoro un rapporto giuridico, che va configurato, più specificamente, proprio come rapporto di lavoro subordinato» (Benedetti, G., op. cit., 1496 s.). Gli interpreti si sono quindi impegnati nel definire la fattispecie alla quale il legislatore aveva collegato un effetto così rilevante, e le principali tesi ermeneutiche hanno attribuito rilievo alla circostanza dell’«effettiva utilizzazione» ex art. 1, co. 5, l. n. 1369/1960 anche quale «elemento costitutivo della stessa fattispecie» (Benedetti, G., op. cit., 1501,").
Una parte della dottrina e della giurisprudenza ha, infatti, ritenuto che il concetto di «effettiva utilizzazione delle prestazioni di lavoro» ex art. 1, co. 5, l. n. 1369/1960 si riferisse alla circostanza che l’interponente avesse nei fatti tenuto nei confronti dei lavoratori assunti dall’interposto un comportamento corrispondente all’esercizio dei poteri tipici del datore di lavoro e che, quindi, tale comportamento dovesse essere definito tenendo conto anche delle diverse disposizioni che disciplinano quei poteri, fra le quali anzitutto l’art. 2094 c.c. (Mazzotta, O., Appalto di prestazioni di lavoro, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, 6).
Maggior seguito ha, però, avuto la diversa tesi che ha valorizzato la disposizione contenuta nell’art. 1, co. 3, l. n. 1369/1960, ai sensi della quale doveva considerarsi interposizione anche l’appalto nel quale l’appaltatore avesse impiegato «capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante».
La giurisprudenza prevalente aveva individuato in tale disposizione una «presunzione legale assoluta di pseudo-appalto vietato» (Cass., 31.12.1993, n. 13015) fondata su «una valutazione legale tipica» (Benedetti, G., op. cit., 1517), ma la dottrina si era spinta più avanti, perché aveva ritenuto che il terzo comma dell’art. 1 si ponesse «sullo stesso piano del primo, id est su quello della qualificazione diretta della fattispecie interpositoria», e che quindi il legislatore avesse attribuito rilevanza agli elementi descritti in tale disposizione «come indici di qualcos’altro, che è appunto il nucleo sostanziale della fattispecie vietata» (Del Punta, R., op. cit., 629, 633). Nucleo sostanziale che è stato infatti ravvisato, anche sulla scorta dei risultati della ricordata Commissione Parlamentare d’inchiesta, nella «assenza di una vera e propria organizzazione aziendale, almeno nelle dimensioni volute dalla legge, in capo al cd. appaltatore» (Benedetti, G., op. cit., 1513, 1515 nt. 69). E ciò nel presupposto che tale assenza fosse di per sé rivelatrice della reale natura del rapporto fra quest’ultimo e il committente-interponente.
Ed infatti, come la dottrina ebbe subito modo di segnalare, anche nell’appalto genuino «concorrono certamente tipiche prestazioni di lavoro subordinato rispetto all’appaltatore» il quale nei confronti del committente «assolve quindi una funzione intermediaria rispetto a tali prestazioni di lavoro»; queste ultime, però, «si fondono in una prestazione più complessa», alla quale concorrono anche mezzi materiali «e soprattutto l’opera organizzatrice dell’appaltatore con il correlativo rischio» (Asquini, A., Somministrazione di prestazioni di lavoro da parte di intermediari e appalto di servizi, in Mass. giur. lav., 1962, 278 ss., spec. 279).
Pertanto, gli interpreti hanno ritenuto che il legislatore considerasse effettiva utilizzazione delle prestazioni di lavoro da parte dell’interponente anche l’ipotesi in cui l’appaltatore, nel concreto svolgimento dello specifico rapporto con il committente, non agisse alla stregua di un vero imprenditore, avendo riguardo ad entrambi gli elementi (autonoma organizzazione aziendale; assunzione del rischio di impresa) previsti dall’art. 1655 c.c. Con la conseguenza che lo sforzo della giurisprudenza per definire i confini fra appalto lecito e interposizione vietata è stato anche uno sforzo diretto a «stabilire quale sia la soglia minima di “imprenditorialità” che l’appaltatore deve superare per poter essere ritenuto tale», «tenendo conto del tipo di attività appaltata, ossia commisurando il quid di organizzazione ritenuto imprescindibile alla natura dell’opera o del servizio promesso» (Del Punta, R., op. cit., 634, 643 ss., 649).
