Abstract
Nella voce, movendo dalla disciplina positiva in materia di interpretazione, si esaminano i canoni ermeneutici attraverso la loro applicazione presso la giurisprudenza anche per rappresentare alcune criticità che tali canoni mostrano a cospetto delle regole basilari sulle quali poggia il regime dell’interpretazione degli atti giuridici: la prescrittività e la gerarchia.
L’interpretazione del contratto è stata distinta dalla interpretazione della legge. L’ermeneusi delle norme, sebbene le preleggi non manchino di fissare canoni ermeneutici di cui l’interprete e segnatamente il giudice si può avvalere, non deve compiersi secondo canoni predeterminati, restando affidato alla motivazione dell’organo chiamato ad applicare la regola legislativa il luogo in cui possono esplicitarsi i percorsi seguiti. La libertà concessa all’interprete dalla legge non trova limite soltanto nella logicità del ductus argomentativo, la quale può reggere con eguale saldezza conclusioni diverse se non fra loro opposte, ma pure in certi cardini che dovrebbero sostenere sempre ogni luogo dell’ordinamento e quindi anche quello occupato dal diritto vivente che altro non sarebbe se non la norma plasmata dall’interpretazione e così applicata.
È stato introdotto nella giurisprudenza (Cass., 6.3.2002, n. 3194, in Giur. it., 2003, 689) lo stilema della interpretazione costituzionalmente orientata, formula sotto la quale si raccolgono soluzioni interpretative volte prevalentemente a dare rilievo ai principi e diritti consacrati nella norma fondamentale. L’adeguamento attraverso la interpretazione della norma primaria a quella fondamentale è stato un compito di cui si è fatta carico pure la Consulta (es.: C. cost., 11.7.2003, n. 233, in Foro it., 2003, 1) quando ha subordinato l’esito dello scrutinio di legittimità alla convergenza di un senso della norma con le prescrizioni della Carta costituzionale. Il Giudice costituzionale non è stato però esclusivo artefice di questo discorso. Ogni giudice e non soltanto la Corte Suprema si pone sempre più spesso come titolato a dare alla legge significati per eco dei valori costituzionali, così proponendo soluzioni interpretative protette dallo scudo del rispetto del precetto invalicabile della norma fondante. La non condivisione di questa prassi è interdetta dallo spettro di una censura per infedeltà alla Carta fondamentale di cui difficilmente si accetta il peso. Non ci si accorge tuttavia, nell’anelito all’ossequio a regole non prescrittive, che l’interpretazione costituzionalmente orientata si risolve in una doppia operazione ermeneutica, l’una della norma fondamentale, per vocazione ampia e duttile, e l’altra della norma primaria che viene letta attraverso una lente con fuoco divenuto mobile. Da questo fenomeno, registrato osservando anche solo superficialmente ciò che avviene nel campo dell’interpretazione della legge, non risulta immune l’interpretazione delle manifestazioni di autonomia, guardate come sosia delle norme. Solidarietà ed equità sostanziali, criteri tratti proprio dalla norma fondamentale, vengono assunti quali canoni che guidino l’interprete nel dare senso pure agli atti dei privati (si rinvia esemplificativamente a Pennasilico, M., Metodo e valori nella interpretazione del contratto, Napoli, 2011, 135). Si dimentica, però, che, almeno secondo il Codice, il rispetto per la volontà dei privati, non necessariamente giusta ed equa, dovrebbe restare fermo nel rigido percorso ermeneutico scandito dalle norme alle quali probabilmente non s’immaginava che l’interprete potesse accostarsi, ponendole sotto la luce d’una presupposta equità legittimata da un ampio utilizzo del principio di buona fede.