In tale prospettiva, anche l’esercizio del potere direttivo da parte del committente-interponente avrebbe quindi potuto assumere rilevanza, ma quale indice della mancanza di autonomia dell’appaltante-interposto (Del Punta, R., op. cit., 644 s.; Cass., 21.5.1998, n. 5087).
Sembra dunque possibile affermare che il legislatore, nel descrivere l’interposizione come una «effettiva utilizzazione delle prestazioni di lavoro» da parte di un soggetto diverso da quello che ha formalmente assunto i lavoratori (v. supra, § 4), avesse voluto attribuire rilevanza all’inserimento di fatto dei lavoratori formalmente assunti dall’interposto nella complessiva organizzazione produttiva imputabile all’interponente. Inserimento che, per quanto sopra detto, doveva ritenersi realizzato non soltanto quando tali lavoratori fossero risultati addirittura inseriti nella organizzazione di lavoro dell’interponente per effetto dell’esercizio da parte di quest’ultimo nei loro confronti dei poteri organizzativi che spettano tipicamente al datore di lavoro (esercizio che determina tale particolare forma di inserimento: Ichino, P., op. cit., 271 ss., 294 s.), ma anche quando fosse stato accertato che essi avessero svolto la loro prestazione «a vantaggio» dell’interponente (Cass., S.U., 25.5.1976, n. 1883) senza il filtro di una effettiva organizzazione di carattere genuinamente imprenditoriale dell’interposto (Del Punta, R., op. cit., 634).
Quest’ultima fattispecie avrebbe quindi dovuto ritenersi realizzata anche quando l’organizzazione di lavoro nella quale i lavoratori fossero stati inseriti fosse imputabile all’interposto, per essere il risultato dell’esercizio da parte sua dei poteri datoriali che tipicamente la determinano, e ciò nonostante dovesse essere giuridicamente considerata alla stregua di una mera articolazione della più complessiva organizzazione produttiva dell’interponente, a ragione della mancanza di autonomia imprenditoriale o di assunzione di rischio da parte dell’interposto (Del Punta, R., op. cit., 642 s., 651; Ichino, P., op. cit., 385, 419 s., 424 s., 431 ss., 456 ss., 461; e già Benedetti, G., op. cit., 1512, 1535).
E poiché il legislatore imputava imperativamente il rapporto di lavoro in capo al titolare della complessiva organizzazione produttiva nella quale il lavoratore risultasse di fatto inserito, nel senso sopra indicato, la maggioranza degli interpreti era concorde nel ritenere che la l. n. 1369/60, da un lato, attribuisse rilevanza ad una nozione di datore di lavoro «effettivo» o «sostanziale» in contrasto «con la situazione formale, creata artificiosamente per mezzo dell’assunzione e retribuzione da parte di un soggetto diverso» (Benedetti, G., op. cit., 1503) e, d’altro lato, avesse stabilito (anche per ragioni di trasparenza: De Simone, G., Titolarità dei rapporti di lavoro e regole di trasparenza. Interposizione, imprese di gruppo, lavoro interinale, Milano, 1995, 173, 331; De Luca Tamajo, R., op. cit., 26) un nuovo principio generale (che la maggioranza degli interpreti riteneva non direttamente ricavabile dall’art. 2094 c.c.: cfr. Ichino, P., op. cit., 403, 405 s.) di non dissociazione fra datore di lavoro «formale» e «sostanziale», ovvero fra il titolare formale del rapporto di lavoro e l’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative (Del Punta, R., op. cit., 626). Dissociazione alla quale, infatti, il legislatore reagiva riconducendo autoritativamente anche la titolarità formale del rapporto di lavoro in capo al datore di lavoro «sostanziale» (v. infra, § 6).
Gli interpreti si erano divisi sulla ricostruzione del meccanismo di imputazione del rapporto di lavoro in capo all’interponente come previsto dall’art. 1, co. 5, l. n. 1369/1960.
Ed infatti, una parte della dottrina, con l’intento di scongiurare il ritorno alle tesi istituzioniste, e in continuità con la giurisprudenza anteriore all’entrata in vigore della legge (v. supra, § 3), aveva ritenuto che il legislatore, imputando il rapporto di lavoro all’effettivo utilizzatore, non imponesse «una relazione giuridica di fatto inesistente, creandola autoritativamente», ma si limitasse a riconoscere che, in conformità al voluto delle parti, «tale relazione giuridica si instaura già nei fatti», e che «già nei fatti è di lavoro subordinato e si svolge proprio fra quei soggetti» (Mazzotta, O., Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Milano, 1979, 265 s., 276 s., 332, 344, 348). Attribuivano rilevanza all’intento negoziale delle parti anche quanti ritenevano che il legislatore avesse fatto applicazione dell’istituto della conversione del contratto.
Altra parte della dottrina aveva, però, segnalato che l’affermazione della esistenza di un intento delle parti di instaurare un rapporto fra prestatore di lavoro e interponente dovesse considerarsi «una finzione», «poiché le parti vollero ed operarono in modo opposto; ed è solo la legge che, valutando quei comportamenti contrari agli interessi che intende proteggere, ricollega alla fattispecie il trattamento che ritiene più congruo a realizzarne un’adeguata tutela», «costituendo, contro l’intento delle parti, il rapporto in capo all’interponente» (Benedetti, G., op. cit., 1498 s., 1508). Del resto, la l. n. 1369/1960, nel ritenere possibile l’interposizione anche quando fosse stato l’interposto ad esercitare il potere direttivo (v. supra, § 5), conduceva «a far dichiarare subordinate anche situazioni che di per sé non potrebbero ritenersi tali» (Del Punta, R., op. cit., 651).
Pertanto, ha finito per prevalere la tesi secondo la quale la l. n. 1369/1960 costituisse «per sua virtù quel diretto rapporto di lavoro fra interponente e dipendenti dell’interposto che le parti dello pseudo rapporto avevano cercato di evitare», perché a fronte dell’adozione da parte dell’interponente di un «congegno negoziale inteso a tener fuori dalla propria organizzazione il soggetto erogatore della prestazione lavorativa», «ciò che determina la costituzione del rapporto è la effettiva utilizzazione, da parte dell’interponente o appaltante, delle prestazioni svolte da lavoratori occupati in violazione dei divieti posti dalla legge», dunque «un obiettivo comportamento» cui il legislatore attribuisce rilevanza nell’«obiettivo ed effettivo suo modo di essere», così che tale effettiva utilizzazione finisce per rilevare giuridicamente come un «fatto», perché «ciò che conta è l’effetto legale da esso dipendente, e questo è, appunto, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato», il quale in tal senso «viene a costituirsi ope legis», «superando lo schermo costituito dagli accordi mediante i quali è stata attuata la illecita intermediazione» (Cass., S.U., 1.10.1979, n. 5019; per la dottrina, fra gli altri, De Simone, G., op. cit., 101 ss.).
Gli interpreti si erano però divisi sulla portata di tale intervento autoritativo, perché se alcuni ritenevano che la legge determinasse la creazione di un nuovo rapporto di lavoro in virtù della sostituzione legale dell’autonomia privata (Santoro-Passarelli, F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1960, 149 s.; in giurisprudenza, fra le altre, Cass., S.U., 21.3.1997, n. 2517, secondo la quale la costituzione ex lege del nuovo rapporto di lavoro «segna la contemporanea fine del rapporto tra lavoratore e soggetto interposto»), altri sostenevano che si limitasse ad un intervento di sostituzione imperativa analogo a quello ex art. 1339 c.c., mediante «la sostituzione automatica nella posizione di datore di lavoro del committente al fornitore della mano d’opera» (Asquini, A., op. cit., 280), dunque con una surrogazione soggettiva nello stesso rapporto di lavoro già costituito da quest’ultimo (Benedetti, G., op. cit., 1538 s., 1556; in giurisprudenza, fra le altre, Cass., 23.11.2010, n. 23684).