Si accennava al connotato normativo delle regole attraverso le quali si dovrebbe dall’interprete far emergere il senso delle determinazioni negoziali, al fine di stabilire quale sia il contenuto dell’atto giudiridico e quindi definire gli effetti per i suoi autori o destinatari. La qualificazione in termini di prescrizione giuridica vincolante per l’interprete valeva a sottoporre l’interprete stesso al vincolo della legge la cui violazione poteva costituire motivo di censura di fronte alla Corte di legittimità (Grassetti, C., L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938). Era la preclusione ad una libertà metodologica nell’ermeneusi soprattutto del contratto un modo per segnare da un lato un ideale limite alle interpretazioni e alle manipolazioni delle determinazioni dei contraenti e dall’altro dei criteri capaci di confrontarsi con la volontà delle parti e quanto dalle stesse dichiarato. La proposta di una interpretazione vincolata e controllabile, perché da condursi seguendo un preciso ordine precostituito, servì a disegnare un modulo interpretativo retto dalla certezza che il percorso tracciato dal legislatore fosse realmente come una scala di criteri idonei a far pervenire, nella loro graduale applicazione, ad una chiarificazione del senso dell’atto.
Nei fatti, l’intendimento a cui doveva assolvere il regime dell’interpretazione come disposto, in particolare negli art. 1362-1371 c.c., non ha ricevuto premio. Il principio di separazione fra canoni di interpretazione cd. soggettiva e canoni di interpretazione cd. oggettiva al quale farebbe seguito l’obbligo per l’interprete di ricorrere ai secondi solo nell’evenienza in cui non abbia avuto successo l’impiego dei primi, si legge, invero, enunciato in più di una massima della Corte di legittimità (da ultimo: Cass., 24.1.2012, n. 925). L’ossequio alla volontà delle parti del contratto non imporrebbe all’interprete di procedere all’ermeneusi delle determinazioni negoziali. Soltanto l’ambiguità della manifestazione di volontà o, meglio, della dichiarazione farebbe obbligo di una indagine al di là del testo. È questo il postulato della in claris non fit interpretatio al quale si demanda l’esonero dall’applicazione dei criteri sussidiari (Cass., 13.7.2004, n. 12957, in Giur. Bollettino legisl. tecnica, 2006, 2, 291). La chiarezza del testo è una condizione che presuppone l’univocità delle parole e delle espressioni di cui si compone l’atto giuridico. La contestualizzazione richiesta dal co. 1 dell’art. 1362 c.c., per l’individuazione del senso da attribuire alle parole utilizzate dai paciscenti vale quale prima ammissione della incapacità delle sole parole o di una sola espressione di fornire il segno di quanto sia stato voluto. La regola dell’in claris, invece, offre all’interprete la giustificazione per escludere l’ingresso a prove offerte per dimostrare significati dell’atto giuridico diversi da quelli della sua lettera. L’avere poi esteso il concetto di contestualizzazione per ricomprendervi la valutazione complessiva dell’atto (Cass., 28.8.2007, n. 18180) pone ulteriormente ai margini dell’interpretazione le volontà meno trasparenti. La valutazione di insieme alla quale si accede prima di indagare le intenzioni delle parti al di fuori del testo dà luogo, di fatto, ad un salto (non sempre esplicitato né censurato) nella scala dei canoni ermeneutici legislativamente fissati. La prevalenza data al testo è effetto della documentabilità dell’atto giuridico, accentuata, al di là della prescrizione sulla forma ad substantiam, dalla esigenza pratica di trasporre in una sede meno sfuggente dell’oralità la statuizione negoziale che nel testo si propone all’interprete quale prima traduzione degli intendimenti dei suoi autori. L’obbligatorietà del superamento del testo richiesta dal legislatore, traccia di una centralità della volontà e forse attenzione per l’ipotesi di un atto giuridico proveniente da soggetti tecnicamente non raffinati nella elaborazione del testo, arretra ad evenienza affatto costante nel procedimento interpretativo.
La sussidiarietà del criterio di interpretazione enunciato dal co. 2 dell’art. 1362 c.c. si radicalizza, potendo al comportamento delle parti darsi rilievo nella intelleggibilità del testo che, scandagliato nella sua totalità, raramente verrà ritenuto oscuro o equivoco. Il quadro di insieme mira ad un’armonia del contenuto dell’atto che nella realtà potrebbe anche mancare. Attraverso l’interpretazione complessiva possono motivarsi semplificazioni che offuscano le vere intenzioni delle parti negoziali (Cass., 27.9.2012, n. 16428). Dal principio di totalità, però, si trae supporto per includere nell’interpretazione del contenuto dell’atto anche clausole invalide (Cass., 2.10.1998, n. 9789, in Giust. Civ., 1999, I, 751), la cui presenza può rivelare volontà che, pur inidonee a generare impegni, indicherebbero quale sia stato l’intento delle parti. Anche alle clausole di stile (Cass., 4.2.1988, n. 1082) l’interprete non dovrebbe restare indifferente, se con esse si sia voluta comunque manifestare adesione ad una prassi. Per vero, attribuire alle clausole di stile valore sul piano ermeneutico equivale a fondare quelle clausole su una intenzionalità del loro autore propria delle pattuizioni, espressione di una effettiva volontà negoziale.