La giurisprudenza ha anticipato le scelte del legislatore non soltanto nel riconoscere la necessità di vietare l’interposizione nella prestazione di lavoro (v. supra, § 3), ma anche quando, a fronte delle crescenti esigenze di flessibilità (Flessibilità [dir. lav.]) e disarticolazione dei processi produttivi che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’economia, ha riconosciuto l’opportunità di prevedere eccezioni a quel generale divieto.
Ed infatti, nel vigore della l. n. 1369/1960, la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità del distacco (Distacco [dir. lav.] 1. Diritto interno), nonostante tale fattispecie, nella quale il lavoratore distaccato viene inserito nella organizzazione di lavoro di un soggetto (distaccatario) diverso da quello che lo ha formalmente assunto (distaccante), realizzi tipicamente proprio quella dissociazione fra formale datore di lavoro ed effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa che il divieto di interposizione intende evitare (v. supra, § 5).
L’istituto del distacco è stato poi formalmente riconosciuto anche dal legislatore, che con l’art. 30, d.lgs. 10.9.2003, n. 276 ne ha anche stabilito condizioni e limiti di legittimità.
Sempre nel vigore della l. n. 1369/1960, e per ragioni legate anche allo sviluppo delle dinamiche del mercato del lavoro, lo stesso legislatore ha introdotto la seconda e più importante eccezione al divieto di interposizione quando con la l. 24.6.1997, n. 196 ha consentito, all’epoca nella forma della «fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo», l’esercizio professionale della somministrazione di lavoro.
La disciplina di tale attività ha avuto nel tempo una profonda evoluzione (prima con il d.lgs. n. 276/2003, da ultimo con il d.lgs. 15.6.2015, n. 81), e si è fin dall’inizio caratterizzata per la previsione di limiti e condizioni diretti ad evitare abusi in danno dei lavoratori somministrati, la cui tutela è soprattutto affidata ai particolari requisiti, anche finanziari, che il somministratore deve soddisfare per poter ottenere l’autorizzazione a svolgere tale attività (cfr. artt. 4 e 5, d.lgs. n. 276/2003). Senonché, anche la somministrazione professionale di lavoro realizza tipicamente quella dissociazione fra il formale datore di lavoro, che è il somministratore, e l’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa che la disciplina dell’interposizione dovrebbe scongiurare.
Una parte degli interpreti ha formulato la tesi secondo la quale il divieto di interposizione nella prestazione di lavoro sarebbe giunto “al tramonto”. Tesi che viene giustificata non soltanto con la abrogazione della l. n. 1369/1960 ad opera dell’art. 85, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 276/2003, ma anche con la considerazione che il legislatore ha nel tempo a tal punto ampliato la portata delle eccezioni a quel divieto (v. supra, § 7) da poter giustificare l’affermazione che queste ultime avrebbero ormai perso la loro «natura eccezionale» (cfr., fra gli altri, Ciucciovino, S., Il rapporto di lavoro nel mercato: la frattura del rapporto binario lavoratore/datore di lavoro, in Corazza, L.-Romei, R., a cura di, Diritto del lavoro in trasformazione, Bologna, 2014, 159 ss., spec. 165 ss.).
Senonché, sembra al contrario doversi affermare che se pure alcuni degli obiettivi originari che il legislatore del 1960 si era posto hanno certamente perduto, e non da ora, di attualità (cfr. già Del Punta, R., op. cit., 626), resti tuttora in vigore il principio generale di non dissociazione fra il titolare formale del rapporto di lavoro e l’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative (v. supra, § 5).
Va, infatti, anzitutto considerato che per effetto della disciplina legislativa del distacco (v. supra, § 7), le eccezioni al divieto di interposizione sono ora tutte tipizzate, così da poter essere considerate tassative.