È ancora attraverso il canone di totalità che si dà vigore ai patti aggiunti (Cass., 23.11.2007, n. 24445) quale manifestazione esplicativa o correttiva di originarie determinazioni. L’analiticità alla quale invita la disposizione dell’art. 1363 c.c. parrebbe contrapporsi ad ogni semplificazione del testo contrattuale, ma di fatto la ricerca di un senso anche laddove possa mancare volontà o capacità di imprimere un efficace assetto di interessi è sintomo di un metodo proiettato quanto meno verso una razionalizzazione delle determinazioni negoziali, razionalizzazione che corrisponde più alla mens dell’interprete che a quella delle parti negoziali.
Le disposizioni contenute negli artt. 1364 e 1365 c.c. paiono dare primario rilievo alla volontà degli autori dell’atto; in realtà quelle norme creano dei binari in cui si debbono collocare le stesse loro scelte linguistiche ed espressive. Le parole di ampio significato come, ad esempio, ‘alienazione’ dovrebbero, secondo l’art. 1364 c.c., essere intese in modo tale da riferirle alle sole situazioni alle quali le parti hanno avuto riguardo. La parola ‘alienazione’, se contenuta in clausole di prelazione, acquista significati restrittivi. Alienazione corrisponde a trasferimento attuato con una compravendita, con un atto di scambio nel quale non si ricomprendono le permute (Cass., 25.7.2008, n. 20462, in Giur. It., 2009, 1, 93). Parimenti nell’alienazione non si ricomprendono i casi in cui il trasferimento del diritto compare nell’ambito di una più ampia operazione economica (Trib. Milano, 4.11.1993, in Giur. Comm., 1994, II, 866). L’esempio è indicativo di una proposta interpretativa che guarda, di fatto, più all’opportunità di evitare restrizioni alla circolazione delle partecipazioni societarie che al pur possibile intento dei paciscenti di proteggersi dall’ingresso di estranei alla compagine sociale, uno scopo che richiederebbe per il termine ‘alienazione’ un significato ampio e comprensivo di più tipologie di trasferimento e di acquisto.
Negli atti di vendita compaiono non di rado formule dalle maglie larghe mediante le quali si vuole proprio con la loro ampiezza delineare la condizione del bene scambiato, senza esclusioni di situazioni anche ignote alla stessa parte venditrice e sulle quali la parte acquirente non ha ricevuto informazione al momento del rogito. La volontà delle parti è perciò tesa verso un senso estensivo e non restrittivo. L’interpretazione ‘restrittiva’ si oppone allora alla volontà degli autori dell’atto. L’ausilio offerto all’interprete dall’art. 1364 c.c. si dimostra debole. Il canone potrebbe addirittura condurre ad una soluzione ermeneutica in disaccordo con le intenzioni delle parti. Per utilizzare il canone dell’art. 1364 c.c., l’interprete dovrebbe già conoscere le intenzioni sottese all’atto. Le espressioni generiche si specificherebbero alla luce delle intenzioni rinvenute attraverso altri criteri di interpretazione. La regola proposta dall’art. 1364 c.c. si risolve allora in una delucidazione delle espressioni generali ricavata dalla volontà delle parti negoziali, alla cui individuazione la norma non concorre. La ricerca della volontà delle parti negoziali, scopo principe della interpretazione cd. soggettiva, si perde nel canone stabilito dall’art. 1364 c.c. per essere tale volontà premessa del senso che viene attribuito alle forme in cui si è manifestata quella volontà.
Anche per la regola ermeneutica sancita nell’art. 1365 c.c. può svolgersi riflessione analoga. La non esclusività dell’esemplificazione è del resto evenienza sulla quale lo stesso autore dell’atto può pronunziarsi. Gli elenchi presenti nei testi negoziali recano spesso l’indicazione della loro portata meramente esemplificativa. In tal modo le ipotesi enumerate assumono il carattere di indicazioni che non esauriscono la gamma delle vicende alle quali si sia inteso alludere. Non è interdetta, all’opposto, la precisazione sulla esaustività della casistica descritta. La qualificazione espressa di esaustività è manifestazione di una volontà che non ammette non soltanto estensioni, ma pure l’applicazione del canone contenuto nell’art. 1365 c.c. L’esplicitezza sulla esaustività delle ipotesi esemplificate così come la designazione di non tassatività esonerano l’interprete da indagini ermeneutiche che solo il silenzio (sul ruolo esaustivo o no dell’elencazione) impone. Alla ambiguità del silenzio l’art. 1365 c.c. risponde scegliendo la soluzione più liberale, presupponendo che questa direzione debbano avere imboccato gli autori dell’atto (Cass., 20.1.1983, n. 539).
Il canone ermeneutico così agisce più che come modello di mezzo di ricerca come una decisione assunta fra più possibili opzioni ermeneutiche.
Nelle convenzioni contrattuali e soprattutto in quelle più articolate e complesse non si manca di disciplinare pure gli aspetti dell’interpretazione dell’atto negoziale. Possono ritenersi clausole attinenti all’interpretazione innanzitutto quelle in cui viene data definizione a parole e locuzioni utilizzate dalle parti e di cui si vuole fissare il significato, per non dare adito ad equivoci sia sul contenuto dell’atto sia sui suoi effetti. È questo un metodo importato da sistemi giuridici dove l’argomento dell’interpretazione del contratto manca di sostegni normativi specifici e dove l’autonomia è indispensabile si manifesti con pienezza per carenza di margini di integrazione o comunque per la esiguità di precetti dispositivi oltre che imperativi. L’ammissibilità, a cospetto del nostro ordinamento, di clausole di interpretazione autentica non suscita discussioni particolari (Caro, M., Autonomia negoziale collettiva e clausole di interpretazione autentica delle norme contrattuali in materia retributiva, in Riv. il. dir. lav., 1994, II, 296): alle parti negoziali non è proibito di esplicitare il senso delle parole utilizzate, se mai domanda può darsi circa la vincolatività o meno dell’interpretazione autentica per l’interprete terzo. Può accadere che l’interprete non ravvisi nella definizione un dato utile per comprendere il senso di una clausola, perché la ‘definizione’ convenzionale, ad esempio, esclude circostanze che invece appaiono essenziali per dare senso al patto.
Il termine 'giorno' definito come giorno lavorativo, senza aggiungere il riferimento al luogo in cui deve eseguirsi la consegna, può rivelarsi definizione insoddisfacente per chiarire il tempo di decorrenza di una denunzia di un vizio di una cosa oggetto di consegna. Recuperare attraverso altri canoni interpretativi le stesse determinazioni esplicative delle parti equivale a rendere suscettibile di interpretazione anche la clausola ‘di definizione’, in ossequio al carattere vincolante delle disposizioni di interpretazione. Posta la vincolatività della disciplina dell’interpretazione, diviene dubbia la validità delle convenzioni in cui dalle parti si sia previsto che il canone di buona fede, ad esempio, prevalga su altri criteri ermeneutici (De Nova, G., Il contratto alieno, Torino 2010, 67 ss.). La vincolatività dei canoni ermeneutici, tuttavia, se assunta come insuperabile rispetto all’interprete terzo non si estende automaticamente alle parti. Se queste sono libere di adottare canoni interpretativi diversi da quelli legislativamente previsti o di dare ad essi un ordine difforme da quello posto dal legislatore, non soltanto il loro patto non sarà censurabile come invalido, ma di esso non sarà consentita pretermissione in caso di arbitrato irrituale (Trib. Perugia, 8.2.2007, in www.deaprofessionale.it), così come in sede di procedimenti di conciliazione stragiudiziale, nell’evenienza in cui questi siano stati previsti.