In secondo luogo va considerato che per le ipotesi nelle quali il distacco o la somministrazione di lavoro abbiano violato i limiti e le condizioni stabiliti dalla legge, il legislatore prevede che il lavoratore possa ottenere la dichiarazione di esistenza (art. 38, co. 1, d.lgs. n. 81/2015) o la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del «soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione» (cfr. art. 38, co. 2 e co. 3, d.lgs. n. 81/2015; art. 30, co. 4-bis, d.lgs. n. 276/2003), e che è un «soggetto diverso dal titolare del contratto» (cfr. art. 32, co. 4, lett. d), l. 4.11.2010, n. 183).
Si aggiunga che il legislatore, da un lato, continua a contrapporre espressamente l’«appalto genuino» alla «interposizione illecita» (art. 84, d.lgs. n. 276/2003) e, d’altro lato, continua a distinguere il genuino appalto di opere e servizi sulla base dei medesimi criteri cui la giurisprudenza attribuiva rilevanza nell’applicare la l. n. 1369/1960 (e, cioè, l’autonomia organizzativa dell’appaltatore e l’assunzione da parte sua del rischio d’impresa: cfr. art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003). Inoltre, anche per ogni ipotesi di appalto illegittimo il legislatore stabilisce che il lavoratore possa ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del «soggetto che ne ha utilizzato la prestazione» (art. 29, co. 3-bis, d.lgs. n. 276/2003).
Pertanto, il legislatore, pur dopo la abrogazione della l. n. 1369/1960, e salve le eccezioni tipizzate (v. supra, § 7), continua ad identificare autoritativamente il datore di lavoro con il soggetto titolare dell’organizzazione nella quale il lavoratore risulti di fatto inserito (v. supra, § 5) perché, pur avendo diversificato le sanzioni, prevedendone alcune di natura dichiarativa ed altre di natura costitutiva (cfr. Ichino, P., Somministrazione di lavoro, in Pedrazzoli, M., coordinato da, Il nuovo mercato del lavoro. Commento al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Bologna, 2004, 257 ss., spec. 263, 317 ss.), continua a prevedere la possibilità di ricondurre autoritativamente la titolarità del rapporto di lavoro in capo a tale soggetto, così confermando il «valore politico e giuridico» della disciplina dell’interposizione (v. supra, § 2).
Del resto, proprio nel prevedere, per alcune ipotesi, una pronuncia di carattere costitutivo (Cass., 15.7.2011, n. 15610; Cass., 17.1.2013, n. 1148), il legislatore chiarisce ancor meglio di quanto già non facesse l’art. 1, co. 5, l. n. 1369/1960 che l’ordinamento non si limita a riconoscere l’esistenza nei fatti di un rapporto di lavoro, ma reagisce alla dissociazione fra titolarità formale del rapporto ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa (v. supra, § 6).
La persistente vigenza del divieto di interposizione trova del resto ulteriori conferme, sia nella giurisprudenza che ritiene applicabile la sua tipica sanzione per reprimere gli abusi nell’ambito dei gruppi di imprese (Cass., 29.11.2011, n. 25270), sia nel recente d.lgs. 17.7.2016, n. 136 che, per il caso di illegittimità del distacco internazionale, prevede che il lavoratore distaccato «è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione» (art. 3, co. 4).
Va, infine, segnalato che la nozione di datore di lavoro «sostanziale» che è stata ricavata dal divieto di interposizione (v. supra, § 5) continua a manifestare la sua vitalità anche perché, a ben vedere, assume oggi rilevanza anche ai fini della applicazione della disciplina della codatorialità (cfr. Carinci, M.T., Il concetto di datore di lavoro, cit., 13 ss.).
Art. 2127 c.c.; art. 1 l. 23.10.1960, n. 1369; artt. 29, 30, co. 4-bis, 84, d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 32, co. 4, lett. d), l. 4.11.2010, n. 183; artt. 38, 39, d.lgs. 15.6.2015, n. 81; art. 3, co. 4, d.lgs. 17.7.2016, n. 136.
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*Il presente scritto rappresenta il frutto di riflessioni congiunte degli autori. Tuttavia, i §§ 1-4 sono stati stesi da Maria Teresa Carinci, i §§ 5-8 da Simone Pietro Emiliani.