Anche nella disciplina della interpretazione compare la clausola generale della buona fede. Si (Messineo, F., Dottrina generale del contratto, Milano 1944, 356) è riposto in tale principio un valore informante l’intero argomento dell’ermeneusi del contratto, quasi a rendere la buona fede canone principe al quale non si sottrarrebbe alcuno dei momenti dell’indagine interpretativa. L’affermazione risale a momento della riflessione giuridica in cui alla buona fede si attribuiva una funzione meno pervasiva dell’autonomia privata di quella assegnatale dalla attenzione rivolta ad esigenze di una equa e ragionevole definizione degli interessi in conflitto e che il contratto dovrebbe comporre (Roppo V., Il contratto, II ed., Milano 2011, 465 ss.). La integrazione del regolamento contrattuale al quale dà spazio la clausola generale di buona fede nell’ambito dell’interpretazione si propone allora come strumento per ricondurre alle stesse determinazioni convenzionali significati che le rendono più consone alla realizzazione di un assetto negoziale equilibrato rispetto alla posizione delle parti. Emblematico è il tema della presupposizione al quale la buona fede interpretativa ha aperto, seppure in via non esclusiva, l’accesso (Cass., 23.9.2004, n. 19144, in Contratti, 2005, 5, 473). Il canone di buona fede, intesa la buona fede in senso oggettivo, ricopre un ruolo utile quando l’interprete voglia plasmare, secondo modelli retti, gli accordi raggiunti dalle parti (Cass., 18.5.2001, n. 6819, in Contratti, 2001, 12, 1083). Distinguere allora fra interpretazione e integrazione del contenuto dell’atto diviene difficile, soprattutto in conseguenza del fatto che il problema della interpretazione si pone sovente con riguardo all’attuazione degli impegni contrattuali. L’uso del canone di buona fede mantiene, tuttavia, fermo il riferimento alla determinazione convenzionale, intesa nel senso più ampio di contenuto dell’atto quale espressione della volontà delle parti (Scognamiglio, C., Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, 367 ss.). A differenza della integrazione vera e propria che postula un intervento eteronomo, l’interpretazione secondo buona fede salva gli intenti degli autori dell’atto, nella prospettiva di una autonomia privata ancora solida a cospetto della legge, sia essa norma specifica o clausola generale.
Agli art. 1367-1371 c.c. si assegna la qualifica di norme di interpretazione c.d. oggettiva (Cass., 25.5.2000, n. 6874, in Contratti, 2000, 10, 890). Con questo attributo si vorrebbe porre in rilievo che la ermeneusi oggettiva ha quale riferimento la dichiarazione in sé il cui senso viene perciò contestualizzato in contrapposizione con il disposto dell’art. 1362, co. 1, c.c. nel quale neppure il contesto sarebbe indicativo della intenzione, della volontà sottesa all’atto. Il dualismo volontà-dichiarazione ancora fortemente avvertito all’epoca della redazione del libro IV del Codice Civile, assume nella sede della interpretazione il valore di un presupposto sul quale si muove la concezione di una ermeneusi rivolta in sequenza dapprima ad una indagine metatestuale e poi ad una ricerca sul testo (Cass., 16.2.2005, n.3099).
Si è usato il termine metatestuale per rappresentare che l’interprete si allontanerebbe dalla intenzione delle parti per spostarsi su di un piano indipendente, ma egualmente non svincolato dal testo. L’elemento che unificherebbe i canoni di interpretazione soggettiva sarebbe rinvenibile oltre il testo dal comportamento tenuto dalle parti. Oggettiva è, invece, l’interpretazione che si risolve in un’analisi sul testo. Si è osservato in precedenza che anche la interpretazione soggettiva non prescinde dal contenuto della volontà manifestata ed espressa dalle parti del contratto. La rilevanza di elementi extratestuali compare soltanto nella disposizione dell’art. 1362 cpv. c.c., dalla quale si trae argomento per verificare, attraverso circostanze di fatto e non dichiarazioni di volontà, il senso dell’atto giuridico.
La distinzione fra interpretazione soggettiva ed interpretazione oggettiva risiede quindi, almeno nell’intenzione del legislatore, nelle sue finalità: attraverso l’interpretazione soggettiva la ricostruzione del significato dell’atto avviene con lo scopo di proporre un senso corrispondente agli intendimenti degli autori dell’atto, nell’interpretazione oggettiva è il contenuto dell’atto come dichiarato a dover acquisire per sé un senso.
È stato notato (Sacco, R., Il contratto, Torino 1975, 783 ss.) che alcune norme di interpretazione oggettiva, quale quella dell’art. 1369 c.c, implicano una predefinizione dell’oggetto dell’atto che non si separa realmente dai canoni di interpretazione stabiliti dagli art. 1363-1365 c.c. Anche la disposizione che pone a referente l’uso più vicino all’area in cui le parti negoziali operano in qualche misura collega ad una volontà almeno presumibile se non presunta le soluzioni interpretative (Cass., 30.4.2012, n. 6601).
Più distante dall’interpretazione soggettiva è se mai il principio di conservazione. A ben vedere, però, attraverso la conservazione del patto si dà senso anche a ciò che pare non averlo e non poterlo avere, cosicché la convenzione non rimanga inutile. Il principio di conservazione troverebbe nella conversione del contratto (Criscuoli, G., La nullità parziale del negozio giuridico. Teoria generale, Milano, 1959, 281) una sua applicazione. Pure la nullità parziale, là dove rimane circoscritta alle sole clausole invalide rende ossequio al principio di conservazione (Cass., 13.11.1997, n. 11248). Entrambi gli istituti speciali rimandano però alla volontà delle parti e dunque a profili di indole soggettiva. Attraverso il principio di conservazione, invece, si vuole selezionare tra più possibili significati del regolamento negoziale quello che sia idoneo a produrre conseguenze.
Più che ad un confronto fra le prescrizioni normative e la regola convenzionale, l’art. 1367 c.c. pare invitare ad una verifica sulla assennatezza delle determinazioni negoziali per darvi un qualche effetto giuridico. Le dichiarazioni programmatiche che compaiono in alcuni regolamenti contrattuali quali, ad esempio, l’impegno di risolvere stragiudizionalmente e bonariamente gli eventuali contrasti che possano insorgere, nella esecuzione del contratto in assenza di regole procedimentali, con dei vincoli di pregiudizialità, ove violate, resterebbero prive di conseguenze, se ad esse in base al principio di conservazione non si attribuisse il valore di una espressione di reciproca lealtà nell’avvio del contenzioso, dalla cui inosservanza potrebbe scaturire almeno una censura non irrilevante allorché si debba decidere delle spese di lite (Cass., 28.11.2008, n. 28402, in Imm. e propr., 2009, 2, 117). Ancora, una clausola di dispensa dalle visure ipotecarie contenuta in un contratto di compravendita può essere intesa quale rinunzia del cliente a svolgere contestazioni nei confronti del notaio rogante, anziché non rivestire alcun rilievo rispetto ai doveri professionali che comunque il notaio deve osservare (App. Roma, 12.6.2012, in www.deaprofessionale.it).
Attraverso il principio di conservazione la determinazione convenzionale, recuperando idoneità alla produzione di effetti, richiede che il suo significato sia tendenzialmente salvato anche quando il patto contenga regole in contrasto con norme inderogabili. Un vincolo di alienazione stabilito per un periodo ultraquinquennale avrà effetto per questo tempo (Cass., 14.10.2008, n. 25132, in Nuova Giur. Civ., 2009, 5, 425). Una clausola di secondo rinnovo annuale di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo non dovrebbe essere automaticamente sostituita dalla disposizione normativa, ma potrà essere intesa come espressione della volontà di prolungare la seconda delle scadenze contrattuali (App. L’Aquila, 20.10.2012, in Contratti, 2013, 1, 68).
L’autonomia privata trova nel principio di conservazione un rafforzamento o perlomeno un mezzo per resistere alla sanzione di invalidità o di inefficacia, perché ciò che è stato voluto dalle parti abbia a regolare quale prima lex i rapporti economico patrimoniali. Anzi, l’apertura, con il principio di conservazione, delle regole di interpretazione oggettiva conferma che la partita della interpretazione si debba giocare sul testo dell’atto assunto a paradigma degli assetti degli interessi privati, al di fuori delle assiologie dalle quali invece si fa orientare l’autonomia privata per renderla omologa al progetto che si ritiene dall’interprete il più giusto ed adeguato, come accade quando alla regola di conservazione si cerca di dare smalto collegandola alla correttezza e alla buona fede (Cass., 1.9.1997, n. 8301, in Contratti, 1998, 1, 19).
Nell’art. 1371 c.c. è stabilito un canone di chiusura che nell’ordine gerarchico dei canoni ermeneutici ha posto residuale. Si tratterebbe di norma tesa a rimodulare il contenuto del contratto in ragione della sua bilateralità o della sua unilateralità. È in questo canone che si propone un criterio di equilibrio fra le posizioni delle parti, di modo che il significato delle loro determinazioni non venga sbilanciato, segnatamente quando l’obbligazione di cui sia fonte il contratto gravi su di una soltanto delle parti. Se è vero che la sequenza delle disposizioni di ermeneusi corrisponde ad un ordine nella indagine dell’interprete, il canone finale soccorrerebbe solo nell’evenienza di un esito non profittevole dell’applicazione dei canoni che lo precedono. Solo di fronte ad una irrisolta ambiguità del contenuto dell’atto, su di esso potrebbe intervenirsi con un aggiustamento di merito. Al criterio enunciato dall’art. 1371 c.c. si potrebbe fare ricorso solo nel caso di fallimento delle ricerche condotte sul testo dell’atto. Qualora l’interpretazione fosse strumento di correzione dell’atto giuridico per fini di equità, al contenuto dell’art. 1371 c.c. perterrebbe una posizione primaria che non gli è stata accordata in sede legislativa. Surrogato dell’art. 1371 c.c. è divenuto il canone di buona fede, talvolta non disgiunto dal canone finale (Trib. Genova, 19.3.2007, in www.deaprofessionale.it), più spesso ad esso anteposto con il sigillo della gerarchia delle regole ermeneutiche. Lo scarso uso della disposizione meriterebbe invece un riscatto nel momento in cui il contratto si allontana nella sua duttilità di struttura generale dal modello stipulatorio strettamente consensuale. Nei negozi costitutivi di garanzie come nel mandato gratuito il richiamo all’art. 1371 c.c. servirebbe per avallare conclusioni restrittive circa l’esistenza della garanzia e l’estensione degli impegni del mandatario anche di indole accessoria (Carpino, B., I contratti speciali. Il mandato, la commissione, la spedizione, in Tratt. Bessone, XIV, Torino 2007, 112).
La diegesi dell’interpretazione irrigidita dalla censura comminata dalla Corte di legittimità all’interprete che compia salti nel suo percorso ermeneutico ha quasi imposto il silenzio sull’art. 1371 c.c. e sul ruolo che esso potrebbe svolgere qualora si ripensasse ad esso come norma non assorbita nel canone di buona fede, ma simmetrica rispetto alle norme di interpretazione oggettiva. La buona fede di cui all’art. 1366 c.c. darebbe premio all’affidamento, alla ragionevole comprensione della dichiarazione da parte del suo destinatario. L’art. 1371 c.c. dovrebbe infondere l’equità nel campo dell’interpretazione oggettiva.
All’art. 1370 c.c. si (Cassottana, M., Il problema dell’interpretazione delle condizioni generali di contratto, in Le condizioni generali di contratto, a cura di C.M. Bianca, I, Milano, 1979, 123 ss.) è assegnato il ruolo di norma speciale dedicata in via esclusiva ai contratti per adesione o più in generale standardizzati. La peculiarità dei contratti predisposti unilateralmente non permetterebbe di indagare su una comune intenzione, per definizione assente quando il regolamento negoziale non sia il prodotto di una elaborazione comune. Impostazione più ortodossa vuole che l’ordine dei canoni ermeneutici non sia superabile neppure a cospetto di unilaterale sua predisposizione (App. Genova, 10.5.2005, in www.deaprofessionale.it). Che con l’adesione, all’atto della conclusione di un contratto regolato da condizioni generali, si esprima un consenso è difficile dubitare. In questo consenso manca se mai la consapevolezza del contenuto del regolamento e dei suoi effetti. È la condizione dell’aderente in disarmonia con un sistema ermeneutico che ha posto a modello di stipulazione quello dell’accordo intervenuto sulla conformità delle rispettive determinazioni. Più che deviazione dall’iter normativo, l’applicazione in via esclusiva dell’art. 1370 c.c. ai contratti conclusi secondo le modalità degli art. 1341 e 1342 c.c. si propone come una necessità imposta dalla carenza del presupposto per applicare canoni volti alla ricerca di una comune volontà, assente dai contratti di massa.
Con il Codice del consumo il discorso dell’interpretazione, limitandosi ai contratti in cui siano parti professionista e consumatore, si è ulteriormente specializzato e distaccato dalla disciplina generale. L’art. 35 c. cons. punta principalmente alla chiarezza ed alla comprensibilità delle clausole contrattuali. Più che un criterio interpretativo il co. 1 dell’art. 35 c. cons. contiene una regola di redazione della modulistica sottoposta dal professionista al consumatore. Tanto la chiarezza e la comprensibilità sono requisiti di formulazione che essi valgono pure quali parametri sui quali misurare la idoneità alla lettura dei caratteri di stampa utilizzati (Trib. Trani, 19.2.2009, n. 155), per evitare l’insidia delle clausole ‘illegibili’, la cui apprensione viene scoraggiata, se non resa possibile solo con l’ausilio di strumenti di ingrandimento. Il requisito della comprensibilità come quello della chiarezza ineriscono altresì al contenuto della clausola il cui significato deve essere di immediata accessibilità anche per coloro che non abbiano conoscenze tecniche e abbiano un livello di cultura non elevato. Il co. 1 dell’art. 35 c. cons. mira nella sostanza ad eliminare dai contratti dei consumatori le ambiguità che la interpretazione ha quale suo presupposto. Al contrario il co. 2 della stessa disposizione riprende il principio della interpretazione contra stipulatorem, individuato non nel predisponente, bensì nel professionista, coerentemente con una nozione allargata di contratti dei consumatori incentrata sulle qualità socio-economiche delle parti. Il favore per il consumatore in sede di interpretazione è corollario della protezione accordata alla figura, per renderla soggetto eternamente debole e mai richiesto di qualche impegno e responsabilità.
La disposizione del co. 3 dell’art. 35 c. cons. infine elide il tema della interpretazione nelle controversie in cui si persegua l’utilizzo da parte del professionista di clausole svantaggiose per il consumatore. La eccezione si spiega con la mancanza, nella fattispecie contenziosa contemplata dall’art. 37 c. cons., della esigenza di assegnare al contratto un senso per consentirne la attuazione.
L’art. 1324 c.c. prevede la applicazione estensiva della disciplina del contratto agli atti contrattuali di contenuto patrimoniale. Le norme di interpretazione rientrano fra quelle suscettibili di applicazione estensiva. Il margine di compatibilità non ristretto pure alla comune volontà, per definizione assente dagli atti unilaterali, non perderebbe rilievo almeno negli atti contrattuali ricettizi, perché il destinatario della dichiarazione diviene colui che deve intendere il contenuto della dichiarazione e quindi percepirne e condividerne il senso (Cass., 29.1.2009, n. 2399).
Pure al di fuori della materia degli atti unilaterali fra vivi si è dato spazio di applicazione alle norme di interpretazione contenute nella disciplina del contratto, seppure in funzione suppletiva: le regole d’interpretazione del testamento prevarrebbero su quelle concernenti la interpretazione del contratto. È stato soprattutto il principio di conservazione ad essere invocato a supporto dell’interprete chiamato a definire il senso delle volontà del testatore (Cass., 21.1.1985, n. 207). Peraltro di fronte al testamento è lo stesso legislatore a porre la conservazione dell’atto quale criterio anche ermeneutico. Nel contempo, però, la volontà del testatore, reperibile secondo la giurisprudenza (Cass., 20.12.2011, n. 27773, in Notariato, 2012, 135) anche al di là del contenuto della scheda testamentaria, viene ricostruita mediante presunzioni, che del testatore fanno autore di disposizioni idealmente giuste o euritmiche rispetto alle scelte legislative sulla sorte del patrimonio relitto.
artt. 1362-1371 c.c.; art. 35 c. cons.
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